Diario di una volontaria di Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 5 aprile 2016 Tra "ordinarie" giornate di carcere e "straordinari" convegni ed eventi sul carcere. Le pagine di diario che seguono sono ambientate nella Casa di reclusione di Padova, ma raccontano vicende che accadono ogni giorno in ogni carcere del nostro Paese. Venerdì 18 marzo, ore 14: Siamo seduti intorno al tavolo della redazione, discutendo animatamente, quando l’agente urla "Fiandacaaaa", Gaetano si alza per vedere che cosa vogliono, quel giorno a quel tavolo non lo vedremo più. Gli hanno comunicato che, a 1300 chilometri da qui, in Sicilia, gli è morto il padre. I giorni successivi scorreranno in un inutile tentativo per andare al funerale, scortato naturalmente, perché Gaetano è un ergastolano ostativo, e poter abbracciare la famiglia, dare e avere un po’ di conforto. La magistrata comunque dispone la sua partecipazione al funerale, due giorni per rivedere per l’ultima volta prima della sepoltura il padre, ma a quel funerale Gaetano non andrà mai: manca il personale per predisporre la scorta. Qualcuno pensa che almeno l’Istituzione, provando a immaginare il dolore di quel figlio, con quella inutile carta in mano che lo autorizza ad andare al funerale, e di quella famiglia così lontana, gli conceda di attaccarsi al telefono e parlare con i suoi cari? Niente di tutto questo, Gaetano potrà solo dividere la consueta telefonata di dieci minuti con venti e più membri della famiglia, e con il dolore per cui non trova nemmeno le parole, perché non esiste dolore che si possa esprimere dedicandogli un minuto o poco più. Giovedì 24 marzo: Angelo Meneghetti, ergastolano, da vent’anni in galera, apprende dal quotidiano locale che suo fratello Daniele, poco più di quarant’anni, due figlie di cui una piccolissima, mentre lavorava a tagliar siepi per il Comune si è afflosciato al suolo, e non c’è stato nulla da fare, anche se chiunque avrebbe detto che quell’uomo era il ritratto della salute. Angelo è disperato, erano anni che il fratello lo vedeva solo nella sala colloqui del carcere, anche se da tempo è "nei termini" per un permesso premio. Viene avvisato anche Fabiano, il terzo fratello, pure lui condannato all’ergastolo, che viene portato da Fossombrone nel carcere di Padova per il funerale. Fabiano è stato di recente declassificato dal circuito AS3, e da tempo vorrebbe essere trasferito alla reclusione di Padova, perché l’anziana madre vive qui vicino e non è in condizioni per andare a trovare il figlio in carcere a Fossombrone. I due fratelli vengono portati, con la scorta, al funerale e poi in cimitero, tre ore in tutto perché il carcere l’umanità la regala col contagocce. Fabiano ha chiesto di rimanere a Padova, il giorno dopo il funerale incontro la madre e la sorella di Angelo e Fabiano, convinte di andare a colloquio con tutti e due. Sono convinta anch’io, che facciano rimanere Fabiano a Padova, e invece no, in carcere si può metterci mesi per essere trasferiti dalla sede di un processo al carcere di provenienza, ma quando non si vorrebbe partire, quando la logica dice che una persona non dovrebbe proprio tornare in un carcere lontano dalla famiglia e dagli affetti, allora si può star sicuri che la scorta si trova subito, e con una velocità strepitosa si riseparano i due fratelli, si rompe quel po’ di famiglia che si era per un attimo ricostituita, si impedisce a una madre che ha perso un figlio e ne ha due in galera di avere un po’ di conforto. Sabato 26 marzo: La notte della vigilia di Pasqua, Roverto Cobertera è stato trovato in possesso di un cellulare, ed era già successo, mi hanno detto che stava parlando con la sua bambina più piccola e ha fatto resistenza perché non voleva consegnare il telefono. Roverto ha sbagliato, non c’è dubbio, ma lui è un disperato davvero: perché ha sulle spalle una condanna all’ergastolo per un omicidio, che sostiene con forza di non aver commesso, e per il quale sta aspettando la revisione del processo, e perché nel frattempo sta perdendo la famiglia. Adesso Roverto è in isolamento, e tutti noi, volontari e compagni di redazione, che l’abbiamo tante volte salvato dalla sua rabbia, e dall’angoscia, e dalla disperazione, ci troviamo impotenti ad aspettare le decisioni dell’amministrazione. E sappiamo purtroppo fin troppo bene che l’incubo del trasferimento "punitivo" è lì, dietro l’angolo. E noi non possiamo fare niente, non contiamo niente, non abbiamo nessuna possibilità di essere ascoltati. Il senso di impotenza che ti prende in queste situazioni è totale: ho chiesto, da volontaria che da quasi vent’anni entra in carcere, di poter parlare con Roverto, ma non c’è stato nulla da fare, ha vinto la solita sfiducia del carcere nelle persone, anche in quelle che gli sono molto utili quando ci sono da organizzare per i detenuti dei servizi, che altrimenti nessuno fornirebbe. Mercoledì 30 marzo: Mi arriva dal carcere di Parma una lettera da Giovanni Donatiello, che quasi mi chiede scusa perché si trova "alle celle", come si dice nel gergo carcerario, cioè in isolamento. Giovanni è un detenuto dell’Alta Sicurezza che aveva fatto con Ristretti Orizzonti un importante percorso di confronto e di messa in discussione del proprio passato, poi il DAP decide di chiudere le sezioni AS di Padova (a proposito, qualcuno che "conta" può andare a vedere in questi anni tutte le operazioni di chiusura e apertura di sezioni AS, e dirci se c’è davvero una logica?), e noi iniziamo una battaglia per far declassificare le persone che sono da anni in AS e stanno seguendo un significativo progetto rieducativo. Giovanni, nonostante i 29 anni di galera scontati e il fatto che si è ripetutamente esposto in modo critico, non viene declassificato per il parere negativo della Direzione Antimafia e viene trasferito a Parma. A Parma, oltre ad aver trovato un quasi deserto, Giovanni è in cella con un altro detenuto, dopo aver passato una vita in cella singola, e da mesi mi dice che non ce la fa più, non è umano dopo tutti questi anni non avere neppure quei pochi metri di solitudine. La questione della condivisione degli spazi vitali, per chi ha l’ergastolo o una pena comunque lunga, è davvero drammatica, crudele anche. Un paio di giorni fa me l’ha posta con rabbia anche un giovane detenuto da poco in redazione, Raffaele, che a vent’anni si è ritrovato in carcere con trent’anni di pena, ne ha scontati dieci e non ce la fa più a condividere la cella, proprio non ci riesce, sta impazzendo e però non ha il diritto di esprimere il suo disagio, e ogni giorno rischia rapporti disciplinari e denunce per la rabbia che gli rode dentro. Ho sottolineato la questione degli spazi perché merita una particolare riflessione: in questi anni le Istituzioni si sono fatte denunciare dall’Europa per trattamenti inumani e degradanti, però intanto hanno continuato a dispensare rapporti disciplinari, denunce, tagli della Liberazione anticipata a quei detenuti, che non hanno retto alle conseguenze del sovraffollamento. Giovedì 31 marzo: Partecipo a Vicenza a un convegno, "La prevenzione del suicidio in carcere", organizzato dalla Regione Veneto in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto. Si parla di una ricerca condotta con e sugli operatori al fine di indagare la condizione di chi lavora all’interno delle carceri venete e la sua opinione personale sul suicidio. La seconda fase del progetto ha visto l’organizzazione di una specifica attività di formazione e prevenzione rivolta direttamente al personale penitenziario e sanitario. Durante il convegno si parla molto di malessere degli operatori, c’è una grande attenzione per la sofferenza di chi lavora in carcere, e poi si analizzano i fattori di rischio suicidi per le persone detenute: le malattie psichiatriche, la depressione prima di tutto, l’uso di sostanze, la solitudine, le violenze subite nell’infanzia. Mi colpiscono due cose in particolare: la prima è l’assenza di qualsiasi anche minimo coinvolgimento del Volontariato. Il Volontariato in carcere, lo ribadisco, non ha pressoché nessun riconoscimento se non strumentale, quando serve, quando fa comodo, quando c’è da riempire il tempo vuoto della vita detentiva. Eppure il malessere, la sofferenza accompagnano anche l’attività del volontario, che vive di solito a stretto contatto con le persone detenute, e spesso anche con le loro famiglie, si fa carico della loro fatica di vivere, e non ha nemmeno, come dire?, il sostegno dello stipendio. La seconda questione è l’ipocrisia che accompagna tanti discorsi sulla prevenzione dei suicidi: perché lo sappiamo tutti che, per esempio, basterebbe aumentare la quantità di amore permessa, quindi più telefonate e più colloqui, per ridurre il rischio di suicidi o atti autolesivi. O che basterebbe rispettare il principio della territorialità della pena, e tenere le persone vicine alle famiglie, e non usare il trasferimento come un’arma di controllo e di punizione, per ridurre ulteriormente il rischio non solo di suicidi, ma anche di atti legati alla rabbia e all’aggressività dei detenuti. Venerdì 1 aprile: Mi arriva, dalla Segreteria del Ministro Orlando, l’invito alle due giornate conclusive dei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale, con il Presidente della Repubblica, sette ministri, il presidente della Corte di Cassazione, il Procuratore nazionale antimafia e tanti altri. Ho fatto parte, credo come persona competente in materia (una delle cose meno chiare è stata il coinvolgimento dei volontari), di uno dei 18 tavoli, è stato un grande lavoro di confronto e di elaborazione, ma ora è di fondamentale importanza che queste conclusioni non si svolgano solo simbolicamente in un carcere, a Rebibbia, ma si misurino più realisticamente possibile con la realtà che si vive nelle carceri oggi. A starci dentro, nelle carceri, come detenuti o come volontari, alcune cose saltano agli occhi, e le pongo con forza al centro dell’attenzione di tutti: - I Tavoli hanno elaborato alcune proposte che richiedono interventi legislativi, e però anche riflessioni e ipotesi di lavoro che potrebbero essere messe in pratica subito, attraverso circolari e disposizioni date dall’Amministrazione Penitenziaria, che richiedono però un grande cambiamento culturale, che il Volontariato può contribuire con determinazione a mettere in atto. Un esempio è quello dell’ampliamento degli spazi e dei tempi dedicati agli affetti: è importante che si riveda l’Ordinamento penitenziario per tutto quello che riguarda gli affetti, a partire dalla liberalizzazione delle telefonate e dall’ampliamento dei permessi di necessità per arrivare ai colloqui riservati senza il controllo visivo. Ma bisogna battersi anche perché dappertutto vengano organizzati di frequente "colloqui lunghi" per pranzare coi famigliari, venga autorizzato largamente l’uso di Skype per chi ha la famiglia lontana, si possa accedere alla Posta elettronica per mantenere relazioni più rapide con i propri cari. - Il Volontariato dà la sua disponibilità a sostenere con forza un cambiamento che vada nel senso di rivedere l’articolo 4 bis eliminando le condizioni ostative alla concessione dei permessi e di quelle misure alternative, che non consideriamo "benefici", ma un passaggio fondamentale del percorso di reinserimento delle persone detenute. - Per quel che riguarda i circuiti, il Volontariato ritiene che sia fondamentale mettersi nell’ottica di un loro graduale superamento, con una applicazione più rapida delle declassificazioni, e una riduzione drastica dei tempi di attesa per avere una risposta in materia. - Una cosa però non possiamo dimenticarcela: trovarsi in un carcere piuttosto che in un altro oggi è come vincere alla Lotteria. Se ti capita un direttore "illuminato" (io direi semplicemente rispettoso della Costituzione) puoi essere autorizzato senza difficoltà a fare telefonate in più, puoi fare colloquio con tutte le "terze persone" che vuoi, puoi conoscere il "tuo" direttore, parlargli e sentirti considerato una persona. Ma perché lo stesso Ordinamento permette di gestire un carcere aperto come Bollate o Padova (a Padova però, non dimentichiamolo, il Direttore che più aveva contribuito a cambiare il carcere è stato "rimosso") o invece chiuso come sono tantissimi Istituti, e ben lo sanno i volontari che spesso devono fare i salti mortali per strappare piccolissimi spazi di libertà? - Il Ministro ha indetto gli Stati Generali anche e soprattutto per cambiare la cultura delle pene e del carcere dentro la società, ma chi lo farà davvero, questo paziente lavoro di informazione e sensibilizzazione? Gli esperti hanno lavorato, hanno prodotto proposte avanzate, ma certo non "a portata" della società, i report finali dei Tavoli sono, ovviamente, illeggibili per i non addetti ai lavori. Allora non è arrivato finalmente il momento di valorizzare il ruolo che può avere il Volontariato per portare dentro la società un’idea diversa delle pene, a partire da progetti come "A scuola di libertà"? - Fin da prima dell’inizio dei lavori degli Stati Generali abbiamo chiesto che ci fosse un coinvolgimento VERO delle persone detenute. Il coinvolgimento c’è stato, in ordine sparso e in modo parzialissimo (parecchi Tavoli si sono "arrangiati" con visite a carceri e ascolto di gruppi di detenuti), ma il tema della Rappresentanza delle persone detenute è davvero cruciale: qualcuno ha voglia di occuparsene seriamente? Braccialetti elettronici, gara d’appalto in vista per altri 10mila apparecchi di Andrea Frollà corrierecomunicazioni.it, 5 aprile 2016 I 2mila prodotti da Telecom Italia sono tutti assegnati e ora 400 persone sono in lista d’attesa. Il ministero dell’Interno aspetta il via libera del Mise per lanciare il nuovo bando. Da ormai più di un anno i tribunali sono costretti a respingere le richieste di applicazione del braccialetto elettronico per le persone a cui disporre gli arresti domiciliari in sostituzione della custodia cautelare. La "lista d’attesa" al momento sarebbe di circa 400 persone, mentre sono "esauriti" i 2mila dispositivi disponibili. Proprio per questo, anticipa il Sole24ore, sta per partire una nuova gara per 10mila device: il Viminale sarebbe in attesa soltanto del via libera del ministero dell’Economia e delle Finanze per far partire l’iter. Per il futuro delle 400 persone in attesa, intanto, sarà la corte di Cassazione a stabilire se, in mancanza di braccialetti, dovranno affrontare la custodia cautelare in carcere o potranno usufruire comunque dei domiciliari. A questi casi sono inoltre da aggiungere tutti quelli in cui il controllo a distanza può essere utilizzato in alternativa alla detenzione, su decisione del giudice che è in questo caso tenuto a motivare la sua scelta (nel caso della custodia cautelare, invece, il magistrato deve motivare il mancato utilizzo del dispositivo). L’intesa tra Telecom e il ministero della Giustizia per il 2012-2018 prevede la fornitura contemporanea di un massimo di 2mila braccialetti, per un costo giornaliero di 12 euro per dispositivo e una spesa complessiva di 521,5 milioni di euro. Nel corso degli anni la situazione si è capovolta: se all’inizio il problema era quello della "diffidenza", e se si temeva che non si facesse uso dei dispositivi a disposizione della giustizia, i numeri sono cresciuti rapidamente: dai 26 braccialetti attivati nei primi sei mesi del 2013, la nuova misura di custodia cautelare ha iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei 2mila braccialetti che Telecom Italia si è impegnata a fornire al ministero della Giustizia risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano, dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura. Il dispositivo viene gestito dalla centrale operativa grazie a un’infrastruttura di telecomunicazioni a larga banda messa a disposizione da Telecom. Il sistema fornito dall’operatore provvede anche all’assistenza 24 ore su 24, 365 giorni all’anno (dal momento che potrebbero rendersi necessarie installazioni o controlli anche nei giorni festivi o di notte, a seconda delle necessità dell’autorità giudiziaria), e l’aggiornamento dei software agli standard più avanzati. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è composto anche da una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Minori stranieri detenuti, casa e lavoro per il recupero. Nodo identificazione di Teresa Valiani Redattore Sociale, 5 aprile 2016 Stati generali sull’esecuzione penale. Al 29 febbraio 2016 i dati parlano di 195 ingressi (90 italiani e 105 stranieri) e 457 presenze (256 italiani e 201 stranieri). Il nodo dell’accertamento dell’età. Gli esperti: potenziare la mediazione interculturale, favorire i lavori remunerati. Se il carcere è più complesso e in molti casi dura più a lungo per i detenuti stranieri (che spesso non riescono ad accedere alle misure alternative), quando si tratta di minorenni stranieri i problemi si amplificano. All’argomento minori, il Tavolo 7 degli Stati generali sull’esecuzione penale, che si è occupato di "Stranieri ed esecuzione penale" ha dedicato un capitolo specifico partendo da uno dei problemi principali: l’accertamento dell’età. I dati. Gli istituti penali per i minorenni hanno registrato, nel 2014, un calo degli ingressi (in totale 992, di cui 523 italiani e 469 stranieri) mentre nel 2015 si è registrato un incremento dell’utenza con 1.068 ingressi (506 italiani e 562 stranieri) e una presenza giornaliera di 436 minori (240 italiani e 196 stranieri). I dati del 2016, al 29 febbraio, parlano di 195 ingressi (90 italiani e 105 stranieri) e 457 presenze (256 italiani e 201 stranieri). Senza documenti è difficile accertare l’età. Il problema è in primo piano per due motivi: dall’età dipende l’imputabilità del soggetto (che deve avere più di 14 anni). In base all’età (sotto o sopra i 18 anni) si determina la competenza giudiziaria (tribunale per i minorenni o tribunale ordinario) ed amministrativa: nel caso, si decide per il collocamento in una struttura detentiva per adulti o in una struttura della giustizia minorile. In proposito, nel 2008 "è stato istituito un gruppo tecnico presso il ministero della Salute per la predisposizione di procedure medico sanitarie per la determinazione dell’età dei minori non accompagnati. Il Protocollo d’intervento per l’accertamento dell’età, che ne è seguito, è denominato "Ascone", e individua il modello dell’approccio multidimensionale. Perché è importante l’identificazione. Rispetto all’identificazione, la giustizia minorile ha adottato da diversi anni una specifica linea di condotta secondo la quale "tutti i minori accolti, arrestati o fermati nei Centri di prima accoglienza (nella maggior parte dei casi privi di documenti e che abitualmente forniscono generalità diverse ad ogni ingresso nei Servizi minorili) devono essere sottoposti a rilievi fotodattiloscopici (fotografie e impronte digitali). L’identificazione è indispensabile per acquisire elementi sulle condizioni e risorse personali, familiari, sociali ed ambientali e per adottare i necessari provvedimenti di protezione". Conoscere l’identità di un minore è necessario anche per attivare percorsi socio-educativi adeguati e per contrastare lo sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali che gestiscono la tratta di esseri umani. Minori e fenomeno migratorio. "Il fenomeno migratorio ha segnato anche l’entrata nel circuito penale di minori e giovani adulti registrando continue modifiche della sua composizione, differenziandosi rispetto ai Paesi di provenienza, per lo status giuridico, per i percorsi sofferti, per l’esistenza o meno di riferimenti familiari adeguati. Le condizioni di regolari ed irregolari, di minori non accompagnati, di identità non certificata, di apolidia, di mancato riconoscimento dello status di apolide, sono tutte realtà presenti nell’utenza in carico ai Servizi minorili della giustizia. Ulteriori fenomeni di marginalità e di mancata integrazione sono rappresentati da minori di seconda e terza generazione, dall’importazione di modelli di devianza strutturata quali le "gang latino-americane", dalle emarginazioni degli insediamenti della popolazione rom e sinti. Inoltre, per la situazione che si è determinata negli ultimi anni nei paesi del nord Africa, si è registrato, a partire dal 2011, un incremento di minori provenienti da quei territori, tra cui molti minorenni non accompagnati. Le iniziative realizzate dal Dipartimento per la giustizia minorile sono finalizzate ad assicurare parità di trattamento ed opportunità di reinserimento sociale e lavorativo ai minori senza distinzione di nazionalità, genere, cultura e religione. Per avviare gli interventi sui minori non accompagnati, i servizi minorili della giustizia segnalano la presenza del minore ai consolati e alle ambasciate (quando questo non sia vietato per protezione internazionale o umanitaria), alla Direzione generale dell’immigrazione e delle Politiche di Integrazione presso il Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali e agli Uffici Minori delle Questure". Per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati, oltre all’accertamento dell’età, gli esperti hanno sostenuto la tempestiva nomina di un tutore. Le proposte. Il tavolo 7 ha elaborato alcune proposte: favorire l’utilizzo di sussidi e premi ed agevolare l’inserimento nei lavori remunerati interni al carcere; potenziare il servizio di mediazione interculturale; favorire la partecipazione della comunità esterna; offrire un servizio di consulenza giuridica e di aggiornamento al personale, per verificare la possibilità di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, umanitaria, sussidiaria, internazionale. Per favorire l’accesso dei minori e giovani adulti alle misure alternative e il loro reinserimento sociale, il Tavolo suggerisce di prevedere strutture abitative, oltre alle comunità del territorio, che possano temporaneamente ospitare i giovani adulti in misura alternativa. Inserire nell’articolo che permette il rilascio del permesso di soggiorno per protezione sociale agli stranieri al termine dell’espiazione della pena per reati commessi da minorenni e abbiano dato prova di partecipazione ad un programma di assistenza ed integrazione sociale, anche la possibilità di rilascio per i minori che abbiano superato la messa alla prova e per i quali il giudice dichiari l’estinzione del reato. Prevedere l’aggiornamento e l’applicazione dei documenti elaborati nell’ambito della "Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni e gli enti locali" del ministero della Giustizia e approvati dalla Conferenza Stato Regioni, volti ad attivare percorsi inter-istituzionali programmati e a implementare una rete integrata, qualificata e diffusa sul territorio nazionale per la realizzazione di progetti di reinserimento sociale e di formazione/lavoro destinati ai minori dell’area penale. Così la legittima difesa entrerà in Costituzione di Stefano Zurlo Il Giornale, 5 aprile 2016 L’avvocato Valter Biscotti ha le idee chiare e vuole correre ai ripari: "La nostra Carta tutela tutti: l’imputato, il giudice, il pm. Ma ladri e rapinatori spesso e volentieri la fanno franca, le pene sono virtuali e incerte che più non si può, la sicurezza dei cittadini diventa un optional, un benefit di lusso che ciascuno si deve pagare di tasca propria". Dunque il penalista, noto al pubblico televisivo per essere stato protagonista di processi da prima pagina, dal caso Scazzi alla vicenda Parolisi, confeziona un disegno di legge costituzionale che garantirebbe la certezza della pena e la blindatura della tanto bistrattata sicurezza. Poche parole per una rivoluzione grande che passa per piccoli ritocchi a tre articoli della Costituzione. Anzitutto l’articolo 3 dove Biscotti aggiunge il vocabolo "sicurezza" al testo: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà, l’eguaglianza e la sicurezza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Una sola parola può fare la differenza. Ma devono essere modificati anche gli articoli 24 e 42. Nel 24 il penalista prevede un comma nuovo: "La legge assicura ogni tutela alle vittime dei reati". Sarebbe il superamento di un ritardo che l’avvocato considera inaccettabile ma anche il cuore della sua idea. Da completare con un intervento, pure quello non invasivo, in coda all’articolo 42: "La legge - recita l’aggiunta - tutela la sicurezza all’esercizio dei diritti sulla proprietà privata e sui godimenti della stessa". Tre capitoli delicati e controversi, ma Biscotti è convinto che si possa e si debba mettere mano, sia pure in modo leggero, all’impianto della Carta per uscire dal clima di frustrazione, rabbia e scetticismo di questi anni. Per questo l’avvocato ha radunato intorno a sé un manipolo di giovani colleghi e ha creato l’associazione "Un’altra giustizia per un’altra Italia". E ha preparato il disegno di legge costituzionale che verrà presentato nelle piazze del Paese nelle prossime settimane e, in seguito, si spera portato per mano in Parlamento da Forza Italia, il partito a cui Biscotti si sente da sempre idealmente e culturalmente vicino.Tre articoli, dunque, per difendere chi oggi non viene difeso. E subito dopo, a cascata, altre incursioni mirate nei nostri codici, per adeguare le leggi ai cambiamenti introdotti nella Costituzione. Ancora una volta niente di pesante ma incisioni chirurgiche per metterci al passo con l’Europa. Biscotti e i suoi amici vogliono rendere più dura la vita a rapinatori e ladri con un’azione a tenaglia: rivedono i meccanismi della pena almeno per furto, rapina e violazione di domicilio, così da impedire che la condanna scenda sotto la barriera dei due anni e si apra il paracadute della sospensione condizionale della pena. "In questo modo - assicura Biscotti - la pena sarebbe certa o più certa e verrebbe scontata per davvero. Proprio per questo sarebbe necessaria un’ulteriore mossa: sbarrare la strada, per questi reati, ai riti alternativi come il patteggiamento o l’abbreviato che fanno evaporare le condanne. Infine il penalista prevede la riscrittura di tutto il capitolo della legittima difesa che spinge le contraddizioni del nostro sistema fino al paradosso dei paradossi: il ladro diventa vittima e la vittima, che magari ha imbracciato il fucile per salvare la casa, si trasforma in colpevole. Si spera che la politica batta un colpo. Pesano meno le condanne all’Italia per infrazioni sui diritti dell’uomo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016 Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa - Rapporto sull’esecuzione delle sentenze Cedu. Diminuisce, per l’Italia, il peso dei pagamenti dovuti all’esecuzione delle sentenze di condanna di Strasburgo. Nel 2015, l’Italia ha versato poco più di 4 milioni di euro a fronte dei 29.540.589 dell’anno precedente e al record assoluto del 2013 pari a 71.284.302. L’Italia migliora anche la sua posizione in classifica segno del minor peso negativo sul fronte patrimoniale delle sen2tenze della Corte. Precedono Roma, che l’anno scorso era al terzo posto, Albania, Cipro, Romania, Russia e Turchia. Lo scrive il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo competente a vigilare sull’esecuzione delle sentenze da parte degli Stati, nel nono rapporto annuale presentato il 30 marzo. Che vede, però, l’Italia svettare al primo posto per il numero di casi pendenti dinanzi al Comitato: 2.421, con un miglioramento rispetto ai 2.622 dell’anno precedente. Seguono l’Italia la Turchia con 1.591 casi e la Russia a quota 1.474. In via generale risalta un trend positivo con 1.537 casi chiusi ( piena esecuzione delle sentenze) a fronte dei 1.502 dell’anno precedente. Un segno più accompagnato, però, dall’incremento dei casi pendenti da più di 5 anni: 685 a fronte dei 593 del 2014 e dei 435 del 2013. Con effetti negativi su vasta scala perché la non esecuzione comporta la permanenza di situazioni, leggi o vuoti normativi in grado di provocare nuove violazioni e nuove condanne. Nel 2015 i nuovi casi sono stati 1.285 contro i 1.389 del 2014. Aumentano, però, i leading cases pendenti (1.555 nel 2015, 1.513 nel 2014) segno delle difficoltà degli Stati nell’esecuzione di casi che comportano modifiche strutturali. Nel totale, anche a causa dell’arretrato, sul Comitato dei Ministri gravano ancora 10.652 procedimenti. Per quanto riguarda l’Italia, boom di casi chiusi: 228 contro i 23 dell’anno precedente. Nel 2015 i nuovi casi iscritti nell’agenda del Comitato sono stati 26 (18 quelli ripetitivi e 8 i leading cases) a fronte dei 52 del 2014 (36 i seriali, 16 i secondi). I casi pendenti da oltre 5 anni, classificati tra quelli standard, sono però aumentati, seppure di poco, passando dai 21 del 2014 ai 25 del 2015. I procedimenti sottoposti a sorveglianza rafforzata sono scesi da 16 a 14. Per quanto riguarda i tempi la situazione italiana peggiora: la media nell’esecuzione dei leading cases passa da 5,2 anni a 5,9, con tempi ancora più lunghi per i casi di sorveglianza rafforzata che da 4,6 anni arriva a 8,6. Vediamo gli indennizzi. In via generale, i pagamenti corrisposti nei tempi dovuti sono stati 956 e 275 quelli fuori tempo. Per l’Italia, nel 2015 solo in un caso è stato rispettato il termine di versamento dovuto alle vittime, in 9 casi, invece, le vittime sono state liquidate fuori termine e in 75 procedimenti il Comitato è ancora in attesa della comunicazione del versamento. Sul fronte delle misure generali richieste, l’Italia latita ancora nell’adozione di una legge sul divieto di tortura con l’espressa previsione del reato sul piano interno (misura richiesta nella sentenza di condanna sul G8 di Genova), nella nuova normativa sulla procreazione medicalmente assistita (sentenza Costa e Pavan), per la situazione dei rifiuti in Campania e per le espulsioni collettive (Sharifi e altri). Il giorno più duro della ministra Boschi, da sola di fronte ai tre magistrati di Jacopo Iacoboni La Stampa, 5 aprile 2016 Il pc delle toghe si rompe, ad accrescere lo stress. Poi una raffica di domande. È stata la giornata più lunga e difficile da quando Maria Elena Boschi è ministro. Una giornata cominciata con un funerale e finita, solo paradossalmente, con una festa. Una giornata in cui Boschi non ha mai tirato il fiato, ha mangiato da sola nel suo ufficio, affrontato da sola un’audizione davanti a tre magistrati, senza nessuna rete né memorie scritte, per poi andare alla direzione Pd (luogo di notori amiconi, a dispetto di tanti attestati e pacche sulle spalle) e, a sera, all’ambasciata brasiliana - una cena che era organizzata da tempo, e alla quale lei non ha voluto mancare; quasi come a dire sì, sono stati giorni difficili e un lunedì pieno di pressione psicologica, ma io sono Maria Elena Boschi e sono ancora in piedi. È un tratto caratteriale che fa dire a qualche suo avversario "Maria Elena è una macchina". Immagine che dà un’idea parziale. Ma non si può dire che non ci fosse tensione, nella sua combattività. Il ministro Boschi, capendo ovviamente dove stava andando a parare - soprattutto dal punto di vista degli effetti politici e di comunicazione - la vicenda dell’indagine sul compagno di Federica Guidi, nel weekend ha telefonato al procuratore aggiunto di Potenza, informandolo di essere disponibilissima a essere sentita quando lo ritenessero. E si è resa libera, anche il prima possibile, se i pm avessero ritenuto. Nella serata di domenica è stata informata su dove e quando sarebbe avvenuta l’audizione - non l’interrogatorio, viene sentita solo come persona informata dei fatti. Non è certo stata una passeggiata; un po’ tutto, compreso il fatto che - rientrata ieri mattina a Roma dalla Toscana - la ministra abbia passato la tarda mattinata in San Saturnino Martire, ai funerali del giornalista Fabrizio Forquet, scomparso l’altro giorno, a 49 anni, ai quali s’è recata accompagnata dalla collega Marianna Madia. Occhiali scuri, tailleur pantaloni nero, giacca nera e scarpe con tacco medio, Boschi è poi rientrata al ministero, nel suo ufficio al terzo piano di largo Chigi; una breve riunione sugli aspetti giuridici della sua audizione, un boccone take away, sempre mangiato in ufficio, anche qui da sola, e poi l’audizione. L’incontro coi magistrati è durato in tutto un’ora e mezza (la parte reale molto meno, considerando arrivo e convenevoli). La ministra ha risposto a tutte le domande. C’è stato però un incidente che non è il massimo, quando si è sotto una pressione psicologica: il computer dei magistrati s’è rotto, era impossibile accedere ai file e c’è voluta più di mezz’ora di sospensione prima di iniziare. Pensate se vi fosse successa una cosa del genere prima di un esame in geometria analitica all’università. A quasi tutti verrebbe l’ansia. Nell’audizione si è certo parlato dell’emendamento, e delle citazioni del nome della Boschi nelle intercettazioni della ministra dimissionaria Federica Guidi. I magistrati sono interessati a capire se Boschi abbia mai saputo dell’esistenza e degli interessi di Gianluca Gemelli, il compagno della Guidi, e se abbia mai ricevuto segni di un particolare interessamento della Guidi, o altre pressioni esterne (per esempio da Total e Shell) per quell’emendamento. Cosa che lei nega. Insomma, un aiuto a ricostruire il quadro di tutta la storia, e l’eventuale retrostoria, dell’emendamento (il "fatto" giuridico su cui il ministro è "informato"). La sua tesi della totale buonafede si poggia sul fatto che lei è convinta che, una volta rispettata la legge e le procedure parlamentari nell’emanare il provvedimento, non sta a un ministro effettuare un controllo preventivo sugli atti del governo per stabilire se esista qualcuno che possa, direttamente o indirettamente giovarsene. Nessuno può sostituirsi in questo agli stessi giudici. La Boschi non ha consegnato - come qualcuno andava dicendo - una memoria scritta, perché non doveva difendersi; ma era sola, coi giudici che hanno stilato un resoconto, e dunque tutto riposava sulla capacità di memoria del ministro: altro peso, essere totalmente nelle mani di se stessi, senza rete. Alla fine è uscita ostentando un sorriso largo, forse anche troppo, alle telecamere. È andata alla direzione del Pd, tante pacche sulle spalle e dichiarazioni di sostegno, ma il discorso di replica di Renzi l’ha sentito da sola, seduta in ultima fila, silente. Alla fine era attesa all’ambasciata brasiliana per una cena di festa organizzata per lei, da tempo. Più che una samba, forse, un Caetano Veloso, per la sua giornata più lunga. Mafia e imprese, il giogo da spezzare di Antonio Maria Mira Avvenire, 5 aprile 2016 "Questo è solo l’inizio. I segni di riscatto ci sono. Da questo territorio nasce un messaggio di speranza, ma va coltivato dalle istituzioni". Così il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, conclude, tra gli applausi, il suo intervento nell’affollatissimo Teatro Giordano di Foggia. Ad invitarlo è stato l’arcivescovo Vincenzo Pelvi che insieme alla Fondazione antiusura Buon Samaritano e alla Camera di commercio ha promosso l’iniziativa "Foggia reagisce", quasi una chiamata alle armi contro la violenza mafiosa che colpisce questo territorio con attentati a ripetizione, ma anche per risvegliare la città dall’indifferenza e dalla rassegnazione. "Contro i condizionamenti perversi della criminalità - è l’appello dell’arcivescovo, la diffusione di comportamenti asociali, la nuova aggravata incidenza delle illegalità diffuse, l’impoverimento del potenziale umano giovanile costretto a emigrare e investire altrove le proprie attese e capacità, il nostro grido si fa più eloquente: Foggia reagisci!". Non ci sono scuse perché qui forze dell’ordine e magistratura sono più che presenti. Proprio nel giorno dell’evento un’operazione di Polizia e Guardia di Finanza, coordinate dalla Dda di Bari, ha portato all’arresto di 11 persone legate all’organizzazione mafiosa "Società foggiana". Avevano estorto un importante imprenditore del comparto agroalimentare, pretendendo somme e assunzioni. Per coprire queste attività illegali come consulenze, avevano costituito addirittura un consorzio. "Un salto di qualità della mafia foggiana", l’ha definito il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe, ma che è stato individuato senza alcuna collaborazione da parte dell’imprenditore che "ha assunto un contegno reticente, fuorviante e omertoso, che ha determinato nei suoi confronti la contestazione del reato di favoreggiamento". Un comportamento non isolato. Che Roberti denuncia con forza. "Se l’imprenditore paga è perché la mafia offre un servizio e lui è ben felice. Ma questo ha a che fare con l’estorsione? Spesso è invece un vero accordo tra imprenditore, mafioso e rappresentanti delle istituzioni. Come c’è il patto di scambio politico-mafioso, previsto dal Codice penale, ci dovrebbe essere quello imprenditoriale-mafioso. Se ne era parlato qualche anno fa, poi non più. Sarebbe il caso di tornare a parlare". Raccoglie l’appello il presidente della Camera di commercio, Fabio Porreca. "Noi imprenditori dobbiamo stare lontani dalla zona grigia, dobbiamo denunciare. Non ci possono essere comportamenti ambigui e contraddittori". Ma c’è qualcosa che possono fare anche i cittadini, come sottolinea il presidente onorario della Fai, Tano Grasso. "Contro una situazione paludosa nel mondo delle imprese non basta la solidarietà verso chi denuncia, ma serve che i cittadini facciano avvertire la loro riprovazione forte e rigorosa contro chi paga il pizzo, è acquiescente verso le mafie o addirittura colluso". È il "noi" che fa la differenza. "Per ricostruire una cultura della legalità - dice ancora monsignor Pelvi - occorre cominciare dal basso promuovendo un’opera di rigenerazione collettiva di nuovi rapporti sociali, a cui tutte le componenti della società sono chiamate a dare il loro apporto". Ma, aggiunge, "qui ci vuole il coraggio della profezia; il coraggio di alcuni aggettivi della fede, come la trasparenza, il radicalismo, il servizio". Come Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del registro di Foggia ucciso il 31 marzo 1995. La figlia Daniela, vicepresidente nazionale di Libera ricorda. "Ventuno anni fa bisognava lottare coi denti, se parlavo di mafia mi dicevano che sporcavo la città. Oggi abbiamo detto chiaramente cosa è la mafia a Foggia. La città sta cambiando, sta reagendo. Non si deve tornare indietro. Forse nella nostra città fare il proprio dovere è rivoluzionario. E allora facciamola questa rivoluzione". Dino Budroni, aria nuova in appello. "Omicidio colposo o volontario?" di Valentina Calderone e Alessandra Pisa Il Manifesto, 5 aprile 2016 Abusi in divisa. Al via il processo di secondo grado. Il poliziotto ha sparato accettando il rischio di uccidere? La Corte apre lo spiraglio atteso dai familiari della vittima. Sono usciti con un accenno di sorriso sulle labbra i familiari di Dino Budroni dall’aula della Corte d’appello di Roma, dove ieri si è tenuta la prima udienza del processo di secondo grado sulla morte del loro congiunto. La Corte ha rinviato la trattazione al 14 novembre, ma con il rinvio ha rivolto un invito alla parti tutt’altro che insignificante, chiedendo che si discuta in via preliminare un tema che era stato sottoposto dai familiari di Budroni già nel corso del primo grado: quello di Budroni è stato un omicidio colposo o un omicidio volontario, quindi commesso con dolo? Il poliziotto ha sparato accettando il rischio, possibile o probabile, di colpirle l’uomo? È necessario fare un passo indietro, perché in realtà la sentenza di primo grado aveva descritto uno scenario completamente diverso. L’agente, per il giudice estensore, aveva sì sparato colpendo mortalmente Budroni a seguito di un inseguimento sul grande raccordo anulare di Roma, ma era stato assolto per uso legittimo delle armi. Oltre alla decisione presa in primo grado, sono le motivazioni a risultare non pienamente comprensibili da un punto di vista logico. Il giudice, infatti, sposa la tesi dell’avvocato della difesa per cui lo sparo sarebbe avvenuto quando le autovetture erano ancora in movimento - l’agente imputato ha sempre dichiarato di aver mirato agli pneumatici - ma poi riporta le testimonianze di uno dei carabinieri intervenuti che ha dichiarato di aver sentito gli spari quando tutti i mezzi erano quasi praticamente fermi. Oltre a questo, il giudice ha ritenuto di esaminare il caso "nel suo complessivo svolgimento e non già soltanto nell’ultima fase". Come a dire: non ho provato che il pericolo fosse attuale e concreto, ma dato il comportamento di Budroni nelle fasi precedenti, l’agente ha fatto bene a sparare. Lo stesso giudice dovrebbe sapere, però, che nel nostro Paese non è più in vigore la pena di morte, e che se anche Budroni quella notte avesse commesso dei reati, avrebbe dovuto avere la possibilità di presentarsi davanti a un tribunale ed essere giudicato. Per questo l’udienza di oggi è stata accolta con soddisfazioni dalla famiglia, che ha visto nelle parole della Corte un segno di estrema attenzione fino a questo momento sempre negata. La qualificazione del reato non è cosa di poco conto. Il dolo, anche cosiddetto eventuale, comporta la competenza per materia della Corte d’assise per la sua maggiore gravità, e la relativa trasmissione degli atti per rifare il processo di primo grado. La Corte d’appello si è posta un problema che rimette quindi in discussione non solo l’esistenza della responsabilità del poliziotto ma anche la gravità della stessa. La micidialità dell’arma da fuoco come strumento da utilizzare solo in caso di assoluta necessità e come estrema ratio è evidentemente un tema con il quale oggi la Corte ha deciso di confrontarsi. La sentenza di primo grado aveva parlato di una potenziale inoffensività dell’azione di sparo verso l’auto di Budroni e di accidentalità della sua morte, e sia il pubblico ministero sia le parti civili si erano appellate ritenendo del tutto erronea quella decisione. Ieri è stata addirittura riconosciuta come preliminare e dirimente la questione sottoposta dalle parti civili circa la corretta qualificazione del reato di omicidio, ritenendo meritevole di discussione il tema dell’omicidio volontario. In attesa della decisione della Corte, e dell’inizio del processo vero e proprio, pensiamo che ieri sia stato dato alla famiglia di Budroni un motivo, per quanto esile e precario, di recarsi nuovamente in un’aula di tribunale con un sentimento di rinnovata fiducia nella giustizia. Sulla "quasi flagranza" applicata la linea più garantista di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016 Corte di cassazione - Sesta sezione penale - Sentenza 4 aprile 2016 n. 13438. Va annullata la convalida dell’arresto dello scippatore, fermato solo dopo che è stata compiuta l’azione criminale e su informazione di terzi. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza della Sesta sezione penale n. 13438depositata ieri. Pronuncia che costituisce la prima applicazione della linea interpretativa sposa dalle Sezioni unite 3 mesi con informazione provvisoria del 24 novembre con la quale è stata fornita la lettura più garantista della nozione di "quasi flagranza". La Cassazione ha così accolto il ricorso presentato da un uomo sottoposto agli arresti domiciliari per i reati di tentato furto con strappo e lesioni personali. La difesa aveva contestato la legittimità di un arresto avvenuto non al termine di un inseguimento iniziato subito dopo la commissione del fatto-reato, ma solo dopo lo svolgimento di attività investigativa, sulla base delle notizie ricevute dalla persona danneggiata e dai testimoni e delle informazioni acquisite dalle banche dati sulla moto utilizzata per lo scippo. Indagini che avevano permesso sì di identificare l’uomo, ma con "una cesura netta tra il momento della commissione del fatto delittuoso e l’arresto". La Cassazione mette in evidenza come sui confini della "quasi flagranza" (la flagranza nel caso esaminato è ovviamente esclusa) si sono nel tempo confrontate due posizioni nella giurisprudenza della stessa Corte. Secondo un primo orientamento, la "quasi flagranza" esiste anche quando l’inseguimento non è iniziato per una diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria, ma per le notizie ricevute dalla vittima oppure da testimoni oppure ancora da terzi. Non è cioè indispensabile la coincidenza tra il momento in cui inizia la fuga e quello in cui parte l’inseguimento. A patto che l’arresto non intervenga dopo la cessazione della fuga o dopo che sia iniziato l’inseguimento. L’altro orientamento, invece, più restrittivo, esclude la "quasi flagranza" quando le Forze dell’Ordine non sono intervenute direttamente mentre il reato veniva compiuto, utilizzando invece un periodo di tempo significativo per raccogliere informazioni, verificare testimonianze, acquisire dichiarazioni. E Le Sezioni unite, con una decisione di cui è nota per ora solo l’informazione provvisoria hanno fatto proprio questa interpretazione. Paletti al ne bis in idem di Debora Alberici Italia Oggi, 5 aprile 2016 La condanna definitiva per appropriazione indebita non rende improcedibile l’accusa di bancarotta per distrazione, non sussistendo, in questo caso, alcun ne bis in idem. Al più il giudice dell’esecuzione dovrà prevedere uno sconto di pena relativo al reato meno grave. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 13399 del 4 aprile 2016, ha reso definitiva la condanna per bancarotta pronunciata a carico di un imprenditore già condannato in via definitiva per appropriazione indebita del denaro oggetto della distrazione. La quinta sezione penale ha confermato l’intero impianto accusatorio spiegando che la bancarotta fraudolenta per distrazione in ambito societario (artt. 216, comma 1, e 223, comma primo, del rd 16 marzo 1942, n. 267) è figura di reato complessa, che comprende tra i propri elementi costitutivi una condotta di appropriazione indebita del bene distratto, per se stessa punibile ai sensi dell’art. 646 cod. pen. Da ciò deriva che, per il caso di identità del bene appropriato e distratto, l’agente non risponde, a differenza di quanto ritenuto dalla corte territoriale, di entrambi i reati, ma solo di quello complesso, come stabilito dall’art. 84 comma primo cod. pen. Qualora il delitto di appropriazione indebita sia stato oggetto di sentenza di condanna prima della dichiarazione di fallimento, non è preclusa nel successivo procedimento per bancarotta la contestazione del reato fallimentare, ma in tal caso il giudice deve, in sede di eventuale condanna per tale ultimo reato, considerare assorbito quello sanzionato ai sensi dell’art. 646 cod. pen., secondo un principio di equità che trova espressione anche nello scioglimento del giudicato sulle pene in caso di riconoscimento della continuazione in fase esecutiva. In altre parole, concludono gli Ermellini, la pronuncia definitiva per il reato meno grave non rende improcedibile la bancarotta fraudolenta, né dà da luogo a bis in idem, determinando invece l’assorbimento in questa - reato complesso ex art. 84 cod. pen. - dell’appropriazione indebita relativa agli stessi beni. Dello stesso avviso la Procura generale del Palazzaccio che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso. Abuso d’ufficio l’ingaggio illegittimo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 13426/2016. Abuso d’ufficio per il dirigente del Comune che proroga la convenzione con un centro, senza il via libera degli organi competenti. Il reato scatta anche in virtù dell’ingiusto vantaggio procurato a cinque persone ingaggiate per l’occasione al di fuori di ogni criterio di trasparenza e per due contratti di collaborazione prorogati. La Cassazione (sentenza 13426) esclude che l’abuso si possa giustificare, come nel caso esaminato, con l’intento di non perdere dei fondi europei. Il ricorrente, infatti, aveva motivato la proroga della convenzione con la finalità di assicurare il completamento di un progetto affidato al centro in modo da garantirsi un finanziamento Ue. In realtà per la Cassazione il comportamento del dirigente è intenzionalmente doloso e nell’abuso d’ufficio il dolo essere desunto anche da elementi che sono la spia della macroscopica illegittimità dell’atto compiuto. Mentre non serve la prova dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire: l’intenzionalità del vantaggio può prescindere dalla volontà di "aiutare" specificamente quel privato interessato alla singola vicenda. Nel concreto c’era stato il conferimento di cinque nuovi contratti, non richiesti neppure dal centro interessato, a persone scelte discrezionalmente e pagate con denaro pubblico. Al progetto europeo aveva, infatti, aderito solo la Regione molto tempo dopo le determinazioni illegittime del dirigente, ma mai il Comune. Inoltre si trattava di un progetto pagato in gran parte dall’ente che intendeva "sottoscriverlo". Il ricorrente aveva comunque firmato le proroghe in violazione delle regole sul riparto delle attribuzione (Dlgs 267/2000) che riserva agli organi di indirizzo del Comune le scelte fondamentali. A questo si era unito l’ingiusto vantaggio conseguito da sette persone. Scatta il riciclaggio se si sostituisce la targa di un’automobile rubata di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016 Tribunale di Bari - Sezione II penale - Sentenza 19 gennaio 2016 n. 118. Sostituire la targa su un’automobile rubata è reato di riciclaggio. Lo ha detto il tribunale di Bari con la sentenza n. 118 del 19 gennaio 2016 giudicando colpevole del delitto previsto dall’articolo 648 bis del codice penale una persona fermata dalle forze dell’ordine che si trovava alla guida di una macchina rubata cui era stata apposta una targa falsa. I giudici della seconda sezione penale hanno infatti chiarito che la sostituzione della targa di un’autovettura - che costituisce il più significativo, immediato e utile dato di collegamento della ‘res’ con il proprietario che ne è stato spogliato - deve ritenersi operazione tesa a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa della cosa. Il tribunale di Bari ha anche specificato le differenze tra riciclaggio e ricettazione. Spiegando che la prima fattispecie non è distinguibile dalla ricettazione sulla base dei delitti presupposti, ma la differenza tra i due reati deve essere ricercata con riferimento agli elementi strutturali dell’illecito, quali l’elemento soggettivo, ovvero dolo specifico dello scopo di lucro nella ricettazione e dolo generico nel delitto di riciclaggio; nonché l’elemento materiale, ovvero l’idoneità dell’azione volta a ostacolare l’identificazione della provenienza del bene nel delitto di cui all’articolo 648 bis del Codice penale. Trasporto rifiuti, violare la sospensione è abusivismo di Paola Ficco Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2016 Corte di Cassazione - Sentenza14273/2015. I trasportatori di rifiuti devono essere autorizzati dall’Albo gestori ambientali che, dopo oltre vent’anni di attività, è ora disciplinato dal Dm 120/2014. In difetto, anche se i rifiuti sono trasportati da chi li produce (come le imprese edili), scatta il reato di gestione illecita di rifiuti, con pesanti sanzioni penali previste dal Codice ambientale (Dlgs 152/2006). L’iscrizione all’Albo è requisito per svolgere le attività di raccolta e trasporto rifiuti ed è titolo per esercitarle. Alla mancata iscrizione, la Cassazione (Terza sezione penale, sentenza 14273 del 9 aprile 2015) equipara la sospensione dell’iscrizione: per il periodo della sua durata fa venir meno l’efficacia del titolo. Dunque, il trasporto deve ritenersi non autorizzato: non conta la mancanza fisica dell’iscrizione, ma gli effetti autorizzatori ad essa connessi, che sono sospesi (e dunque mancanti) per tutta la durata del provvedimento. Per scoprire le violazioni è determinante il controllo su strada. A questi fini, sui veicoli occorre avere il formulario di identificazione del trasporto e copia del provvedimento di iscrizione all’Albo, con gli estremi identificativi degli automezzi che possono operare e i rifiuti che questi possono trasportare. I rifiuti sono individuati col Cer (Codice europeo dei rifiuti) presente nell’Elenco indicato nella parte quarta, allegato D, Dlgs 152/2006. Il formulario non è richiesto per il trasporto dei rifiuti urbani effettuato dal gestore del servizio pubblico per il tratto dal cassonetto all’impianto indicato nell’atto di concessione. Ma, se l’impianti è fuori dal territorio comunale, sul mezzo deve esserci copia di tale atto di concessione. L’Albo è operativo dal 1994 ed è è articolato in un Comitato nazionale (presso il ministero dell’Ambiente) e in Sezioni territoriali (presso le Camere di commercio dei capoluoghi di regione e di provincia autonoma). Il Comitato deve fare in modo che le norme siano applicate dappertutto in modo uniforme e decide sui ricorsi dalle imprese contro le delibere delle Sezioni. I rapporti tra Albo e imprese sono telematici. Sul sito www.albogestoririfiuti.it, per ogni impresa, si hanno: dati anagrafici, categorie e classi di iscrizione, tipologie dei rifiuti gestiti e i relativi codici dell’Elenco, numeri di targa dei veicoli. Il passaggio alle regole attuali è stato reso più morbido da una serie di deliberazioni del Comitato. Si sono poi aggiunte le più recenti: le n. 2, 3 e 4 del 3 settembre 2014, con la modulistica per l’iscrizione all’Albo, rispettivamente con procedura ordinaria e semplificata (anche per il rinnovo dell’iscrizione); la n. 5 del 3 settembre 2014, sulle variazioni dell’iscrizione all’Albo della dotazione dei veicoli; la n. 6 del 9 settembre 2014, col modello di attestazione dell’idoneità dei veicoli; la n. 7 del 25 novembre 2014, sulle variazioni che prevedono il trasferimento dell’iscrizione ad altro soggetto giuridico; la n. 8 del 25 novembre 2014, che introduce il foglio notizie per l’iscrizione all’Albo, con procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4 e 5; la n. 1 del 22 maggio 2015, sui controlli a campione sulle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto notorio ai sensi del Dpr 445/2000 rese ai fini dell’iscrizione all’Albo; le n. 2 del 16 settembre 2015 e n. 3 del 15 ottobre 2015, sull’accorpamento delle categorie di iscrizione; la n. 4 del 18 dicembre 2015, sull’iscrizione di aziende speciali, consorzi di comuni e società di gestione dei servizi pubblici; la n. 1 del 10 febbraio 2016, sulla gestione telematica delle domande e delle comunicazioni tra Albo e impresa. Sardegna: Sdr; aumento detenuti in tutti gli Istituti, a Cagliari 591 ristretti per 567 posti Ristretti Orizzonti, 5 aprile 2016 "A distanza di un mese cresce, anziché ridursi, il disagio nei 4 Istituti sardi già oltre il limite della capienza regolamentare lo scorso mese. Complessivamente nell’isola i cittadini privati della libertà da febbraio a marzo sono passati da 2027 a 2060 con 421 stranieri". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", commentando il resoconto del Ministero della Giustizia che fotografa la situazione detentiva nell’isola al 31 marzo 2016. La situazione - rileva - appare particolarmente difficile nella Casa Circondariale "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta dove sono presenti 591 detenuti per 567 posti (29 donne - 90 stranieri), erano 574 a gennaio. Il costante aumento di detenuti, nonché l’esigenza di chiudere qualche stanza di detenzione per lavori di impermeabilizzazione, ha determinato l’introduzione in alcune celle della quarta branda. Ciò si è verificato nelle celle dei sex offender e protetti. Sono però fuori quota regolamentare anche le presenze a Oristano-Massama (293 per 260 posti), dove circa 50 ergastolani, prevalentemente siciliani, calabresi e campani ristretti in regime di Alta Sicurezza chiedono di disporre della cella singola. Anche a Tempio-Nuchis i detenuti AS continuano ad aumentare sono 183 per 167 posti regolamentari mentre a Lanusei nello storico "San Daniele" sono diventati 40 per 33. La situazione si è aggravata al Badu e Carros di Nuoro, dove si trovano 181 reclusi (erano 170 un mese fa) per 271 posti, anche perché gli spazi regolamentari sono in numero decisamente inferiore in quanto una sezione è chiusa da quasi due anni. A Sassari-Bancali si è passati in un mese da 410 detenuti a 427 per 455 posti ma dove c’è il padiglione di 92 posti destinato alle persone in regime di massima sicurezza. Al "Giovanni Bacchiddu" ci sono ancora 2 creature (una bambina di 5 mesi e un maschietto di 15 mesi, con le rispettive mamme) e il più alto numero di reclusi stranieri (125)". "È sconcertante rilevare - osserva Caligaris - che a fronte di una costante crescita di cittadini privati della libertà in sei strutture chiuse (1785 detenuti) non aumentano quelli delle tre Case di Reclusione all’aperto dove, a fronte di 723 posti regolamentari, si trovano 283 detenuti. Un esame complessivo dei dati dunque rende palese che la realtà detentiva nell’isola è in sofferenza anche perché mancano all’appello cinque Direttori su dieci Istituti. La situazione maggiormente problematica è quella della Direttrice di Sassari-Bancali che oltre all’Istituto "Giovanni Bacchiddu" deve curare "Badu e Carros" e l’ormai annesso "San Daniele". Aldilà delle oggettive difficoltà a gestire tre Istituti dislocati in aree territoriali distanti, è impossibile farsi carico delle specifiche situazioni ascoltando i ristretti che ne fanno richiesta e affrontando le emergenze che purtroppo sono sempre possibili. L’ultimo concorso per Direttori risale al 1994 ma solo una parte dei vincitori aveva optato per le sedi periferiche, gli altri avevano preferito restare negli Uffici del Ministero. Ora però occorre una soluzione. Il Ministero e il DAP devono intervenire perché è assurdo - conclude Caligaris - far finta che in questa parte dell’Italia vada tutto bene". Umbria: Garante dei detenuti, oggi l’elezione in Consiglio regionale di Alessia Chiriatti tuttoggi.info, 5 aprile 2016 Dopo Carlo Fiorio, nessuna nomina da sette mesi. Radicali "votazione a oltranza". Manca ormai da sette mesi la figura del garante dei detenuti in Umbria. Il professor Carlo Fiorio, nominato dalla precedente legislatura, ha ormai infatti da tempo esaurito il suo ruolo. La votazione per il successore del professor Fiorio dovrebbe avvenire durante la seduta del consiglio regionale a Palazzo Cesaroni, mercoledì 6 aprile. Nel ricco e fitto ordine del giorno, la presidente Donatella Porzi ha inserito anche questo provvedimento. Quello del Garante è un organismo che esiste in tantissimi Paesi democratici e richiesto dalle Nazioni Unite. Infatti è un organo indipendente di controllo e di ispezione sui luoghi di detenzione così come previsto da protocolli attuativi del 2002 della Convenzione Onu contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti sottoscritto ma non ratificato dall’Italia. La discussione di mercoledì arriva, come detto, dopo ben sette mesi di scadenza del lavoro del precedente Garante. "Ulteriori ritardi - avvisa il gruppo dei Radicali, impegnati nella vicenda - rischiano di vanificare il suo lavoro fatto di una rete di supporto, di dialogo e informazione sulla realtà carceraria in Umbria avviando una positiva esperienza di rafforzamento delle garanzie. L’elezione è però a rischio per un altro motivo: la legge prevede per le prime tre votazioni la maggioranza qualificata, dalla quarta votazione la maggioranza assoluta dei consiglieri regionali. Il rischio quindi è che i tempi si possono allungare ulteriormente". Per ovviare che si crei una situazione di stallo di questo tipo, o che ci siano ulteriori ritardi, i radicali propongono dunque di votare a oltranza. "Sarebbe un buon segnale di interesse dell’Assemblea verso la realtà regionale dell’Umbria". Abruzzo: inaugurata la Rems di Barete, 20 posti-letto e 25 operatori sanitari di Piergiorgio Stacchiotto cityrumors.it, 5 aprile 2016 "Un nuovo modello di servizio sanitario per la riabilitazione di pazienti provenienti dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari. Un passo di civiltà in avanti per i pazienti, le loro famiglie e l’intera collettività. Un traguardo storico che viene da lontano e che siamo riusciti a raggiungere in tempi molto rapidi". Così l’assessore alla Sanità, Silvio Paolucci, questa mattina, ha presentato la nuova Rems (residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza) inaugurata a Barete. Presenti, tra gli altri, il Direttore generale della Asl, Avezzano-Sulmona-L’Aquila, Rinaldo Tordera e il Direttore del Dipartimento Salute Mentale, Vittorio Scorci. 20 posti letto distribuiti su 2 piani, una forza-lavoro di 25 nuovi operatori sanitari e un ampio spazio riservato all’attività degli avvocati che assistono i pazienti. Si tratta di una struttura sanitaria che ospiterà pazienti di Abruzzo e Molise e che rappresenta un nuovo modello di servizio sanitario per la riabilitazione di pazienti provenienti dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari. È la prima struttura del genere in Abruzzo, alternativa agli ex ospedali psichiatrici attivata nell’ottica di un nuovo modello di gestione e rieducazione di questo tipo di pazienti. "Alla base della Rems - ha aggiunto l’assessore - c’è un’idea del tutto nuova basata sul rispetto della dignità umana nei confronti di persone che portano dentro grandi sofferenze e che hanno diritto al recupero, alla dignità e a un ritorno alla vita normale. Da parte della Regione c’è tutto l’aiuto e la disponibilità che può mettere in campo perché questo nuovo modello si servizio si rende all’avanguardia rispetto al progresso civile e umano e alla considerazione che porta per i propri pazienti. Si è trattato di un’operazione rapida e di qualità, una struttura che possiamo considerare definitiva e per la quale abbiamo atteso l’assenso alla rimodulazione di quei fondi, oltre 4 milioni di euro, che resteranno a disposizione del territorio e del Dipartimento?. "Dopo il pasticcio, le tante inadempienze e un enorme ritardo da parte della Regione Abruzzo, oggi per volontà del Commissario Franco Corleone, nominato a febbraio scorso dal sottosegretario alla Giustizia Garante dei detenuti, aprirà a Barete la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) dove permangano tutt’ora ancora molte lacune e dubbi". Questo il commento del Presidente della Commissione vigilanza e consigliere regionale Mauro Febbo il giorno dell’inaugurazione della struttura che accoglierà i pazienti dell’Abruzzo e del Molise con disturbo psichico autori di reato. "Proprio durante l’ultimo Consiglio regionale - commenta Febbo - l’Assessore alla Sanità Silvio Paolucci è stato molto evasivo e non ha risposto alle mie puntuali domande inserite in una precisa interpellanza; infatti ancora non è chiaro se la Regione Abruzzo intende portare avanti la realizzazione della prima struttura individuata come idonea a essere trasformata in Rems presso Ripa Teatina e come verranno utilizzate le somme, pari a 5 milioni di euro, ricevute dal Ministero proprio per la sua realizzazione, e 1,5 milioni dalla Regione Molise come da convenzione del 2013. Pertanto sarebbe interessante capire se è intenzione della Regione acquistare la struttura di Barete e renderla definitiva come Rems e, soprattutto, se tale decisione è stata concordata anche con la Regione Molise visto che all’inaugurazione odierna non sarà presente nessun rappresentate politico né tantomeno i direttori delle Asl molisane. Sarebbe curioso, inoltre, sapere se sono attive tutte le autorizzazioni visto che sono indispensabili stringenti Protocolli, tra l’altro da sottoscrivere con Prefetture, Questure e Asl. Infine, dalle notizie in nostro possesso, ci risulta che nonostante l’apertura i detenuti saranno inseriti presso la Rems di Barete molto probabilmente non prima dell’11 e il 18 aprile, forse perché manca ancora qualche autorizzazione. Quella di oggi - spiega Mauro Febbo - somiglia più ad una inaugurazione di ripiego vista la presenza "ingombrante" di un Commissario inviato dal Governo nazionale al fine di chiudere al più presto una vicenda che sin dall’inizio ha mostrato evidenti segni di confusione da parte della Regione Abruzzo. Pertanto - conclude Febbo - spero vivamente che si possa fare chiarezza e capire le reali intenzioni ed il lavoro compiuto dall’amministrazione regionale visto che la struttura di Barete non è la più idonea e disattende gli accordi precedentemente presi con la Regione Molise". Castrovillari (Cs): ispezione in carcere dei Radicali e del Consigliere regionale Sergio quicosenza.it, 5 aprile 2016 Nei giorni scorsi, la Casa Circondariale "Rosetta Sisca" di Castrovillari, è stata oggetto di visita ispettiva da parte di Emilio Quintieri e Valentina Moretti dei Radicali e di Shyama Bokkory dell’Associazione Alone Cosenza Onlus, autorizzata da Massimo De Pascalis, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia su richiesta del Senatore della Repubblica Francesco Molinari. All’ispezione si è aggregato anche il Consigliere Regionale Franco Sergio, eletto nella circoscrizione Nord per la lista "Oliverio Presidente", Presidente della I Commissione Consiliare "Affari Istituzionali, Affari Generali, Riforme e Decentramento" nonché Segretario della Commissione Regionale Antimafia. Nell’Istituto Penitenziario del Pollino, gestito dal Direttore Maria Luisa Mendicino, a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti, vi erano ristretti 110 detenuti (15 donne e 28 stranieri) aventi le seguenti posizioni giuridiche: 26 in attesa di primo giudizio, 5 appellanti, 10 ricorrenti, 60 definitivi, 5 con posizione mista con definitivo. Tra di essi 10 sono i tossicodipendenti che sono seguiti dal Servizio per le Tossicodipendenze dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. A 4 condannati (3 uomini e 1 donna) il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero, ha concesso 10 giorni di permesso premio ex Art. 30 ter O.P. per trascorrere le festività pasquali all’esterno dell’Istituto. La delegazione visitante unitamente al Consigliere Regionale Sergio, è stata ricevuta dal Commissario Leonardo Gagliardi, Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, col quale ci si è intrattenuti a discutere delle problematiche dello stabilimento penitenziario, prima di effettuare l’ispezione nei reparti detentivi. Tra le criticità riscontrate la chiusura del Reparto di Isolamento dovuto all’inagibilità dello stesso e la inadeguatezza di tutti i reparti detentivi alle prescrizioni del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria poiché tutte le camere di pernottamento sono prive della doccia che, invece, è presente in locali comuni attigui ai reparti, fatiscenti ed indecorosi. Nel Carcere di Castrovillari, nonostante vi siano 28 detenuti stranieri, molti dei quali non parlano nemmeno italiano, non vi è un Mediatore Culturale che sarebbe indispensabile al fine di garantire un livello minimo di comprensione e interazione tra l’Amministrazione Penitenziaria ed i detenuti di lingua e cultura differente dalla nostra. Il Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, infatti, prevede che "nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti dei cittadini stranieri, si deve tener conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali", incoraggiando, altresì, i contatti con le autorità consolari del loro Paese e favorendo "l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato". Il ruolo del Mediatore Culturale all’interno del carcere dovrebbe essere, in generale, quello di sopperire alle carenze del nostro sistema che nonostante garantisca l’uguaglianza formale tra detenuti italiani e detenuti stranieri nelle norme concernenti il trattamento, non è in grado di garantire l’uguaglianza sostanziale costituzionalmente intesa. È importante, quindi, attuare degli interventi che possano rimuovere quegli ostacoli che impediscano, di fatto, la parità tra italiani e stranieri per quanto concerne le opportunità trattamentali. Per questi motivi, la delegazione, solleciterà il Ministero della Giustizia a finanziare i lavori per la ristrutturazione del Reparto di Isolamento nonché quelli per l’adeguamento delle camere di pernottamento alle prescrizioni del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria. Relativamente alla mediazione culturale, l’Associazione Alone Cosenza Onlus, nei prossimi giorni, invierà una proposta di collaborazione alla Direzione della Casa Circondariale per l’impiego volontario di un Mediatore Culturale. Il Consigliere Regionale Franco Sergio ha dichiarato che si impegnerà, per quanto di sua competenza, a sollecitare l’istituzione del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti e dell’Osservatorio Regionale per le Politiche Penitenziarie anche tramite la presentazione di una proposta di legge in Consiglio Regionale. Nel frattempo, congiuntamente alla delegazione, continuerà ad effettuare ulteriori visite ispettive negli Istituti Penitenziari della Calabria. Napoli: ragazzi sottratti alle piazze di spaccio per lavorare nel bene confiscato di Federica Frascogna internapoli.it, 5 aprile 2016 La rivoluzione della cooperativa (R)esistenza. Parla Ciro Corona, uno degli artefici dell’Officina delle culture: combattiamo contro la criminalità e l’assenza dello Stato. Ci troviamo presso l’ex istituto professionale in via Ghisleri a Scampia che, dopo la chiusura avvenuta nel 2008, era diventato un deposito di armi e un "B&B" esclusivo della camorra, dove per breakfast si intendeva tutt’al più droga. Grazie a Ciro Corona, fondatore e presidente di (R)esistenza Anticamorra, l’officina del malaffare e del degrado è stata trasformata in "Officina delle culture Gelsomina Verde", con la delibera della Giunta de Magistris nel 2012. Ci sono voluti anni di attesa e di bonifica, poi finalmente il locale è tornato ad essere scuola, polo di aggregazione giovanile tramite il corso di danza, di pittura con l’artista Amedeo Sansone, l’officina riciclo e artigianato. La magia dell’arte è forte ma lo è viepiù la dedizione di una vita consacrata a creare possibilità di scelta per un territorio che sembra non averne. Ciro ha iniziato come educatore presso una casa famiglia per la durata di 6 anni, poi per 3 si è trasferito in comunità nell’area penale creando alternativa al carcere. "Stavo lavorando per il ministero in nero, quindi ho pensato: se devo sacrificarmi, tanto vale che lo faccia per me, come dico io: niente più difesa, si passa all’attacco". Così è nata la (R)esistenza, cooperativa che col corso degli anni ha dato grandi risultati. Ciro parlaci di come ti sei mosso dall’inizio del percorso Anticamorra. "Nel 2008 Scampia era il quartiere con il più alto tasso di abbandono, evasione scolastica e disoccupazione giovanile. Cominciammo col seguire in particolare 10 ragazzini i cui genitori, lavorando nel traffico di droga, non si occupavano dell’istruzione dei figli. Il nostro approccio è stato molto pratico: bussavamo alle loro porte e li buttavamo giù dal letto per portarli a scuola. Ti lascio immaginare quanti sputi in faccia e calci ci siamo beccati. Eppure si mosse qualcosa: dopo un po’ li trovammo ad aspettarci fuori casa zaino in spalla ed i genitori ci scrivevano dal carcere pregandoci di non abbandonare i ragazzi. A questo punto oltre ai bambini dovevamo pensare agli adulti, volevamo creare lavoro. Così nell’attesa per l’utilizzo della scuola, -in merito a questo scrivemmo anche alla Iervolino che non ci ha mai risposto - siamo stati i primi in Italia ad occupare un bene confiscato: il fondo rustico A. Lamberti a Chiaiano, nel 2012. Da questa terra cominciammo a produrre vino e marmellata, ed è con gli utili ricavati che siamo riusciti a rendere definitivamente attiva Officina delle culture, ultimando i lavori". Ci sono stati reali cambiamenti nella mentalità del quartiere? Qual è il più importante risultato raggiunto in questi anni di lavoro sociale? "Nel 2014 siamo riusciti a portare a termine l’obiettivo di diventare cooperativa, la cosa più importante per me è riuscire a fare contratti a detenuti ed ex tossicodipendenti: ne abbiamo uno con un contratto a tempo indeterminato, 3 borse lavoro e 8 detenuti in affidamento. Io stesso non ho ancora un contratto figurati, ma è una gioia sentirsi dire "se mi fai faticà io lascio la piazza di spaccio". Questo è il grande cambiamento di mentalità. Dieci anni fa a Scampia c’erano 25 piazze di spaccio, oggi ne resiste una sola, la camorra ha quindi perso consensi, non è più un modello vincente perché non si guadagna come un tempo, non assicura nulla, neanche protezione. Se per ogni vendemmia riesco a fare un contratto ad un ex implicato nella malavita è una grande vittoria, come lo è stata la soddisfazione che il tetto stesso di questa scuola l’ha costruito proprio un detenuto, ha lavorato per 40 giorni e poi con il denaro è partito per trovare un impiego fuori. Un altro carcerato è stato affiancato a Sergio Denza, responsabile dell’officina del riciclo, e notiamo il suo impegno giorno per giorno, insomma vediamo nascere tante risorse in ambiti diversi". Presso la vostra sede ci sono anche stranieri.. "Sì, abbiamo allestito una comunità alloggio e tramite la prefettura abbiamo ospitato12 ragazzine richiedenti asilo politico. Una volta arrivò il presidente della Municipalità Pisani dicendo che non voleva gli stranieri nel quartiere. Io gli risposi dicendo che Scampia non era pronta ad accogliere lui. Grazie al cielo le ragazze dovevano restare solo per un mese, quindi non ha avuto il tempo materiale di fare nulla per ostacolarci in questa iniziativa, però ci sono stati altri 5 blitz a in seguito alla sua visita. A proposito di integrazione, ad Officina vantiamo anche il bellissimo laboratorio musicale condotto dal gruppo di napoletani e rom che collaborano, gli: o Rom, complesso straordinario formatosi per abbattere ogni barriera xenofoba". Ci hai detto che vivete di quello che producete, solo con le vostre forze, senza fondi pubblici. Non nutri più speranza nello Stato? "Sono molto critico. Gli interventi politici non sono mai stati adeguati, c’è sempre stata la rincorsa ai fondi pubblici e si è perso l’obiettivo per il quale si richiedevano, ahimè solo finché c’è il problema prendi i fondi, quindi preferisci non risolverlo per continuare ad avere danaro, è banale e orribile. Io credo invece nella spinta dal basso che fa pressione ai piani alti, l’associazionismo ha fatto la storia di questo territorio come col comitato per l’abbattimento delle vele. Invece il Pd cosa ha fatto a parte cercare di accaparrarsi fondi? Il Pd di Scampia ci fece riscorso sul bene confiscato di Chiaiano perché noi eravamo profit e in teoria solo le associazioni no profit possono averne uno, ma noi l’abbiamo occupato e questo ha avuto una risposta popolare e anche mediatica immediata, un segnale forte di sostegno. Tanto che due mesi dopo gli stessi che hanno cercato di bloccarci ne hanno fatto un bando. Una lezione politica che ha segnato il mio pensiero e modo di agire". Torino: gli odori del carcere di Monica Cristina Gallo (Garante dei detenuti di Torino) La Repubblica, 5 aprile 2016 Il carcere immateriale lo si può percepire anche dagli odori. Non mi era mai capitato prima di attraversare un luogo con una così complessa varietà di odori che entrano nella pelle e nelle ossa. Recensire gli odori che caratterizzano e contraddistinguono le prigioni non è facile e molto probabilmente ognuna ha i suoi. Io vi racconto quelli del carcere di Torino. All’ingresso dei blocchi principali il primo odore che si incontra è quello di creolina, forte, avvolgente, che rimbalza sulle pareti ridipinte da poco di bianco ottico, un bianco accecante che raffredda l’ingresso. Appena dopo, nel primo corridoio alcune finestre rotte consentono ai gatti di entrare e orinare negli angoli, questo è forse il più umiliante degli odori che si respira. Procedendo si incontrano le porte che conducono alle cucine, e di lì se è mattina esce prepotente l’odore di merluzzo e verdura bollita, se è pomeriggio inoltrato l’odore di brodo, pastina e patate, tranne la domenica che la cucina è chiusa e il rancio caldo non viene servito. Salendo le rampe delle scale è un susseguirsi di altri odori, mischiati a quello di umido, sino alle rotonde dove l’odore del ferro dei cancelli e inferriate è così forte che si sente in bocca. È qui arriva l’odore dei maschi di tutte le etnie, dal quale si fa fatica a difendersi perché è forte e si ha l’impressione che sia incontenibile. Mi imbarazza. A volte, raramente arriva lento il profumo di caffè o di soffritto di cipolle che esce dalle singole celle allora sembra che la casa sia più vicina. L’odore del carcere è triste e sempre uguale, è imprigionato come chi lo sente ogni giorno per anni e anni. È la puzza che anche i detenuti si sentono addosso. "Abolire il carcere" recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 5 aprile 2016 "Basta, non se ne può più di queste carceri affollate, dove si muore e si esce senza un mestiere: aboliamole!". "Ma come, qui bisogna costruirne di più?". " Non ci sono i soldi, e non servirebbe. Proviamo a cambiare la detenzione, a metterli di fronte al loro reato, a farglielo affrontare". Queste le linee di tendenza che si sono affrontate ieri pomeriggio alla presentazione del libro "Abolire il carcere", scritto da Luigi Manconi e Valentina Calderone, "A Buon diritto", Stefano Anastasia di Antigone e Federica Resta. Nella stessa giornata, il 1 aprile 2016, alla sede del Cnca di Ancona, era stato annunciato il primo rapporto regionale sulle carceri, che annualmente Antigone realizza coi suoi volontari in tutte le regioni. Nel pomeriggio presso la Casa delle Culture si è presentato il libro davanti ad un folto pubblico di operatori volontari, teatrali, del ministero della giustizia e cittadini, sempre più interessati con lo scorrere del tempo. Prende la parola l’Ombudsman, garante regionale per detenuti, minori, migranti che sta allargando le sue funzioni anche per il ruolo svolto da Ancona come garante per infanzia e adolescenza anche nei confronti degli sbarchi dei richiedenti asilo. L’introduzione di Andrea Nobili perciò denuncia la schizofrenia della legislazione italiana fra promozione di pene alternative nelle carceri e introduzione di nuovi reati come quello di incidente stradale. Anastasia evidenzia la sentenza Torreggiani contro il reato di tortura. "Il carcere non produce sicurezza anche se è evocato in questa direzione. Le presenze sono diminuite negli ultimi anni ma stanno riprendendo. Entro 5 anni si torna alla crescita di presenze se non si spinge per le misure alternative, perché il rischio di recidiva che è del 67% se non si hanno praticato misure trattamentali e alternative, scende fino al 21% se si è stati inclusi in alcune di queste". Di fronte alle affermazioni di giovani che ancora sono all’interno di percorsi dell’Uepe (ufficio esecuzione penale alternativa) si infrangono le osservazioni di alcuni operatori del ministero, che insistono nell’errore di dare alla fruibilità delle strutture un ruolo maggiore che non all’accesso ai trattamenti. Qui la convinzione messa in campo dagli autori del libro ed anche da Samuele Animali presidente di Antigone Marche, che deriva dallo studio e dall’esperienza, ci apre meglio gli scenari. "Si può abolire il carcere per fare che? Il carcere com’è oggi nasce con l’industrializzazione, rileggiamoci Foucault. La composizione di grossi agglomerati produttivi abitativi e riproduttivi ha avuto funzionalità con l’aumento della devianza e della delinquenza, spesso prodotte dal progresso. Si potrebbe allora, nel 2016, iniziare ad invertire la tendenza con la globalizzazione, le sue crepe, il villaggio globale e la perdita di legami stretti fra classi. Viviamo la storia, non la rifiutiamo". Ricordando che nel 2015 non sono stati stanziati fondi per le carceri dalla regione, di fronte alle 800.000€ annue gli ultimi anni che avevano permesso avviamento al lavoro, scuole di teatro, scrittura e notevoli aperture di quest’ultime all’esterno, Andrea Nobili ha affermato che se il welfare a più alta copertura non è più possibile, essendo cambiata l’economia dello stato, vanno sperimentate altre forme di copertura. "Ad esempio, visto che ci accusano di esserci innamorati dei detenuti - dice Valentina Calderone - il provvedimento di messa alla prova che c’è per i minori, viene ora approvato per gli adulti. Non si giudica per reato, ma per relazione dell’UEPE, si mettono al lavoro più persone e si cominciano a condannare degli adulti a confrontarsi coi loro reati senza finire "dentro", che di certo reprime senza far esprimere. Sono tanti i perni da cui entrare nel rapporto fra cittadino e giustizia: il lavoro che manca dentro e non si trova fuori, una delle spinte verso quella porta girevole che c’è all’ingresso di ogni penitenziario, l’abitudine agli indulti ed alle amnistie che c’era nel dopoguerra, ed oggi, quando si vorrebbe avere la certezza di tutto, quando si pensa che l’educazione debba passare attraverso le ammende comminate anche per una parolaccia o una cartaccia. Abolizione dell’ergastolo, il condannato deve collaborare con la giustizia: partiamo da qui, una delle ultime frasi, che dice che non c’è liberazione che possa avvenire senza sacrificio ed immedesimazione nell’altro. "Per abolire il carcere dovremmo farcene un po’ carico ognuno" dicono a mezza bocca alcuni dei presenti mentre vanno verso la libertà, che ieri avevamo tutti. "Come per trovarci un lavoro, che poi è legato all’andare in carcere". "La mia vita con Salvatore Riina, mio padre". di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 aprile 2016 Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss: "Assieme nelle nottate alla tv per l’Americàs Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo". "Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’Americàs Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe". Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo "aggiustare" il maxiprocesso alla mafia. "Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto" - Poco dopo venne il 23 maggio: "La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro". Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari. "Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco" - E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: "Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco". Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: "Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. "Papà, dobbiamo ripartire?". "Perché vuoi partire?" domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. "Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?". "Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’". Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò... E così restammo lì fino alla fine di agosto". Le vittime di cui non parla - Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. "Io non sono il magistrato di mio padre - dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata", divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta" Il libro "Riina-Family Life" - È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al "41 bis"): "Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del "carcere duro", io no". E nel libro lamenta: "È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre". Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: "Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata". Dipende, forse. Ma lui insiste: "Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice". Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: "Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare". Un papà premuroso e amorevole - Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. "Non è quello che ho conosciuto io - ribatte convinto suo figlio -. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo". Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare - "il geometra Bellomo", si faceva chiamare - e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: "Mai saltata una sera", garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori. Infanzia e adolescenza felici - Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un "terza elementare", né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. "A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo". Strano, perché? "Per rispetto e pudore". Nei confronti di chi? "Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere". Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. "Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani". Con l’arresto cambia tutto - Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo "covo" in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la "fine del tonno" riservata a Falcone e altri delitti: "Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. "Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio", mi ripeteva". L’editore - Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: "È come se in casa del "Mostro" che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film". Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre "ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono", come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? "No, nessun imbarazzo", risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole. Migranti. L’Unione fa il delitto di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 5 aprile 2016 Su catamarani e mezzi di fortuna, ma sotto la solerte vigilanza di funzionari Frontex, è iniziata la deportazione di migranti e profughi da Lesbo e altri porti greci in Turchia. Verso dove? Nessuno lo sa. Amnesty International ha accusato il governo turco di espellere centinaia di siriani in Siria, in un paese in cui la guerra c’è, benché se ne parli sempre meno. Intervistata sulla questione, una funzionaria Ue ha risposto: "È da escludere. L’accordo Ue-Turchia non lo prevede. È scritto nero su bianco". Ecco una risposta che meriterebbe una citazione in un’enciclopedia universale dell’insensatezza. La Ue fa un patto miserevole con Erdogan: 6 miliardi di Euro in cambio del ritorno in Turchia di migliaia di migranti e profughi. Si noti: con lo stesso Erdogan che mezzo mondo, compresa l’Europa (quando le fa comodo), accusa di imprigionare i dissidenti e imbavagliare la stampa. Dunque, un paese in cui nessun controllo si può esercitare su un governo semi-dittatoriale. E ora arriva una tizia, finita chissà perché a dirigere qualcosa in Europa, a dirci che la Turchia non deporta nessuno perché nell’accordo con la Ue non c’è scritto nulla al riguardo! Ma questo è nulla. Interrogato sulla questione, un giurista ha affermato tempo fa che non si può parlare di deportazioni perché "il termine implica un atto criminale e utilizzarlo significa quindi ammettere che l’accordo tra Unione Europea e Turchia preveda un crimine". Assolutamente geniale. Questo esempio di logica deduttiva ricorda una dichiarazione del penultimo presidente della Repubblica, secondo il quale, mentre i nostri aerei bombardavano la Libia, l’Italia non era in guerra perché non aveva dichiarato guerra a nessuno. Ma il citato giurista va oltre. Alla domanda se la Turchia sia uno stato sicuro, risponde di sì. E come si fa a stabilire se uno stato è sicuro? "È tale uno stato che accoglie i migranti in autonomia". Il nome La Palisse vi dice qualcosa? Ma non c’è proprio da ridere. Dietro questo formalismo alla Gogol c’è un cinismo terrificante - l’uso delle parole ingessate del diritto per giustificare il rinvio ai mittenti, cioè la guerra, la fame e la morte, di decine di migliaia di esseri umani. Era già successo ai tempi degli accordi che Amato e Pisanu stringevano con quei campioni del diritto di Gheddafi e Ben Ali. Tutti sapevano che i migranti, espulsi in cambio di un po’ di dollari ai governi, finivano nel deserto, vittime di inedia, militari e predoni. Ma poiché nessuno lo diceva, ecco che non era successo nulla. L’accordo Ue-Erdogan si muove sulla stessa falsariga. Che fine faranno siriani, afghani, pakistani prelevati dalla Turchia? Nessuno lo saprà mai con certezza. Magari Amnesty International verrà a conoscenza di qualcosa e denuncerà i fatti. Ma, poiché l’accordo siglato dalla Ue non prevede nulla del genere, otterremo le solite risposte nel vacuo burocratese citato sopra. D’altra parte, in un’area in cui sarebbero morte cinquecentomila persone in cinque anni, che volete che significhi la sorte di poche migliaia di migranti? Tempo fa, la signora Frauke Petry, figlia di un pastore protestante e leader del partito xenofobo Alternative für Deutschland, ha dichiarato che bisognerebbe sparare ai migranti che attraversano illegalmente le frontiere. Eccola accontentata. E senza rumore di spari, sangue e inchieste. Ci pensa il nostro alleato Erdogan. Con ciò le mani d’Europa restano immacolate. Come quelle di chi commissiona un delitto a qualcuno e poi se ne va serenamente a cena. Legalizzare le droghe, una petizione al parlamento Ue di Matteo Ariano (Radicali Italiani) Il Manifesto, 5 aprile 2016 Antiproibizionismo. Chiediamo all’Europa di farsi portavoce di una politica non proibizionista all’imminente Assemblea Generale dell’Onu. Dal 19 al 22 aprile si svolgerà a New York Ungass 2016, un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, interamente dedicata alle droghe. L’ultima dedicata a questo tema si tenne a Vienna, nel 2009, e da allora molte cose sono cambiate: la legalizzazione, per decenni isolata proposta di pochi gruppi antiproibizionisti - tra i primi, sicuramente Marco Pannella, che già nel 1975 iniziò le sue disobbedienze civili sul tema, ha preso piede in diversi Stati. Anche in Europa sembra soffiare un vento diverso. Ne è un esempio la legislazione portoghese, che ha decriminalizzato l’uso di tutte le droghe, dalla cannabis all’eroina, con ottimi risultati sul piano sanitario e di contrasto alla criminalità. Del resto, come sottolineato da Europol, il mercato delle droghe è già unitario a livello europeo. Anche la relazione annuale sulle droghe per il 2015, redatta dall’Osservatorio Europeo sulle Droghe e sulle Tossicodipendenze (Emcdda), contiene dati che dovrebbero far riflettere: nell’intera Ue sono stati commessi 1,25 milioni di reati contro le leggi sugli stupefacenti; di questi, 781.000, pari al 63% del totale, sono connessi al consumo o alla detenzione di cannabis. Il consumo di cannabis è sempre più diffuso: considerando la popolazione tra i 15 e i 34 anni, si stima che nell’ultimo anno 14,6 milioni di persone ne abbiano fatto uso, pari all’11,7% della popolazione europea. Un altro elemento di riflessione, che incrocia la più stretta attualità, è il legame tra il narcotraffico e il terrorismo. Già nel 2013 Emcdda ed Europol sottolineavano nel proprio report come, secondo le indagini della magistratura spagnola, gli attentati di Madrid del 2004 - 191 morti e circa 2000 feriti - fossero stati finanziati con denaro ottenuto dal traffico di hashish marocchino. Oggi più che mai, dunque, la politica antiproibizionista si coniuga con un’efficace lotta al terrorismo: togliere le droghe dal mercato illegale significa anche togliere acqua dallo stagno in cui nuotano i terroristi. Alla luce di tutto ciò, l’Ue ha lentamente iniziato a mitigare la propria posizione. Nel corso dei lavori preparatori di Ungass, ha infatti affermato di voler sviluppare l’accesso alle misure alternative al carcere per i crimini collegati all’uso di droga; ha sottolineato l’importanza di misure di riduzione del rischio e del danno, e ha dichiarato di volersi impegnare per l’abolizione della pena di morte per reati collegati alla droga. Proprio allo scopo di porre il tema dell’antiproibizionismo in chiave europea, come Radicali Italiani e l’Associazione Luca Coscioni abbiamo lanciato una petizione diretta al Parlamento europeo - disponibile in cinque lingue su www.legalizziamo.it - con cui si chiede all’Ue di farsi portavoce di una politica non proibizionista all’imminente Assemblea Generale dell’Onu, ma anche di cambiare la propria legislazione sulle droghe, in particolare la Decisione quadro 2004/757/Gai, che fissa le norme minime a livello europeo in materia di droghe, base per tutte le normative proibizioniste nazionali. Si tratta di interventi possibili, consentiti dalle convenzioni internazionali e che porterebbero a risultati di gran lunga migliori della fallimentare "guerra alla droga" condotta finora. La petizione è solo una delle iniziative della "primavera antiproibizionista" radicale. A breve, infatti, torneremo in strada con i nostri banchetti per raccogliere le firme sulla legge di iniziativa popolare per la regolamentazione legale della produzione, del consumo e del commercio della cannabis. L’opzione antiproibizionista si è rivelata, in termini empirici, la più efficace. È quindi giunto il momento che anche l’Unione Europea e le proprie istituzioni agiscano di conseguenza. Egitto: caso Regeni, slitta a giovedì il vertice tra procure di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 aprile 2016 L’incontro tra gli inquirenti egiziani e italiani per fare il punto investigativo sull’omicidio di Giulio Regeni previsto per oggi, è slittato a giovedì 7 e venerdì 8 aprile. Descalzi: "Siamo per i diritti umani e per fare chiarezza". Era atteso per oggi, a Roma, ma l’importante incontro tra gli inquirenti egiziani e italiani per fare il punto investigativo sull’omicidio di Giulio Regeni è slittato a giovedì 7 e venerdì 8 aprile (appuntamento confermato, al momento, malgrado ieri sera l’agenzia internazionale Reuters lo dava per "rinviato a tempo indeterminato" citando "fonti giudiziarie e delle sicurezza" egiziane). L’Italia invece procederà ugualmente, oggi stesso, a fare il punto politico del caso, con il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che riferirà prima al Senato, alle 12, e poi alla Camera, alle 16. Gli egiziani lo sanno, ormai: l’incontro al vertice tra procure è considerata la prova del nove per "verificare lo stato della collaborazione" tra i due Paesi al fine anche di mettere in campo eventuali "nuove iniziative diplomatiche", come avvertì qualche giorno fa la ministra Boschi, rispondendo alla Camera ad un’interpellanza di Si. Una presa di posizione che il governo Renzi avrebbe voluto evitare ma in qualche modo imposta dall’"ultimatum" lanciato dalla famiglia Regeni in conferenza stampa al Senato insieme al presidente della commissione Diritti umani, Luigi Manconi. E così, al Cairo, i preparativi si sono fatti seri, hanno preso più tempo del previsto: difficile assemblare il "dossier di due mila pagine", annunciato attraverso il sito egiziano Al-Shourouk, che dovrebbe contenere tutti i documenti investigativi richiesti da settimane dalla procura di Roma. E difficile perfino scegliere chi farà parte della delegazione, anche per via degli "attriti" tra la procura di Giza, titolare delle indagini sul campo, e i funzionari del ministero degli Interni egiziano che pochi giorni fa aveva annunciato la risoluzione del caso servendo su un piatto d’argento la falsa pista della banda di rapinatori, salvo poi rinnegarla. Ma alla fine l’elenco dei nomi è arrivato: a incontrare il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone (che smentisce di aver posto richieste specifiche per la delegazione, e in particolare la presenza del consigliere di Al Sisi per la sicurezza Fayza Naga, come riportato dal sito egiziano Horria post.net), il pm Sergio Colaiocco, titolare delle indagini italiane, e i funzionari del Ros e dello Sco rientrati dal Cairo, saranno due magistrati e tre alti funzionari di polizia egiziani, che ripartiranno da Roma il 9 aprile. Si tratta del procuratore generale aggiunto Mostafa Soliman, del procuratore dell’Ufficio di Cooperazione Internazionale della procura generale, Mohamed Hamdy El Sayed, del generale Adel Gaffar della National Security, del brigadiere generale Alal Abdel Megid dei servizi centrali della polizia egiziana e di Mostafa Meabed, vicedirettore della polizia criminale del Governatorato di Giza. Cosa esattamente conterrà il dossier è tutto da scoprire: inutile riportare le "anticipazioni" fatte trapelare sui media egiziani che parlano di oltre 200 testimonianze di persone "in relazione con la vittima" (Al Shourouk). Più importante invece appuntare la "solidarietà alla famiglia" Regeni espressa da Claudio Descalzi, ad dell’Eni, che un paio di settimane fa "ha eseguito con successo la prima prova di produzione sul pozzo Zohr", il più grande serbatoio di gas dell’Egitto e del Mediterraneo. "Sono cose che ci inorridiscono - ha affermato ieri Descalzi - noi siamo per i diritti umani e per fare chiarezza. L’Egitto è un Paese amico, a cui conviene per primo fare chiarezza. Non siamo contenti per ciò che è successo. Siamo inorriditi, e non perché sia coinvolto un cittadino italiano, ma perché questo non succeda più a nessuno". Egitto: Giulio come Khaled, anche il quotidiano del governo chiede la verità di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 aprile 2016 Egitto. In un editoriale il direttore del quotidiano pro-governativo paragona il ricercatore italiano a Said, la cui morte per mano della polizia ha dato il via alle proteste contro Mubarak. Ancora in silenzio il parlamento. Giulio come Khaled: il doloroso parallelo tra i due 28enni, massacrati dalla brutalità del regime egiziano, lo aveva ricordato la madre del giovane egiziano, Layla. In un video messaggio alla madre di Regeni, Paola Deffendi, ha fatto suo il dolore per il ricercatore italiano e ringraziato per l’attenzione che la famiglia ha attirato sui casi di migliaia di egiziani scomparsi nel silenzio. Oggi quel parallelo lo vede anche la voce del governo egiziano, il quotidiano al-Ahram. In un editoriale di domenica, il direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam avverte del pericolo che Il Cairo corre, molto simile a quello che sei anni fa portò alla caduta di Mubarak: il caso Regeni ha le stesse potenzialità distruttive per il governo egiziano del caso di Khaled Said. Nel giugno 2010 il giovane era stato pestato a morte ad Alessandria dalla polizia. La foto del suo corpo martoriato è stata resa pubblica, visualizzazione fisica dell’atrocità del regime (esattamente come la famiglia Regeni ha promesso di fare se la verità non verrà a galla) ed è diventata il simbolo della rabbia del popolo egiziano, di attivisti e giovani che hanno lanciato campagne online e per le strade. Un’escalation che sei mesi dopo ha trovato il suo sbocco in Piazza Tahrir. Per questo Khaled è considerato il primo martire della rivoluzione, il sasso che ha generato la valanga sotto cui è sparito Mubarak. Abdel-Hadi Allam ne è convinto: il "sasso" Regeni, scomparso proprio nell’anniversario della rivoluzione, può avere lo stesso effetto sul presidente-golpista al-Sisi. Domenica ha avvertito i vertici dello Stato, colpevoli di non aver afferrato la gravità della situazione: "Il caso di Said non andò come molti all’epoca si aspettavano - scrive il direttore di al-Ahram, nominato dall’esecutivo come i predecessori - La storia naive sulla morte di Regeni ha danneggiato l’Egitto all’esterno e all’interno e ha offerto la giustificazione per paragonare quello che avviene oggi nel paese con quello che avveniva prima del 25 gennaio 2011". Un regime dittatoriale, uno Stato di polizia che al-Ahram - il più diffuso quotidiano della regione - dalle sue colonne descrive con prudenza: riporta notizie di sparizioni e torture (soprattutto nel corso dell’ultimo anno, pubblicando reportage sulle condizioni delle carceri e le campagne degli attivisti anti-governativi) ma le controbilancia con le voci governative che negano una repressione che è strutturale, istituzionalizzata. Stavolta però si gioca fuori casa: annunciate i risultati dell’inchiesta con trasparenza, scrive Abdel-Hadi Allam, o metterete in serio pericolo le relazioni con l’Italia, il cui governo ha dimostrato dalla prima ora l’apprezzamento per la piega presa dal Cairo di al-Sisi. Il fatto che simili parole - ricerca della verità, storia naïve - siano pronunciate da un giornale di proprietà dello Stato lascia il re nudo: "Alcuni funzionari che non capiscono il valore della verità pongono lo Stato egiziano in una situazione imbarazzante ed estremamente grave. Chiediamo allo Stato di affrontare il caso con la massima serietà e portare di fronte alla giustizia i colpevoli. Quelli che non colgono il pericolo per le relazioni tra Egitto e Italia stanno spingendo verso una rottura dei rapporti diplomatici". Il governo non pare avere il polso della situazione, con un’opinione pubblica ormai ampiamente schierata contro le posizioni dei vertici. Che continuano a rilasciare dichiarazioni per poi rimangiarsele. La strategia del "avete capito male", però, non dà i risultati sperati. Dopo giorni di rimpalli tra Ministeri degli Esteri e degli Interni, domenica a negare di aver mai attribuito la responsabilità della morte di Giulio alla fantomatica banda criminale è stato lo stesso dicastero responsabile della polizia. Quel Ministero degli Interni che aveva pubblicato le foto di un vassoio d’argento con su i documenti di Regeni, dicendo di averli trovati in casa della sorella del capo banda, Tareq Abdel Fattah, domenica ha negato durante la trasmissione tv al-Haya al Youm di aver mai detto che la gang avesse ucciso il giovane. La televisione resta il luogo preferito per esporre teorie e opinioni. Come successo in passato, c’è chi torna sulla versione del complotto internazionale ordito dai Fratelli Musulmani: Rifaat el-Said, esponente del Partito dell’Unione di Sinistra, sul canale Al-Assema ha "identificato" Regeni come "agente di un apparato italiano" e posto il dubbio che la Fratellanza "possa essersi infiltrata negli apparati egiziani per mettere l’Egitto in crisi". Resta ancora in silenzio il parlamento, ora su indicazione del presidente della Camera dei Rappresentanti: ieri Ali Abdel Aal ha ordinato ai parlamentari di non trattare il caso Regeni durante le sedute pubbliche. I predatori della Libia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 5 aprile 2016 L’arte della guerra. Il Paese possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. "La Libia deve tornare a essere un paese stabile e solido", twitta da Washington il premier Renzi, assicurando il massimo sostegno al "premier Sarraj, finalmente a Tripoli". Ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la "missione di assistenza internazionale alla Libia". L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, dichiara al Corriere della Sera che "occorre finirla con la finzione della Libia", "paese inventato" dal colonialismo italiano. Si deve "favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi", spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto "ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche", presenti in Tripolitania e Cirenaica. Analoga l’idea esposta su Avvenire da Ernesto Preziosi, deputato Pd di area cattolica: "Formare una Unione libica di tre Stati - Cirenaica, Tripolitania e Fezzan - che hanno in comune la Comunità del petrolio e del gas", sostenuta da "una forza militare europea ad hoc". È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo. Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche. Sbarcando in Libia con la motivazione ufficiale di assisterla e liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la "missione di assistenza alla Libia", gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti. I fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi investiti per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana (ragione per cui fu deciso di abbattere Gheddafi, come risulta dalle mail di Hillary Clinton), saranno usati per smantellare ciò che rimane dello Stato libico. Stato "mai esistito" perché in Libia c’era solo una "moltitudine di tribù", dichiara Giorgio Napolitano, convinto di essere al Senato del Regno d’Italia. Stati Uniti: la fragile pasionaria della Corte Suprema degli di Enrico Deaglio La Repubblica, 5 aprile 2016 Femminista, abortista, pro matrimoni gay. Malgrado gli acciacchi, Ruth Bader Ginsburg spinge a sinistra la più potente istituzione Usa. E ora, sulla sua successione, si gioca una partita vitale. Certe volte il Caso si diverte a mettere in imbarazzo la Democrazia. È quello che sta succedendo oggi in America, intorno alla sua più potente istituzione: la Corte Suprema, i cui nove membri (nominati dal Presidente con incarico a vita) hanno sempre avuto, e avranno sempre, il potere finale su cosa sarà questo grande Paese. Decidono se la schiavitù è legittima, se i bambini neri possono frequentare le scuole dei bambini bianchi, se le donne possono abortire, se i gay possono sposarsi, se lo Stato può uccidere un detenuto, se si può bere alcol, se si può fumare marijuana, se si può andare in guerra, se uno psicopatico può comprare un fucile mitragliatore e se il governo può importi il medico della mutua. Spesso decidono a maggioranza, cinque contro quattro. Ora il Caso ha voluto che uno dei nove sia improvvisamente morto, facendo saltare gli equilibri, e che un’altra sia molto anziana e molto fragile di salute. Il tutto avviene mentre l’America sta decidendo sul futuro presidente, una scelta che oggi vede contrapposti la non simpatica Hillary Clinton e lo sconcertante Donald Trump. Il giudice morto si chiamava Antonin Scalia, italoamericano, conservatore, spesso bigotto. Metà dell’America non lo sopportava. La giudice ormai fragile come un passerotto si chiama Ruth Bader Ginsburg, liberal e femminista: la stessa metà dell’America fa il tifo per una sua lunga vita. Anzi, l’ha fatta diventare un’icona pop. La chiamano Notorious RBG, la Famigerata RBG: le hanno fatto anche un tumblr come quello di un famoso rapper cattivissimo. E poi un fumetto, le T shirt, i costumi di Halloween. Tra le studentesse nei campus va di moda avere il suo volto applicato sull’unghia dell’anulare sinistro. Essere conosciuti dalle iniziali, come JFK, è un privilegio di pochi, e a lei è successo in vita. R.B.G. da un anno compare sempre più spesso sulle magliette e sui social network, con il volto di una donna molto anziana estremamente magra, con un paio di occhiali enormi, il collo circondato da un jabot di pizzo candido, una corona d’oro poggiata sulla testa. Nessuno se lo sarebbe aspettato, ma il membro più anziano della Corte Suprema degli Stati Uniti è stata scoperta dai giovani, e ne è diventata un idolo. È la "ragazzaccia" che ha difeso l’aborto, la gratuità della pillola, che ha fatto passare i matrimoni gay e l’assistenza sanitaria pubblica: la femminista, coraggiosa, pugnace che ha tenuto testa ai maschi conservatori, che è sopravvissuta a due tumori senza perdere un giorno di udienza e che scrive sentenze rivoluzionarie che hanno cambiato la vita dei 180 milioni di donne americane, e non solo di loro. Per una serie di circostanze che era impossibile prevedere tutte insieme (una donna che corre per la Casa Bianca; un miliardario megalomane e razzista che ha distrutto il partito repubblicano; un potentissimo giudice bigotto che muore in circostanze surreali), oggi intorno alla salute e alle scelte di R.B.G. si gioca quello che potrà essere l’America del 21° secolo. Senegal: concesso asilo politico a due cittadini libici detenuti a Guantánamo Nova, 5 aprile 2016 Il governo del Senegal ha accettato di concedere asilo politico per "motivi umanitari" e in linea con la politica di "ospitalità senegalese" e di "solidarietà islamica" a due cittadini libici detenuti a Guantánamo. È quanto si legge in un comunicato del ministero degli Esteri di Dakar. I due libici, come riferisce l’emittente britannica "Bbc", sono detenuti da 14 anni senza alcuna accusa. La decisione del governo senegalese segue la decisione storica da parte del governo degli Stati Uniti di chiudere il centro di detenzione. Decine di paesi, fra cui l’Uganda, il Ghana e Capo Verde, hanno accolti negli ultimi anni ex detenuti di Guantánamo, seguendo gli appelli da parte del governo degli Stati Uniti.