Si accende lo scontro toghe-politica e i magistrati si affidano al "duro" Davigo di Mattia Feltri La Stampa, 6 aprile 2016 La mente del pool di Mani Pulite favorito per l’Anm. Disse: "non esistono innocenti, ma colpevoli da scoprire". Se Piercamillo Davigo sabato fosse davvero eletto alla presidenza dell’Associazione Nazionale Magistrati, le teorie cospirazioniste del governo troverebbero altri appigli. Magari a torto, ma con qualche giustificazione, poiché Davigo è uomo noto per una visione del mondo severa e implacabile: ventidue anni fa disse, a proposito di Mani pulite, che restavano "da compiere ancora i rastrellamenti". Oggi, disilluso ma non disarmato, è giunto alla conclusione che "chi vive in Italia ed è ottimista è cretino". Non sarebbe dunque facile trattare con un leader sindacale accanito, assertivo, che ha definito "sedicente anticorruzione" la legge Severino e "dilettanti allo sbaraglio" i legislatori deputati a ridurre - secondo lui con risultati opposti - le ferie alle toghe. Però Matteo Renzi non si rigiri nel letto: l’elezione del nuovo presidente è prevista fra tre giorni e Davigo non è poi così favorito (i politici ne hanno il terrore, ma non tutti i colleghi sono pazzi di lui). Per i pochi disinformati, Davigo è nato a Candia Lomellina (Pavia) nell’ottobre del 1950, è consigliere di Cassazione ed è stato uno dei pm - la mente giuridica - del pool Mani pulite. Ci si ricorderà delle foto dei quattro moschettieri, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Davigo, tutti con caleidoscopiche giacche a quadrettoni. Di Pietro ha fatto il ministro con l’Ulivo, D’Ambrosio il senatore del Partito democratico, Colombo il consigliere d’amministrazione Rai "in quota società civile, gradito al Pd", secondo una formula elusiva ma irrinunciabile. Davigo no. Davigo intanto ha fama di essere di destra ("fascista" secondo la spericolata catalogazione di Francesco Cossiga), tesi sulla quale si è combattuta l’ipotesi delle toghe rosse; poi ha spesso sostenuto, anche quando ha fondato la sua corrente in Anm, che "i magistrati non devono fare politica, mai". Nel senso che non devono farla dentro i partiti o le istituzioni, al massimo ci si imbattono per i casi della vita. Nel 1993, per esempio, alla notizia del licenziamento del decreto di Giovanni Conso, che stabiliva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, Davigo si associò ai compagni del pool augurandosi che "ciascuno si assuma davanti al Popolo Italiano [maiuscolo nel testo del documento] le responsabilità politiche e morali [...] riteniamo infatti che il prevedibile risultato delle modifiche legislative sarà la totale paralisi delle indagini". Accidenti, ora bisognerebbe capire quanto il documento fosse politico e quanto esistenziale, o professionale. Ma sarebbe ozioso. Più utile fornire qualche elemento che illustri la forte e rigorosa personalità di Davigo, qualora sabato la spuntasse. La sua frase più celebre, "rivolteremo l’Italia come un calzino", è in comproprietà con Giuliano Ferrara e siccome entrambi ne rifiutano la paternità è finita a querele. Diciamo allora che è di Ferrara. Altre invece sono indubbiamente sue e indicative. "Stiamo processando un regime prima della sua caduta". "Gli inquisiti non si possono lasciare in libertà altrimenti la gente si incazza". "Non esistono innocenti ma soltanto colpevoli ancora da scoprire" (questa in compartecipazione con Marco Travaglio). "Troppa carcerazione preventiva? Forse abbiamo esagerato con le scarcerazioni". "Ricordatevi che noi siamo i buoni". "[I corrotti] me li immaginavo come i Visitors, con la lingua verde". "Lo Stato la smetta di coprire i reati". "L’attività di destra e sinistra degli ultimi venti anni è stata di rendere più difficile la lotta alla corruzione". "Ci sono imputati che, come le Brigate rosse, non vogliono farsi processare". "Mi sento impallinato alle spalle dagli altri poteri dello Stato". "Il processo breve è una cialtronata della peggior specie". E infine "Ponzio Pilato era un cialtrone": aveva cercato "in tutti i modi di non occuparsi del processo a Gesù". Dall’Anm un’autodifesa obbligata con il rischio di logoramento di Massimo Franco Corriere della Sera, 6 aprile 2016 Ora è più difficile considerare le parole di Matteo Renzi solo una sfida e non un attacco alla magistratura. Il fatto che ieri l’Anm gli abbia replicato a brutto muso di lanciare accuse "inopportune nei tempi e inconsistenti nei fatti" certifica il conflitto. Il premier continua a criticare l’inchiesta che ha portato alle dimissioni del ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi. Accusa la lentezza con la quale si arriva alle sentenze, e una magistratura intenta a "bloccare le opere pubbliche" mentre "i ladri restano fuori". Anche se assicura di volere solo "incalzare i magistrati perché siano veloci". Sono appunti in parte condivisibili; solo che arrivano in un momento sospetto. Avesse parlato prima, l’impatto sarebbe stato differente. Adesso, le parole di Renzi rischiano di suonare come un’autodifesa d’ufficio; e come un’eco inconfessabile del sospetto di una congiura giudiziaria contro il governo, che aleggia tra alcuni esponenti governativi e nel Pd. Va aggiunto, a merito del premier, di avere annullato la visita programmata a Matera: "Per evitare ulteriori polemiche", ha twittato ieri nella lunga "diretta" da Palazzo Chigi. La sua offensiva promette comunque di tenere il caso aperto ancora a lungo; e le opposizioni ci contano. L’incrocio temporale col referendum sulle trivellazioni petrolifere del 17 aprile rende lo sfondo ancora più controverso: soprattutto dopo che ieri il presidente del Consiglio ha detto di augurarsi il fallimento del referendum. Che non raggiunga il quorum del cinquanta per cento più uno dei votanti rimane altamente probabile: il quesito è difficile e l’argomento "freddo". Le parole di Renzi, tuttavia, potrebbero finire per favorire la mobilitazione degli avversari. E fanno emergere, per contrasto, la cautela La risposta piccata dell’Anm mostra la difficoltà di Renzi di calibrare i rapporti tra politica e magistratura che il ministro per i Rapporti col Parlamento, Maria Elena Boschi, usa dopo essere stata sentita come "persona informata dei fatti" dai magistrati di Potenza. Correggendo una vulgata di Palazzo Chigi, la Boschi nega un legame tra l’inchiesta di Potenza e l’appuntamento del 17 aprile. "Non credo sia corretto vedere dietrologie e complotti. Credo solo che la magistratura sia arrivata ora a conclusione di un lavoro", ha detto ieri in tv. Ma ribadisce che "da parte del governo non c’è stato un interesse chissà di che tipo" sul provvedimento Guidi. Le due mozioni di sfiducia presentate da M5S, e Lega e FI, confermano la volontà di tenere alta la tensione: sebbene sia inverosimile una crisi di governo. La Boschi ironizza sulle sfiducie diventate "un appuntamento fisso come la Champions". Né si può dar torto al premier quando dice che "sono le sentenze a decidere chi è colpevole, non la Casaleggio associati": riferimento al leader-ombra del M5S. Rimane da capire se basterà a fermare una campagna di logoramento che si sta intensificando. Sottosegretario Ferri: "le toghe valutino le ricadute economiche dei loro provvedimenti" di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 6 aprile 2016 "In passato ci sono stati scontri ma l’autonomia della magistratura non è mai stata messa in pericolo, esecutivo e giudiziario sono due poteri dello Stato che necessitano l’uno dell’altro e devono convivere in un giusto equilibrio". Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia, magistrato, traghettato indenne dal governo Letta a quello di Renzi, nello stesso ruolo, esponente di magistratura democratica, la componente che si ritiene più moderata fra quelle dell’associazionismo, non crede ci sia un conflitto strisciante fra esecutivo e magistratura, ma rivendica, come del resto il premier, la necessità di una maggiore consapevolezza da parte delle toghe. In che senso? "Io credo che il confronto attuale sia ingenerato soprattutto dal momento particolare che vive il Paese, il tentativo di farlo uscire dalla crisi, attirare più investimenti. A differenza del passato oggi le incomprensioni fra politica e magistratura riguardano il rapporto fra provvedimento giurisdizionale e ricadute sull’economia". I magistrati non si preoccupano del Pil. "È una sintesi che fai lei, ma è indubbio che è in atto una grande sforzo riformatore del governo, a cominciare dalla giustizia civile e dal processo telematico, per rendere un migliore servizio sia ai cittadini che alle imprese. E le classifiche del Fmi e della Banca mondiale ce ne danno atto". Poi però ci sono casi come quello della Basilicata. "C’è da chiarire innanzitutto una cosa: se il sistema giudiziario, in primo luogo civile, è veloce, funziona, è trasparente, costituisce un deterrente formidabile alla corruzione e alla ricerca di scorciatoie. Ma anche nel penale abbiamo fatto riforme importanti". Quali? "Le norme sulla corruzione, il falso in bilancio, la riforma degli eco-reati, l’introduzione del disastro e dell’inquinamento ambientale nel codice penale. Abbiamo vietato il patteggiamento se non restituisci la tangente, tutte leggi che ha fatto il governo Renzi, fatti concreti e risposte che dimostrano l’intenzione di tutelare ambiente e lottare contro la corruzione". Eppure il cortocircuito è sempre dietro l’angolo. "È chiaro che ci deve essere anche la consapevolezza del magistrato delle proprie decisioni, la necessità di soppesare, per esempio nel caso di misure cautelari reali, oltre alle sacrosante esigenze di legalità, anche le ricadute sulle società, sull’economia. Se sequestro un’azienda a un mafioso e poi il commissario dello Stato licenzia i dipendenti allora si mina la fiducia dei cittadini nella giustizia, oltre ad avere obiettive ricadute negative in termini economici. Non solo la politica deve farsi carico degli effetti dei provvedimenti che prende". Da Tempa rossa a Panama papers, quando la corruzione è stampata di Marco Valerio Lo Prete Il Foglio, 6 aprile 2016 Lo scandalo (percepito) s’ingrossa. Bankitalia, Economist e università sul ruolo ipnotico dei giornali italiani Roma. Panama Papers, inchiesta di Potenza, traffico d’influenze e chi più ne ha più ne metta. In poche ore, su web e carta stampata, è tornata a imperversare la parola "corruzione". Sull’effettivo verificarsi del reato in questione o di fattispecie affini staremo a vedere, probabilmente ci vorrà tempo per avere qualche certezza (considerato per esempio che due giorni fa sempre il tribunale di Potenza, per una vicenda diversa dalle indagini in corso, ha condannato in primo grado gli ex vertici di Total, dopo ben otto anni). Nel frattempo si può essere sicuri che lo storytelling attorno alla corruzione - a maggior ragione se basato su proclami e annunci infondati ma roboanti - aumenterà la convinzione degli italiani di vivere in un paese oltremodo corrotto. Quest’ultima è la conclusione tranchant di uno studio condotto da due economisti della Banca d’Italia, Lucia Rizzica e Marco Tonello. L’Economist, mai tenero con l’Italia, specialmente quella vista con le lenti del prestigioso Estero, questa volta ha preso sul serio i due studiosi e ha scritto che "la cattiva stampa fa un disservizio all’Europa", che "le nostre percezioni sulla corruzione sembrano essere più sensibili agli annunci che ai fatti veri e propri". Rizzica e Tonello incrociano sondaggi di diversa natura e articoli tratti da 30 testate giornalistiche italiane. Alla luce di ciò dimostrano che un cittadino qualsiasi che sia stato "esposto" - immediatamente prima di essere intervistato - a notizie relative a eventi di corruzione, ha in media una propensione maggiore a definire l’Italia come un paese corrotto. E questo ovviamente a parità di condizioni esistenti nel nostro paese. Non è finita qui. Tale meccanismo - cioè quante più notizie leggo sulla corruzione, tanto più riterrò di vivere in un paese corrotto - funziona solamente con le notizie di tipo sensazionalistico ("claims") e non con quelle fattuali ("facts"). Alla ricerca della Banca d’Italia sono allegate, a mò di esempio, due prime pagine rispettivamente di Repubblica e del Corriere della Sera: sulla prima campeggia la notizia di un’inchiesta su Silvio Berlusconi, sulla seconda invece si sintetizza "uno studio europeo" con il titolo "Corruzione, peso da 60 miliardi". Nel primo caso ci troviamo di fronte a una notizia fattuale, nel secondo di fronte a una notizia sensazionalistica. I ricercatori di Palazzo Koch ricordano infatti che i famosi "60 miliardi di corruzione" dell’Italia sono poco più di una leggenda. Che passa di rapporto in rapporto, di titolo in titolo, ma sempre leggenda rimane: come hanno ricordato Davide De Luca sul Post e Michele Polo su Lavoce.info, quel numero iniziò a circolare attraverso un rapporto del Saet al Parlamento in cui si leggeva di "stime che si fanno" e di "opinioni"; poi fu ripreso più volte e dato per certo dalla Corte dei Conti; passando per varie testate, si insinuò fin dentro i corridoi brussellesi della Commissione europea che successivamente lo ha rilanciato a uso e consumo delle solite testate giornalistiche che stavolta lo hanno perfino ingigantito sostenendo che si trattasse della "metà di tutta la corruzione europea". Così le "sensazioni" vengono spacciate per "fatti". E Bankitalia sottolinea che proprio questo tipo di sensazionalismo ha molta presa sul lettore. Sintetizza l’Economist: "Il punto di vista degli italiani sulla corruzione sembra essere plasmato più dalle ciance che dai fatti". Il problema è che su rilevazioni simili si fondano indagini demoscopiche, perciò contestate da alcuni studiosi, come quelle di Transparency International. Sondaggi fondati su percezioni falsate e che vengono rilanciati a destra e a manca falsando ancora di più quelle percezioni su cui si basano i sondaggi successivi. Un meccanismo quasi infernale che i giornalisti avrebbero quantomeno il compito di non alimentare. Ci riusciranno? Difficile, se si crede a un altro studio, pubblicato sul primo numero del 2016 della rivista il Mulino, già segnalato su queste colonne da Massimo Bordin. Paolo Mancini e Marco Mazzoni, dell’Università di Perugia, dopo aver esaminato 46.239 articoli apparsi tra il 2004 e il 2013 su Repubblica, Corriere della Sera, Giornale e Sole 24 Ore, arrivano infatti a due conclusioni. La prima: in nessun paese europeo come l’Italia si parla così tanto di "corruzione". La seconda: "Si parla di corruzione essenzialmente quando essa coinvolge ambiti d’indagine giudiziaria", con buona pace del "tanto osannato giornalismo investigativo". Con media tendenzialmente sensazionalisti e al traino delle procure, lo scandalo (percepito) s’ingrossa. Chi guida il partito dei giudici di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 aprile 2016 Inchieste che diventano programmi elettorali, pm che scoprono di avere la spalla giusta per provare a governare. Così il 5 stelle da portavoce del popolo è diventato il portavoce delle procure. Possono mettersi il rossetto, indossare la minigonna, travestirsi da establishment, mascherarsi da imprenditori e dichiararsi maturi ripulendosi il volto, rasandosi bene la barba, indossando vestiti di buona sartoria, parlando un ottimo inglese e mostrandosi al pubblico e agli elettori con un volto diverso, nuovo, rinnovato, maturo, presentabile, direbbe qualcuno. Ma il risultato alla fine non cambia e anche le cronache di questi giorni, legate all’inchiesta della procura di Potenza, ci dicono, senza possibilità di fraintendimento, che, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, esiste un partito che ambisce a essere di governo e ha una caratteristica unica nel suo genere. Una caratteristica che va raccontata per quello che è e che va descritta depurandola dalla cosmetica elettorale delle accattivanti Raggi e Appendino e Associati. Il punto è semplice e vale la pena di spiegarlo in modo chiaro e lineare. Che cosa ci dicono le reazioni del Movimento 5 stelle di fronte a inchieste come quella di Potenza che in un certo modo "sfiorano" la politica? Che lettura bisogna dare al fatto che ogni attacco dell’Anm sia supportato e rilanciato dall’universo grillino (compreso lo schiaffo dato ieri dall’Anm lucana al premier: "Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti"). E infine: che significato ha avere in Italia un partito, potenzialmente di governo, che trasforma sistematicamente indagini, inchieste, sentenze di un magistrato (con tutto il corredo vario di intercettazioni, brogliacci, interrogatori, dichiarazioni dei pm) nella linea ufficiale del proprio movimento? Il governo degli onesti, diceva Benedetto Croce, è un’utopia per imbecilli, e questo si sa, ma la questione, stavolta, è meno filosofica ed è più politica e si lega a quella che oggi è la vera natura del Movimento 5 stelle, con il suo passaggio da movimento che voleva essere "portavoce del popolo" a movimento che si è affermato invece come "portavoce delle procure" - megafono perfetto di un’Italia che ha imparato a considerare naturale, oltre alla diffusione h24 di letame nei ventilatori di alcuni giornali, la trasformazione di un’indagine in una gogna, di un’intercettazione in una condanna e del processo mediatico in un passaggio normale del processo penale. In passato era già accaduto altre volte che si manifestasse una sovrapposizione plastica tra procure e partiti e in fondo la storia di Antonio Di Pietro (ex pm, che nel 2012 Grillo sponsorizzò per la corsa al Quirinale) è lì a dirci che non è una novità la presenza di un partito (l’Italia dei valori, il cui sito era curato da Gianroberto Casaleggio) costruito a immagine e somiglianza della magistratura politicizzata. La differenza tra ieri e oggi è però altrettanto plastica ed è legata a una possibilità concreta che mai prima d’ora si era manifestata con tanta chiarezza: l’eventualità che un incidente di percorso causato da un’inchiesta capace di sfiorare o infangare il governo possa contribuire a portare acqua nel mulino del partito delle procure. In altre parole, per la prima volta un movimento che fa proseliti tra i magistrati e che si è trasformato nella cassa di risonanza di alcune procure può ambire a diventare un partito di governo anche grazie a una strategia di supporto, chissà quanto involontaria, messa in campo da alcune procure (non certo quella di Potenza, ne siamo certi). Gli elettori, negli ultimi vent’anni, mostrando una certa assennatezza, hanno evitato in più occasioni - Ingroia nel 2013, Casson a Venezia e lo stesso Di Pietro - di premiare più del dovuto il partito dei magistrati (anche se De Magistris ed Emiliano sono comunque lì). Ma la particolare condizione politica di questo periodo, anche in virtù dell’assenza dì un centrodestra non solo credibile ma che dimostri di non essere al traino di Grillo, fa del Movimento 5 sentenze (M5s) il competitor più accreditato nella lotta politica contro il partito della nazione renziano e per questo la sovrapposizione tra grilliamo e inchieste della magistratura ha un significato non solo culturale ma anche politico e persino di prospettiva. Per almeno due ragioni. Da un lato l’egemonia grillina sull’opposizione al renzismo ha avuto l’effetto di esasperare gli orrori del circo mediatico-giudiziario (per essere condannati dal tribunale del popolo oggi non serve più neppure essere intercettati ma è sufficiente essere citati da qualcuno in un’intercettazione) e la gran cassa delle inchieste delle procure oggi suona più forte che mai, complice il garantismo farlocco di un pezzo importante dell’universo di centrodestra (vedi editoriale a pagina tre) Dall’altro lato la possibilità concreta che i portavoce delle procure possano essere un domani concorrenziali contro il partito di governo renziano ha fatto sì che lo stesso Pd si sia attrezzato per competere con il Movimento 5 stelle proprio su questo campo (do you know Raffaele Cantone?). Dire che tutti i magistrati italiani siano affascinati dal verbo grillino è ovviamente una sciocchezza, anche perché il processo di rinnovamento nelle procure italiane portato avanti dal Csm sta premiando una nuova e meno interventista e meno ideologizzata generazione di magistrati (occhio a Milano). Dire però che quei magistrati politicizzati che sognano di proiettare sulle inchieste le proprie idee politiche, confondendo i peccati con i reati, abbiano l’occasione di avere un partito competitivo capace di sfruttare fino in fondo il proprio interventismo è dire una cosa vera. Il governo degli onesti resterà per sempre l’utopia degli imbecilli. Ma il governo dei giudici, per la prima volta, non è un’utopia e, tra rossetti, minigonne e travestimenti da establishment, è semplicemente un’alternativa elettorale. Giù la maschera, Beppe. Tra magistrati e 5 Stelle la calda primavera del premier di Stefano Folli La Repubblica, 6 aprile 2016 All’ombra del referendum del 17 aprile continua a svilupparsi un gioco ambiguo dove il merito del quesito proposto agli italiani si appanna e prevale la manovra politica. Al di là dei toni usati nella direzione del Pd, appare chiaro che Renzi è in qualche difficoltà, logorato da un attacco concentrico che viene dai Cinque Stelle, cui è stato fornito su un piatto d’argento il tema della campagna di primavera, e da una magistratura che nella sua inchiesta usa senza risparmio l’arma mediatica, ancor prima di approdare in un’aula di tribunale. S’intende che a questo punto c’è bisogno di fatti nuovi per andare oltre e alimentare lo scandalo, ossia l’attacco al governo. Le dimissioni della ministra Guidi e la breve audizione della Boschi, sentita dai magistrati di Potenza, hanno come conseguenza il calo della tensione. Se si vuole allargare il caso, occorre qualcosa di molto concreto. Il sequestro delle cartelle cliniche negli ospedali lucani, i sospetti adombrati sull’insorgenza dei tumori, le ipotesi di disastro ambientale sono punti da chiarire, ma non rappresentano per ora la "pistola fumante" in grado di mettere con le spalle al muro il governo, fino a dimostrarne la collusione con gli interessi inconfessabili delle compagnie petrolifere. Allo stato delle cose, gli interessi emersi e comunque da verificare riguardano le operazioni da faccendiere messe in piedi dal fidanzato dell’ex ministra. Troppo poco per innescare una crisi politico-istituzionale; abbastanza per ispirare il vignettista di Grillo che disegna Renzi con le mani grondanti petrolio. A maggior ragione sembra assai fragile il tentativo di coinvolgere di nuovo la Marina Militare - e in particolare l’ammiraglio De Giorgi - per via della lettera inoltrata da Federica Guidi nel dicembre del 2014 alla presidente della Camera. Tema: il programma di ammodernamento della flotta e la necessità di sbloccare in Parlamento i fondi necessari. In realtà che le navi della Marina siano in una certa misura obsolete, è cosa nota. È difficile pretendere un alto grado di efficienza militare nelle crisi del Mediterraneo e del Nord Africa senza opportuni investimenti. Ma tutto si mescola: lo sviluppo della flotta e il petrolio in Basilicata, gli affari del sig. Gemelli e le trivelle. Nel Pd molti critici di Renzi restano tali, ma si guardano bene dal farsi travolgere da una matassa così poco decifrabile. Lo stesso D’Alema preferisce la battaglia sulle amministrative a Roma. Il "no" di Romano Prodi al quesito referendario ( "la sua vittoria sarebbe un suicidio" ), subito ripreso e citato dal premier, è un richiamo alla storia e alla tradizione del centrosinistra, nonché al fatto che le norme sulle trivellazioni in mare erano state approvate a suo tempo dal Pd. In termini generali, chi vuole la sconfitta politica di Renzi deve scegliere bene il campo di battaglia. E il referendum del 17, sull’onda dell’offensiva giudiziaria, non è il terreno propizio. A meno di non voler fare del Pd una corrente subordinata al movimento grillino, a sua volta lesto a sfruttare le iniziative della magistratura. Peraltro i sondaggi dicono che probabilmente il referendum non raggiungerà il "quorum" e in fondo la pensa così anche il governatore della Puglia, Emiliano, che si è messo a capo della crociata. Resta il tema più spinoso. La forte polemica del presidente del Consiglio contro la magistratura. Polemica che ha suscitato l’ovvia risposta dell’Anm. Ieri Renzi l’ha attenuata. Ha parlato di un sistema che non funziona, del suo desiderio di vedere processi più rapidi e una giustizia più efficiente. In altri termini, ha capito che una nuova stagione di contrapposizione fra governo e magistrati sarebbe un errore fatale. Evocherebbe nell’opinione pubblica il disagio della lunga paralisi che caratterizzò l’era berlusconiana; sarebbe il contrario del messaggio innovativo che il renzismo si sforza di trasmettere. Tuttavia in questi due anni non si è fatto forse abbastanza per creare un nuovo modello di regole, una cornice in cui collocare, ciascuno nel proprio ambito, la politica e la magistratura. La strategia del premier nel rapporto con le toghe. "Basta umiliare la politica" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 6 aprile 2016 Al capo del governo non è soprattutto piaciuto l’intervento dei magistrati nelle procedure legislative. Le dimissioni, "opportune e giuste", di Federica Guidi. L’audizione del ministro Boschi con i pm di Potenza, "un’invasione di campo assurda, nel cuore dell’azione legislativa del Parlamento". Anche dopo aver attaccato in streaming la Procura lucana e dopo la precisazione nella replica finale, Matteo Renzi non ha smaltito la rabbia per l’azione della magistratura arrivata dentro Palazzo Chigi proprio nelle stesse ore in cui sì svolgeva la direzione del Pd. Troppe "coincidenze" sospette, anche legate al referendum sulle trivelle del 17. Spiega ai collaboratori il significato di quelle frasi sulle inchieste mai arrivate a sentenza, il premier: "Ci hanno screditato, hanno sputtanato la politica, mi sembra ovvio sfidarli a mostrarci i risultati. Vediamo cosa portano a casa. Se tutto questo ha un senso tocca a loro dimostrarlo". Dice Renzi che il problema non è interrogare la Boschi, ovvero non è avvicinarsi così tanto, con un’inchiesta, alla cerchia dei suoi fedelissimi, all’architrave del governo. Il problema è "tirare in ballo il ministro dei Rapporti con il Parlamento, comunque si chiami. Oltretutto, per la firma a un maxiemendamento che rispecchia la strategia del governo sulla politica energetica, che conferma una scelta di fondo fatta alla luce del sole". Secondo il premier, questa diventa "una partita che i giudici giocano in un campo improprio". Così i poteri dello Stato si confondono, finiscono di essere separati e autonomi come vuole la Costituzione. È un modo per mettere le mani avanti, come sospetta qualcuno? Il Pd si aspetta altre "sorprese" dall’inchiesta su Tempa Rossa? I renziani giurano che non è così, che non è quello il motivo per cui "Matteo" è passato all’attacco. Che poi attacco non è, "semmai nel mirino c’è solo la Procura di Potenza, certo non la magistratura", dicono per minimizzare. Ma il segnale di un primato della politica sulle indagini, il premier-segretario, lo ha mandato anche durante la direzione quando rivolto ad Andrea Orlando gli ha sollecitato il completamento delle riforme nel campo della giustizia. La revisione del procedimento penale, in parole povere il processo breve, ha già superato l’esame della Camera e adesso è fermo in Senato. Bisogna accelerare, portare a termine il lavoro. È la chiave perché diventi più veloce collegare la fase dello "screditamento" all’accertamento della verità con una sentenza. Come è avvenuto per Salvatore Margiotta scagionato dopo un’inchiesta e citato da Renzì non casualmente. Margiotta è infatti un parlamentare della Basilicata. Sul garantismo, su una svolta non più giustizialista del Partito democratico, Renzi sa di poter contare anche sulla sinistra interna o almeno su un parte consistente di essa. A cominciare da Roberto Speranza, per esempio, che pure lo attacca sul referendum e lo giudica "in sufficiente" come segretario. Speranza è un ipergarantista, lo è stato anche sulla vicenda di Vincenzo De Luca quando tutti i dissidenti erano all’attacco. Per finire ai bersaniani in generale, stimolati dal richiamo fatto da Renzi al caso di Vasco Errani, assolto dopo un lungo processo, e uomo forte di quell’area. Con una base garantista nel Pd, la politica può recuperare il suo ruolo, la sinistra in primis, senza essere accusata ogni volta di fare come Berlusconi. "Possibile che non si possa dire una parola sulla giustizia perché c’è stato lui? No, non è possibile. Quei vent’anni sono finiti - ragiona Renzi coni suoi collaboratori. Talmente finiti che Berlusconi conta pochissimo ormai nel dibattito pubblico. Dobbiamo liberarci da questo tabù". I politici dunque possono parlare della magistratura. Il Parlamento può fare leggi sulla giustizia nel rispetto del potere giudiziario. "Basta farsi umiliare. Anche il richiamo a Berlusconi ogni volta che qualcuno apre bocca, non funziona più. E vecchio, superato", è il pensiero di Renzi. Brucia l’audizione del ministro Boschi, bruciano le accuse di favori alle lobby, ma il premier ripete che "l’operazione non era nascosta". Ha ricostruito con i capigruppo di Camera e Senato la genesi di quel singolo emendamento. Gli hanno spiegato che era stato discusso, che se è comparso nella notte è solo parche questo succede durante le fasi frenetiche dell’approvazione della Stabilità. Ma i gruppi del Pd ne avevano parlato, in commissione e al loro interno. Insomma, i magistrati sono entrati nel merito di una decisione politica e di una funzione legislativa, questo è il fastidio di Palazzo Chigi. E Renzi non farà passi indietro. Ne riparlerà già oggi in un dialogo diretto con le persone attraverso Facebook Mentions, una nuova app, usata finora soprattutto da cantanti e altre star. L’emendamento su Tempa Rossa scomparso tra una manovra e l’altra di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 aprile 2016 Il passaggio tra il 2015 e il 2016: l’allora ministra Guidi, nelle intercettazioni, lo riteneva strategico. La ministra Boschi ai pm: mi mossi su indicazione del Mise. L’emendamento su "Tempa Rossa" fatto approvare dall’ex ministro Federica Guidi è stato modificato dal governo nell’ultima legge di Stabilità. E adesso i magistrati di Potenza cercheranno di scoprire per quale motivo la norma non sia stata inserita nella nuova legge di Stabilità per il 2016, visto che nelle intercettazioni l’allora ministro Federica Guidi lo riteneva strategico per far funzionare il progetto. Una linea confermata pubblicamente domenica dallo stesso premier Matteo Renzi che se ne è attribuito la paternità "perché l’idea di sbloccare le opere pubbliche e private l’abbiamo presa noi". L’ex titolare dello Sviluppo economico deve rispondere sull’iter - L’iter legislativo racconta una storia diversa e anche di questo l’ex titolare dello Sviluppo economico dovrà rispondere nell’interrogatorio fissato per giovedì. Poi le sarà chiesto di chiarire la natura di alcuni interventi da lei fatti in materia di appalti e nomine che potrebbero essere stati condizionati dalle pressioni subite dallo stesso Gemelli e dagli altri componenti del "comitato d’affari" che si sarebbe mosso per favorire i colossi petroliferi, primi fra tutti la Total. Il 17 ottobre 2014 è presentato dalla sottosegretaria Vicari - L’iter dell’emendamento che agevola il progetto "Tempa Rossa" - così come ricostruito dalle indagini svolte dai poliziotti della squadra mobile diretti da Carlo Pagano - comincia il 17 ottobre 2014 quando viene presentato dalla sottosegretaria Simona Vicari all’interno del decreto Sblocca Italia. È dichiarato inammissibile e dunque si decide di intervenire per trovare una soluzione. Il 5 novembre la stessa Guidi al telefono con Gemelli lo rassicura che "se Maria Elena è d’accordo sarà inserito nella legge di Stabilità". Effettivamente avviene proprio così: il 13 dicembre 2014 entra nel provvedimento all’esame del Senato e viene approvato. La ministra ha smentito di aver "subito pressioni da parte dei petrolieri" - Nel corso dell’interrogatorio di lunedì fa del ministro Boschi a Palazzo Chigi i magistrati hanno chiesto chiarimenti proprio sui motivi che avevano convinto il governo a intervenire. La ministra ha smentito di aver "subito pressioni da parte dei petrolieri o di altri" chiarendo che l’unico interesse era "sbloccare gli investimenti". E poi ha chiarito: "Tutte le indicazioni mi arrivavano dal Mise (ministero Sviluppo economico, ndr)". Perché si è scelto questo cambio di rotta? - Gli investigatori hanno acquisito le relazioni tecniche e l’articolato della legge di Stabilità 2015 - dunque relativa al 2016 - e hanno scoperto che la normativa in materia è cambiata perché "è stato eliminato il carattere strategico, di indifferibilità e di urgenza delle upstream sia a terra che in mare, riconoscendo alle stesse soltanto il carattere di pubblica utilità". Una linea completamente diversa dalla precedente. Perché si è scelto questo cambio di rotta? E, soprattutto, perché si continua a dire che la norma è tra le priorità del governo? Le possibili pressioni delle aziende petrolifere - Il sospetto è che in realtà quell’emendamento sia stato approvato su pressioni delle aziende petrolifere e che poi, una volta sbloccati i fondi, si sia deciso di modificarlo. È vero che la pronuncia della Corte costituzionale in materia di referendum ha restituito alle Regioni un ruolo chiave e dunque c’era il rischio che nella consultazione sulle Trivelle si dovessero inserire altri quesiti. Ma proprio per questo si vuole adesso accertare perché tutto ciò non sia stato evidenziato. Il ruolo di Nicola Colicchi - Se ne chiederà conto a Guidi e sempre lei dovrà chiarire perché, in alcune conversazioni ancora secretate, si lamentava con Gemelli di essere stata "messa in mezzo" da lui e da quei collaboratori - primo fra tutti Nicola Colicchi, anche lui indagato per associazione per delinquere e traffico d’influenza - che si occupavano di svariati affari legati al settore petrolifero, ma anche di nomine pubbliche. Compreso quello legato al porto di Augusta dove si voleva trasferire il petrolio estratto, forse utilizzando anche alcune navi della Marina. Al centro di tutto c’è proprio Gemelli - Al centro di tutto c’è proprio Gemelli e infatti in una conversazione di novembre 2014 con il suo socio Salvatore Lanzieri, dopo aver saputo "che era in via di definizione l’ingresso delle sue società nella bidder list della Total per le gare sui progetti ingegneristici", afferma: "Minchia ti informo, ti informo che già siete entrati! questa è bellissima! ma tu lo sai che io martedì... te l’ho detto che ce lì ho tutti invitati al convegno, martedì prossimo... a Roma... tutti, tutti ci sono, quelli che contano ci sono!.. dai che sta andando come volevamo noi, perfetto!... gioia mi pare che stiamo andando nella direzione giusta, dai!... quant’era sette milioni ? Mi sa che sarai condannato a pagarmi quattro mila euro al mese a partire dal 2016... noi da qui a metà mese, massimo fine mese dobbiamo andare in Tecnimont, ma io me la chiudo martedì prossimo". Renzi vuole il fallimento del referendum? È un reato di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 aprile 2016 La strategia dell’astensione del presidente del Consiglio si rinnova, ma finisce sotto attacco. La legge del 1970 vieta questa propaganda al pubblico ufficiale. I cinque stelle denunciano al giudice, i radicali si rivolgono al Tar. Che potrebbe persino far slittare la consultazione del 17 aprile. Come si comporta un governo con il referendum, quest’anno che ce ne saranno due? "Spero che il referendum fallisca", ha detto per l’ultima e la più chiara delle volte Matteo Renzi ieri. Parlava del referendum di domenica 17 aprile, quello sulle trivellazioni in mare. Poteva farlo, e rifarlo? No, secondo la legge che nel 1970 ha introdotto i referendum - previsti dalla Costituzione 22 anni prima ma rimasti sulla Carta. Non poteva perché nell’ordinamento italiano c’è una sanzione penale per "chiunque investito di un pubblico potere o funzione" induce all’astensione. La sanzione in origine era il carcere (fino a tre anni), adesso la competenza per questo reato è del giudice di pace e la pena massima sono 45 giorni di detenzione domiciliare, ma si può essere condannati a pagare una multa o a svolgere lavori di pubblica utilità. In teoria è quello che potrebbe rischiare Renzi. Non si discute la costituzionalità dell’astensione, e nemmeno quella più problematica dell’invito all’astensione. Si discute la liceità degli appelli a restare a casa quando provengono da un pubblico ufficiale. In passato, quando questi appelli provenivano da "ministri del culto" - per esempio il cardinale Ruini nel 2005 - o da ministri del governo - leghisti nel 2009 - causavano problemi anche a un po’ di costituzionalisti e politici che oggi sono con Renzi. La legge (l’articolo 51 della legge sul referendum che rimanda all’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali), per quanto desueta, è ancora in vigore. Adesso sono i 5 stelle a pretenderne l’applicazione. Ieri hanno accusato il presidente del Consiglio di commettere reato, qualche giorno fa un senatore avvocato grillino (Bucarella) per molto meno (un’intervista sull’Unità) ha denunciato la sottosegretaria (probabile nuova ministra) Bellanova al tribunale di Roma: aveva definito l’astensione al referendum "la cosa più saggia da fare". Renzi è andato oltre. I radicali italiani si sono rivolti al Tar del Lazio. L’iniziativa sarà raccontata nei dettagli questa mattina. La denuncia parte dalla violazione delle norme penali che vietano la propaganda per l’astensione. Alle quali però si aggiungerebbero, da parte del governo italiano, una serie di "violazioni all’obbligo di neutralità e agli standard internazionali". Secondo il segretario dei radicali Riccardo Magi, Renzi ha oggettivamente attuato una strategia per far fallire il referendum, "le dichiarazioni non fanno che provare il dolo". La denuncia mette in fila i fatti, dalla scelta di non accorpare il referendum con le amministrative alla fissazione della più vicina data utile, la prima domenica dopo il 15 aprile, in modo da limitare al massimo la campagna elettorale. Il Tar ha fissato l’udienza a ridosso del referendum, mercoledì 13 aprile. Deciderà in composizione collegiale. La richiesta è che venga annullato il decreto del presidente della Repubblica che ha indetto il referendum. Se accolta le conseguenze sarebbero clamorose, il referendum potrebbe essere rinviato. Come si comporta un governo con il referendum, quest’anno che ce ne saranno due? Il secondo è quello di ottobre sulla riforma costituzionale. La maggioranza non è riuscita a raggiungere i due terzi dei voti nella seconda lettura al senato, dunque la legge costituzionale non è immediatamente in vigore: 500mila elettori, 5 consigli regionali o un quinto dei senatori o deputati possono chiedere che sia sottoposta a referendum confermativo. Chi si oppone alla riforma, comitato del no e parlamentari di minoranza, ha già annunciato che raccoglierà le firme. Anche con i banchetti, dove sabato prossimo in tutta Italia partirà la mobilitazione per "una primavera per la democrazia". Ma il governo vuole anticiparli. Se n’è avuta la certezza ieri, quando la riforma ha cominciato il suo ultimo passaggio alla camera. In commissione affari costituzionali il grillino Toninelli ha chiesto ufficialmente ai deputati del Pd di non firmare per il referendum: "Se lo chiede la maggioranza è una sgrammaticatura costituzionale e diventa un plebiscito". I deputati Pd hanno confermato invece che lo faranno. Il plebiscito lo cerca Renzi. Idv: la difesa, in casa, è legittima… no ai pistoleri per le strade, ma nelle abitazioni sì di Carlo Valentini Italia Oggi, 6 aprile 2016 Istinto di sopravvivenza? Aria di elezioni? O vera sintonia col sentire della gente? La pattuglia dell’Idv sopravvissuta all’addio del fondatore Antonio Di Pietro e a vari scismi ha lanciato l’iniziativa di una raccolta di firme per una proposta di legge popolare, già depositata in Cassazione, per tutelare l’inviolabilità del domicilio e rinforzare la legittima difesa. Di fronte alla recrudescenza dei reati contro la proprietà e a norme che spesso tutelano più chi li compie che chi li subisce (recentemente un giudice ha stabilito il diritto al risarcimento a un ladro che è caduto perché spintonato dal proprietario dell’appartamento in cui s’era introdotto) si sono alzate voci anche autorevoli per chiedere una modifica legislativa per ora non ascoltate dal governo presieduto da Matteo Renzi. Adesso quelli dell’Idv, pochi ma combattivi, hanno deciso di cavalcare la questione ed entrare in concorrenza con chi, Matteo Salvini e la Lega, da sempre ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Poco importa che quando a capo dell’Idv vi era Di Pietro egli si sia schierato contro il ministro della Giustizia (nel 2004), il leghista Roberto Castelli, che aveva proposto la modifica legislativa della legittima difesa, per tutelare maggiormente l’aggredito. "Castelli - sentenziò Di Pietro- fa propaganda elettorale e terrorismo politico". Il tempo passa e la politica fa le giravolte. Adesso è il partito dei successori di Di Pietro a issare sul proprio pennone la bandiera di una legge più dura a tutela della legittima difesa. Dice Ignazio Messina, segretario nazionale Idv: "Bisogna rispondere più efficacemente alla crescente domanda di sicurezza. In particolare il fenomeno dei furti in abitazione è sempre più preoccupante e quindi riteniamo che, all’interno della propria casa o del proprio negozio, ciascuno debba essere libero di difendere se stesso, i propri cari e i propri beni. Chiediamo tre cose: un aumento della pena per chi si introduce nel domicilio passando da 2 a 6 anni, che dentro la propria abitazione ci si possa difendere come si vuole e quindi che non sia possibile essere denunciati per eccesso di legittima difesa e che non sia mai previsto un risarcimento del danno per il ladro o per la sua famiglia". Le firme vengono raccolte nei Comuni oppure nei banchetti allestiti dall’Idv. A cominciare, simbolicamente, da quello di Padova, dove il tabaccaio Franco Birolo è stato condannato a 2 anni e 8 mesi e a un risarcimento di 325 mila euro per aver ucciso un ladro tre anni fa. Un altro caso che ha suscitato scalpore è quello del rigattiere veneto Ermes Mattielli, morto da alcuni mesi ma nel 2006 al centro della vicenda che lo vide sparare a due ladri penetrati nel suo deposito (uno dei due, che all’epoca fu ferito, proprio di recente è stato ri-arrestato per un altro furto). Mattielli, per questo, fu condannato ad un maxi risarcimento, che ora, peraltro, dovrà accollarsi lo Stato alla luce della rinuncia dell’unico erede. "Questo ampliamento legislativo della tutela- aggiunge Messina- vuole da un lato evitare il rischio di alimentare la cultura dello sceriffo fai da te, cavalcata da forze politiche estremiste nei toni ma improduttive nelle soluzioni, ma dall’altro realizzare un deterrente molto più forte verso quella categoria di criminali dediti a furti e rapine nelle nostre abitazioni, che non dovranno mai più beneficiare di alcuna scappatoia giuridica, ingiusta e beffarda". Quante firme verranno apposte sui moduli? Secondo il segretario Idv della Toscana, Giovanni Fittante: "La nostra iniziativa sta riscuotendo un notevole successo. In virtù di tali riscontri positivi ho inviato una lettera a tutti i sindaci toscani affinché collaborino con noi. L’obiettivo è quello di portare il progetto in parlamento con il maggior numero possibile di firme". Secondo il Censis i furti nelle abitazioni sono raddoppiati negli ultimi dieci anni: siamo a quota 251.422, una casa svaligiata ogni due minuti. Le tre città al top (anche perché più numerose) sono: Milano (19.214 reati), Torino (16.207) e Roma (15.779). Si tratta di un fenomeno di dimensioni talmente rilevanti che le forze dell’ordine faticano a combattere anche se il bilancio della repressione non è di poco conto: nel 2013 sono state denunciate a piede libero per furti in abitazione 15.263 persone (+139,6% rispetto al 2004), di cui 1.366 minori (il 9% del totale). E sono state arrestate 6.628 persone, di cui 486 minori (il 7,3% del totale). I detenuti per furto in abitazione e furto con strappo erano 3.530 nel 2014, con una crescita del 131,9% rispetto al 2007. Un sondaggio dell’istituto Sondea registra che il 77,50% degli italiani teme aggressioni nell’appartamento con la propria famiglia, il 48,23% ha paura che la propria casa venga distrutta, il 47,71% che portino via oggetti personali e ricordi e il 33% non sopporta comunque l’invasione del proprio spazio personale. Dice Ivan Rota, dirigente nazionale lombardo dell’Idv: "In Lombardia il fenomeno dei furti in abitazione è sempre più preoccupante. Bisogna assolutamente rimuovere la fattispecie normativa che permette all’aggressore di trasformarsi in vittima". Rota assicura che Milano è in prima fila nella raccolta delle firme e che questo impegno sta andando di pari passo con l’appoggio al candidato sindaco del centrosinistra Beppe Sala: "Siamo nella coalizione di centrosinistra con una lista a sostegno di Sala- aggiunge- e con proposte concrete sui temi che da anni caratterizzano il nostro impegno politico: legalità, lavoro, ambiente, sicurezza". L’Idv non nasconde il proposito di evitare che il tema della sicurezza venga monopolizzato dal centrodestra. Così, per esempio, proprio un sindaco del centrodestra, Vittorio Fantozzi (primo cittadino di Montecarlo, in Toscana) è stato invitato a firmare per la proposta di legge. Lui ha fatto approvare una delibera per pagare l’avvocato ai cittadini che finiscono in tribunale con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa. Secondo l’Idv non basta. Bisogna cambiare la legge, quindi che il sindaco firmi. A Modena l’Idv s’è schierata a fianco di Giuliano Barbieri, 63enne commerciante d’abbigliamento, che ha reagito a una rapina. Ne è nata una colluttazione con uno dei tre malviventi ed è partito un colpo dalla rivoltella del commerciante, regolarmente denunciata. Il rapinatore (risultato un clandestino 27enne) è stato ferito alla mandibola, al polmone e all’avambraccio, con l’amputazione della prima falange dell’indice della mano sinistra. E sta chiedendo un risarcimento milionario. I due complici non sono mai stati identificati ma nel corso delle indagini è emerso che il loro Dna corrisponde a quello ritrovato in numerose altre rapine. Conclude Messina: "Diciamo no ai pistoleri per le strade, naturalmente, ma su questo tema riteniamo occorra assicurare più protezione a chi reagisce per difendersi. Il nostro ambiente casalingo e professionale, deve godere di una salvaguardia di livello superiore. Di fronte ad una criminalità sempre più aggressiva occorre aggiornare le norme esistenti". Trattare i detenuti da uomini, e marciare con loro di Elisabetta Longo Tempi, 6 aprile 2016 Intervista a Giorgio Pieri, responsabile del Servizio carcere dell’Associazione Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. "Quando il detenuto ha finito di scontare la sua pena, esce dal carcere senza niente. Di solito gli restano solo quattro stracci messi in un sacco dell’immondizia nero. Una casa non ce l’ha più, l’auto probabilmente gli è stata sequestrata, gli affetti più cari sono spariti, cosa altro dovrebbe fare se non cedere alla tentazione di ripetere l’errore già compiuto?". È la drammatica domanda che si pone Giorgio Pieri, responsabile del Servizio Carcere dell’Associazione Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. Contro l’indifferenza. Eppure può anche accadere che i detenuti, soprattutto se durante la detenzione sono stati aiutati a recuperare se stessi e una qualche abilità lavorativa, una volta scontata la pena, siano pronti per rientrare nella società. Di qui l’importanza dei percorsi di recupero e i sistemi di pena alternativi. Per questo, come ormai da sette anni, domenica 3 aprile si è tenuta nei dintorni di Rimini una marcia-pellegrinaggio alla quale, ci racconta Pieri, "partecipano i detenuti che provengono dalle nostre comunità. Vogliamo che le persone capiscano che esistono dei reali percorsi di recupero, e l’unica strada perseguibile è quella dell’incontro, del conoscere i detenuti stessi". "Don Oreste Benzi - spiega Pieri - diceva che l’opposto della misericordia è l’indifferenza, quell’atteggiamento che ci porta a non pensare ai carcerati se non perché vogliamo "gettare via la chiave". Altrettanto sbagliato è alimentare il sentimento di vendetta, pensando che l’unica strada da seguire sia quella di inasprire le pene. L’attuale sistema lascia alto il tasso di recidiva. Gli ultimi dati del Viminale indicano che su 900 detenuti che hanno esaurito la loro pena, ben 600 di loro commetteranno un altro reato entro tre anni, persino più grave di quello che li aveva fatti condannare in precedenza". Drammi che si intrecciano. Molto spesso le storie di vita dei detenuti sono drammatiche già dall’infanzia. Commettere un reato, per alcuni, non è che il naturale modo di crescere: "Penso ai racconti di vita che incontro quotidianamente. Penso a Pino, che mi spiegava che a 8 anni faceva colazione con la pistola del padre appoggiata sul tavolo. Penso a Gioia, il cui padre le diceva sempre "sono l’uomo più pericoloso che potresti incontrare". Penso a Samir, che mi raccontava che sua madre aveva ogni giorno a disposizione un solo piatto di riso, e doveva scegliere se darlo a lui o a sua sorella". Chi si deve prendere carico di compiere una totale ristrutturazione del sistema carcere continua a rimandare: "I politici spesso parlano senza cognizione di causa. Vorrei chiedere a molti di loro se sono mai stati in carcere, a guardare negli occhi un detenuto, a vedere che dramma vive in cella. E quanta differenza c’è invece negli occhi di chi riesce a intraprendere un percorso di pena alternativa, in grado di gettare le fondamenta per l’uomo di domani. Quello che sarà libero e avrà imparato a lavorare". Senza guardie. Per Pieri è ora di un cambio di rotta: "Un detenuto costa allo Stato ogni giorno 250 euro. L’85 per cento di questa cifra è motivata dalla presenza della polizia penitenziaria. Nei nostri centri, invece, un detenuto costa 40/50 euro. Ogni volta che andiamo a Roma a incontrare le istituzioni, noi continuiamo a proporre il nostro modello, un modello in cui i detenuti si sentono trattati da uomini, grazie a una fitta rete di operatori e volontari. Il carcere così come è oggi è una struttura medioevale". Pieri cita il caso positivo delle strutture di detenzione brasiliana: "Si chiamano Apac, sono piccoli carceri speciali in cui non ci sono guardie. Sono i detenuti stessi a vigilare gli uni sugli altri. Nel 2008, quando sono andato in Brasile a studiare questo modello, erano solo una ventina. Oggi sono 80, a riprova che un’organizzazione meno sorvegliata permette al detenuto di scontare la propria pena secondo un’altra ottica". Detenuto malato di tumore scrive a Corbelli: "Aiutami a tornare a casa" zoom24.it, 6 aprile 2016 Il leader del movimento "Diritti civili" ha rivolto un appello al Ministro della Giustizia affinché l’uomo possa finire la sua esistenza tra le mura di casa. Un uomo malato di tumore, quasi del tutto cieco, non autosufficiente, in carcere in un penitenziario calabrese nella stessa cella con il nipote che lo assiste, ha scritto al leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, chiedendo di aiutarlo "a terminare la sua esistenza nella sua casa accanto ai suoi familiari". L’uomo, F. I., secondo quanto rende noto Corbelli, ha 66 anni. Storia drammatica. "Sono oltre 20 anni - spiega Corbelli - che lotto per difendere (anche) i diritti delle persone detenute. Ho denunciato in tutti questi anni - aggiunge - centinaia di casi umani e fatto scarcerare decine di detenuti gravemente malati, come ricordo e documento nel nostro sito diritticivili.it. Ho affrontato tante storie drammatiche. Ma quella che, con una missiva che mi è stata recapitata oggi, mi è stato chiesto di rendere nota è oltre che drammatica, particolarmente triste ed emblematica delle tragedie che si consumano dietro le sbarre. Quest’uomo, malato di tumore al cervello, già operato (nel 2007 a Milano) e in cura, viene arrestato nel 2011. Per lui è la fine di ogni speranza! In carcere diventa anche quasi completamente cieco e non più autosufficiente. Da qualche mese - continua - è stato messo in una piccola cella insieme ad un suo nipote, anche lui detenuto, che lo assiste. Il nipote cucina, gli legge e scrive le lettere, lo aiuta anche nell’igiene intima. Quest’uomo racconta tutta la sua disperazione e si domanda se questo suo martirio si può definire giustizia" Lui ringrazia il nipote, per il buon cuore, chiede solo di poter essere curato e di finire la sua esistenza tra le mura di casa con l’affetto dei suoi familiari. Appello al Ministro della Giustizia. Mi rivolgo direttamente al Ministro della Giustizia - prosegue Corbelli - si può tenere in una cella un uomo malato di tumore, cieco e non autosufficiente, lasciando che sia il nipote ad assisterlo per quel poco che gli resta di vivere? Si può consentire una simile ingiustizia, una tale disumanità in un Paese civile e in uno stato diritto? Per poter continuare ad avere ancora fiducia nella Giustizia, mi auguro e voglio sperare che si ponga subito fine a questa crudeltà togliendo dal carcere e mandandolo a casa (nel caso, anche ai domiciliari), a terminare la sua esistenza, un detenuto malato di tumore, cieco e non autosufficiente". No ad arresto europeo se il carcere è disumano di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2016 Corte Ue - Causa 40415/2016. Il divieto di trattamenti disumani e degradanti dei detenuti ha un valore assoluto. Di conseguenza, le autorità nazionali dello Stato di esecuzione possono bloccare l’attuazione di un mandato di arresto europeo e impedire la consegna del soggetto colpito dal provvedimento se nello Stato di emissione le condizioni di detenzione mettono a rischio, sulla base di motivi seri e comprovati, il detenuto. Nell’attuazione della decisione quadro 2002/584 sul mandato di arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri (recepita con legge n. 69/2005) - scrive la Corte di giustizia Ue nella sentenza depositata ieri (cause riunite C-404/15 e C-659/15) - gli Stati sono tenuti a rispettare l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta i trattamenti disumani o degradanti. Necessario, però, che le autorità nazionali dello Stato di esecuzione procedano a un accertamento concreto sull’effettività del rischio. Questi, per gli euro-giudici, i parametri da seguire: l’esistenza di carenze sistematiche o generalizzate, il rischio per determinati gruppi di detenuti, la peculiarità di taluni centri di detenzione. Nell’attività di accertamento, poi, devono essere considerate le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché altri documenti internazionali. Tuttavia, la sola constatazione dell’esistenza di un rischio reale di trattamento degradante in base alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro di emissione non autorizza, in sé, il rifiuto all’esecuzione del mandato di arresto. È necessario, infatti, per non intaccare il principio del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca, che le autorità dello Stato di esecuzione dicano no alla consegna sulla base di elementi oggettivi, affidabili, precisi e attuali nei confronti della persona oggetto del provvedimento. Il Dlgs sulle depenalizzazioni rinviato alla Consulta per mancato rispetto della delega Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2016 Tribunale di Bari - Sezione II penale - Ordinanza 4 aprile 2016. Al vaglio della consulta il decreto legislativo sulle depenalizzazioni. Il tribunale di Bari con ordinanza 4 aprile 2016 ha rimesso gli atti alla corte costituzionale per chiedere di valutare la legittimità del comma 3 dell’articolo 1 del Dlgs 8/2016 "nella parte in cui esclude irragionevolmente dalla depenalizzazione tutti i reati puniti con la sola pena della multa e dell’ammenda contenuti nel codice penale, e specificatamente l’art. 392, per violazione dei principi direttivi della superiore legge delega 24.04.14 n. 67 che non ha previsto, invece tale esclusione". Inoltre il giudice barese solleva un’altra eccezione di costituzionalità sempre per mancato rispetto della legge delega. Chiede infatti ai giudici delle legge di valutare il comma 1 dell’articolo 8 del Dlgs 8/2016 "nella parte in cui prevede che le disposizioni del decreto legislativo si applichino anche ai fatti commessi anteriormente alla sua promulgazione". La legge delega 67/2014, precisa il magistrato del tribunale di bari, non ha previsto tale estensione. Se dopo il furto il ladro è anche violento commette il reato di rapina impropria di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2016 Tribunale di Firenze - Sentenza 21 dicembre 2015 n. 6168. Se il malvivente dopo il furto è anche violento commette reato di rapina impropria. Il caso esaminato e deciso dal tribunale di Firenze con la sentenza n. 6168 del 2015 riguarda proprio questa fattispecie: un malvivente all’interno di un negozio di abbigliamento ha sottratto alcuni indumenti e minacciato un cassiere per assicurarsi il possesso delle cose rubate, bloccato fuori dall’esercizio commerciale ha agito in modo violento non riuscendo però a recupera la refurtiva. In questo caso il delitto di rapina è stato ritenuto nella forma consumata e non tentata. Il reato di rapina impropria infatti - previsto dall’articolo 628 comma 2 del Cp - comporta che la violenza o la minaccia siano poste in essere subito dopo la sottrazione della cosa allo scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso di quanto rubato ovvero l’impunità. L’ipotesi del tentativo invece scatta quando vengono compiuti solo atti che puntano a sottrarre il bene indipendentemente dalla effettiva consumazione. Utero in affitto all’estero: se lì è legale non c’è reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 13525/2016. Non commette reato la coppia italiana che fa ricorso all’utero in affitto in Ucraina, se nel paese tale pratica è lecita. E soprattutto se la giurisprudenza non è chiara sulla punibilità degli atti commessi all’estero. I coniugi "in trasferta" non possono essere condannati per la violazione della legge 40 né per falso in atto pubblico e false dichiarazioni sulle generalità del neonato se la coppia non attesta nulla ma si limita a far redigere i documenti dai pubblici uffici di Kiev in conformità alla normativa vigente. La Cassazione (sentenza 13525) respinge il ricorso del Pubblico ministero contro la scelta del Giudice delle indagini preliminari, di assolvere due coniugi che, dopo la diagnosi di sterilità, erano ricorsi alla maternità surrogata in Ucraina, dove una donna aveva acconsentito a farsi impiantare gli spermatozoi dell’uomo insieme agli ovuli di un’anonima donatrice. La nascita era stata iscritta all’ufficio di Stato civile di Kiev che indicava, in linea con le norme interne, come genitori i due italiani. Per il Gip marito e moglie dovevano essere assolti perché il fatto non costituisce reato, malgrado la sentenza della Corte costituzionale 162 del 2014 non abbia di fatto aperto le porte alla maternità surrogata. Gli imputati non avevano alcuna volontà di commettere un illecito tanto è vero che la loro scelta era caduta su un paese nel quale la tecnica è "sdoganata", nei loro confronti era dunque configurabile "la causa scriminante dell’esercizio putativo del diritto". Di diverso avviso il Pm secondo il quale la maternità surrogata non è lecita e, inoltre i coniugi avevano taciuto al funzionario del consolato italiano di aver fatto ricorso alla maternità surrogata. Elemento quest’ultimo che, spiega la Cassazione che non vale ad integrare il reato di falsa attestazione (articolo 495 del codice penale) che presuppone, appunto, delle affermazioni. Ma la Cassazione valorizza soprattutto le oscillazioni giurisprudenziali sulla doppia incriminabilità. Per i giudici è controverso se, per punire secondo la legge italiana il reato commesso all’estero, sia necessario che il fatto sia previsto come reato anche nello stato in cui è stato commesso. Stando ad alcune decisioni, infatti, il requisito della doppia punibilità scatterebbe solo ai fini dell’estradizione mentre per altre sarebbe indispensabile sempre, salvo per i casi tassativamente previsto dall’articolo 7 del codice penale. A questo punto la Suprema corte guarda a Strasburgo e precisa che la Corte europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Contrada) ha specificato che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Un requisito soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione e, se necessario, con l’assistenza dell’interpretazione dei tribunali, quali atti sono penalmente punibili e quali no. E nell’ipotesi di reati commessi all’estero non c’è chiarezza sulla perseguibilità. Nè aiuta la giurisprudenza. Nel 2014 la Cassazione (sentenza 24001) ha dichiarato in stato di abbandono e considerato adottabile un bambino nato in Ucraina da una madre surrogata su committenza, partendo dal presupposto che la pratica è contraria alla legge italiana per motivi di ordine pubblico. Con la sentenza di ieri si cambia rotta. Il reato di tortura (che in Italia non c’è) e il caso Regeni di Francesco Lo Piccolo felicitapubblica.it, 6 aprile 2016 Nei giorni scorsi ho firmato la petizione di Antigone e indirizzata al presidente del Consiglio Matteo Renzi perché sia introdotto nel codice penale il reato di tortura. L’ho fatto, come l’hanno fatto altre 54 mila persone, perché la tortura è un orrore da medioevo e perché ancora oggi nessuna legge prevede questo genere di reato nonostante le promesse e gli impegni di tanti, in prima persona del Pd, che nel 2012 aveva promosso la campagna "una firma per tre giuste cause" (introduzione del reato di tortura, abolizione della ex Cirielli e abolizione del reato di immigrazione clandestina). Anzi, in questi anni invece che fare passi in avanti mi sembra che si facciano passi indietro tanto che oggi nel dibattito in parlamento c’è chi propone assurdità come il concetto di "pluralità", tipo c’è tortura solo se la violenza su una persona inerme, sottomessa o detenuta, viene compiuta per più di una volta…. "della serie, la prima non conta…la prima si può fare!" Non so se ridere o se piangere. Con questa logica non sarebbe tortura quella subìta dagli ebrei stipati nei vagoni (sono stati stipati una volta sola) o l’incenerimento nei forni (anche lì è stata una volta sola). E pensare che proposte di questo tipo (fatte ad arte perché questo reato non sia previsto) vanno contro gli stessi trattati internazionali: è infatti la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950, e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, che all’articolo 3 scrive: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Evidentemente un conto sono le parole, un altro i fatti. Non vorrei dirlo, neppure pensarlo, ma evidentemente scrollarci di dosso la necessità della violenza, della punizione, della tortura è più difficile di quanto si creda…quasi un patrimonio da difendere…come se fosse in qualche modo utile…quasi un deterrente. Eppure la prigione di Abu Ghraib non ha sconfitto il terrorismo, e neppure lo faranno le leggi eccezionali in vigore nella Francia di Hollande. Non so se la petizione avrà buon fine e se finalmente l’Italia avrà una legge contro la tortura, ma se fosse necessario firmerei ancora, come del resto l’avevo fatto nel 2012 quando appunto firmai "per tre giuste cause". Mi sembra il minimo. Il minimo anche alla luce di quell’orrore che ha coinvolto Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano torturato e ucciso a Il Cairo, e rientrato a casa in una bara, con il volto quasi irriconoscibile anche per sua madre. Sinceramente non so con che faccia il nostro governo possa protestare per la tortura subìta da un proprio cittadino all’estero e chiedere verità e nello stesso tempo non prevedere e non approvare una legge contro la tortura in Italia. Un paradosso, di nuovo la conferma che le parole sono solo parole. E che la verità, nel caso di Regeni, non interessa più di tanto, forse solo per commuovere un po’. Del resto in quanto a violenze e torture la stessa Italia non ha certo storie passate del tutto limpide o edificanti. Bastano due esempi: il primo nel 2001 quando alla caserma Bolzaneto a Genova centinaia di giovani furono letteralmente torturati per giorni e giorni; il secondo nel 2003 quando agenti della Cia con la complicità dei nostri servizi rapirono a Milano e trasferirono in Egitto (guarda caso!) l’imam Abu Omar, anche lui poi torturato e seviziato. Due esempi che all’Italia sono costati la condanna da parte di Strasburgo. Mi chiedo: forse per questo, per questa nostra incapacità di riconoscere i nostri torti, che non si riesce ad approvare la legge contro la tortura? Anche noi come il famigerato Kurtz di "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad dovremmo aspettare la morte per renderci conto dell’orrore? Campania: le Rems oltre gli Opg le distanze si allungano di Antonio Mattone Il Mattino, 6 aprile 2016 La vita oltre gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Dopo la chiusura della struttura di Secondigliano e con la prossima smobilitazione di Aversa quale sarà il futuro di esistenze che oscillano tra pericolosità e fragilità? Il reportage realizzato da Il Mattino nella Rems di Roccaromana fa emergere tutto il cammino che bisogna ancora fare perché al superamento degli Opg corrisponda un effettivo percorso di inclusione e di reinserimento sociale degli internati. La prima questione riguarda la collocazione delle Residenze per l’emissione delle misure di sicurezza, i nuovi luoghi dove curare i "folli socialmente pericolosi". In Campania, tre strutture sulle quattro esistenti sono lontane dai centri urbani. A Roccaromana, persino i magistrati di sorveglianza, nella prima visita effettuata hanno avuto difficoltà ad individuarne l’edificio, un’ ex scuola riadattata dislocata in un viale di campagna. La madre di una internata ha dovuto spendere 70 euro di taxi all’andata e altrettanti al ritorno per raggiungere proprio Roccaromana. E se in questa località non transitano treni ed autobus, per raggiungere la Rems di San Nicola Baronia nell’alto avellinese, ci vogliono due ore di pullman da Napoli, se si è fortunati con la coincidenza di orari a Grottaminarda. I familiari per andare a trovare i propri congiunti affrontano enormi disagi. Ma anche ingenti spese. Centri abitati isolati ma anche privi di opportunità da offrire a questi pazienti psichiatrici, e una popolazione spaventata e poco preparata per accogliere i nuovi concittadini. Solamente la struttura di Mondragone è situata in una zona facilmente raggiungibile e nello stesso tempo con un tessuto socio-relazionale capace di offrire qualche borsa lavoro e piccole iniziative sociali. Inoltre, qui le persone internate si mescolano e si integrano con i pazienti che frequentano il centro diurno, facendo le stesse attività, con gli stessi operatori, favorendo in questo modo una reale risocializzazione. Resta aperta la domanda come mai in una grande città come Napoli non sia stato possibile realizzare alcuna struttura dedicata a chi è uscito dall’Opg. Tuttavia, i problemi delle persone affette da malattia mentale non dipendono solo dai luoghi dove vivono. Non è cambiando i muri e gli edifici che li ospitano che cambia la qualità della vita di persone sole e dalla mente fragile. Si tratta di operare una riabilitazione complessa, di ricostruire un tessuto affettivo e dei legami con il proprio territorio di appartenenza, cosa che non può avvenire a chilometri di distanza dalle famiglie e dai luoghi di origine. E qui si ripropone l’esigenza della presa in carico del paziente da parte dei dipartimenti di salute mentale, con la necessità di realizzare quei progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati che possano riconsegnare il malato alle strutture a bassa intensità di cura e, poi, alla società. Ma c’è bisogno anche di una rete di accoglienza fatta di servizi sociali che sostenga e accompagni le famiglie nella quotidianità, senza dimenticare che molti degli episodi critici di cui si sono resi protagonisti queste persone, vengono consumati proprio all’interno del contesto familiare. Occorre inoltre implementare il coordinamento e la comunicazione inter-istituzionale tra amministrazione penitenziaria, sanità e magistratura, compresa quella di sorveglianza talvolta non informata sui piani di trattamento delle Asl. E soprattutto va regolamentata l’assegnazione dei posti disponibili. Perché può succedere, ed è successo, che persone sottoposte a misura di sicurezza siano rinchiuse nelle articolazioni psichiatriche all’interno delle carceri o restino in circolazione in attesa che si liberino dei posti. Un’altra criticità è l’invio nelle Rems di persone in misura di sicurezza provvisoria da parte della magistratura. La sfida è invece quella di applicare misure alternative alla detenzione, come previsto dalla legge 81/14 e fare sì che le Rems siano sempre di più dedicate ad una funzione terapeutica riabilitativa e non custodialistica. Anche quando sarà andato via l’ultimo internato dall’Opg di Aversa non potremo abbassare la guardia e pensare di aver risolto il problema. Chi vive il dramma del disagio psichico va accompagnato e seguito in tutti i suoi percorsi tortuosi. Non possiamo permettere che le nuove residenze che li accolgono diventino dei piccoli manicomi senza speranza. Anche se la vita è una continua caduta nell’oblio, si deve sempre sognare di volare. Abruzzo: nomina del Garante dei detenuti e del Difensore civico, ennesimo rinvio Ansa, 6 aprile 2016 Il Consiglio regionale d’Abruzzo ha rinviato le nomine del Difensore civico della Regione per mancanza di accordo tra le forze politiche, in particolare nella maggioranza di centrosinistra, e per l’ennesima volta del Garante per i detenuti per il quale serve una maggioranza qualificata, quindi anche i voti di almeno tre esponenti delle opposizioni, e dei componenti del Collegio regionale per le Garanzie Statutarie. L’assemblea regionale ha licenziato il progetto di legge che modifica diverse norme regionali, sono state approvate le seguenti modifiche: alla legge regionale 25 del 2011 consentendo di ottimizzare le modalità per il calcolo dei canoni per l’uso idroelettrico relativi alle utenze con potenza nominale superiore a 220 kilowatt. Con tale intervento, la Regione non aumenta l’importo unitario del canone, che rimane fissato a 35 euro, ma "intende valutare la producibilità delle centrali idroelettriche ai fini del corrispettivo per l’uso dell’acqua in termini reali". Altra modifica ha riguardato la norma che consente di prorogare l’incarico di commissario liquidatore dell’Autorità dei bacini di rilievo regionale abruzzesi e interregionale del fiume Sangro sino all’entrata in vigore della nuovo sistema di governance previsto dalla normativa nazionale. Ulteriore modifica riguarda quella apportata alla legge regionale n.9 del 2011 che chiarisce che lo Statuto dell’Ersi (Ente regionale per il Servizio Idrico) è approvato con atto della Giunta regionale e che i quattro componenti dell’Assi (assemblea straordinaria dei sindaci) che compongono il Consiglio di amministrazione dell’Ersi sono nominati con Decreto del presidente della Giunta regionale e vengono designati ciascuno da ogni Assi al proprio interno. Forza Italia: ora basta "È da stigmatizzare il comportamento di questa maggioranza che per l’ennesima volta, palesando enormi deficit di coesione interna, decide di rinviare la nomina del Garante dei detenuti e con essa quella del Difensore Civico determinando di fatto una situazione paradossale per la nostra Regione". È quanto dichiarano i Consiglieri regionali di Forza Italia a margine dei lavori odierni. "Per quanto riguarda il Garante dei detenuti - spiegano i Consiglieri di opposizione - per la cui designazione sono necessari 21 voti, è chiaro che sussiste l’atteggiamento di ostruzionismo del febbosospiri1709Presidente che non riesce a trovare una sintesi senza imposizioni con i componenti dell’assise regionale e di conseguenza fatica a trovare anche i consensi della minoranza. Tra l’altro l’Abruzzo è l’unica Regione in Italia a non aver ancora individuato tale figura determinando una vicenda che sta assumendo contorni incresciosi. La stessa situazione si ripropone con D’Alfonso che sulla nomina del Difensore Civico non ha in nessun modo coinvolto la minoranza e dall’altro danneggia la stessa maggioranza amplificando le evidenti spaccature. Se il Pd spinge per il professor Stefano Civitarese, gli altri gruppi vorrebbero designare Francesca Aloisi, Commissario amministratore unico Ater L’Aquila e nominata dall’ex assessore regionale della Giunta Chiodi, Angelo Di Paolo, poi diventato sostenitore di Luciano D’Alfonso a pochi mesi dalle elezioni È da segnalare però che nessuno dei due ha presentato la propria candidatura nei termini stabiliti dall’avviso pubblico e non sono pertanto eleggibili da parte del consiglio regionale". Lombardia: l’Uisp promuove la Settimana dello Sport in carcere affaritaliani.it, 6 aprile 2016 Sono più di 500 gli sportivi detenuti delle carceri milanesi che la Uisp (Unione Italiana Sport Per Tutti) ha coinvolto in occasione della Settimana dello Sport in Carcere 2016. Sono previste due gare podistiche di 12 km l’una, la prima si terrà domenica 3 aprile presso la seconda casa circondariale di Bollate, mentre la seconda sarà domenica 10 aprile presso la casa circondariale di Opera, inoltre vi saranno anche le finali di un torneo di tennis tra detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria mercoledì 6 aprile a Bollate. "Sono 26 anni che con la Uisp facciamo sport nelle carceri - spiega Renata Ferraroni, responsabile del progetto carceri della Uisp - quest’anno gli istituti penitenziari coinvolti nell’iniziativa sono 26 in tutta Italia, ma il nostro lavoro non si ferma certo a questa settimana, siamo attivi tutto l’anno per quanto ci è possibile, perché lo sport è un diritto di tutti, nessuno escluso". Le gare podistiche sono parte del progetto Uisp "Vivicittà", iniziativa che coinvolgerà 43 città in tutta Italia e 18 nel mondo, oltre a 26 istituti penitenziari. Migliaia di persone unite per correre insieme, perché lo sport è di tutti. Ferrara: Rettifica. Carcere e magistrato di sorveglianza estense.com, 6 aprile 2016 In merito all’articolo apparso sul Quotidiano on-line Estense.com lo scorso 1 aprile concernente la visita presso la Casa Circondariale di Ferrara a cui hanno partecipato, lo scorso 31 marzo, una delegazione dei Radicali, il Garante per i diritti dei detenuti di Ferrara, la Consigliera Comunale Ilaria Baraldi e la Presidente della Camera Penale Ferrarese, a rettifica di quanto scritto siamo a precisare quanto segue: "Nel corso della visita la delegazione ha potuto constatare un generale miglioramento rispetto agli scorsi anni dell’opera trattamentale frutto della proficua attività della Direzione del Carcere (attraverso, in particolare, l’attivazione di percorsi formativi), ma anche della Magistratura di Sorveglianza che, evidentemente, deve concedere i necessari permessi (si pensi, a titolo di esempio che prima dell’insediamento dell’attuale Magistrato di Sorveglianza solo due detenuti fruivano dei permessi premio, mentre oggi la rosa è ampliata a 29 detenuti nonostante la cronica mancanza di educatori all’interno del carcere). Nelle interviste rilasciate ad esito della visita si è specificato che rimangono, comunque, alcune criticità tra le quali si sono segnalate la difficoltà di reperire imprese disponibili all’impiego di detenuti per il lavoro all’esterno, la riduzione del personale di polizia penitenziaria e le carenze del Tribunale di Sorveglianza. A quest’ultimo riguardo, in particolare, si è segnalato che, ormai da circa due anni, il Tribunale è in grave sofferenza a causa della riduzione dell’organico e ciò, evidentemente, determina ritardi nell’esame delle istanze sia dei detenuti (per i quali comunque, pur nelle difficoltà, è stata prevista una via prioritaria) che dei liberi. In questo contesto si è evidenziato che, ad esempio, il Magistrato di Sorveglianza che segue i detenuti della Casa Circondariale di Ferrara in quest’ultimo periodo è stato applicato contemporaneamente a Ferrara e a Modena e ciò ha comportato degli inevitabili disagi come la sospensione (seppure per periodi limitati) dei colloqui con gli avvocati e con i detenuti. Si trattava, quindi, solo di una esemplificazione di problematiche ben più ampie (citate nel corso dell’intervista e non menzionate nell’articolo) che attengono al Tribunale di Sorveglianza (questo si, come detto in situazione di grave sofferenza da circa due anni) e non certamente di rilievi rispetto all’attività del singolo Magistrato. Ciò, al contrario è quanto sembra emergere dal Vostro articolo dal quale apparirebbe, addirittura, che il Magistrato di Sorveglianza (dando rilevanza della notizia sin dal titolo) ha sospeso i colloqui con i difensori e i detenuti ormai da due anni circostanza non riferita da alcuno dei presenti e non corrispondente assolutamente alla realtà (tenuto, peraltro, conto che l’attuale Magistrato ha assunto concretamente le funzioni a Ferrara solo nel dicembre 2014 e che per tutto il 2015 i colloqui si sono svolti regolarmente nelle date del 20.02.2015, 27.03.2015, 15.05.2015, 16.10.2015 e 27.11.2015). A tal riguardo, è doveroso precisare che, per le già citate ragioni di contemporanea applicazione del Magistrato a Ferrara e a Modena, i colloqui con i detenuti sono stati sospesi solo nel periodo dicembre 2015-marzo 2016 e quelli con gli avvocati nel mese di febbraio del 2016. Nell’articolo, inoltre, viene omesso qualsiasi riferimento alle citate problematiche di organico del Tribunale di Sorveglianza essendovi limitati a riportare la sibillina frase "continua però a esistere un problema con la magistratura di sorveglianza, che in questo momento va al rallentatore" dando così l’impressione che i problemi siano da imputarsi al singolo Magistrato che, magari per disinteresse, non decide sulle istanze avanzate dai detenuti ferraresi e non, invece, al sistema nel suo complesso sul quale il Magistrato, peraltro, ben poco può incidere. Spiace, evidentemente, che le pur comprensibili ragioni di sintesi giornalistica abbiano determinato, però, uno stravolgimento di quanto evidenziato nel corso dell’intervista trasformando quello che, per i presenti voleva essere un grido di allarme sulla generale situazione del Tribunale di Sorveglianza (affinché nelle sedi opportune si metta mano ai provvedimenti necessari per la soluzione), in una critica alla gestione dei fascicoli da parte del singolo Magistrato di Sorveglianza". Mario Zamorani (Radicali Italiani) Marcello Marighelli (Garante per i diritti dei detenuti di Ferrara) Ilaria Baraldi (Consigliere Comunale di Ferrara) Pasquale Longobucco (Radicali Italiani) Alessandra Palma (Presidente Camera Penale Ferrarese) Parma: minori e pene alternative, un esempio parmigiano di Gabriele Balestrazzi Gazzetta di Parma, 6 aprile 2016 Trenta e più anni fa Parma fu protagonista di una iniziativa inedita e coraggiosa in tema di giustizia e minorenni. Nella città tragicamente ferita dalla morte di un 17enne per mano (preterintenzionale) di cinque coetanei, la politica e le istituzioni guidarono una riflessione collettiva e autocritica su come Parma avesse dimenticato i giovani, la loro vita nei quartieri e i loro problemi. Si decise che occorreva provare a recuperare quei cinque ragazzi, sottraendoli alle nefaste influenze del carcere attraverso un percorso di riflessione e, se si può usare in positivo una parola svalutata dai regimi dittatoriali, di rieducazione. Non fu facile arrivarci, e fu necessario coinvolgere l’allora ministro della Giustizia Martinazzoli, la Direzione generale delle carceri, il Tribunale minorile. Ma alla fine ci si riuscì: e la vicenda fece notizia a livello nazionale. Anche per la composta dignità con la quale la famiglia della vittima sopportò quella ulteriore ferita, seppur per il bene collettivo. Ecco: ho ripensato a quella lontana vicenda seguendo l’amara cronaca del Battistero violato e imbrattato, da minorenni. E anche leggendo i commenti, perché ancora una volta tanti lettori temono che - con la nostra attuale sgarrupata giustizia - presto gli idioti del Battistero o i vandali della scuola di Fontanellato o i "padroni" delle gallerie di via Mazzini siano di nuovo in attività, o trovino altri emuli. E allora occorrerebbe che la politica parmigiana del 2016 (tutta: l’invito è in assoluta par condicio) e tutti noi andassimo a ripassare quella pagina di storia, rileggendo ciò che dissero e fecero i Mario Tommasini, Ulisse Adorni, Lauro Grossi...e intorno a loro il vescovo Cocchi, la società parmigiana nel suo insieme, il nostro stesso mondo dei media. Studiare insieme alla giustizia delle misure alternative ed efficaci (assistere per alcuni mesi gli anziani, superare un esame sulla storia del monumento imbrattato per avere uno sconto sulla multa che dovranno pagare, ripulire le discariche abusive per capire quanto l’inciviltà di alcuni pesi su tutti...) potrebbe essere un modo per portare un po’ d’ordine e per investire sul nostro futuro. E su una parmigianità che non sarà forse mai più la stessa in futuro, ma che ha nel suo passato qualche buon esempio da ripassare e imitare. Catanzaro: amichevole del Catanzaro Calcio contro una formazione di detenuti catanzaroinforma.it, 6 aprile 2016 Oggi, mercoledì 6 aprile, con inizio alle ore 15,00 presso la casa Circondariale dell’Istituto Penitenziario "Ugo Caridi" di Catanzaro, si svolgerà un incontro di calcio tra la squadra dei detenuti e la squadra del Catanzaro calcio. Si è riusciti a programmare l’importante iniziativa grazie alla sensibilità del presidente della società giallorossa Giuseppe Cosentino e della vice presidente Gessica Cosentino, che hanno accolto con entusiasmo la proposta della direttrice dell’Istituto dott.ssa Angela Paravati. Lo sport in un Istituto di pena è notevolmente importante sia come momento di aggregazione e socializzazione sia come luogo privilegiato dove stimolare e concretizzare il rispetto delle regole. La partita con la squadra di calcio del Catanzaro - resa possibile anche dalla collaborazione del Capo area educativa dell’istituto Letizia De Luca, del comandante del Reparto della Polizia penitenziaria Aldo Scalzo, di Giuseppe Panaia della Segreteria Affari generali Giuseppe Panaia, oltre che del team manager del club giallorosso Michele Serraino - rappresenta anche un momento di più stretta vicinanza con la città e di interazione della società civile con un luogo spesso sconosciuto o addirittura rimosso. Prima della partita, alle ore 14,00 la squadra giallorossa incontrerà il personale dell’Istituto. RadioCarcere-Radio Radicale: l’emergenza carceri è stata davvero superata? Ristretti Orizzonti, 6 aprile 2016 La testimonianza di un ex detenuto: "A San Vittore e a Voghera viviamo in piccole celle occupate da 3 o da 4 persone, costretti a restare chiusi per più di 20 ore al giorno". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/471129/radio-carcere-emergenza-carceri-superata-san-vittore-e-voghera-due-carceri-diverse Il Papa incontrerà i rifugiati a Lesbo di Marco Ansaldo La Repubblica, 6 aprile 2016 Visita prevista il 14 e 15 aprile. La Commissione Ue: "Un ufficio europeo sulle richieste d’asilo" Vienna schiera l’esercito al Brennero: cento soldati al confine e il contingente potrebbe aumentare. È da 16 anni che un Papa non va in Grecia. L’ultimo fu Karol Wojtyla nel 2000. Ma il prossimo 14 e 15 aprile Bergoglio vi andrà in visita forse per due giorni raggiungendo l’isola di Lesbo. La sua intenzione, diramata a sorpresa da alcuni media greci, confermata dalla Chiesa locale e non smentita dal Vaticano che sta anzi preparando il viaggio, anche se è cauto sui dettagli, è quella di manifestare la propria vicinanza ai profughi. Sarà insomma un altro grande gesto a una frontiera - perché da Lesbo in questi giorni i migranti espulsi vengono rimpatriati in Turchia - dopo la visita a Lampedusa del 2013, il suo primo viaggio da Papa, e la messa celebrata a Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Stati Uniti, il 17 febbraio scorso. Ma anche un’altra mossa della geopolitica del Papa, tesa ad allargare gli spazi della sua azione su un tema, rilevante a detta di tutti i governanti, ma sul quale poi il Pontefice argentino è capace di intervenire direttamente. E qualcosa di simile farà, anche se per motivi diversi, il 16 aprile, Angela Merkel, che a quanto ha annunciato ieri il premier turco Ahmet Davutoglu andrà nel sud dell’Anatolia per inaugurare un centro profughi. Il cancelliere tedesco è in questo frangente l’alleato più prezioso per il presidente Tayyip Erdogan, proprio sull’emergenza migranti. Ad accompagnare Bergoglio sarà il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, con un’agenda ancora tutta da definire. Ad accogliere il Papa ci saranno il presidente greco Prokopis Pavlopoulos e il premier Alexis Tsipras. Una visita che arriva in un momento caldo, mentre l’accordo tra Unione Europea e Turchia è appena entrato in vigore. Un’intesa su cui la Chiesa cattolica non ha nascosto la sua contrarietà, giudicandola a scapito di coloro che cercano rifugio. Due giorni fa sono arrivati in Turchia i primi 202 profughi in partenza da Lesbo e Chio. Ieri Ankara ha annunciato che l’arrivo di altri 200 migranti, previsto per oggi, "è stato rinviato a venerdì perché la Grecia non è in grado di trasferire queste persone", a quanto ha dichiarato un responsabile turco sotto anonimato. Secondo quanto anticipa il quotidiano tedesco Die Welt, la Commissione europea vuole proporre un’ampia riforma del sistema d’asilo, in modo da trasferire la responsabilità del trattamento dai livelli nazionali a quello europeo. Al Passo del Brennero, dopo gli scontri fra attivisti italiani e polizia austriaca, la situazione ieri è tornata normale. Ma intanto l’esercito austriaco si è schierato con i primi cento uomini (un contingente che salirà in caso di emergenze) per sorvegliare il proprio confine, ed evitare così l’ingresso di migranti giunti via mare in Italia. Migranti: apre a Roma il centro di riabilitazione per le vittime di tortura Redattore Sociale, 6 aprile 2016 Il progetto è di Medici senza frontiere e Asgi. Offrirà assistenza medica, psicologica e socio-legale a qualsiasi persona abbia subito violenza, senza distinzione di nazionalità e status legale. In Sicilia l’80 per cento dei migranti sbarcati dichiara di aver subito abusi durante il viaggio o in Libia. Un centro specializzato nella riabilitazione delle vittime di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Apre a Roma il progetto di Medici senza frontiere (Msf) dedicato ai migranti. La struttura, che si trova nella centrale zona San Giovanni, offrirà assistenza medica, psicologica e socio-legale a migranti, rifugiati, richiedenti asilo e a qualsiasi persona abbia subito questo tipo di violenza, senza alcuna distinzione di nazionalità e status legale. Il progetto si iscrive in un intervento che Msf sta portando avanti a Roma da ottobre 2015, in partnership con l’associazione Medici contro la tortura e in collaborazione con Asgi-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Dall’inizio del progetto ad oggi sono state prese in carico 50 persone, provenienti da 18 paesi diversi - principalmente da Africa occidentale sub-sahariana, Corno d’Africa, Egitto e Asia meridionale - vittime di violenze nei paesi di origine o durante il percorso per raggiungere le coste europee. "Nel nostro lavoro di assistenza a migranti e rifugiati, ci confrontiamo con storie drammatiche di violenze terribili e abusi che richiedono un’attenzione specifica, un contatto profondo con l’individuo e le sue emozioni più forti, nel rispetto totale della loro privacy - spiega Gianfranco De Maio, responsabile del progetto -. Il centro é pensato, sin nella sua struttura, per creare un luogo in cui stabilire confidenza reciproca, per offrire uno spazio in cui queste persone possano gestire la rabbia, la paura, il sospetto e la rassegnazione, dirette conseguenze di questo tipo di esperienze". Nel centro vengono offerti servizi riabilitativi attraverso un approccio interdisciplinare, che vede la collaborazione di un’équipe composta da un medico, uno psichiatra, uno psicologo, un medico legale, un fisioterapista, due assistenti sociale, 2 operatori legali e 12 mediatori culturali, per rispondere alla varietà dei bisogni linguistici individuali. Potranno beneficiare dei servizi del centro non solo vittime di tortura in senso stretto, ma anche persone sottoposte a lunghi periodi di detenzione, maltrattamenti, violenze e altri casi sia nei loro paesi di origine che lungo il difficile percorso della loro migrazione. "Il fenomeno della tortura e più in generale della violenza sta assumendo dimensioni preoccupanti fra le persone che assistiamo nei nostri programmi sulla migrazione - spiega Tommaso Fabbri, capomissione di Msf in Italia. In mancanza di canali legali e sicuri lungo le rotte della migrazione, molti individui si trovano esposti ad abusi che rischiano di avere conseguenze mediche e psicologiche di lungo periodo. Con questo intervento Msf, che ha sviluppato delle competenze specifiche nella riabilitazione dei sopravvissuti a tortura, intende garantire una risposta adeguata al dolore di questi individui e offrire degli strumenti per la loro completa riabilitazione". Durante l’azione di assistenza a richiedenti asilo e migranti in Sicilia nel 2014 e nel 2015, sia agli sbarchi che nei centri di prima accoglienza, oltre l’80 per cento delle persone visitate dalle équipe di Msf ha dichiarato di aver subito abusi e violenze durante il viaggio verso l’Europa e la permanenza in Libia, dove la maggior parte di loro è rimasta bloccata per diversi mesi. Ma secondo l’organizzazione il problema della salute mentale dei migranti è "ancora troppo sottovalutato". Per questo dal 2015, l’impegno di Msf si è concentrato principalmente nell’assistenza medica e psicologica e nella primissima accoglienza delle persone che giungono nel nostro paese dopo un lungo e rischioso viaggio, via mare o via terra, e necessitano di cure mediche e assistenza psicologica. Il progetto di Roma, nasce infatti sulla scia di un’iniziativa analoga in Grecia: qui da ottobre 2014, Msf in partnership con le ong locali, tra cui le associazioni Babel Praksis, ha iniziato un programma di riabilitazione per sopravvissuti a tortura, principalmente richiedenti asilo che risiedono nell’area urbana di Atene. Nel 2015 sono stati presi in carico 105 beneficiari, che hanno subito torture nei paesi di origine e di transito. "Come nel caso del progetto di Roma, anche ad Atene si è voluto insistere sull’importanza della creazione di un network a livello territoriale per una responsabilità condivisa con le autorità competenti e le altre organizzazioni che operano in questo campo". Anche a Roma l’organizzazione aveva dato il via a una prima sperimentazione sul tema, con un’iniziativa di supporto legale all’interno del centro Baobab, oggi chiuso. "Nel 2016 continueremo il nostro lavoro nel campo della salute mentale di richiedenti asilo, rifugiati e migranti, a Roma come in Sicilia, attraverso progetti già in corso o di prossima apertura", assicura Msf. Il progetto, come detto, è nato in collaborazione con Asgi. "Il punto di vista legale è legato al punto di vista terapeutico complessivo - sottolinea Loredana Leo, avvocato dell’Asgi. I problemi legali delle persone vittime di tortura sono gli stessi che riscontrano i cittadini stranieri presenti sul territorio ma sono aggravati dalla loro condizione particolare. Si tratta di persone che dovrebberio rientrare nella categoria dei vulnerabili, ma è difficile se non viene loro assicurata una tutela legale. Smistamenti automatici nei Paesi dell’Ue, il piano di Juncker per superare Dublino di Alberto D’Argenio La Repubblica, 6 aprile 2016 Così verranno ridistribuiti i 160mila profughi ora presenti in Italia e Grecia. L’Europa prepara la riforma delle sue politiche migratorie con la volontà di imporre a tutti i paesi di prendersi carico dei rifugiati, proteggendo chi rischia la vita a casa propria e aiutando le nazioni dell’Unione che non sono più in grado di accogliere i richiedenti asilo. Il testo sponsorizzato da Jean-Claude Juncker sarà approvato oggi dalla Commissione europea e contiene proposte coraggiose, in linea con la richiesta di superare il regolamento di Dublino avanzata da mesi da Angela Merkel e Matteo Renzi. Ma una volta passata a Bruxelles la riforma dovrà ottenere il via libera dei governi dei Ventotto e c’è da scommettere che sarà battaglia. La Comunicazione - dunque un testo programmatico che poi andrà declinato in una serie di direttive - ridisegna tutte le politiche legate all’asilo. Bruxelles per superare il cardine di Dublino mette sul tavolo due opzioni dal peso specifico diverso. Saranno i governi a decidere su quale andare avanti. La prima, meno innovativa, non modifica il sistema, con il Paese di primo arrivo che resta responsabile del migrante, deve processare la sua richiesta di asilo ed eventualmente ospitarlo. Verrebbe però introdotto un "correttivo di equità", un meccanismo secondo il quale in caso di emergenza, decretata dalla Ue secondo criteri prestabiliti, parte la redistribuzione automatica dei migranti tra i Ventotto. Di fatto ogni volta che in un Paese viene superata una soglia di arrivi prestabilita da Bruxelles. Il modello è quello odierno, con l’Unione che si è impegnata a distribuire tra tutti 160mila richiedenti asilo ora in Grecia e Italia, ma il sistema non sarebbe più una tantum, bensì automatico, previsto e regolamentato per evitare l’attuale flop della redistribuzione. La seconda opzione è più innovativa e piacerà a Roma e Berlino. Prevede un nuovo sistema secondo il quale ogni migrante che entra nell’Unione, a prescindere dal Paese di primo ingresso, viene redistribuito tra i Ventotto secondo criteri stabiliti in base a dimensione, salute economica e capacità di assorbimento di ogni nazione europea. Questo Stato sarà responsabile del richiedente asilo, dovrà ospitare chi ne avrà diritto e impedire che i rifugiati si spostino in un altro Paese. Per far passare questa rivoluzione, sgradita ai governi xenofobi o egoisti dell’Est, la Commissione propone una serie di migliorie del sistema sperando di addolcire la pillola. Innanzitutto prevede la possibilità di trasferire la responsabilità di processare le domande di asilo a livello europeo, trasformando Easo, l’Agenzia Ue per l’asilo, nel soggetto che con una serie di filiali in tutti i paesi dell’Unione esamina tutte le richieste di protezione e tratta anche gli appelli di chi viene rigettato. Un modo per alleggerire il lavoro delle autorità nazionali. Una seconda novità prevede la possibilità di offrire ospitalità a tempo determinato. Oggi chi riceve protezione in Europa ci resta per sempre. La Commissione prevede invece di differenziare chi può rimanere a tempo indeterminato e chi no, distinguendo tra status di rifugiato e protezione temporanea (il pensiero in questo secondo caso va ai siriani). Nascerebbe così un sistema a diritti variabili e chi avrà diritto solo alla protezione temporanea verrà sottoposto a check regolari prima di ottenere il "long term residence status". Insomma, tra gli asilanti di serie B potrebbe rimanere solo chi dimostrerà periodicamente che permangono le ragioni della protezione in base alla situazione nel Paese di origine e alle circostanze personali. La Commissione prevede poi una serie di regole per impedire che i rifugiati si spostino da un Paese Ue all’altro facendo saltare l’equilibrio di presenze in ogni nazione (ricorrente motivo di litigi tra governi). I rifugiati potranno spostarsi solo in casi eccezionali riconosciuti dal Paese ospitante. Chi violerà la regola verrà sanzionato, anche con il carcere, e la sua domanda di protezione verrebbe rivista. La Comunicazione arriva con 4 mesi di ritardo sulla tabella di marcia: dopo l’accordo con la Turchia che ha messo una toppa alla rotta balcanica Juncker spera in un clima politico più propizio per far passare la riforma. Dopo un primo esame dei governi, Bruxelles trasformerà le sue proposte in testi legislativi che dovranno a loro volta essere approvati dalle capitali e la cui ambizione per questo potrebbe diminuire. L’Austria agli immigrati: "centinaia di soldati alla frontiera" Il Manifesto, 6 aprile 2016 Vienna annuncia di voler schierare l’esercito al Brennero contro i migranti. E intanto papa Francesco vola a Lesbo. "L’esercito austriaco è pronto per un intervento rafforzato e ha anche pianificato forze aggiuntive. Se necessario, sono pronte alcune centinaia di soldati, un numero che potrebbe anche essere accresciuto". Parole che suonano come l’inizio di una guerra di confine e che avrebbero potuto benissimo essere pronunciate all’inizio del secolo scorso. Invece a parlare così è stato ieri ministro della Difesa austriaco Hans Peter Doskozil ribadendo la volontà del governo guidato dal cancelliere Werner Faymann di chiudere il valico del Brennero per impedire l’ingresso nel paese di possibili migranti provenienti da sud. "Il numero di profughi al valico è già aumentato in modo pazzesco", ha spiegato il ministro. Venerdì l’ormai sempre più probabile rafforzamento dei controlli austriaci alla frontiera con l’Italia sarà discusso dal ministro degli Interni Alfano con la collega austriaca Johanna Mickl-Leitner, ma ieri né dal Viminale né da palazzo Chigi sono arrivati commenti all’annuncio fatto da Doskozil. E difficilmente Alfano riuscirà a far cambiare idea alla ministra di Vienna, considerata una dura nello scegliere i mezzi per affrontare la crisi dei migranti. L’Austria è stato il primo paese ad annunciare controlli alla frontiera con la Slovenia per mettere fine ai flussi di migranti che risalivano la rotta balcanica, una decisione che ha dato il via all’effetto domino che ha portato alla chiusura uno dopo l’altro di tutti i confini balcanici fino alla Macedonia. Il nuovo fronte su cui Vienna ha deciso adesso di dare battaglia è quello italiano, con tutte le ripercussioni non solo politiche, ma anche economiche che ne deriveranno. Reintrodurre i controlli alla frontiera significa infatti paralizzare il traffico merci e il turismo, con pesanti ripercussioni anche sulle popolazioni locali abituate ormai da anni a fare avanti e indietro con l’Austria senza alcun ostacolo. Una possibilità che a febbraio, quando Vienna ha ventilato per la prima volta una possibile sospensione di Schengen con relativa chiusura della frontiera, non a caso ha fatto fare un salto sulla sedia a più di un funzionario della Camera di commercio di Bolzano. E ieri a reagire all’annuncio di "centinaia di soldati" pronti per essere schierati oltre la linea di confine è stato il governatore altoatesino Arno Kompatscher, indignato per la "retorica guerresca" utilizzata dal ministro della Difesa austriaco. Da un confine all’altro, dai valichi di montagna italiani alle isole della Grecia dove da lunedì hanno preso avvio i respingimenti in Turchia dei migranti economici come previsto dall’accordo tra Bruxelles e Ankara. Un accordo siglato sulla pelle dei migranti che alla chiesa non è mai piaciuto. Sarà anche per questo che nel prossimo fine settimana papa Francesco si recherà sull’isola di Lesbo da dove partono i respingimenti. A renderlo noto è stata ieri la stampa greca, ma la notizia è stata confermata successivamente dal Vaticano pur precisando che il viaggio è ancora in preparazione. L’attenzione del pontefice alle sofferenze die migranti è nota. Non a caso il suo primo viaggio ufficiale Francesco ha voluto farlo a Lampedusa, isola simbolo della tragedia di quanti fuggono dalla guerra, ma anche dalla miseria. Era l8 febbraio del 2013 e non fu centro l’unico gesto di attenzione verso i migranti. A febbraio scorso, nel corso del suo ultimo viaggio ha voluto celebrare messa a Ciudad, davanti a un’altra frontiera calda come quella tra messico e Stati uniti. Ma anche il 24 marzo scorso quando, al Cara di Castelnuovo di Porto, si è inginocchiato a baciare e lavare i piedi dei profughi siriani. Gesti altamente simbolici con i quali la chiesa mostra di voler essere vicino al dramma dei profughi, ma anche la mancata condivisione proprio dell’accordo tra Ue e Turchia. La visita a Lesbo è quindi anche una denuncia di quel patto che ieri monsignor Giancarlo Perego ha definito "una sconfitta per l’Europa". Sconfitta resa più amara dalla denuncia fatta dell’Unhcr secondo la quale 13 degli oltre 200 migranti respinti lunedì in Turchia non hanno avuto la possibilità di presentare formale richiesta di asilo. Droghe a scuola, educare e non punire di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 6 aprile 2016 Il risultato dell’inseguimento del giovane consumatore fino al suo banco di scuola, non comporta solo la stigmatizzazione pubblica di qualche ragazzo e della famiglia, con inevitabili ripercussioni sul percorso di studi, ma anche la denuncia amministrativa o penale. Roma, Torino, Caltanissetta, Treviso. Tutta Italia è stata teatro di perquisizioni e controlli dentro le aule scolastiche. Questa è l’eredità della legge Fini-Giovanardi, che se pur abrogata in alcuni suoi articoli dalla Corte Costituzionale, ha lasciato pesanti eredità culturali, di cui sono esempio gli interventi delle forze dell’ordine nelle scuole per reprimere il consumo di sostanze psicoattive. Le scuole e le Asl, anche per via dei drastici tagli dei fondi destinati alla prevenzione, tendono a delegare sempre più l’intervento ai carabinieri, che agiscono la "deterrenza preventiva" con ampio dispiegamento di mezzi. I cani-poliziotto, che qualche tempo fa si notavano all’ingresso delle scuole, oggi vengono condotti fin dentro le aule per fiutare e scovare l’hashish direttamente negli zainetti degli studenti, malgrado sia chiaro che il "contagio" del consumo avviene per via amicale tra i ragazzi stessi senza alcun spacciatore che li adeschi. Qualche professore, che con coraggio difende la dignità del proprio lavoro, non consentendo l’irruzione in classe e l’interruzione del suo insegnamento, viene denunciato e sanzionato. Il risultato dell’ "inseguimento" del giovane consumatore fino al suo banco di scuola, non comporta solo la stigmatizzazione pubblica di qualche ragazzo e della famiglia, con inevitabili ripercussioni sul percorso di studi, ma anche la denuncia amministrativa o penale. Il danno di questo tipo di interventi di "prevenzione" nelle scuole va oltre le singole situazioni "intercettate": si misura nel solco di sfiducia che si scava tra le istituzioni e gli studenti, che non capiscono né l’accanimento delle modalità, né l’arbitrarietà dell’intervento, fiutando l’ipocrisia di uno Stato che, dal loro punto di vista, usa due pesi e due misure, lucrando sullo spaccio di tabacco, alcol e gioco d’azzardo. Qualcuno ha parlato di "effetto boomerang" degli interventi di questo tipo, che sono eredi locali di una più globale strategia di "guerra alla droga". Il consumo non ne viene scalfito, i ragazzi imparano a nascondere e mimetizzare meglio i propri comportamenti d’uso, rendendo più aspro l’inutile "gioco" a "guardia e ladri" che si instaura con carabinieri e polizia. Anche nelle famiglie, e tra le famiglie stesse, si produce una maggiore difficoltà relazionale e comunicativa: nei figli si rinforzano i lunghi momenti di silenzio e di non detto, con l’effetto di chiudere, anziché aprire gli spazi educativi; tra i genitori aumentano le contrapposizioni invece delle collaborazioni, si maturano giudizi diversi sulle modalità di intervento delle forze dell’ordine, che li esclude dal ruolo di interlocutori. L’educazione alla legalità degli adolescenti non è conseguibile con facili scorciatoie. Non è mostrando i muscoli che i ragazzi apprendono il rispetto delle regole, né tantomeno interiorizzano le norme. Del resto il quasi milione di giovani apparsi in 25 anni davanti al prefetto, i quali spesso sono stati privati del passaporto e della patente, perché trovati in possesso di hashish e marijuana per uso personale, non ha determinato alcuna flessione nei consumi. La strada educativa è più lunga e faticosa, e richiede la costruzione della collaborazione di tutti gli attori in campo: gli insegnanti che necessitano di essere valorizzati nel loro ruolo educativo anziché (ad esempio) essere sottoposti a sorpresa all’alcol test; le forze dell’ordine che dovrebbero condurre un lavoro di concerto con gli operatori dei servizi, mettendo a disposizione la loro autorità per mediare la problematica con le famiglie; gli stessi studenti che, utilizzando il supporto tra pari, introducono dinamiche di confronto e responsabilizzazione rispetto al comportamento dei consumatori. Così l’Italia rifornisce di armi i regimi di Diego Motta Avvenire, 6 aprile 2016 Il mercato delle armi made in Italy non si ferma più e viaggia di corsa verso le zone di guerra. Il 2015 ha confermato la leadership europea del nostro Paese nell’export di pistole, fucili e munizioni, di tipo militare e comune, ma ciò che sorprende è soprattutto la destinazione di questi prodotti: Egitto, Arabia Saudita, Turkmenistan, Emirati Arabi Uniti, Algeria. Circa un terzo del materiale bellico è stato venduto "in zone in cui erano in corso conflitti armati o che sono caratterizzate da forti tensioni interne o regionali" sottolinea il rapporto presentato ieri a Brescia dall’Opal, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e di difesa, promosso da diverse realtà, cattoliche e non, e membro della Rete italiana per il Disarmo. Tornano alla mente le parole pronunciate dal Papa l’11 giugno 2014 sui "mercanti di morte", tanto più forti se ai numeri ufficiali si aggiungono le difficoltà a misurare il mercato nero in grande espansione, anche a causa della minaccia del terrorismo. I dati dicono, innanzitutto, che il nostro Paese si conferma come il principale esportatore di armi comuni (di tipo non militare) tra i Paesi dell’Unione europea: il giro d’affari è di 307 milioni di euro, contro i 151 della Germania e i 63 della Croazia. Se si fa la somma tra armi e munizioni, il settore si attesta nel 2015 a quota 1,25 mi-liardi, in calo del 3,6% rispetto al 2014, in assoluto il terzo valore assoluto (dopo il picco del 2012) degli ultimi vent’anni. Da quattro anni è in corso, e il rapporto lo conferma, un cambiamento geopolitico importante: il Medioriente è sempre più centrale per gli interessi delle nostre aziende di settore, con un export trainato soprattutto dalle province di Brescia (un quarto delle vendite nazionali) Pesaro Urbino e Lecco. Due sono gli aspetti che meritano maggiore approfondimento, per quanto riguarda gli ultimi dodici mesi: l’export record verso i Paesi dell’Africa settentrionale, con la cifra mai raggiunta prima d’ora dei 52 milioni di esportazioni, in particolar modo destinate all’Algeria; i casi Egitto e Arabia Saudita. "L’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea ad aver fornito nel biennio 2014-2015 sia pistole e revolver, che fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di al-Sisi - spiega Piergiulio Biatta, presidente di Opal. Dopo la spedizione di più di 30mila pistole nel 2014, il governo Renzi ha autorizzato anche l’invio di 3.661 fucili". Il punto è che le autorizzazioni sarebbero state rilasciate nonostante sia tuttora in vigore la decisione del Consiglio Ue di sospendere le licenze di esportazione al Cairo "di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna". Gli interrogativi sulla vicenda restano dunque aperti, tanto più in una fase come questa caratterizzata dallo scontro diplomatico a distanza in corso sul caso Regeni. Nel frattempo, si aspetta ancora la presentazione in Parlamento della relazione sull’export di tutti i sistemi militari, espressamente prevista nella legge 185, che di fatto rischia di rimanere lettera morta. Senonché le operazioni di vendita alla luce del sole di materiale bellico proseguono indisturbate: nel 2015 è partito da Cagliari un carico di bombe per 19,5 milioni di euro indirizzato alle forze armate dell’Arabia Saudita. "È stato utilizzato dai sauditi per la guerra in Yemen, in un conflitto che ha causato quasi 7mila morti" è la denuncia dell’Osservatorio. L’altro mistero è la Russia: l’embargo proclamato a seguito della crisi ucraina avrebbe dovuto azzerare il business con Mosca, eppure risultano incassi da export per oltre 8,8 milioni nel 2015, sia pur a fronte dei 22 milioni del 2014. Sempre più florido è il commercio bellico col Turkmenistan, tra i regimi più autoritari al mondo: sono 87 milioni le vendite realizzate grazie ad armi e munizioni. E l’elenco potrebbe continuare, partendo dai tradizionali partner ancora in testa alla classifica dei nostri clienti: Stati Uniti (298 milioni di euro, la metà per armi comuni) Francia( oltre 177 milioni, la quasi totalità per armi e munizioni di tipo militare) e Regno Unito( 82 milioni). In coda alla top 20 si trovano invece Norvegia e Bahrein (25 milioni a testa). L’ipocrisia di governi e Commissione europea dopo i Panama Papers di Antonio Tricarico Il Manifesto, 6 aprile 2016 Elusione ed evasione fiscale legalizzata. Circa 32mila miliardi di dollari ormai sono off-shore. E l’Ue non farà l’unica cosa che conta: l’obbligo per tutti di pubblicare bilanci e tasse pagate. La divulgazione dei Panama papers scuote di nuovo l’opinione pubblica mondiale sullo scandalo delle tasse non pagate dai più ricchi, che siano singoli o multinazionali, e mette in difficoltà qualche governo, a cominciare da quello islandese. Come sempre accade in queste circostanze - dai Swiss Leaks ai Lux Leaks - tanti commentatori si interrogano se il cancro dei paradisi fiscali sarà finalmente estirpato. "Nulla sarà più come prima", dichiarano a caldo i politici, che promettono indagini fino a Panama. Ma queste frasi le abbiamo già ascoltate ripetutamente sin dal 2009. Fu proprio allo storico vertice del G20 di Londra nell’aprile di quell’anno, nel pieno della crisi economica e finanziaria mondiale, che i leader che contano nell’economia globale decretarono la fine dei paradisi fiscali producendo una lista nera di giurisdizioni "canaglia". Lista che però dopo qualche mese si svuotò di nuovo. È stato poi il turno dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - l’Ocse - che con la creazione di un Forum Globale ha promosso nuovi accordi internazionali per lo scambio automatico di informazioni in materia fiscale. Uno standard che il G20 nel 2014 ha poi decretato come globale e quindi da attuare in tutti i paesi negli anni successivi. A fronte della constatazione che il sistema fiscale su base nazionale è oramai un cimelio storico inadatto per un mondo globalizzato, l’Ocse ha anche lanciato il progetto contro l’erosione dell’imponibile e lo spostamento dei profitti delle multinazionali. La Banca mondiale calcola che ogni anno siano circa mille miliardi di dollari i profitti delle corporation che sfuggono alla tassazione lì dove i servizi o i beni vengono prodotti e venduti. Tutto ciò provoca danni consistenti soprattutto nei paesi più poveri e in quelli cosiddetti in via di sviluppo. Da questo altro processo è nato un decalogo di 15 azioni, che vari governi attueranno. Dopo questo fior fiore di impegni e una rinnovata cooperazione internazionale, per davvero nulla sarà più come prima? I Panama papers ci dicono altro. Ossia che la geografia dei paradisi fiscali è forse cambiata, anche in seguito alle timide azioni di alcuni governi, ma che queste giurisdizioni sono vive e vegete e attraggono ancora migliaia di miliardi di dollari di capitali. L’autorevole e indipendente Tax Justice Network li stima tra i 21mila e i 32mila miliardi. Di questi, minimo 7.600 sarebbero di proprietà di soli individui ricchi - quelli principalmente sbugiardati dalle ultime rivelazioni, come dai Swiss Leaksin precedenza. È noto da tempo alle autorità di mezzo mondo come Panama sia un paradiso fiscale nodale per il riciclaggio dei proventi del narcotraffico latino-americano e per l’elusione fiscale di molti ricchi e di società multinazionali presenti nelle Americhe. Ma Panama è recentemente diventata una meta sempre più ambita per chi cerca di pagare meno tasse, o semplicemente di nascondere con maggior sicurezza i propri patrimoni all’estero. Il Paese è infatti tra le varie giurisdizioni che ancora resistono all’obbligo di rendere disponibili le informazioni sui patrimoni depositati in banche o società di comodo ad autorità in altre giurisdizioni. Per esempio Panama deve ancora avviare il secondo stadio della peer review dell’Ocse, dopo un tira e molla di alcuni anni per riuscire a superare il primo esame. A oggi solo quattro giurisdizioni al mondo non hanno preso ancora alcun un impegno per lo scambio automatico delle informazioni - uno scambio che in ogni caso non avverrebbe in maniera pubblica. Tra questi recidivi della segretezza guarda un po’ c’è Panama, accompagnata da Vanuatu, Nauru e il Bahrein. A Panama non è difficile aprire una società di comodo. Stesso discorso per gli altri "paradisi" come, tra gli altri, le Mauritius, che seguono offshore la crescita delle economie asiatiche. Basta per l’appunto utilizzare i servizi di società specializzate - quali la Mossack Fonseca, appena finita nell’occhio del ciclone - e quindi trovare dei prestanome che nascondano l’identità dei beneficiari ultimi, ossia i veri proprietari. La segretezza societaria e bancaria garantita dal paradiso fiscale, anche prima dello stesso regime fiscale agevolato, fa il resto. In diversi si tirano su pensando che gli inquirenti e le agenzie delle entrate di Italia e altrove questa volta non lasceranno cadere la cosa. Solo se però si troverà il modo di ottenere anche prove certe dalle autorità panamensi riguardo ai patrimoni nascosti al fisco nostrano. E su questo il governo Renzi un esame di coscienza se lo dovrebbe fare. Il ministro Pier Carlo Padoan sbandiera la voluntary disclosure che sta finalmente muovendo molti cittadini italiani a dichiarare quanto portato in Svizzera in passato. Ma non in molti oggi ricordano che lo stesso governo lo scorso anno ha di fatto depenalizzato l’elusione fiscale introducendo nell’ambito della maxi delega fiscale l’istituto dell’abuso del diritto. Insomma, in gran parte dei casi i ricchi che eludono a Panama potranno sanare la propria situazione con pene amministrative e rischiano oramai ben poco penalmente. Un incentivo non da poco a continuare ad eludere scegliendo il prossimo paradiso fiscale che resiste" alle nuove regole internazionali. Anche l’Unione europea sul tema specifico non è da meno in quanto a ipocrisia. Nel 2015 Bruxelles ha compilato una lista nera di 30 paradisi fiscali - anche questa frutto di una complessa media tra le liste dei singoli paesi membri. E tra tutti spicca senza dubbio Panama. Il prossimo 10 aprile è annunciata la pubblicazione del nuovo pacchetto di misure fiscali della Commissione Juncker - che da tempo si sente in dovere di rispondere allo scandalo Lux Leaks, che ha visto il coinvolgimento proprio del suo presidente subito dopo la sua nomina. La proposta di direttiva è già stata svelata dai media internazionali. Ancora una volta la Commissione ha ceduto alle lobby e non chiederà che la tanto attesa rendicontazione paese per paese dei bilanci delle multinazionali - inclusi ricavi, profitti e tasse pagate in ogni giurisdizione ben oltre gli attuali bilanci aggregati - sia pubblica e obbligatoria per ogni impresa, europea e non e di qualsiasi taglia essa sia. La pubblicizzazione per tutti sarebbe il vero deterrente contro l’elusione e non avremmo allora più bisogno dei leaks. Ma per il momento tutto rischia di restare amaramente come prima. Egitto: morte di Giulio Regeni, le opzioni per l’Italia di Paolo Valentino Corriere della Sera, 6 aprile 2016 Se non ci sarà un cambio di atteggiamento da parte delle autorità dell’Egitto sul caso Regeni, il nostro Paese potrebbe dare il via a una serie di misure "di risposta". Quali potrebbero essere le misure "proporzionate" nei confronti dell’Egitto, evocate dal il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in Parlamento, nel caso in cui non ci fosse l’auspicato cambio di marcia sul caso Regeni? Ogni Paese dispone di una vasta panoplia di azioni diplomatiche, politiche ed economiche, con cui stigmatizzare i comportamenti di un governo considerato amico, in un crescendo che va da gesti simbolici fino a concrete misure punitive. Ma quali che siano le scelte del governo italiano in questa vicenda, se l’Egitto continuasse a opporre il suo vergognoso muro di gomma sull’assassinio del nostro ricercatore, la mossa iniziale sarebbe sempre la stessa: il richiamo in Italia per consultazioni del nostro ambasciatore al Cairo. Potrebbe durare giorni o settimane, ma è questo il preambolo di ogni eventuale escalation. È una misura temporanea, molto significativa nel linguaggio della diplomazia, che farebbe da preludio alla prima ondata di decisioni. Difficile, in questo caso, non immaginare che possano riguardare in primo luogo gli scambi culturali: l’Italia potrebbe per esempio "sconsigliare" i nostri ricercatori che intendono recarsi per un periodo di studi in Egitto dal farlo e allo stesso tempo consigliare alle decine che ci sono già di ritornare. Il passo immediatamente successivo sarebbe un divieto esplicito, cioè il blocco degli scambi. Un primo aspetto punitivo prenderebbe invece l’annuncio formale, da parte del nostro ministero degli Esteri, che dichiarasse l’Egitto Paese non sicuro per il turismo. È quello che hanno fatto gli inglesi, dopo la vicenda del jet turistico britannico con 180 passeggeri sfiorato da un missile sparato per errore dall’esercito egiziano nell’agosto dello scorso anno. Più grave ancora la misura decisa da Mosca in novembre, dopo l’esplosione nei cieli sopra Sharm El Sheikh di un charter con 224 persone a bordo: di fronte all’ostinato rifiuto delle autorità egiziane di ammettere perfino la palese origine terroristica del disastro, la Russia ha proibito tutti i voli per e dall’Egitto. Ma su questo fronte il danno all’economia egiziana, dove il turismo rappresenta il 12% del Pil, è già in atto: tra febbraio 2015 e febbraio 2016 il numero dei turisti arrivati in Egitto è sceso da 640 mila a 346 mila, una diminuzione del 46%. Un eventuale annuncio italiano farebbe da ulteriore acceleratore. Nel frattempo, sempre nel caso in cui proseguisse la congiura del silenzio e tenendo conto che si tratterebbe di misure reversibili in qualsiasi momento, la "rappresaglia" potrebbe assumere anche una dimensione politica. L’Italia potrebbe infatti decidere di degradare il livello dei contatti col Cairo, quindi non più ministri ma vice-ministri e sottosegretari parteciperebbero a visite e scambi già in programma o ancora da mettere in agenda. Un’altra misura teoricamente possibile è il divieto di viaggio in Italia a personalità del regime, considerate in qualche modo politicamente responsabili del caso. Ma sul piano politico, se nulla dovesse cambiare, qualcosa di più grosso è già nell’aria. Appare infatti molto difficile, in questa situazione, che venga mantenuto l’impegno, sottoscritto nel novembre 2014 da Matteo Renzi e Abd al-Fattah al-Sisi, di ripristinare la tradizione dei vertici intergovernativi annuali tra i due Paesi inaugurata al tempo di Berlusconi e Mubarak. Quello del 2016 dovrebbe svolgersi al Cairo, una data non c’è ancora. Ma fin quando il caso Regeni non avrà una soluzione dignitosa e soddisfacente, non ci sono le condizioni perché abbia luogo. Nessuno comunque ha voglia di evocare misure estreme come le sanzioni economiche. Difficilmente infatti si arriverà a embarghi di sorta, che rischierebbero di mettere in discussione il ruolo dell’Italia come secondo partner commerciale dell’Egitto dopo la Germania, con un interscambio annuale complessivo di oltre 5 miliardi di dollari e un export previsto in forte crescita anche per i prossimi due anni. Nei rapporti col Cairo, il sentiero tra gli interessi economici del nostro Paese e la difesa della dignità nazionale è strettissimo e molto scivoloso. Egitto: caso Regeni; indiscrezioni e smentite, il caos fa comodo al Cairo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 aprile 2016 Il governo tenta di chiudere il Nadeem Center, mentre al-Sisi promette trasparenza di fronte alla Nato. Nei giornali egiziani spuntano altre teorie e c’è chi accusa l’Italia di complicità con la repressione. L’Egitto del "caso isolato" non cambia la propria politica: nei media nazionali i ministri del governo egiziano si affannano a nascondere sotto il tappeto le migliaia di sparizioni forzate e torture di Stato ma la repressione continua. Ieri il Nadeem Center, ong che segue le vittime di torture e stila con regolarità rapporti sulle denunce, ha rischiato la chiusura. A riportarlo è una delle fondatrici, Aida Seid al-Dawla: la polizia - insieme a funzionari del Ministero della Salute - si è presentata nella sede, nel centro del Cairo, e ha ordinato la chiusura degli uffici senza mostrare alcun documento che la autorizzasse a procedere. I medici del centro hanno resistito, rifiutando di andarsene. In risposta, una minaccia: i poliziotti informeranno il Ministero degli Interni. Già a febbraio Il Cairo aveva tentato di fermare il lavoro del Nadeem Center, accusandolo di "condurre attività esterne al suo mandato, come la pubblicazione di rapporti". Perché quei rapporti smentiscono il governo, soffiano sul castello di carte buono per essere mostrato all’estero, ma che gli egiziani sanno benissimo essere un mero paravento. L’omicidio di Giulio ha svelato le falsità a cui molti quotidiani, anche italiani, hanno finto di credere dal golpe del 2013. Su spinta dell’opinione pubblica, però, oggi Roma dice di volere la verità, una verità che salvaguardi i rapporti politici ed economici con Il Cairo del presidente al-Sisi. Ieri a trattare il caso Regeni è stato proprio l’ex generale, in un incontro con una delegazione dell’Assemblea Parlamentare della Nato. A margine delle discussioni sulla minaccia terrorismo, che tiene a galla il regime cariota come valido alleato, il presidente ha reso conto degli ultimi sviluppi dell’inchiesta: "Stiamo cercando di rassicurare la parte italiana della piena collaborazione dell’Egitto sulle indagini sull’uccisione di Regeni, continueremo con assoluta trasparenza a chiarirne le cause e manderemo i criminali a processo", ha detto al-Sisi durante la riunione a cui prendeva parte anche il ministro degli Esteri Shoukry. Ahmed Abu Zeid, portavoce del dicastero, però, qualche ora prima in risposta al ministro degli Esteri Gentiloni aveva usato tutt’altro tono: gli avvertimenti di Roma "complicano la situazione in quanto giungono un giorno prima dell’arrivo di un team di investigatori egiziani in Italia". Si susseguono così prese di posizioni contrastanti, dettate da reali fratture interne al governo egiziano oppure dal tentativo pianificato di gettare fumo negli occhi. A fare da cornice alla confusione emergono poi indiscrezioni difficili da confermare: il Daily News Egypt cita un giornalista legato alla tv di Stato egiziana secondo cui l’Italia avrebbe raccolto "nuove informazioni sul caso" che spingerebbero all’identificazione di un funzionario collegato alla morte di Giulio. Secondo il giornalista, la cui versione non trova ulteriori riscontri, si tratterebbe di Khaled Shalaby, capo dell’unità investigativa di Giza: avrebbe indagato su Regeni prima della sua morte. Shalaby era già entrato nel caso a metà febbraio quando proprio il Nadeem Center ricordò che nel 2003 era stato condannato ad un anno di carcere dal tribunale penale di Alessandria per aver torturato a morte il prigioniero Shawqy Abdel Aal e aver falsificato rapporti di polizia. La pena fu poi successivamente sospesa e 12 anni dopo è stato promosso. Voci, indiscrezioni, teorie si accavallano senza trovare sbocchi concreti ma, al contrario, aiutano a generare il caos necessario a eventuali insabbiamenti. Il Cairo sa di dover mettere sul piatto qualche testa per uscire indenne dal ciclone e il timore è che a pagare sarà qualche facile capro espiatorio, interno ai servizi di sicurezza ma sacrificabile. Come spiega bene Eslam Abol Enein, direttore della nota Arab Organization for Human Rights, non esistono meccanismi che possano trascinare il Cairo di fronte ad un arbitrato internazionale. Di certo il cadavere di Giulio ha scoperchiato il vaso di Pandora, come spiega l’avvocato, esperto in diritti umani, Negad al-Boraie: "È tempo che l’Egitto realizzi che non può manipolare il caso, non può archiviarlo come se la vittima fosse un egiziano". Qui sta il cuore della vicenda: il silenzio complice che ha garantito piena impunità al regime. E l’Italia vi ha preso parte, non solo legittimandolo a livello governativo, ma anche vendendogli la strumentazione necessaria all’oppressione. Lo scriveva ieri sull’agenzia indipendente egiziana Mada Masr il giornalista Amro Ali: "La questione ha a che fare, in parte, con il numero di compagnie predatrici italiane in Nord Africa, specialmente in Egitto. L’Italia è implicata nella violenza dell’Egitto: dalla compagnia Iveco, che esporta i veicoli blindati della polizia che investono i manifestanti, alla compagnia di armi Fiocchi, che fornisce le pallottole che hanno posto fine alle vite di innumerevoli manifestanti pacifici. Questa è solo una parte della storia delle compagnie italiane che investono nell’economia della violenza egiziana, il vero sistema che ha permesso la morte di Regeni". "Ecco chi ha ucciso Giulio", l’accusa anonima ai vertici che svela tre dettagli segreti di Carlo Bonini La Repubblica, 6 aprile 2016 Una mail in arabo acquisita dalla procura di Roma alla vigilia del vertice tra investigatori in programma domani: "Può averla scritta solo qualcuno molto informato". C’è ora un Anonimo nel caso Regeni. E racconta una storia che ricostruisce cosa sarebbe accaduto a Giulio tra il 25 gennaio e il 3 febbraio. Una storia che porta dritta al cuore degli apparati di sicurezza egiziani, civili e militari, della polizia di Giza, del Ministero dell’Interno, della Presidenza. L’Anonimo scrive a Repubblica da qualche giorno da un account mail Yahoo, alternando, nei testi, l’inglese, qualche parola di italiano, e la sua lingua, l’arabo. Si dice della polizia segreta egiziana. Lascia intendere di essere collettore e veicolo di informazioni di chi non può esporsi in prima persona, se non a rischio della vita. Delle sue mail sono in possesso il pm Sergio Colaiocco e il legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. E, come ogni Anonimo, l’attendibilità del suo racconto va presa con assoluto beneficio di inventario. Se non fosse per una circostanza. L’Anonimo svela almeno tre dettagli delle torture inflitte a Giulio Regeni mai resi pubblici e conosciuti solo dagli inquirenti italiani, perché corroborati dall’autopsia effettuata sul cadavere di Giulio nell’Istituto di medicina legale di Roma. Chi scrive, insomma, chiunque esso sia, sapeva e sa qualcosa che potevano conoscere solo i torturatori di Giulio o chi dei suoi tormenti è stato testimone. Il sequestro - "L’ordine di sequestrare Giulio Regeni - scrive l’Anonimo - è stato impartito dal generale Khaled Shalabi, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza", il distretto in cui Giulio scompare il 25 gennaio. Lo stesso ufficiale con alle spalle una condanna per torture che, dopo il ritrovamento del cadavere, accrediterà prima la tesi dell’incidente stradale e quindi quella del delitto a sfondo omosessuale. "Fu Shalabi, prima del sequestro, a mettere sotto controllo la casa e i movimenti di Regeni e a chiedere di perquisire il suo appartamento insieme ad ufficiali della Sicurezza Nazionale". E "fu Shalabi, il 25 gennaio, subito dopo il sequestro, a trattenere Regeni nella sede del distretto di sicurezza di Giza per ventiquattro ore". "Scioglietegli la lingua" - Nella caserma di Giza, Giulio "viene privato del cellulare e dei documenti e, di fronte al rifiuto di rispondere ad alcuna domanda in assenza di un traduttore e di un rappresentante dell’Ambasciata italiana", viene pestato una prima volta. Chi lo interroga "vuole conoscere la rete dei suoi contatti con i leader dei lavoratori egiziani e quali iniziative stessero preparando". Quindi, tra il 26 e il 27 gennaio, "per ordine del Ministero dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar", viene trasferito "in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City". Di fronte ai suoi nuovi aguzzini, Giulio continua a ripetere di non avere alcuna intenzione di parlare se non di fronte a un rappresentante della nostra ambasciata. "Viene avvertito il capo della Sicurezza Nazionale, Mohamed Sharawy, che chiede e ottiene direttive dal ministro dell’Interno su come sciogliergli la lingua. E così cominciano 48 ore di torture progressive", durante le quali, per fortuna, Giulio comincia ad essere semi-incosciente. Viene "picchiato al volto", quindi "bastonato sotto la pianta dei piedi", "appeso a una porta" e "sottoposto a scariche elettriche in parti delicate", "privato di acqua, cibo, sonno", "lasciato nudo in piedi in una stanza dal pavimento coperto di acqua, che viene elettrificata ogni trenta minuti per alcuni secondi". "Bastonature sotto i piedi". Il dettaglio svelato dall’Anonimo era sin qui ignoto ed è confermato dalle evidenze dell’autopsia effettuata in Italia. Non è il solo. Nelle mani dei militari - Tre giorni di torture non vincono la resistenza di Giulio. Ed è allora - ricostruisce l’Anonimo - che il ministro dell’Interno decide di investire della questione "il consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che, informato Al Sisi, dispone l’ordine di trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari, anche questa a Nasr city, perché venga interrogato da loro". È una decisione che segna la sorte di Giulio. "Perché i Servizi militari vogliono dimostrare al Presidente che sono più forti e duri della Sicurezza Nazionale". Giulio "viene colpito con una sorta di baionetta" e "gli viene lasciato intendere che sarebbe stato sottoposto a waterboarding, che avrebbero usato cani addestrati" e non gli avrebbero risparmiato "violenze sessuali, senza pietà, coscienza, clemenza". "Una sorta di baionetta". È un secondo, importante dettaglio. Corroborato, anche questo, dal tipo di lesioni da taglio sin qui non divulgati dell’autopsia effettuata in Italia. L’orrore non ha fine. "Regeni entrò in uno stato di incoscienza. Quando si svegliava, minacciava gli ufficiali del Servizio militare dicendogli che l’Italia non lo avrebbe abbandonato. La cosa li fece infuriare e ripresero a picchiarlo ancora più violentemente". Gli stati di incoscienza di Regeni sono a questo punto sempre più lunghi. Come confermeranno i versamenti cerebrali riscontrati dall’autopsia. Ma la violenza non si interrompe. "Perché i medici militari visitano il ragazzo e sostengono che sta fingendo di star male. Che la tortura può continuare". Questa volta "con lo spegnimento di mozziconi di sigaretta sul collo e le orecchie". Finché Giulio non crolla "e a nulla valgono i tentativi dei medici militari di rianimarlo". "I segni di sigaretta su collo e orecchie". È il terzo dettaglio, riscontrato dall’autopsia italiana, che l’Anonimo dimostra di conoscere pur essendo pubblicamente ignoto. Ed è quello che spiega il perché nella prima autopsia al Cairo il corpo di Giulio venga mutilato con l’asportazione dei padiglioni auricolari. In una cella frigorifera - Dopo la sua morte, sempre secondo quello che sostiene l’anonimo, "Giulio viene messo in una cella frigorifera dell’ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decida che farne". La "decisione viene presa in una riunione tra Al Sisi, il ministro dell’Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja", nelle stesse ore in cui il ministro Guidi arriva al Cairo chiedendo conto della scomparsa di Regeni. "Nella riunione venne deciso di far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore. Il corpo fu quindi trasferito di notte dall’ospedale militare di Kobri a bordo di un’ambulanza scortata dai Servizi segreti e lasciato lungo la strada Cairo-Alessandria". L’Anonimo promette di scrivere ancora e si affida a un verso del Corano. "Dio non ti chiediamo di respingere il destino, ma ti chiediamo di essere clemente". Egitto: la testimonianza del Nadeem Center "tre regimi, stesse torture" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 aprile 2016 L’ong, attiva dal 1993, fornisce supporto fisico, psicologico e legale alle vittime di torture e monitora le denunce, da Mubarak a Morsi a al-Sisi. Per questo è nel mirino del governo. Gli uffici del Nadeem Center, al Cairo, sono aperti da 26 anni: hanno visto succedersi tre regimi e hanno registrato le stesse identiche politiche. Per mettere a tacere voci critiche e opposizioni e, più in generale, per controllare un’intera società, i governi in Egitto hanno usato lo stesso strumento: la violenza fisica, la tortura, la sparizione forzata. E oggi il Nadeem Center è testimone di un’escalation nel livello di repressione interna senza precedenti e i rapporti che stila da anni lo dimostrano: solo nel 2015, dice l’ong, si sono registrati 464 casi di sparizioni forzate, in carceri segrete e basi militari, e 1.676 casi di tortura. Di questi 500 hanno condotto alla morte del prigioniero. Di questo si occupa l’organizzazione non governativa egiziana: di torture. Fondato nel 1993, il Nadeem Center per la Riabilitazione delle Vittime di Violenza si occupa di fornire sostegno fisico, psicologico e legale alle migliaia di persone, donne e uomini, che hanno subito torture da parte della polizia e dei servizi segreti interni. I medici curano il corpo, gli psicologici i traumi della mente, gli avvocati sostengono le vittime che vogliono procedere contro i responsabili. Questa triplice attività ha permesso al centro di diventare una valida fonte di informazioni e monitoraggio, tanto da inviare i propri rapporti all’Unhcr, e di farsi promotore del Forum per la Promozione della Società Civile, formato da 104 organizzazioni egiziane che resistono ai tentativi di repressione del governo. Il motivo lo spiegano nel loro sito: "Nel primo anno di lavoro abbiamo realizzato che la nostra attività non può ritenersi completa senza rendere la questione pubblica: pubblicando rapporti, facendo campagne, mobilitando i diversi settori della società. Abbiamo fatto nostro questo approccio, che si tratti di tortura, di violenza contro le donne e di ogni altra questione legata alla democrazia e alla libertà della società civile". Lo hanno fatto sotto la dittatura di Hosni Mubarak e durante l’anno di governo della Fratellanza Musulmana: allora documentarono 359 casi di tortura, dal giugno 2012 al maggio 2013, di cui 217 terminati con la morte del prigioniero. Con il generale-presidente al-Sisi la situazione non è cambiata, ma se possibile peggiorata. E il Nadeem Center, come tante altre organizzazioni non governative, è finito nel mirino del governo militare: a febbraio il Ministero della Salute ha ordinato la chiusura dell’ong, una decisione che subito il centro ha imputato ai vertici governativi. L’accusa mossa dal Cairo era di aver sorpassato i limiti previsti dalla legge: è un centro medico, per cui non dovrebbe pubblicare rapporti o stilare statistiche. Lo staff ha resistito alla chiusura e alla fine è riuscito ad evitarla. Ieri è giunto un secondo tentativo che rientra nella più vasta repressione delle ong indipendenti egiziane: negli ultimi mesi, sfruttando una legge del 2002, Il Cairo ha posto sotto il proprio diretto controllo le attività delle ong e poi (con l’accusa di ricevere fondi dall’estero con l’obiettivo di danneggiare lo Stato) ha lanciato una campagna volta a facilitare il congelamento dei beni delle associazioni e l’arresto dei suoi membri. Le stesse accuse con cui al-Sisi ha dichiarato la Fratellanza Musulmana organizzazione terroristica. Francia: per i detenuti con problemi psicosociali isolamento e cure inadeguate di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 6 aprile 2016 La reclusione diventa un inferno, denuncia un rapporto di Human Rights Watch. Suicidi e atti di autolesionismo sono in costante aumento soprattutto tra i reclusi con disabilità psichiche. Nelle carceri francesi la mancanza di personale specializzato e il sovraffollamento inaspriscono il periodo detentivo dei più deboli. "Preferirei mille volte restare in cella che in una stanza d’isolamento in ospedale, con braccia e piedi legati come fossi un animale". Sarah è una dei migliaia di carcerati con disabilità psicosociali reclusi nelle carceri francese. La sua storia che, assieme ad altre 50 è stata raccolta dalla Ong americana Human Rights Watch (Hrw) testimonia l’inadeguatezza del sistema carcerario d’oltralpe, incapace per mezzi e preparazione del personale addetto a gestire la permanenza dei reclusi con disagi psichici. Un’inefficienza che vìola i trattati internazionali e che getta i prigionieri in un circolo vizioso fatto di ricoveri, isolamento e autolesionismo. Il doppio della pena. Per le persone con disabilità psico sociali la pena da scontare si raddoppia non in senso temporale, ma per l’inefficienza del sistema carcerario. I fattori che contribuiscono a questo sono diversi. Il primo riguarda la mancanza di personale specializzato in salute mentale. La mancanza di figure di riferimento, nominate spesso solo per prescrivere farmaci ai detenuti, si va a sommare al sovraffollamento cronico delle case circondariali. Il tutto a fronte di un numero sempre più ridotto di personale penitenziario. La situazione delle case circondariali francesi, documentata nel rapporto di Hrw intitolato"Doppia pena" proprio per sottolineare la sofferenza dei detenuti con disabilità psicosociali, vìola alcuni dei trattati internazionali ratificati dall’Eliseo. Tra questi anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che garantisce ai detenuti "condizioni compatibili con il rispetto della loro dignità umana" e che non soffrano oltre "l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione". Il sovraffollamento. Adeline Hazan è l’ispettrice responsabile di tutte le case circondariali francesi. Ascoltata dai ricercatoti di Hrw, Hazan ha ribadito la sua preoccupazione per la superficialità del sistema giuridico. "Spesso - ha detto Hazan - i giudici pensano che l’imputato con problemi psichici sarà trattato meglio in carcere che fuori. Questo ragionamento è estremamente pericoloso Sono colpita dal numero di reclusi che hanno disturbi mentali. Ci sono un sacco di persone in carcere che non dovrebbero essere lì". Il sovraffollamento spesso si traduce in un maggior carico di responsabilità per ogni ufficiale penitenziario. Di conseguenza, il personale avrà poco tempo da dedicare alle necessità dei singoli andando a discapito dei più svantaggiati. Ricoveri forzati e autolesionismo. Spesso, quando la salute psichica dei detenuti deteriora, una delle soluzioni possibili è il ricovero forzato in ospedali psichiatrici cui spesso si alterna la permanenza in celle di isolamento. Un trattamento che si ripercuote sulla stabilità psico emotiva dei reclusi. Dopo i ricoveri forzati o le celle d’isolamento, una volta tornato in carcere, il detenuto privo di un sostegno o di cure adeguate, peggiora tanto da dover ricorrere nuovamente alle cure ospedaliere. Così si innesca un circolo vizioso a scapito della salute del paziente. Il risultato è nei numeri. Secondo il rapporto della ong americana, i tassi di suicidio nelle carceri francesi sono sette volte superiori a quello dei liberi cittadini. E sempre stando alle statistiche i reclusi con disagi psicosociali hanno registrano percentuali ancora più elevate. Alto anche il numero di coloro che commettono atti di autolesionismo. Peggio per le donne. Se per i detenuti con disagi psicosociali la situazione è debilitante, peggio è la condizione delle donne recluse. Per evitare che entrino in contatto con i detenuti di sesso maschile, la libertà di movimeno delle donne è ancor più ridotta. E un grande gap di genere determina una discriminazione anche nell’accesso alle cure sanitarie. Su 26 centri specializzati nella cura di disturbi psichici presenti nelle carceri francesi, solo uno ha posti letto riservati alle donne. Le malattie dietro le sbarre. A mancare è anche uno studio che riporti dati e statistiche sulla salute mentale nelle carceri francesi. L’ultimo infatti risale al 2004. Secondo alcuni studi, si è riscontrato che tra i detenuti l’incidenza di psicosi, tra queste vanno annoverate anche depressione e disturbo bipolare, è pari al 25%, numeri che se paragonati alla media dei cittadini liberi (0,9%) delineano la gravità del fenomeno e l’inadeguatezza del sistema. "Dostoevskij ha scritto che si può giudicare il livello di civiltà di un p opolo dalle sue prigioni - ha detto Izza Leghtas, ricercatrice Hrw per l’Europa Occidentale - La Francia ha i mezzi per fornire condizioni dignitose ai reclusi e può e deve fare molto meglio quando si tratta del modo in cui tratta i detenuti con disabilità psico-sociali". Svizzera: il carcere di Champ-Dollon viola i diritti dell’uomo Corriere del Ticino, 6 aprile 2016 Il Tribunale federale (Tf) condanna nuovamente le condizioni di detenzione nel carcere ginevrino di Champ-Dollon: con una sentenza pubblicata oggi accetta il ricorso di un trafficante di eroina imprigionato per 136 giorni in condizioni giudicate contrarie alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Condannato a quattro anni di reclusione, l’uomo aveva trascorso la prima notte in una cella di quasi 10 m2 con altri due detenuti. Era poi stato trasferito in un’altra cella, dove le condizioni erano migliori, ma inferiori ai requisiti minimi in materia. Oltre a contestare la condanna inflittagli, il trafficante ha sollecitato una diminuzione della pena di cinque mesi e mezzo a causa delle condizioni di detenzione non conformi. Nella sua decisione, il TF conferma la pena di quattro anni di reclusione, ma ammette le condizioni illecite della detenzione subita dal ricorrente. Su un’eventuale riduzione della pena dovrà ora decidere la Corte di giustizia di Ginevra. In preda a problemi cronici di sovraffollamento, la prigione ginevrina è regolarmente oggetto di critiche. In novembre, il TF aveva accettato il ricorso di due detenuti costretti in celle in cui disponevano di uno spazio di soli 4 mq a testa. Pur mantenendosi costante, il sovraffollamento del carcere si è allentato con l’inaugurazione, in ottobre, dell’ampliamento dello stabilimento di La Brenaz. Entro il 2019 è prevista la costruzione del nuovo penitenziario "Les Dardelles", destinato esclusivamente all’esecuzione delle pene. Per mancanza di posto, attualmente Champ-Dollon, destinato prioritariamente alla detenzione preventiva, ospita un gran numero di detenuti in esecuzione della pena. In Libia geopolitica del caos di Angelo Del Boca Il Manifesto, 6 aprile 2016 Martin Kobler, l’inviato delle Nazioni Unite in Libia, è arrivato ieri a Tripoli, poi andrà a Misurata e anche a Tobruk. Solo una settimana fa il governo "ribelle" di Khalifa Ghwell non permetteva a Kobler di atterrare. Ora c’è il nuovo premier Fayez Serraj che si è insediato in città, sempre blindato nella base navale di Abu Sittah, non lo ha eletto nessuno ma sarà il solo governo considerato "legale", sostenuto dalla comunità internazionale e dall’Onu - quel che resta dell’Onu. Visto il fallimento penoso dell’inviato precedente Bernardino Leon, finito alle dipendenze degli Emirati arabi uniti, Paese coinvolto nella guerra. Kobler appena arrivato ha già dichiarato di essere "molto felice di lavorare con lui, poi si recherà nella capitale della Cirenaica dove c’è l’altro governo ora "ribelle" ma finora l’unico riconosciuto internazionalmente, il cui leader è il generale Khalifa Haftar, armato e sostenuto dall’Egitto. Siamo sull’altra sponda del Mediterraneo alla geopolitica del caos, risultato della guerra degli errori e degli orrori, quella che nel 2011 abbatté Muammar Gheddafi con i bombardamenti della Nato, scatenata da Francia e Gran Bretagna con Usa e Italia al seguito. Quella devastazione ha portato subito - in molti se ne sono accorti solo anni dopo - alla somalizzazione della Libia, con due governi e due parlamenti contrapposti, in una frammentazione di centinaia di milizie, la nascita dei santuari in uomini e armi del jihadismo che ha attivato fondi e mezzi nelle imprese delo Stato islamico in Siria e Iraq e poi è tornato ad insediarsi a Sirte, Derna e in molte altre città libiche. Ora l’arrivo di Serraj, impropriamente presentato come appartenente ad una famiglia di dignitari del re Idris quando in realtà è solo un commerciante senza nobiltà, sembra avviare con l’apertura di un dialogo con tutte le milizie e le parti libiche, un processo di centralizzazione del Paese e stavolta con il sostegno apparentemente unitario della comunità internazionale che, in realtà, ha perlomeno interessi geostrategici contrapposti nell’area. Del resto a questa prospettiva si è concretamente riferito in una recente e sorprendente intervista al Corriere della Sera Paolo Scaroni, grande conoscitore del Medio Oriente ed ex amministratore delegato dell’Eni. Che ha invitato a "mettere da parte il sogno di una Libia unita", per puntare invece tutto sulla Tripolitania unita, aggiungendo poi che anche il petrolio si può spartire con i concorrenti diretti di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati uniti. A questa spartizione, ahimè, corrisponde l’arrivo del "premier" da noi designato Feyez Serraj; questo è il governo del Paese "spartito" che ci serve e che deve, se necessario, invocare l’intervento armato occidentale, motivato contro l’Isis o in funzione "anti-scafisti". La fase sembra positiva, ma resta sul crinale della guerra. L’Italia dichiara che sta con Serraj ma non farà raid, pur avendo rivendicato direttamente da Obama la guida della coalizione in Libia e dimenticando che intanto, pur tra contraddizioni e scarsa convinzione, Washington, Parigi e Londra - scriveva lunedì il Washington Post - sono invece pronte ad intervenire con i raid. E senza accorgercene, siamo arrivati al terzo livello della missione navale EunavFor, che prevede "scarponi a terra" contro gli scafisti: così pericolosa e gravida di effetti collaterali che Mister Pesc Mogherini quando l’ha presentata nel novembre 2015 ha messo le mani avanti annunciando "purtroppo effetti collaterali"; niente raid, ma intanto, com’è chiaro a tutti, Serraj è potuto arrivare via mare a Tripoli scortato dalla Marina italiana, schierata nel Mediterraneo con sei navi da guerra e la portaerei Cavour; e mandiamo per ora duemila addestratori, mentre forze speciali francesi e britanniche già combattono. È l’Isis che adesso, dopo tanta barbarie, sembra stare a guardare il caos libico in movimento senza combattere, forte del suo insediamento in due regioni chiave come Sirte e Derna. E resta lo scorno delle potenze regionali. Non solo Kobler andrà a Tobruk, ha dichiarato che lo farà anche Serraj. Ma lì il generale Haftar, ex militare dalla fisionomia gheddafiana e già dello stato maggiore del raìs poi spia della Cia, non molla, spalleggiato dall’Egitto di Al Sisi che pure ha dichiarato il suo benvenuto a Serraj a Tripoli, sotto pressione com’è per la tragica uccisione di Giulio Regeni che ha rivelato la vera natura del regime del generale golpista tanto amato da Matteo Renzi. Non molla Haftar perché sa che se riconosce l’autorità del nuovo "premier" che si sta insediando a Tripoli, non sarà mai il leader militare della nuova Libia, come ha sempre aspirato a diventare. Sorprende che l’avvio del lavoro di governo di Serraj si avvalga di tutto quello che ancora fa parte del potere di Gheddafi da vivo e ancora insediato al potere: il tesoro della Banca centrale libica e l’Ente petrolifero di Stato. È come se in questo momento, consapevoli del disastro provocato, le potenze euro-atlantiche che hanno distrutto quel paese solo cinque anni fa, siano alla disperata ricerca di "un Gheddafi", naturalmente assai più manipolabile, sia ancora per i migranti da rinchiudere in campi di concentramento, sia duramente anti-islamista. A proposito di ritorni post-coloniali al passato, era stato recentemente il moderno New York Times a chiedersi se la soluzione della crisi libica non potesse essere trovata con un passo indietro nella storia: richiamando a ruolo la famiglia reale. Congo: Human Rights Watch; minori detenuti illegalmente nel carcere di Angenga Nova, 6 aprile 2016 L’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato un nuovo rapporto sulla prigione militare di Angenga, nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), sostenendo che nella struttura sono detenuti illegalmente alcuni minori. Secondo il documento, riporta l’emittente francese "Rfi", lo scorso anno circa 300 sospetti combattenti delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), attive nella parte orientale del paese, sono stati trasferiti nel carcere militare e attualmente sono detenuti senza le opportune garanzie legali. L’organizzazione sostiene che almeno 29 di questi prigionieri sono minori, detenuti insieme agli adulti in condizioni molto difficili e nella completa violazione delle norme del diritto internazionale. Per questo, l’Ong chiede l’immediato rilascio dei minori e si rammarica del fatto che la missione delle Nazioni Unite nella Rdc, Monusco, il cui mandato è stato rinnovato di un altro anno la scorsa settimana, non sia riuscita a intervenire ed evitare la detenzioni dei minori, sebbene fosse a conoscenza di questa situazione dallo scorso ottobre.