La riforma del Terzo settore e il valore economico del bene di tutti di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 4 aprile 2016 L’Italia reale, che vive al di fuori dei labili confini tracciati dal Prodotto interno lordo, merita un surplus d’attenzione, per non essere soltanto lo spettatore passivo di un’altalena di cifre che in concreto significano poco o niente. Se ai decimali di speranza, che inchiodano la crescita italiana allo zero virgola, si potesse aggiungere la valutazione del lavoro che migliaia di volontari svolgono ogni giorno in Italia, avremmo certamente un’impennata di fiducia. E se dal fuorviante e stracitato Pil riuscissimo a togliere le macchie della droga e della prostituzione che ne inquinano il calcolo, capiremmo meglio cosa significa il benessere in un paese civile. L’Italia reale, che vive al di fuori dei labili confini tracciati dal Prodotto interno lordo, merita un surplus d’attenzione, per non essere soltanto lo spettatore passivo di un’altalena di cifre che in concreto, come sosteneva l’economista Giorgio Fuà, significano poco o niente. Questo mondo, fatto di famiglie, imprese, lavoratori, soggetti forti e deboli, studenti e persone con una carica di umanità e spirito di servizio verso le aree del bisogno, svolge un’azione di supplenza che tampona da tempo le carenze dello Stato. Il passo avanti della legge sul Terzo Settore, approvata in questi giorni al Senato, è un segnale incoraggiante per chi da anni sollecita il riconoscimento giuridico di un impegno in crescita (per fortuna) nel nostro Paese. Un impegno sul quale vale la pena investire di più, agevolando donazioni, defiscalizzazioni, la nascita di imprese con imprinting sociale. Liberando dall’onere dell’Iva chi offre aiuti economici per realizzare scuole, ospedali, asili destinati a una comunità (no profit/no Iva). Sul terreno dell’etica pubblica, se alla riforma si vuole dare un senso, servirebbe poi una riflessione franca sugli indicatori di sviluppo, introducendo il tema dei correttivi al Pil suggeriti dai Nobel Stiglitz, Amarytia Sen, Fitoussi o dalla New Economics Foundation di Londra, raccolti in Italia dal Positive Economic Forum di Jaques Attali e Letizia Moratti: quello dell’economia illegale, che corregge al rialzo le stime del rapporto tra debito e crescita, è un’offesa ai cittadini onesti, deciso da Eurostat e accettato nell’imbarazzante silenzio da parte di tutti. A questo tipo di economia opaca è preferibile quella che punta anche sul volontariato trasparente, sulle imprese sociali che assumono, sul non profit che in un decennio è cresciuto del 28 per cento. Un’economia civile, con al centro l’impresa responsabile, aperta, competitiva, attenta ai bilanci e ai valori che nella crisi si interpretano restituendo qualcosa agli altri: ai territori, alle comunità, ai poveri, ai malati, agli immigrati, a quelli che hanno meno. A chi obietta che il Pil si nutre di numeri e che gli indicatori tengono conto di tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico, si può rispondere con un esempio: se invito i cittadini a fumare avrò aumentato il fatturato dei monopoli e delle multinazionali, incrementando i guadagni delle tabaccherie, e con questo il Pil nazionale. Avrò però procurato un enorme danno sociale, favorendo l’insorgenza di tumori al polmone, malattie respiratorie e cardiache. Il vantaggio iniziale vale il danno futuro? In una società civile la riposta è: no. La legge antifumo del ministro Sirchia è arrivata a tutela della salute collettiva, quando si è dimostrato che i costi sociali superavano i benefici pubblici e, soprattutto, privati. La discussione sul Terzo settore, in attesa del passaggio alla Camera, è una buona occasione per ragionare su mercato, impresa virtuosa e valore economico del volontariato. Dovrà servire a fare pulizia dei carrozzoni inutili e delle pratiche oblique, per evitare altri casi come Mafia capitale. Rilanciando il servizio civile, allargando l’offerta a una base maggiore di giovani, il governo dimostra di credere nel percorso formativo del volontariato e dell’attenzione ai bisogni, in una società che - ci informa l’Istat - vede il 5,6 per cento delle famiglie sopravvivere a stento. Il segnale che si attende è una spinta alle pratiche che, insieme al lavoro e alla produzione del reddito, sono in grado di fortificare la responsabilità sociale, garantire trasparenza e favorire l’impresa del bene, come scrive Claudio Magris sulla Lettura. Benessere, si legge sul Devoto Oli, "è una condizione di prosperità garantita da un ottimo livello di vita e da vantaggi equamente distribuiti". Droga e prostituzione non distribuiscono vantaggi. E non portano equità. Il re, o meglio, il Pil è nudo. Ma nessuno lo dice. Perché il governo modello interim è terreno fertile per le intemerate della magistratura di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 aprile 2016 Tu chiamalo se vuoi governo interim. A voler mettere da parte le ragioni di "opportunità" (termine orrendo) che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo Federica Guidi, a due anni dell’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi, dopo aver fatto tutte le valutazioni del caso relativamente al bilancio dei due anni di governo del segretario del Pd, vale forse la pena usare proprio il caso Guidi per buttare giù un altro bilancio, legato alla squadra scelta dal rottamatore per giocare la sua sfida di governo. Proviamo ad argomentare la nostra riflessione seguendo tre direttrici. Primo: funziona la squadra di governo? Secondo: quali sono i punti di forza e di debolezza della squadra? Terzo: è possibile tracciare uno schema del metodo Renzi osservando l’operato dei suoi ministri? La risposta alla prima domanda è semplice e vive all’interno di un paradosso: la squadra di ministri funziona per il semplice fatto che (a) quasi nessun ministro è insostituibile e (b) quasi tutti i ministri hanno accettato un principio, in teoria eretico. Il principio è questo: dai ministeri non passa alcun concreto processo decisionale e tutte le scelte (per la gioia delle procure birichine) partono, nascono e vengono elaborate e finalizzate a Palazzo Chigi. Con il risultato, accettato dai ministri, che i titolari dei dicasteri hanno ruoli da semplici esecutori-figurine. I veri ministri, tranne alcuni casi, si trovano solo e soltanto a Palazzo Chigi e il ministro Guidi, prima dell’inciampo, era uno dei molti ministri di fronte ai quali gli interlocutori avevano spesso, e giustamente, l’impressione di parlare con una persona competente, sì, ma impossibilitata a decidere alcunché, perché alla fine decidono tutto Luca, Maria Elena e Matteo. Al governo e ovviamente anche al partito (provate a chiedere a un qualsiasi dirigente del Pd quando è stata convocata l’ultima segreteria del Pd, gli si incroceranno i diti, e poi sarà costretto a dirvi: agosto 2015). La condizione di Guidi, seppure con sfumature diverse, è la stessa condizione che vivono dunque tutti (o quasi) i ministri del governo Renzi e la mancanza oggettiva di autonomia dei capi dei ministeri è, se vogliamo, insieme un punto di forza e di debolezza del premier. Da una parte, infatti, a differenza dei suoi predecessori, Renzi può trarre beneficio dal non avere costruito diarchie all’interno del governo e il solo fatto che sia difficile ricordarsi quali siano i nomi di tutti i ministri (provate a chiedere al primo passante, o a voi stessi, chi sono i nomi degli uomini che fanno parte dell’esecutivo) rende bene l’idea che non esistono stelle in grado di offuscare la luce del principe di Palazzo Chigi (e non è un caso che in due anni di governo non si ricordi una sola intervista di un qualche ministro che abbia fatto davvero notizia, tranne naturalmente quelle dei ministri intervistati da questo giornale, faccina). Dall’altra parte, invece, aver concentrato tutto a Palazzo Chigi - e aver tolto di fatto capacità di azione a molti ministri - ha creato una serie di ingorghi nei ministeri, ha rallentato spesso l’attività legislativa e ha contribuito a produrre leggi monster come quella sulla concorrenza (che giustamente la senatrice Lanzilotta propone di prendere e buttare nel cestino). L’arrivo di Nannicini a Palazzo Chigi - arrivo importante perché è il primo volto non fiorentino, non sanguigno, ammesso nella cerchia ristretta di Renzi - va letto anche sotto questa prospettiva: smaltire il traffico dei provvedimenti bloccati ai ministeri con una squadra di economisti che ha il compito di creare una serie di ministri ombra all’interno di Palazzo Chigi. Lo schema Renzi - nessuna luce che possa offuscare quella del premier - è in sostanza questo e anche se molti ministri hanno mostrato in questi anni delle capacità non proprio da centometristi (Guidi era tra questi) lo schema funziona (con un però) ed è l’emblema del metodo sindaco d’Italia. I ministri sono come degli assessori e gli assessori di governo non fingono neppure di essere in teoria legati al Capo dello Stato (che li nomina con decreto presidenziale) ma rispondono direttamente al sindaco d’Italia. Stop. Funziona per tutti così? Quasi per tutti, con qualche eccezione. Maria Elena Boschi, Pier Carlo Padoan, Paolo Gentiloni, Andrea Orlando (oltre ad Angelino Alfano). La prima, insieme con Lotti, è l’unico ministro ad aver voce in capitolo (e diritto di replica) su tutti i dossier del governo e di lei Renzi si fida ancora ciecamente (ed è comprensibile che le procure nemiche si facciano in quattro per macchiare il ministro). Il secondo si è fatto una ragione del fatto che i dossier di politica economica nascano prima a Chigi che al Mef e ha accettato, non avendo ambizioni strettamente politiche, di indossare i panni dell’ambasciatore del renzismo in Europa, riuscendo a essere un punto di equilibrio importante tra le istanze del governo e le richieste dell’Europa (se non ci fosse Padoan, l’Europa si sarebbe probabilmente già pappata Renzi). Gentiloni, anche in virtù del rapporto diversamente cordiale tra Renzi e Mogherini, è una delle persone che il presidente del Consiglio ascolta di più, non solo sui dossier di politica estera, e a Gentiloni Renzi lascia un buon margine di autonomia, anche se di fatto, come sempre accade con i governi caratterizzati da una forte leadership, le veci di ministro degli Esteri le fa spesso lo stesso premier. Caso diverso invece è quello di Orlando. Il ministro della Giustizia (capo dei giovani turchi insieme con Matteo Orfini) ha ancora un rapporto di fiducia con Renzi, nonostante i due siano meno complici rispetto all’inizio del percorso di governo. Anche se Orlando ha seguito una strada che il premier non ha apprezzato ("troppo timido") oggi il ministro ha un ruolo importante e, giocando di sponda con Legnini (Csm), è diventato l’unico vero interlocutore del governo con un pezzo di magistratura - e di questi tempi, in un contesto all’interno del quale una parte della magistratura è ideologicamente avversa al renzismo, avere un canale con il mondo dell’Anm e con alcune procure delicate diciamo che non è del tutto secondario. L’interim che per qualche settimana Renzi prenderà al ministero dello Sviluppo è da questo punto di vista, seguendo il nostro ragionamento, una non notizia. Il governo Renzi è infatti un "governo interim". E lo schema presenta molti pregi ma anche qualche difetto. Non ultimo che passando tutti ma proprio tutti i dossier di governo e di partito da Palazzo Chigi per un magistrato malizioso, spregiudicato e origliatore rischia di essere un gioco da ragazzi pescare dal suo mazzo delle intercettazioni una qualche telefonata non penalmente rilevante capace di creare un qualche problema in materia di opportunità politica al mondo renziano. La lunga fase di campagne elettorali è iniziata. E come ha potuto sperimentare già con il referendum sulle trivelle, le procure promettono di essere per Renzi un competitor ben più pericoloso dei suoi avversari politici. Il mazzo è lì. E prima o poi qualcuno allungherà la canna da pesca per vedere, ancora, l’effetto che fa. Il governo interim, con tutto il potere spostato a Palazzo Chigi, da questo punto di vista non può che essere un bocconcino prelibato per una procura che intende colpire il palazzo di governo. Renzi: "Quell’emendamento è roba mia. Se vogliono interrogarmi sono qui" di Alessandro Troncino Corriere della Sera, 4 aprile 2016 Renzi e il caso Tempa Rossa: mi fa ridere chi parla di lobby. La Procura: non pensavamo di sentirlo. Matteo Renzi si presenta da Lucia Annunziata, a In ½ h, e si assume tutta la responsabilità politica del caso "Tempa Rossa": "Quell’emendamento è roba mia". Dopo le dimissioni del ministro Federica Guidi, il premier reagisce e ci mette la faccia, difendendo il ministro Maria Elena Boschi e negando "opacità" nella vicenda. Renzi ripete più volte che il progetto non è un’iniziativa della sola Guidi: "Ho scelto io di fare l’emendamento e lo rivendico con forza. Le opere pubbliche sono state bloccate per anni, la scelta di sbloccarle è del mio governo. Vale per Tempa Rossa, come per Pompei, per Bagnoli come per la Salerno-Reggio Calabria". Il ministro Guidi, spiega, "ha fatto una cosa inopportuna". Ma le sue dimissioni immediate "dimostrano" la differenza con i governi precedenti. Annunziata chiede se succederebbe lo stesso in caso di responsabilità da parte del ministro Boschi. Renzi risponde che questa prassi "vale per tutti: anche per me". Ma, aggiunge, non ci sono responsabilità della Boschi: "È ministro per i Rapporti con il Parlamento ed è suo dovere valutare tutti gli emendamenti. È pagata per quello". Quanto agli illeciti e ai reati: "Siamo il Paese che quando qualcuno ruba, si bloccano le opere e non chi ha commesso il reato". C’è chi parla di complotti: "Io non ci credo sin dai tempi dei gomblotti di Aldo Biscardi. Credo che ci sia legittimamente una battaglia politica contro di noi da parte di tante persone". La Boschi ha parlato di "poteri forti", ma Renzi svicola e minimizza: "Non definirei Grillo e Berlusconi poteri forti, piuttosto pensiero debole". E ancora: "A me dà noia quando mettono in discussione la mia onestà, sono un ragazzo di Rignano. Possono dirmi che non sono capace ma se mi dicono che sono disonesto mi partono i 5 minuti". Per questo la denuncia ai 5 Stelle: "Hanno detto che c’è un governo complice e colluso, ma se mi tolgono l’onore reagisco". Annunziata chiede come sia possibile che non sapesse dell’inchiesta: "Non sapevo, ne abbiamo avuti troppi di premier che mettevano il becco nelle indagini. In un Paese civile c’è la distinzione tra potere giudiziario e legislativo. Se poi mi vogliono interrogare su tutte le opere che abbiamo sbloccato, sono qua". Ma da Potenza si fa sapere che i magistrati non avrebbero intenzione di sentirlo. Quanto alle lobby: "Mi fanno schiantare dal ridere quelli che parlano di lobby. Abbiamo fatto la legge sui reati ambientali, messo pene più dure sulle corruzione, nominato Cantone all’Anac, e stiamo facendo la legge sul conflitto d’interesse". Oggi alle 15 Renzi affronta la direzione del Pd, che fu rinviata per la tragedia del bus spagnolo. Allora si parlava di "resa dei conti", stavolta l’aria è cambiata: "Basta parlare di noi, la gente ci chiede di smettere di litigare". L’unità del partito prima di tutto, visto che il centrodestra si è ricompattato. Sperando, come dice Roberto Calderoli, che il governo Renzi sia "alla frutta". Il "comitato d’affari" e i politici: così venivano favorite le aziende di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 aprile 2016 Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto "Tempa Rossa". Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni - visto che ne parlava come un "favore" fatto al compagno Gianluca Gemelli - non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. "Ai grossi non interessa" - I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi "soci". Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: "Non è una cosa di sistema… capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli… chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?". Il controllo sugli emendamenti - Sottolinea il giudice: "La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i "grossi", lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai "grossi", vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali". Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della "rete" che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Le assunzioni di parenti e amici - Tra le "contropartite" pretese da alcuni amministratori locali - prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto - ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: "Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente". Braccialetto elettronico, 400 in attesa di Antonello Cherchi e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 Duemila braccialetti in funzione e una lista d’attesa di 400 persone. Gli strumenti di controllo per chi è stato assegnato agli arresti domiciliari in sostituzione della custodia cautelare in carcere non bastano. Il fabbisogno è, però, ben maggiore di quello che evidenziano i numeri dei soggetti in attesa. Tant’è che è prossima a partire una gara - il ministero dell’Interno attende solo il via libera dell’Economia - per la fornitura di diverse migliaia di strumenti di controllo. Una cifra che potrebbe sfiorare i 10mila braccialetti. Nel frattempo, i 400 soggetti "in fila" sono appesi alla sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, prevista per fine mese (si veda l’articolo sotto). La Suprema corte dovrà sciogliere il contrasto giurisprudenziale e stabilire se, anche in mancanza del braccialetto, il soggetto può comunque beneficiare dei domiciliari o deve invece rimanere in carcere. Il braccialetto può essere utilizzato anche quando i domiciliari vengono concessi in alternativa alla detenzione. In questo caso però, all’opposto di quanto previsto per la custodia cautelare, il controllo elettronico non è la regola ma spetta al giudice decidere se farlo scattare e motivare il perché. E questo spiega come mai la prossima gara punti a mettere in circolazione svariate migliaia di dispositivi. Una storia travagliata - L’intervento della Cassazione è la conseguenza di una vicenda che in 15 anni non è riuscita a trovare una sua dimensione e si trascina tra costi rilevanti (stigmatizzati dalla Corte dei conti), strumenti insufficienti e secondo alcuni obsoleti, gestione del sistema affidato a Telecom (affidamento senza gara dichiarato in un primo tempo inefficace dal Tar Lazio, ma poi confermato dal Consiglio di Stato, dopo un passaggio alla Corte di giustizia Ue). Un sistema che ha mostrato ancora di più la corda dopo che nel 2014 il legislatore ha ammesso il braccialetto come strumento di controllo "ordinario" per i domiciliari assegnati in alternativa alla custodia cautelare, chiedendo al giudice di motivarne il mancato utilizzo. È soprattutto da quel momento che i 2mila braccialetti previsti dalla convenzione si sono rivelati insufficienti. Ma anche prima non è che la questione avesse marciato senza intoppi e i problemi non sono mancati. Di contro, le spese sono sempre state rilevanti: circa 10 milioni l’anno fino al 2011 per 400 dispositivi, mentre per i 2mila previsti dalla convenzione con Telecom relativa al periodo 2012-2018 (il costo giornaliero è di 12 euro per dispositivo) e la gestione della piattaforma elettronica e dei servizi collegati - Telecom ha creato un centro nazionale di assistenza tecnica - la spesa rientrava in un appalto da 521,5 milioni bocciato dal Tar. Le critiche degli operatori - "Sono passati ormai quindici anni dall’introduzione del braccialetto elettronico, ma gli attuali 2mila dispositivi non consentono assolutamente di sollevare le Forze di polizia dall’attività di controllo di chi è ai domiciliari", dichiara Domenico Pianese, segretario generale aggiunto del Coisp, il sindacato indipendente di polizia. "Ci sono commissariati - continua Pianese - con decine di persone ai domiciliari e magari una sola volante cui è demandato anche il controllo del territorio. Tant’è che, purtroppo, i casi di reati commessi da persone ai domiciliari sono molto numerosi". Il braccialetto non serve infatti solo a scongiurare il pericolo di fuga ma anche a garantire l’effettiva permanenza nell’abitazione e quindi a evitare il verificarsi di reati in cui è necessario uscire di casa. Il problema però non è solo numerico ma anche tecnologico. "Sarebbe necessario avere la possibilità di controllare anche gli spostamenti che vengono autorizzati dal magistrato e, soprattutto, semplificare l’attuale sistema di attivazione e disattivazione dello strumento quando il soggetto deve uscire da casa", afferma Pianese. "Attualmente, i giudici, di fronte all’indisponibilità dei braccialetti seguono strade diverse, alcuni lasciano il soggetto in carcere mentre altri danno comunque i domiciliari", dice Riccardo Polidoro, responsabile dell'osservatorio carceri dell’Unione camere penali. L’Unione ha più volte denunciato e promosso iniziative contro la mancata concessione dei domiciliari a causa dell’indisponibilità dei mezzi di controllo elettronico. La cronistoria dal debutto fino a oggi: le tappe fondamentali del braccialetto elettronico 2000 - L’impiego dei braccialetti elettronici viene introdotto dal Dl 341/2000. Il 2 febbraio 2001 il decreto Interno-Giustizia detta le regole tecniche e, come scrive la Corte dei conti nella delibera 11/2012, parte una fase sperimentale con la stipula di contratti di noleggio con cinque società (Telecom per la componente rete e Finsiel per quella applicativa), nelle Province di Milano, Torino, Roma, Napoli e Catania, con 375 dispositivi. 2003 - Il ministero dell’Interno firma a febbraio una convenzione con Telecom Spa (integrata a novembre da un atto aggiuntivo) che prende in considerazione l’intero territorio nazionale: prevede l’installazione e l’assistenza per 400 dispositivi elettronici di controllo, la predisposizione infrastrutturale e la gestione operativa della piattaforma tecnologica. 2011 - Il 31 dicembre scade la convenzione Telecom, che viene rinnovata per 2mila braccialetti, senza gara pubblica, per altri sette anni, con scadenza al 31 dicembre 2018. L’accordo a trattativa diretta riguarda la fornitura di 2.000 braccialetti elettronici e fa parte di un appalto dall’importo complessivo di 521,5 milioni di euro (come riporta il Dossier del servizio studi del Senato relativo all’atto n. 1288). 2012 - A maggio, su ricorso di Fastweb, il Tar Lazio (sentenza 4997/2012) dichiara inefficace la convenzione per mancanza della gara. Nel settembre dello stesso anno, la Corte dei conti con la delibera n. 11 ricapitola i costi sostenuti durante il biennio sperimentale e il successivo contratto con Telecom: costi che, scrivono i magistrati contabili, hanno superato i dieci milioni annui. 2013 - Su ricorso di Telecom contro la sentenza del Tar Lazio del maggio 2012, il Consiglio di Stato emette un’ordinanza per porre due questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia Ue. La quale esamina la questione e non riscontrando violazioni alla normativa comunitaria, rimette la decisione sull’efficacia della convezione al giudice nazionale. Nel febbraio 2015 il Consiglio di Stato respinge la domanda di inefficacia, con la sentenza 540. 2014 - La legge 10/2014 di conversione del decreto legge 146/2013 modifica di nuovo l’articolo 275-bis del codice di procedura penale e dispone che il ricorso allo strumento elettronico sia la regola, salvo i casi in cui il magistrato non lo "ritenga necessario". La modifica incrementa l’utilizzo del braccialetto e le richieste superano l’offerta dei 2mila braccialetti forniti. 2016 - Il ministero dell’Interno indirà a breve un bando di gara per la fornitura di diverse migliaia di braccialetti: dalle prime stime potrebbe trattarsi di 10mila dispositivi. Nel frattempo, però, l’insufficienza degli attuali braccialetti ha creato il problema dell’applicabilità o meno dei domiciliari nel caso di indisponibilità, con sentenze di segno opposto e ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Braccialetto elettronico. Intoppo da superare per carceri meno affollate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 È un po’ una macchia nera su un abito di cui il ministero della Giustizia inizia a essere soddisfatto. Perché questa amministrazione molto ha scommesso sulle misure alternative al carcere, mettendo in campo una pluralità di interventi con l’obiettivo di ridurre il numero delle presenze in carcere. Per ragioni di ovvia civiltà e per altrettanto scontati motivi di opportunità politica. Dove l’invivibilità delle nostre carceri ha negli ultimi anni moltiplicato le prese di posizione in Europa di forte censura al nostro sistema detentivo. Interventi da ultimo culminati nel gennaio 2013 con la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo che giudicava le condizioni dei detenuti una violazione degli standard minimi di vivibilità che provoca una situazione di vita degradante. Un tema caro al ministro della Giustizia Andrea Orlando, tanto da indurlo a convocare gli Stati generali dell’esecuzione penale, sui quali si è da pochi giorni conclusa la consultazione telematica. Attenzione che ha prodotto i primi risultati. Su tutti i piani. La forbice tra capienza delle carceri e presenze si sta gradualmente riducendo, sino a fare ritenere possibile un suo annullamento entro i prossimi mesi. Gli ultimi dati infatti segnalano 52.846 presenze a fronte di 49.504 posti disponibili sulla base degli standard di abitabilità degli immobili civili. E sul piano politico è stato chiuso il fascicolo del Consiglio d’Europa che aveva messo l’Italia nelle scomode vesti di "osservato speciale". La popolazione carceraria italiana ha avuto un calo record del 17,8%, e questa diminuzione è la più grande registrata nei 47 Paesi monitorati. E allora la situazione paradossale dei braccialetti elettronici, ora documentata dall’inchiesta del Sole 24 Ore del lunedì, chiama in causa direttamente il Governo. Troppo ampio lo scarto tra disponibilità degli strumenti e effettive necessità. Evidente l’esiguità del budget a disposizione, che chiama in causa direttamente la distribuzione delle risorse tra le tante voci di spesa e va a confliggere con un assetto normativo che estende i casi di ricorso al braccialetto, facendone prassi abituale nel caso il giudice ritenga di disporre gli arresti domiciliari. Contraddizione tanto più stridente se solo si tiene conto che la diffusione dei braccialetti permetterebbe un recupero di risorse significative da parte delle Forze dell’Ordine, oggi troppo spesso costrette a una teoria di controlli assai dispersiva. I nodi sul piano giuridico potranno essere sciolti dalla ormai prossima pronuncia delle Sezioni unite, ma resteranno ancora di attualità quelli sul numero di apparecchi disponibili, in attesa almeno di una gara per ora solo annunciata. Braccialetto elettronico. Sulla mancanza di strumenti la parola alle Sezioni unite di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 A fine mese le Sezioni unite penali della Cassazione si pronunceranno sulla delicata questione se, concessi o ritenuti concedibili gli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico, l’eventuale indisponibilità di tale strumento di controllo giustifichi il mantenimento dello stato di detenzione in carcere ovvero il diniego degli arresti domiciliari. Sul punto si sono formati due orientamenti. Il primo di questi (Cassazione, sezione I, sentenza 39529/2015), muovendo dalla premessa che, in base all’articolo 275-bis del codice di procedura penale, la misura degli arresti domiciliari è sempre disposta con il braccialetto (salvo che sia ritenuto dal giudice, nel singolo caso, non necessario), ne ha desunto che la prescrizione di tale dispositivo integra una modalità esecutiva degli arresti domiciliari, non già una speciale tipologia di misura cautelare. Ha quindi ritenuto illegittima la disposizione che subordini l’esecuzione del provvedimento di concessione dei "domiciliari" all’effettiva disponibilità del braccialetto, poiché si verrebbe a far dipendere l’efficacia della misura da una condizione (la disponibilità dello strumento) che costituisce una mera modalità di controllo del soggetto: eventuali difficoltà tecniche e amministrative non possono cioè condizionare l’esecuzione del provvedimento una volta che il giudice ne abbia ritenuta l’idoneità ad assolvere le esigenze cautelari nel caso concreto. La disposizione codicistica andrebbe quindi interpretata nel senso che, una volta valutata l’adeguatezza della custodia domiciliare sulla scorta dei criteri tradizionali, nel caso risulti l’indisponibilità dei dispositivi elettronici, dovrà procedersi ai controlli con le modalità "classiche" (verifiche domiciliari da parte delle Forze dell’ordine). Per un secondo indirizzo, la cautela del braccialetto entrerebbe invece nel giudizio stesso di adeguatezza della misura domiciliare ad assolvere le esigenze cautelari (Cassazione, sezione V, sentenza 40680/2012), strettamente dipendente, quest’ultimo, dalla valutazione sulla personalità dell’imputato (Cassazione sezione II,28115/2015; Cassazione, sezione II, 520/2015). Il problema nasce dal rilevante divario tra le richieste e il numero di dispositivi disponibili (2mila per tutto il territorio nazionale), tant’è che, nella prassi, la disponibilità delle apparecchiature è accertata dalle Forze dell’ordine solo dopo l’emissione del provvedimento da parte del giudice e nel caso - assai frequente - di temporanea indisponibilità, la posizione è inserita in una lista di attesa il cui esaurimento dipende della sopravvenuta disponibilità della strumento. Qualunque sarà la soluzione accolta dalla Corte riunita, essa non potrà però riguardare l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione (detenzione domiciliare ed esecuzione domiciliare di cui alla legge 199/10), per le quali l’applicazione del "braccialetto" non costituisce la norma (come per la misura cautelare domiciliare), ma è rimessa alla discrezionalità del giudice di sorveglianza, alla luce dell’obiettivo di favorire la deflazione della popolazione carceraria (articolo 58-quinquies della legge 354/75): ogniqualvolta residuino dubbi sull’affidabilità del detenuto che ne sconsiglierebbero la concessione, il giudice di sorveglianza potrà ugualmente applicare il beneficio se ritiene che il rischio possa essere efficacemente contrastato dal controllo aggiuntivo permesso dal braccialetto elettronico. Niente riparazione per ingiusta detenzione per chi ha contatti con gruppi terroristici di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 17 febbraio 2016 n. 6379. In materia di riparazione per l'ingiusta detenzione, il mostrarsi contigui agli altri componenti del gruppo associato e condividere con questi ultimi le ideologie terroristiche che ne caratterizzano l'attività in forma associata, quantomeno con modalità idonee a rafforzare l'azione delittuosa con finalità terroristiche di matrice religiosa, integra quella colpa grave che esclude il diritto all'indennizzo, ponendosi tale condotta in diretta relazione causale con l'intervento della autorità giudiziaria attraverso l'adozione della cautela. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza n. 6379 del 17 febbraio 2016 relativamente a una fattispecie cui era stata rigettata la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da un cittadino extracomunitario in relazione a un periodo di detenzione carceraria patita per il reato di associazione di terrorismo internazionale di cui all'articolo 270-bis del Cp, da cui poi l'istante era stato assolto dalla Corte di assise "per non avere commesso il fatto". Le motivazioni dei giudici - La Suprema corte ha ritenuto correttamente e congruamente motivato il diniego, avendo il giudice di merito spiegato come l'interessato, con colpa grave, avesse dato causa al provvedimento cautelare, vuoi in ragione dei plurimi contatti mantenuti con soggetti facenti parte dell'associazione, cui aveva espresso solidarietà e adesione, vuoi con il possesso di vario materiale propagandistico della ideologia radicale islamica. In tema di riparazione per ingiusta detenzione - Va ricordato, in termini generali, che, in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l'ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito), non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell'autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ad effetto" (tra le altre, sezioni Unite, 15 ottobre 2002, ministero del Tesoro in proc. De Benedictis). Con specifico riguardo, poi, ai reati associativi, si è parimenti stabilito, con affermazione qui calzante, che le frequentazioni con persone coinvolte in traffici illeciti possono essere ritenuta indice di "colpa grave", ostative all'accoglibilità della richiesta, purché il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità a essere interpretate come indizi di complicità, in relazione al tipo e alla qualità dei collegamenti con tali persone, così da essere poste quanto meno in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (sezione III, 1° luglio 2014, Pistorio). Anticorruzione, arriva il regolamento interno dell'Anac di Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 L'Anac adotterà presto il regolamento per disciplinare l'esercizio della propria attività di vigilanza sull'attività delle pubbliche amministrazioni e degli altri soggetti tenuti al rispetto delle norme di prevenzione della corruzione. Si è conclusa lo scorso 16 marzo, infatti, la fase di consultazione pubblica dello schema di provvedimento, volta ad acquisire da parte di tutti i soggetti interessati ogni osservazione ed elemento utile per l'elaborazione del documento definitivo. Con tale provvedimento, in base ai principi generali stabiliti dalla legge 241/1990, l'Autorità regolamenterà il procedimento di vigilanza attivato d'ufficio o su segnalazione, tenendo conto della direttiva programmatica adottata annualmente dal proprio Consiglio, dalla fase di attivazione a quella di conclusione dell'istruttoria, con l'individuazione della tipologia di atti/provvedimenti che gli uffici possono proporre al Consiglio al termine dell'istruttoria. Le tre tipologie di procedimenti. In particolare, il regolamento è destinato a disciplinare tutti i procedimenti di competenza dell'Anac su: • effettiva applicazione ed efficacia delle misure anticorruzione adottate in base all'articolo 1, commi 2 lettera f), 3, 4 e 5 della legge 190/2012; • rispetto delle regole sulla trasparenza amministrativa, in base all'articolo 1, commi 2 lettera f), 3, e da 15 a 36 della legge 190/2012, ed esatto adempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalle norme, in base all'articolo 45, comma 1, del Dlgs 33/2013; • rispetto delle norme in materia di prevenzione della corruzione e dell'illegalità e delle misure richieste dal piano nazionale anticorruzione, dai piani di prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni ed enti e dalle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa, di cui riceva notizia o segnalazione in base all'articolo 19, comma 5, lettera a) del Dl 90/2014, convertito con modificazioni dalla legge 114/2014 e dell'articolo 54 - bis del Dlgs 165/2001; • rispetto delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi dirigenziali e degli incarichi di responsabilità amministrativa di vertice, conferiti e in corso di conferimento, in base all'articolo 16, commi 1 e 2, del Dlgs 39/2013. Altri aspetti. Disciplina altresì: • i procedimenti avviati in seguito a notizie o segnalazioni di illeciti in base all'articolo 19, comma 5, lettera a) del Dl 90/2014 anche pervenute in base all'articolo 54 - bis del Dlgs 165/2001; • i procedimenti avviati in base all'articolo 1, comma 2, lettera f) e comma 3 della legge 190/2012 per vigilanza e controllo sull'effettiva applicazione e sull'efficacia delle misure adottate da amministrazioni ed enti, volti ad accertare la conformità del contenuto dei piani triennali adottati alle indicazioni del piano nazionale anticorruzione (mancanza, insufficienza o illegittimità delle misure di prevenzione della corruzione contenute nel Ptpc) ovvero la conformità di atti e comportamenti dell'amministrazione/ente alle prescrizioni di legge, del Pna o dei piani triennali adottati. La procedura sanzionatoria. Il regolamento indica dettagliatamente i termini per l'avvio nonché i termini per la conclusione dei procedimenti. In particolare, il termine per l'avvio del procedimento è fissato in 30 giorni decorrenti dalla data di ricevimento della segnalazione ovvero della decisione del presidente o del consiglio. Il termine per la conclusione dell'istruttoria è di 180 giorni decorrenti dalla data di invio della comunicazione di avvio del procedimento, fatta salva la possibilità del responsabile del procedimento di segnalare alle parti interessate una proroga non superiore a 90 giorni, nelle ipotesi espressamente previste. Nei procedimenti con oggetto la violazione delle norme sulla trasparenza del Dlgs 33/2013, il termine fissato dall'Anac per l'adeguamento non è computato nei suindicati 180 giorni. In considerazione della complessità delle attività istruttorie necessarie per l'esercizio delle funzioni di vigilanza, i termini del procedimento possono essere comunque sospesi, per un periodo complessivamente non superiore a 90 giorni. Possono partecipare all'istruttoria, presentando memorie scritte, documenti, deduzioni e pareri, i soggetti ai quali è stata inviata la comunicazione di avvio del procedimento e altri soggetti portatori di interessi diretti, concreti e attuali correlati all'oggetto del procedimento che ne facciano motivata richiesta entro 30 giorni dall'avvio del procedimento. La documentazione presentata è valutata dall'ufficio competente ove pertinente all'oggetto del procedimento. Le segnalazioni dei dipendenti pubblici. Una disciplina specifica è riservata alle segnalazioni di condotte illecite possono trasmesse all'Autorità dai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con la richiesta della tutela della riservatezza della propria identità. Le segnalazioni devono essere inviate compilando il modulo soecifico pubblicato sul sito dell'Anac e disponibile nell'allegato 2 alla determinazione del 28 aprile 2015 n. 6, recante le "linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti" (whistleblower)". È possibile, comunque, allegare i documenti ritenuti di interesse anche ai fini delle opportune verifiche dell'Autorità in merito alle vicende segnalate. Il presidente assegna le segnalazioni pervenute da dipendenti di altre amministrazioni al dirigente dell'ufficio Uvmac, che cura la relativa istruttoria avvalendosi anche di un gruppo di lavoro interno multidisciplinare, nominato dal consiglio. I componenti del gruppo di lavoro sono soggetti ai vincoli di riservatezza e alle responsabilità come identificate nel codice di comportamento dell'Anac. Responsabilità enti: ampia la nozione di profitto di rilevante entità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 17 marzo 2016 n. 11209. In tema di responsabilità amministrativa degli enti, la nozione di "profitto di rilevante entità", ai fini dell'applicazione delle sanzioni interdittive (articolo 13, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231) non può essere riferita al solo profitto inteso come margine (o utile) netto di guadagno, in quanto la valutazione che il giudice è chiamato a compiere non va operata alla stregua di criteri strettamente economico-aziendalistici, ma deve tenere conto di tutti gli elementi che connotano in termini di valore economico l'operazione negoziale. Inoltre, il profitto non va limitato al vantaggio economico attuale, immediatamente conseguito dal reato, ma deve comprendere anche l'utile potenziale. La Cassazione con la sentenza n. 11209 del 17 marzo 2016 si sofferma sui criteri di apprezzamento della nozione di profitto di "rilevante entità" da considerare ai fini dell'applicazione delle sanzioni interdittive, con riguardo al disposto dell'articolo 13, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 231 del 2001. Un’accezione ampia - In proposito, il giudice di legittimità adotta un'accezione ampia di profitto, tale da consentire al giudice di valutare in tutta la sua portata il disvalore del reato e dell'illecito amministrativo. In tale ambito, si puntualizza in motivazione, potranno pertanto assumere valore, quali parametri rivelatori del profitto di rilevante entità: a) gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall'impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita (ad esempio, a seguito di una variante in corso d'opera o quali addizioni al progetto approvato); b) l'assunzione dei requisiti per la qualificazione dell'impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici (attestazione Soa); c) l'incremento del merito di credito dell'impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari; d) l'aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori; e) l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse aziendali; f) un maggiore accesso ad altri appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali. Tutti questi parametri, in definitiva, secondo la Corte di cassazione, costituiscono elementi espressivi di utilità economiche che causalmente e ordinariamente sono ricollegabili, anche in via mediata, all'aggiudicazione illecita, idonei a configurare il profitto di rilevante entità che l'impresa ha tratto dal reato; mentre, si conclude, del tutto riduttivo sarebbe il ricorso a una nozione meramente contabile di profitto che si porrebbe in contrasto con gli obiettivi di tutela che la disposizione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo n. 231 del 2001 mira a soddisfare. L’insussistenza del penale fa decadere l’accertamento di Marco Nessi e Roberto Torelli Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016 Ctp Forlì sentenza 520/2015. Il giudicato penale, anche se non avente piena efficacia e giudizio vincolante nel processo tributario, stante l’autonomia dei due procedimenti (Cassazione, 20860/2010 e 19786/2011), può essere comunque preso a riferimento dal collegio giudicante, se l’accertamento fiscale è stato esclusivamente basato sul quadro probatorio risultante nella denuncia penale. È il principio affermato dalla Ctp di Forlì nella sentenza 520 (seconda sezione) del 31 dicembre 2015 (presidente Roccari, relatore Paradisi). Il caso - L’agenzia delle Entrate, sulla base delle risultanze di un Pvc, notificava un avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 2007 nei confronti di una Srl mediante l’applicazione della disciplina relativa al raddoppio dei termini di accertamento in presenza di denuncia penale (articolo 43, comma 3 del Dpr 600/1973 e articolo 57, comma 3 del Dpr 633/1972). In particolare, l’ente impositore rilevava l’indeducibilità dei costi relativi alle prestazioni di servizi che erano state contabilizzate e dedotte nel conto "lavorazioni esterne", in quanto considerate oggettivamente inesistenti. A detta dell’ufficio, infatti, il relativo fornitore costituiva una società "di comodo o cartiera", essendo stato completamente inadempiente ai propri obblighi fiscali, dichiarativi e contributivi e privo di qualsiasi organizzazione aziendale, e senza l’attrezzatura necessaria a svolgere alcuna attività. Il ricorso - La società presentava ricorso e, tra le argomentazioni difensive, rilevava la necessità di annullare l’avviso di accertamento, in quanto notificato oltre il termine ordinario di accertamento pur in assenza di un rilievo penale. A conferma di ciò veniva sottolineato che, a fronte dell’ipotesi di reato che era stata trasmessa dalle Entrate alla procura, il giudice delle indagini preliminari aveva nel frattempo già disposto l’archiviazione del procedimento penale. La sentenza - Nel richiamare i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 247/2011, i giudici hanno preliminarmente riconosciuto, in diritto, il legittimo utilizzo dell’istituto del raddoppio dei termini di accertamento da parte dell’Agenzia, essendo presenti tutti i requisiti previsti ex lege e, conseguentemente, l’obbligo di trasmissione della notitia criminis alla Procura. Nel merito, il collegio giudicante ha osservato che il Gip aveva disposto l’archiviazione del procedimento penale in quanto la presunta inesistenza (o sovrafatturazione) delle operazioni contestate non era risultata da alcuna prova certa, ma semplicemente contestata sulla base di indizi non aventi i requisiti di gravità, precisione, concordanza. Infatti, le indagini operate avevano evidenziato l’effettiva e concreta operatività della presunta cartiera e l’idoneità della stessa a produrre le prestazioni fatturate. Pertanto, poiché le presunzioni e gli elementi posti dall’ufficio a fondamento della pretesa erariale erano gli stessi già rilevati nella denuncia penale, la Ctp ha accolto il ricorso e annullato l’avviso di accertamento, riconoscendo l’illegittimità della pretesa impositiva, perché basata su mere supposizioni. Modena: carcere più "vivibile", ma la spending review taglia il settore educativo modenatoday.it, 4 aprile 2016 Casella, direttore del carcere di strada Sant'Anna ha relazionato in Municipio sullo stato della struttura: "Sovraffollamento ormai alle spalle, ma ci sono diversi altri problemi". Il carcere di Modena non è più sovraffollato, ma la spending review ha segato nella struttura le attività di rieducazione. Per non parlare dell'assenza di un magistrato di sorveglianza in pianta stabile, col risultato che i permessi ai detenuti, quando arrivano, arrivano a singhiozzo. È il quadro del carcere Sant'Anna, meno allarmante rispetto a qualche anno fa ma comunque non privo di insidie, dipinto mercoledì sera in commissione consiliare comunale (Servizi) dal suo direttore, Rosa Alba Casella. La commissione, presieduta dal dem Tommaso Fasano, è stata innescata da un ordine del giorno diffuso a suo tempo dal gruppo Pd, dopo gli episodi di violenza alla casa circondariale denunciati dai sindacati di categoria nei mesi e negli anni scorsi; pende anche, da tempo, una visita di una delegazione del Consiglio comunale alla struttura. Nonostante i singoli casi di violenze denunciati dal sindacato autonomo Sappe (quello del tentato suicidio segnalato l'altro ieri si riferiva in realtà al carcere di Forlì), che non da oggi considera la direzione del Sant'Anna inadeguata, la stessa Casella ha fatto capire che il peggio è passato. Se la popolazione del Sant'Anna superava i 600 detenuti, ora si è ridimensionata a quota 381: al 65% stranieri (33 le donne delle quali 17 straniere). In generale, ha ricordato Casella, quello modenese è un carcere di media sicurezza, con detenuti per criminalità comune dalle pene non superiori a cinque anni e, quindi, nessun ergastolano. Oltre all'edificio originario e principale del carcere, un nuovo padiglione è stato aperto a febbraio 2013, dopo due anni di lavori proprio per rispondere all'allora sovraffollamento: ospita 200 detenuti, ma ora è aperta soltanto una sezione. Dei tre piani detentivi, in sostanza, ne viene usato solo uno: gli altri due sono momentaneamente chiusi per problemi strutturali, ma appunto anche se fossero in funzione risulterebbero ormai vuoti. Due sezioni, in particolare, sono dedicate alla categoria dei "sex offenders", in tutto 90 persone finite in cella per pedofilia o violenza sessuale in genere. Si tratta di detenuti che, quando la sentenza diventa definitiva, devono espiare un anno di carcere ininterrotto prima di accedere ai benefici vari previsti: nell'anno in questione dovrebbero essere seguiti dagli psicologi ma, e qui ha iniziato a esporre i problemi Casella, "gli esperti in realtà non ci sono, non c'è un programma particolare per seguire queste persone". Soltanto uno psicologo dell'Ausl ne segue una decina, ma nell'ambito di un progetto di recupero degli uomini violenti. Tra le altre attività di recupero, Casella ha citato i corsi di formazione professionale, dalla ristorazione alla manutenzione del verde, oltre ai due ettari coltivati a ortaggi e frutta biologica, senza dimenticare le arnie per miele. Alessandria: un laboratorio di falegnameria dentro il carcere "Don Soria" fondazionesocial.it, 4 aprile 2016 Il progetto "Social Wood", avviato da Ises grazie al contributo della Fondazione SociAL, coinvolgerà e impiegherà i detenuti della Casa Circondariale con l’obiettivo di restituire loro dignità e autonomia. Il progetto "Social Wood", avviato da Ises (Istituto Europei per lo sviluppo socio-economico) grazie al contributo della Fondazione SociAL - vuole creare all’interno della Casa Circondariale ex "Don Soria" di Alessandria un "laboratorio artigianale di falegnameria" per la produzione di mobili in pallet e accessori di arredamento realizzati con materiali riciclati. Il laboratorio artigianale coinvolgerà e impiegherà i detenuti della Casa Circondariale con l’obiettivo di restituire loro dignità e autonomia, il tutto nel pieno rispetto dell’ambiente. "Una produzione realizzata in carcere - spiegano gli organizzatori - rappresenterebbe un aiuto concreto al detenuto favorendo l’acquisizione di una maggiore autonomia e responsabilità, necessarie per un buon reinserimento sociale. "Social Wood" vuole essere la parte iniziale di un progetto più ambizioso e strutturato che porterà alla creazione di una cooperativa sociale di tipo B, attraverso la quale si darà la possibilità ai detenuti che hanno preso parte alla prima fase del progetto, di diventare soci lavoratori, come previsto dalla legge 381 del 1991?. Saranno beneficiari diretti del progetto saranno i detenuti della Casa Circondariale di Alessandria, alcuni dei quali potranno partecipare al corso di "Falegnameria e design" organizzato all’interno della struttura e altri potranno essere impiegati si dall’inizio nell’attività di falegnameria artigianale perché in passato hanno già acquisito le competenze professionali necessarie per poter lavorare. Da considerare beneficiari indiretti dell’iniziativa le famiglie dei detenuti - che potranno beneficiare dei compensi che i detenuti riceveranno lavorando in carcere - ma soprattutto la collettività la quale potrà contare su un importante mezzo di riabilitazione della persona detenuta in un’ottica di legalità e mediante un’azione di informazione, di promozione, di sostegno, di orientamento e di riqualificazione e sviluppo della professionalità. Ises sviluppa progetti ad alto valore socio-culturale per la crescita territoriale partecipando a bandi finanziati a livello comunitario e nazionale. I progetti presentati dalla nostra Associazione, sia in qualità di capofila sia in qualità di partner, spaziano dalla salute pubblica alla cultura, dalla formazione alla giustizia e dalla ricerca sociale alla ricerca tecnologica, aderendo ai diversi bandi lanciati con la programmazione comunitaria e nazionale. Roma: Brunetta contro il Progetto Casa di Leda "progetto rovinato da non trasparenza" di Martino Villosio Il Tempo, 4 aprile 2016 "È stato mortificato un progetto bellissimo per incapacità politica, mala gestione, mancanza assoluta di trasparenza, totale inadempienza del dovere di informare i residenti e i cittadini". È così che Renato Brunetta, da capogruppo di Forza Italia alla Camera, l'altro ieri davanti in Parlamento è tornato alla carica contro il progetto "Casa di Leda". Insoddisfatto per le risposte date dal governo all'interpellanza con cui Fi, giorni fa, ha sollevato la questione delle due mega ville destinate da Comune da accogliere detenuti nel cuore dell'Eur, una delle quali - peraltro - è risultata inidonea allo scopo in quanto adibita ad ospitare uffici. "Nessuno ha avvertito i residenti dell’intenzione di realizzare un simile progetto in ville situate all’interno del loro quartiere", è scritto nell'interpellanza urgente del 29 marzo 2016 indirizzata ai ministri della Giustizia e dell'Interno da Fi. "Nessun bando pubblico, nessuna gara indetti per avere solo la possibilità di presentare progetti sperimentali altrettanto buoni o addirittura migliori. Tutto è stato fatto sottobanco in evidente spregio dei più basilari principi democratici e di correttezza". A mancare sarebbe poi anche la chiarezza sui costi, visto che negli atti ufficiali si parla solo dei 150.000 euro stanziati da Onlus Poste per 6 detenuti nel 2016 mentre, per esempio, la sola villa destinata alle madri detenute dispone di un'utenza da 40 kwt. Nell'interpellanza, sottoscritta da diversi deputati di FI, si punta anche il dito contro il mancato rispetto di quanto sottoscritto nel Protocollo d'Intesa tra Comune, ministero della Giustizia e Fondazione Poste Insieme Onlus. "Nessun piano di zona risulta studiato e adottato con riguardo al quartiere dove si vuole istituire la casa protetta", spiega il documento, "né il comune risulta avere previsto, né tanto meno attivato, le altre iniziative indicate nel protocollo d'intesa, quali, esemplificando, il sostegno alla costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi alla struttura alternativa della detenzione domiciliare". Le presunte incapacità e le inadempienze riscontrate, ha rincarato la dose Brunetta in aula il primo aprile, "sono anche alla base di Mafia Capitale e anche in quell'oggetto c'erano iniziative sociali assolutamente condivisibili che sono diventate fatti criminali proprio perché non sono state rispettate le regole burocratiche, amministrative, democratiche". Tempio Pausania: iniziativa del Rotary, mille libri in dono ai detenuti di Nuchis di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 4 aprile 2016 Successo dell’iniziativa solidale firmata dal Rotary e che si inserisce nel più ampio progetto della giustizia riparativa. "Libertà nella Lettura", il progetto firmato dal Rotary Club di Tempio, ha avuto un grandissimo successo. Sono stati coinvolti numerosi circoli rotariani sardi con lo scopo di raccogliere libri e non solo in favore degli istituti carcerari dell’isola. Mille libri. A darne notizia è stata la stessa presidente del circolo tempiese, Piera Sotgiu, dirigente comunale e responsabile dei Servizi alle persone e alle imprese. "La raccolta - dice, ha fruttato solo a Tempio, più di mille libri e non è bastata una sola giornata per ricevere le donazioni nella sede della Proloco, dove il Rotary aveva stabilito il punto di raccolta. Grande solidarietà. "La popolazione tempiese - dice ancora Piera Sotgiu, ha dimostrato grandissima solidarietà, sensibilità all’iniziativa e senso civico. Dopo due settimane, i libri, racchiusi in trenta capienti colli, sono stati trasportati alla Casa di reclusione di Nuchis. Qui saranno catalogati e collocati presso la biblioteca della struttura carceraria. Si chiude così, positivamente,, un progetto che ha visto il Rotary Tempiese protagonista di un’iniziativa che ha trovato consensi in tutta l'isola e anche l’apprezzamento del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria e delle Direzioni carcerarie della Sardegna. Rotary sardi sugli scudi. Tempio, era capofila di un progetto più ampio che, ancor prima della raccolta dei libri, aveva visto uniti a quelli di Tempio, i rotariani di Alghero, Bosa, Cagliari Est, La Maddalena, Macomer, Nuoro, Ogliastra, Olbia, Oristano, Ozieri, Quartu S. Elena, Sanluri Medio Campidano, Sassari, Sassari Nord, Sassari Silki e Siniscola, impegnati a fornire anche gli arredi per le biblioteche e le sale di lettura nelle diverse carceri dell’Isola. Giustizia riparativa. "Occorre anche sottolineare - prosegue la Sotgiu - che "Libertà nella Lettura", ha arricchito ed è entrato a pieno titolo nel più ampio progetto sulla Giustizia Riparativa. Quello avviato dalla ex direttrice Carla Ciavarella, (in collaborazione con Patrizia Patrizi e Gian Luigi Lepri, del Dipartimento di Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Sassari), e che aveva portato la struttura carceraria di Nuchis alla ribalta nazionale, facendola assurgere, primo carcere in Italia, a un Laboratorio sociale di sperimentazione amministrativo-politico ad approccio riparativo-relazionale sul modello delle Restorative City inglesi". Riscatto. Il tutto con una serie di iniziative ed eventi che al primo impatto lasciavano sbalorditi quanti non conoscevano la Giustizia riparativa, che non è "buonismo", ma prevede di porre in essere pratiche riparative, con detenuti con un lungo fine pena, che decidono di intraprendere un nuovo cammino con l’intento di riscattarsi di fronte alla società. Taranto: in carcere arriva il vescovo per la messa e i boss della Scu vanno via per protesta di Mara Chiarelli La Repubblica, 4 aprile 2016 I detenuti della sezione di Alta sicurezza in attesa di processo hanno chiesto ai poliziotti penitenziari di ritornare in cella poco prima della messa di Pasqua: da tempo vogliono essere trasferiti nel penitenziario di Lecce. L’arcivescovo di Taranto e la direttrice del carcere entrano in chiesa, loro si alzano dal banco, si voltano di spalle all’altare e chiedono alle guardie carcerarie di essere riaccompagnati in cella. A mettere in scena la singolare protesta, la prima di una serie di rimostranze che si sono poi verificate nei giorni successivi, sono stati alcuni detenuti nella sezione alta sicurezza del carcere di Taranto, riconducibili allo zoccolo duro della Sacra corona unita. L’episodio si è verificato il giorno di Pasqua, nella cappella del carcere. All’iniziativa dei boss della Scu si sono associati altri detenuti che hanno chiesto di rientrare in cella. Loro, i condannati per associazione mafiosa, hanno giustificato il gesto, dicendo che si erano stancati di aspettare monsignor Santoro e la direttrice Stefania Baldassarri, ma i vertici dell’amministrazione penitenziaria ritengono si sia trattato di una scusa. Si tratta, in sostanza, di un tentativo da parte di detenuti "parcheggiati" nel carcere di Taranto per lo svolgimento del processo a loro carico, in corso a Lecce, che vorrebbero essere trasferiti nel penitenziario del capoluogo salentino. Richiesta inaccettabile per pregressi problemi registrati nel carcere leccese. Subito dopo sono scattate quindi le sanzioni disciplinari da parte della direzione del carcere, come il trasferimento di alcuni in isolamento e, per altri, il divieto per alcuni giorni di usufruire dell’ora d’aria. Ma il meccanismo così innescato non si è fermato, dando luogo ad altre reazioni da parte dei detenuti: giovedì scorso, tutti i detenuti della sezione "c", quella che ospita appunto gli affiliati alla Sacra corona unita, si sono rifiutati di rientrare in cella dall’ora d’aria, rendendo palese la protesta con il battere delle stoviglie contro le sbarre. Dimostrazione alla quale si sono poi uniti anche gli altri "ospiti" del penitenziario. L’allarme, scattato subito, è durato due ore, ma la situazione è rientrata solo dopo l’intervento del direttore che ha spiegato loro la necessità di rispettare le regole, anche dentro il carcere, in ossequio a quella che è una forma di rispetto. "A Taranto - evidenzia Federico Pilagatti, segretario regionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria - c’è una grossa carenza personale, e molto pericolosa perché nelle ore serali in particolare, un solo agente vigila su tre sezioni detentive. Si calcoli che per ogni sezione ci sono tra i 60 e i 70 detenuti. In tutto il carcere, invece dei 300 posti disponibili ne vengono occupati 510. Ne ho parlato anche con il sindaco e il prefetto di Taranto. Quel carcere è uno dei più sovraffollati d’Italia, e quindi particolarmente a rischio evasione". Firenze: due detenuti oggi sposi nel carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 aprile 2016 Lei è Mara, 29 anni, detenuta nel reparto femminile. Lui è Salvatore, 36 anni, recluso nel reparto maschile. Si conoscevano di vista, prima dell’arresto. Poi si sono rivisti dentro Sollicciano, fugacemente, durante un incontro pubblico all’interno del carcere. Ed è stato amore a prima vista, un colpo di fulmine che ha dato un senso alla vita dietro le sbarre. Le loro celle sono distanti, agli antipodi della struttura carceraria. Impossibile vedersi, se non attraverso le grate delle finestre. Mara e Salvatore hanno imparato a comunicare col panneggio, l’alfabeto dei detenuti che usa le lenzuola: una lettera diversa a seconda di come viene mosso il panno. Giornate intere a scambiarsi segnali ed effusioni attraverso le grigie inferriate, cercando di scorgere sguardi ed espressioni fra le pieghe delle lenzuola. Poi l’incontro. Per vedersi hanno programmato un colloquio. Anziché incontrare parenti e familiari, hanno scelto di incontrarsi tra di loro. Nel Giardino degli Incontri, l’area dei colloqui, hanno tradotto in parole i movimenti dei lenzuoli. Poi si sono baciati, nascondendosi dietro una colonna per non farsi vedere dagli agenti penitenziari. Era il 22 dicembre 2014, faceva freddo, quel primo bacio è impresso nella loro mente, tiene in vita le loro giornate tutte uguali, segna la redenzione con la forza dell’amore. Un amore nato in carcere e che qui verrà suggellato. Lunedì 4 aprile, nel pomeriggio, Mara e Salvatore si sposeranno nella chiesetta dell’istituto penitenziario. Sposi a Sollicciano. Il cappellano, Don Vincenzo Russo, celebrerà le nozze. È stato lui a comprare l’abito allo sposo, mentre il vestito della sposa è stato acquistato dalla madre. Le fedi sono pronte, il cuore dei due reclusi batte fortissimo. Sarà un matrimonio ristretto, il carcere ha regole ferree e gli invitati non saranno più di quindici. La cena nuziale sarà frugale, tra i corridoi del carcere. Un brindisi al volo e il taglio della torta insieme agli agenti penitenziari. Poi di nuovo in cella. Eppure, sarà un matrimonio speciale, unico nel suo genere. Risuonerà la musica nuziale, l’altare sarà agghindato. "Il momento più bello della nostra vita lo vivremo in carcere - dicono i due sposi - Qui tutto è ristretto, persino il matrimonio, ma la nostra voglia di stare insieme ci fa superare anche questi limiti". Lei, arrestata per spaccio, uscirà tra pochi mesi. Lui, dentro per spaccio ed estorsione, dovrà scontare ancora quattro anni. Riescono a vedersi pochissimo, perlopiù durante gli eventi culturali dentro le mura del carcere. Ma le giornate passano veloci, per quanto possibile, animate dal pensiero e dall’amore reciproco. Quella che sembrava una condanna, è diventata una benedizione. "In carcere abbiamo trovato l’amore". Adesso sognano un futuro insieme: "Appena usciremo da Sollicciano finalmente faremo l’amore e avremo un figlio". Larino (Cb): la musica incontra la solidarietà, tre concerti per aiutare i detenuti di Alessandro Corroppoli primonumero.it, 4 aprile 2016 Sarà l’evento clou di questa primavera, aprile sarà il mese della musica e solidarietà. Due entità che si andranno a fondere e marceranno verso un’unica direzione: migliorare le condizioni di vita dei detenuti della casa circondariale frentana. Una rassegna musicale composta da tre concerti e denominata, giustamente, "Aria Incondizionata", offrirà non solo le performance di tre grandi artisti del panorama blues, jazz e pop della musica italiana quali Francesco Buzzurro, Gennaro Porcelli e Antonella Ruggero; ma raccoglierà fondi da destinare alla Onlus "Il Muro Invisibile" e alla Onlus "Iktus", per sostenere progetti tesi al recupero e al corretto reinserimento in società dei detenuti della Casa Circondariale di Larino. L’iniziativa, promossa dalle Onlus "Il Muro Invisibile" e "Iktus", gode del patrocinio della Caritas Diocesana Termoli-Larino e dell’Amministrazione Penitenziaria della Casa Circondariale di Larino "le quali hanno prontamente risposto alla chiamata, mettendo a disposizione le loro migliori risorse per la buona riuscita dell’iniziativa nella quale tutti confidano" e del comune di Larino che metterà a disposizione il nuovo e rinnovato cinema teatro "Risorgimento" come location nella quale svolgere i concerti. "Proponiamo una rassegna di concerti con l’obiettivo dichiarato di portare alla luce il tema carcerario. La sua profondità è tale da urtare le diverse sensibilità al punto che si preferisce ridurre al minimo l’esposizione a questa tematica - afferma Giancarlo Graziaplena, anima viva dell’organizzazione. Lo facciamo sfruttando la forza intrinseca ed estrinseca di una rassegna musicale di livello qualitativo notevolissimo, in virtù dell’eccellenza degli artisti coinvolti. Si tratta, in buona sostanza, di collegare gli eventi musicali ad una raccolta fondi a favore delle Onlus "Il Muro Invisibile" e "Iktus" attualmente impegnate nel proporre continui percorsi volti al recupero e al corretto reinserimento dei detenuti in società". Quello della detenzione è un tema assolutamente difficile e per molti versi scivoloso "che noi abbiamo pensato bene di affrontare, e non di bypassare come sempre si tende a fare, partendo da ciò che ci unisce piuttosto da ciò che ci divide - continua Giancarlo. E l’elemento che ci unisce è senz’altro la musica. Ed è attraverso la musica che vogliamo solleticare un confronto aperto, il più possibile scevro da pregiudizi". Ad aprire la rassegna sarà il 10 aprile Francesco Buzzurro. Concertista internazionalmente riconosciuto, Buzzurro è risultato tra l’altro "miglior chitarrista jazz" in un sondaggio dei lettori indetto dalla rivista Guitar Player Magazine. Ha insegnato tecnica dell’improvvisazione in molti seminari e scuole di musica di tutto il mondo ed è stato direttore artistico del dipartimento riunito di chitarra all’Università della musica di Los Angeles. Francesco Buzzurro grazie alla sua straordinaria tecnica di matrice classica, aperta a una conoscenza profonda del jazz e dell’improvvisazione, è diventato negli anni un punto di riferimento assoluto per il mondo della chitarra acustica. Importante nella sua carriera è l’incontro con il produttore Alfredo Lo Faro che crede nel modo di fare arte del Maestro e la promuove in tutto il mondo. La borsa internazionale della cultura di Freiburg lo sceglie come miglior chitarrista Europeo 2013 e lo premia il 28 gennaio 2014. Come chitarrista fuori dagli schemi e per la sua tecnica peculiare di improvvisazione sulla chitarra classica, Francesco Buzzurro viene annualmente invitato dalla University of Southern California di Los Angeles, spesso come docente in seminari unificati per i dipartimenti di chitarra classica e jazz. Nel 2010, insieme a Richard Smith, musicista con il quale collabora da diversi anni, è in tour negli Stati Uniti ed in Italia, effettuando concerti ed impartendo lezioni presso università americane. Per il suo modo di suonare viene invitato ai festival di chitarra classica, di chitarra acustica tanto quanto ai festival jazz. In Italia ha collaborato nel mondo della musica leggera e della canzone d’autore con Lucio Dalla, Renzo Arbore, Fabio Concato, Pippo Pollina, Antonella Ruggiero, Ornella Vanoni, Francesco Baccini, Gigi D’Alessio, Gigi Finizio, Simona Molinari, Mauro Ermanno Giovanardi. La settima successiva, il 17 aprile, sarà la volta di Gennaro Porcelli, attuale chitarrista di Edoardo Bennato e leader del trio Gennaro Porcelli & the Highway 61. Gennaro Porcelli è considerato da pubblico e critica uno dei più promettenti talenti del Blues "made in Italy" con un repertorio musicale che spazia dal Chicago style a quello di New Orleans, dallo stile di Austin a quello di Memphis; quasi a ripercorrere proprio la Highway 61, la nota autostrada americana lungo la quale si sono sviluppati i diversi stili del Blues. Nel 2010 diventa endorser "Marvit", marchio italiano di liuteria, e nell’ottobre del 2011 la sua chitarra, la MarvitMahat GP "Gennaro Porcelli Signature", viene esposta sulla "Wall of Music" del BarAbba di Gallarate insieme a veri cimeli appartenuti a chitarristi di fama internazionale come Eric Clapton, Steve Hackett, Joe Satriani e tanti altri. Tra i nomi illustri con cui Gennaro ha avuto il piacere di suonare ricordiamo: Alex Britti (tour 2006/2007), Louisiana Red, Bobby Dixon (figlio del più famoso Willie Dixon), Nathaniel Peterson, Kenny Neal, Abi Wallestein, Carvin Jones, Ronnie Jones, Ernesto Vitolo, Tony Esposito, Roberto Ciotti, Antonio Onorato, Rudy Rotta, Beppe Grillo, Lino Cannavaciuolo, Piero Pelù, Blue Stuff, Lello Panico, Maurizio Capone, Enzo Avitabile, Eugenio Bennato, Tullio De Piscopo, Morgan, Pino Scotto, Tre Allegri Ragazzi Morti, Claudio Baglioni. A chiudere la rassegna sarà Antonella Ruggero il 24 aprile. La Ruggiero è la voce indimenticabile che ha fondato e reso famosi i Matia Bazar in Italia e nel mondo. Nell’ottobre del 1989 decide di abbandonare il gruppo e le scene per dedicarsi ai suoi interessi umani ed artistici, dedicando molto tempo ai viaggi, durante i quali ha l’occasione di sperimentare diversi modi di fare e intendere la musica. Partecipa più volte al Festival di Sanremo e presterà negli anni la sua voce alla musica lirica e sperimenterà le sue doti vocali nel campo della musica sacra. Ultimo lavoro, di una carriera lunga e luminosa, è del giugno del 2015 quando, uno spettacolo portato in scena nel 2009 con il duo artistico "Coniglio Viola" diventa un progetto discografico. Nel cofanetto "Requiem Elettronico", composto da un Cd e un Dvd, Antonella e "ConiglioViola" propongono dieci canzoni storiche del pop italiano, ri-arrangiate da sei diverse firme, legate al controverso tema della morte. Tutti i concerti si svolgeranno al cinema teatro "Risorgimento" di Larino a partire dalle 18.30. Intanto il 13 marzo scorso è partita ufficialmente la prevendita. È possibile acquistare i biglietti per ogni singolo concerto oppure acquistare un abbonamento per tutta la durata della rassegna. Il costo dell’abbonamento è di 50 euro. Mentre, per i primi due concerti quelli di Francesco Buzzurro e Gennaro Porcelli il costo d’entrata è di 20 euro. Mentre per quello di Antonella Ruggiero di 25 euro. Per ulteriori info e acquisti biglietti/abbonamento chiamare 347.8591246 (Giancarlo), 347.7411273 (Valeria), 346.0911307 (Vincenzo). L'antiterrorismo dell'Unione di Gianluca Di Feo La Repubblica, 4 aprile 2016 L'Italia finora non ha subito gravi attentati di matrice jihadista sul suo territorio, ma allo stesso tempo è stato uno dei primi Stati europei a dovere fronteggiare la presenza di organizzazioni eversive legate alle istanze radicali islamiche: gruppi che però non commettevano reati nel nostro Paese, limitandosi spesso a fornire solo il supporto ai combattenti attivi in altre nazioni. Il fenomeno si è manifestato durante la guerra in Bosnia con gli spostamenti dei combattenti musulmani verso il fronte balcanico, si è poi ripresentato con le cellule qaediste coinvolte nella progettazione di attentati e nel reclutamento di miliziani per gli attacchi in Iraq e Afghanistan mentre negli ultimi anni sembra essere diventata dominante l'influenza del cosiddetto Stato islamico nell'attrarre foreign fighters. Nel contrasto di queste minacce le autorità italiane hanno fatto tesoro delle due esperienze più importanti degli ultimi quarant'anni: i successi nella lotta al terrorismo interno e alle mafie. In entrambi i casi, le istituzioni sono riuscite a ottenere risultati importanti senza mai enfatizzare il ruolo dell'intelligence, concentrando invece gli sforzi nel potenziare l'attività delle forze dell'ordine e della magistratura. Non si è rinunciato ad adottare strumenti investigativi più moderni o incisivi, ma introdotti sempre attraverso nuove norme di legge approvate dal Parlamento: abbiamo così creato una legislazione avanzata sui collaboratori di giustizia, spesso chiamati "pentiti", e regolamenti up to date sulle intercettazioni telefoniche e ora anche per le operazioni sotto copertura su Internet. È a questa tradizione che ha fatto riferimento il procuratore capo di Torino Armando Spataro in una recente intervista a Repubblica, sottolineando come anche la risposta europea all'offensiva stragista dell'autoproclamato Califfato debba muoversi lungo questi binari: "Va potenziata la sinergia tra le tutte le istituzioni e le forze in campo, non il mero rafforzamento delle attività di intelligence. Bisogna anche operare per rendere effettiva la cooperazione giudiziaria internazionale, di cui sono protagonisti la magistratura e le forze di polizia tradizionali". Spataro è stato magistrato di prima linea nelle indagini sulle Brigate rosse e poi sulle famiglie mafiose, ma si è occupato anche di movimenti jihadisti. È stato l'autore di una delle più importanti inchieste condotte in Europa sulle extraordinary rendition statunitensi, individuando e facendo condannare gli agenti della Cia e i loro complici italiani che a Milano rapirono Abu Omar. Nonostante questo, Spataro ritiene che il ruolo dell'intelligence nelle moderne democrazie sia fondamentale, ma che bisogna evitare confusioni e zone grigie. Oggi l'impressione è che lo scambio di informazioni tra polizie e magistrature sia più efficace proprio tra quelle nazioni che hanno dovuto combattere movimenti terroristici interni particolarmente radicati, come Italia, Spagna e Germania. Un dato confermato dall'esperienza sul campo di Spataro come responsabile del pool milanese che si è occupato di movimenti jihadisti dopo il 2001, mentre invece lo stesso procuratore ha sottolineato le difficoltà nel rapporto con Francia e Gran Bretagna. L'Europa senza confini mantiene barriere enormi tra le sue magistrature, con leggi così diverse da agevolare l'infiltrazione dei terroristi. Ma non è puntando solo sull'intelligence che si riuscirà a sconfiggerli. È necessario che si cominci subito il percorso per uniformare ordinamenti giudiziari, leggi e procedure. In modo da potere rendere valide le prove raccolte in un Paese della Ue nei processi di un altro Paese, cosa oggi spesso impossibile. E questo cammino deve partire proprio dalle intercettazioni - telefoniche, ambientali o sul web - che si sono dimostrate lo strumento fondamentale per la repressione di questo fenomeno: quello che si ascolta in Italia o in Germania, deve potere avere valore di prova anche in Francia o in Spagna. Altrimenti diventerà inutile ogni tentativo di processare e condannare attentatori che agiscono senza frontiere. Migranti: parte il piano europeo, primi rinvii verso la Turchia Corriere della Sera, 4 aprile 2016 Sono 135 i migranti scortati su due piccoli traghetti dalle forze di polizia europea verso la Turchia: sono solo i primi rinvii, nell’ambito dell’accordo con l’Ue che prevede che gli irregolari siano rispediti fuori dalla Grecia. In 2000 attendono a Lesbo il proprio destino dal 20 marzo. La polizia sull’isola greca di Lesbo ha cominciato a mettere migranti e rifugiati su imbarcazioni dirette in Turchia, i primi rinvii nell’ambito dell’accordo tra Ue e Ankara per limitare gli arrivi in Europa. Tra pesanti misure di sicurezza, all’alba di oggi 135 migranti sono stati scortati su due piccoli traghetti dagli agenti della agenzia europea di protezione delle frontiere Frontex. L’imbarcazione Lesvos ha lasciato il porto di Mitilene, e sarà seguita dalla partenza di un catamarano, il Nezli Jale, una imbarcazione più grande e capace di trasportare diverse centinaia di persone. Le proteste - Circa 4.000 immigrati sono trattenuti sull’isola greca dall’entrata in vigore il 20 marzo dell’accordo tra Bruxelles e la Turchia. Dopo i dovuti controlli, sono arrivati i primi "fogli di via", accolti con proteste. Sulla vicina isola di Chio la polizia antisommossa si è scontrata con residenti locali proprio durante una protesta contro le deportazioni pianificate. "Questo è il primo giorno di tempi molto duri per i diritti dei rifugiati. Nonostante le gravi lacune legali e la mancanza di un’adeguata protezione in Turchia, l’Ue sta andando avanti in un accordo pericoloso", afferma Giorgos Kosmopoulos di Amnesty International in Grecia. L’operazione è stata supervisionata da un tenente generale del polizia greca, che non ha fornito dettagli immediati sulla nazionalità dei migranti deportati Migranti. Al Brennero centri sociali italiani contro polizia austriaca di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 4 aprile 2016 Cominciano a girare lunedì le chiavi che dovrebbero chiudere i portoni dell’Europa. Tra qualche mistero e parecchia improvvisazione, la Grecia dovrebbe iniziare a espellere i profughi verso la Turchia. Ci sono le navi e i poliziotti, ma non si sa da dove partiranno o in quale porto turco potranno attraccare. In più non tutti in Europa condividono la decisione presa dai 28 governi dell’Unione: colpi di scena legali o puri e semplici disordini sono da mettere in conto. Spray urticante, dieci feriti - l primo assaggio domenica, alla frontiera tra Italia e Austria, in un luogo simbolico per la pacificazione europea come il Brennero. Lì centinaia di ragazzi dei centri sociali italiani, austriaci e tedeschi, hanno protestato contro la politica dei muri. Per loro "l’arroccamento nella fortezza europea" è "disumano" ed "egoista". Erano 600 o qualche centinaio in più, soprattutto arrivati dal Nord-Est. Qualcuno indossava dei giubbotti gialli di salvataggio che aveva raccolto in Grecia, proprio sulle spiagge dove sbarcano i migranti. Controlli in arrivo - La stazione ferroviaria del Brennero era il punto di ritrovo, poi da lì hanno percorso in corteo la Statale che porta in Austria e meno di un chilometro dopo i vecchi gabbiotti dove i doganieri austriaci controllavano i documenti a chi veniva dall’Italia nei decenni pre Schengen, si sono scontrati con un centinaio di poliziotti inviati da Vienna. Lo schieramento di sicurezza era robusto, con pompieri, sette ambulanze e un elicottero a sostegno. Secondo le forze dell’ordine, una cinquantina di attivisti hanno lanciato bengala e sassi al cordone di sicurezza provocandone la reazione. Una decina di dimostranti sono rimasti feriti, alcuni fermati e anche cinque agenti hanno dovuto ricorrere alle cure mediche. Le autorità austriache hanno ribadito la linea dura elaborata in marzo guidando gli altri Stati sulla "rotta balcanica" dei migranti a chiudere le frontiere a Sud. Il governatore del Tirolo - "Nessuno di noi si augura che siano istituiti punti di controllo al Brennero, ma se gli Stati europei non rendono sicure le frontiere esterne, l’Austria sarà costretta a controllare i propri confini" ha dichiarato il governatore del Tirolo Günther Platter. Non sono soltanto i centri sociali a guardare con preoccupazione a quel che dovrebbe accadere a partire da oggi, ma anche agenzie delle Nazioni Unite e decine di organizzazioni per i diritti umani. Da almeno due isole greche di fronte alla Turchia dovrebbe partire oggi un ponte navale per espellere dall’Europa i profughi non desiderati. Dovrebbero essere cinquecento o qualcuno di più. Dipende da come reagiranno. Ogni profugo respinto avrà un agente a sorvegliarlo durante l’intera traversata. Ufficialmente degradati a clandestini, dovrebbero essere imbarcati da Lesbo e Chios, ma il governo greco è arido di informazioni, forse per evitare che troppa attenzione possa aumentare i problemi che si aspettano. Sarà quella di lunedì la prima applicazione pratica dell’accordo raggiunto il 20 marzo tra i 28 di Bruxelles e il governo di Ankara. Chiunque sia arrivato sulle coste greche dopo quella data e non abbia i requisiti per chiedere asilo in Europa sarà rispedito in Turchia. Non con i gommoni sui quali è arrivato, ma su navi a noleggio controllate dalle forze di Frontex, la missione militare che svolge la funzione di polizia di frontiera europea. Spetterà ad Ankara decidere se accogliere i clandestini e in che modo oppure rimandarli in patria. Caso Regeni. Il governo egiziano "mai detto che banda lo aveva ucciso" La Repubblica, 4 aprile 2016 Il viceministro: "Ricerca persone coinvolte continua". Non confermato il vertice di martedì a Roma con la delegazione di investigatori. Il governo egiziano non ha mai sostenuto che la banda di cinque rapinatori uccisi dalla polizia "fosse responsabile dell'assassinio" di Giulio Regeni. Lo ha dichiarato il viceministro aggiunto dell'Interno Abou Bakr Abdel Karim, secondo il sito del quotidiano Al Masry Al Youm, facendo riferimento al comunicato del ministero in cui si dava notizia del ritrovamento dei documenti di Regeni a casa dei familiari dei banditi. "La ricerca delle persone coinvolte nella sua uccisione è ancora in corso" ha aggiunto. Il vice ministro fatto queste dichiarazioni in un'intervista telefonica mandata in onda dalla trasmissione Al-Haya Al Youm sulla rete satellitare Al Haya. Nel comunicato del 24 marzo del ministero dell'Interno si affermava che la banda di rapinatori "era dietro all'uccisione dell'italiano" e che il capo della banda criminale aveva nascosto il borsello di Regeni a casa di sua sorella. Il ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukri, in un'intervista rilasciata a Washington, aveva parlato dell'assassinio di Regeni come di "un atto isolato" da valutare "in questo quadro, considerando la determinazione e l'impegno totale del governo egiziano e degli apparati di sicurezza a continuare gli sforzi per scoprire la verità e arrestare gli aggressori". Nell'intervista il ministro ha lasciato intendere che esiste una linea diretta di forte collaborazione tra Roma e il Cairo sul caso Regeni. In realtà dal 25 gennaio, giorno del sequestro del giovane ricercatore ritrovato senza vita il 3 febbraio, persistono delle ambiguità. Fra l'altro a pochi giorni dall'annunciato arrivo a Roma della delegazione di investigatori che dovrebbe consegnare al procuratore Pignatone il dossier sulle indagini egiziane, l'incontro previsto per martedì 5 aprile non è stato confermato. Sono trascorsi oltre due mesi, scanditi dalle tante ricostruzioni della magistratura, della polizia e anche del governo egiziano per spiegare la morte di Giulio, dalla vendetta personale all'incidente stradale, all'azione dei fondamentalisti, al sequestro a scopo di lucro, alla rapina, al delitto maturato in ambienti omosessuali fino al traffico di reperti archeologici. Queste ipotesi sono state percepite come puri depistaggi. Tanto da spingere l'Italia a sanzioni nei confronti dell'Egitto. Regeni al Cairo studiava l'attività dei sindacati e la difficile difesa dei diritti dei lavoratori in un Paese governato dai militari. Aveva sviluppato i suoi contatti con quel mondo per completare il suo percorso verso il dottorato. Si è speculato su un Regeni spia, un Regeni finito nel mirino per i suoi contributi giornalistici firmati con uno pseudonimo. Per ora parlano i pochi fatti accertati: Giulio era uno studioso, morto dopo diversi giorni di sequestro sotto le torture subite da professionisti dal profilo ben lontano da quello dei presunti criminali comuni a cui la polizia egiziana ha provato ad attribuire la paternità dell'omicidio. Omicidio Ilaria Alpi, tutti i dubbi sul processo: il superteste ritratta di Alberto Custodero e Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 4 aprile 2016 Da 16 anni il somalo Omar Hassan Hashi è in cella per il delitto. Ma le due prove su cui quell'accusa poggiava si sono sgretolate. Il principale accusatore ammette di essere stato pagato per mentire. E Repubblica può pubblicare l'audizione con l'ex ambasciatore Cassini che smonta la credibilità del riconoscimento da parte di Abdi. Due prove sono bastate per condannare Omar Hassan Hashi per il duplice omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Ma oggi, a 16 anni di distanza, quell'accusa si è sgretolata. Da una parte il principale testimone dell'accusa, Gelle, ha ritrattato interrogato dai pm di Roma. Dall'altra il riconoscimento dell'imputato condannato da parte dell'autista della troupe, Abdi, si rivela inconsistente anche nelle parole dell'uomo che l'ha portato in Italia accreditandolo come testimone. "Io non darei un soldo bucato alle testimonianze di Abdi perché è un bantu: non è una persona affidabile, farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere". Giuseppe Cassini, ex ambasciatore, era il diplomatico italiano in Somalia che ha svolto gli accertamenti che hanno portato alla condanna di Hashi per il duplice omicidio. E la sua testimonianza lascia letteralmente sbigottiti i commissari della Commissione parlamentare di inchiesta che lo hanno convocato per una audizione. Il suo interrogatorio avviene in seduta segreta giovedì 28 ottobre 2004. Ma solo nei giorni scorsi, il documento della sua deposizione è diventato pubblico dopo che la Camera ha desecretato tutte le 10mila pagine della Commissione. Abdi e Gelle, due testi dalla credibilità dubbia. Abdi è l'autista di Ilaria Alpi, era sull'auto quando il commando ha sparato. E poi è diventato uno dei due teste d'accusa (insieme a Gelle). Gelle ha dichiarato alla procura di Roma nei giorni scorsi (e a Chi l'ha visto? un anno fa), di avere detto il falso contro Hashi dietro compenso. E la credibilità di Abdi - nel frattempo morto - è stata come detto demolita dalle parole di Cassini. È Cassini che ha portato in Italia Abdi, lo ha fatto viaggiare sullo stesso aereo di Hashi (quindi, presunto assassino e aggredito insieme), ne ha avvalorato durante l'indagine della Digos e della magistratura l'attendibilità. Poi, però, alla Commissione racconta un'altra verità. E lo definisce un bantu, cioè una persona del tutto inattendibile. Cassini: "Io non darei un soldo bucato alle testimonianze di Abdi perché è un bantu". "La testimonianza di uno come Abdi è labile". Il pm Ionta interroga Abdi tra mille contraddizioni. Il 17 luglio 1997 il pm Franco Ionta interroga l'autista di Ilaria Alpi, Abdi, che racconta per la prima volta in procura le concitate fasi dell'agguato. Ma cade in tante contraddizioni. La più clamorosa è smascherata dal pm grazie a un video, che Repubblica è in grado di mostrare in esclusiva. Abdi dice di essere rimasto ferito dalle schegge del parabrezza andato in frantumi per le raffiche sparate frontalmente da uno dei due aggressori. Ionta gli mostra le immagini fatte nell'immediatezza dell'eccidio. E gli chiede: "Dov'è lei?". Abdi: "Sono quello". Ionta: "Ma come fa a dire che è stato ferito se la sua camicia è bianca, e non ha alcuna traccia di sangue?". Il processo di revisione. Per questi motivi a Perugia si sta svolgendo il processo di revisione, per scagionare definitivamente Hashi che nel frattempo ha scontato 17 anni di carcere. Va precisato che in primo grado Hashi fu assolto, mentre fu condannato in Appello (tornò apposta dall'Olanda per essere presente al processo), e poi in Cassazione. Attualmente sta scontando gli ultimi tre anni in affidamento in prova. Chi è Cassini? Quando Ilaria Alpi viene uccisa, in Somalia scoppia lo scandalo delle presunte violenze contro cittadini e cittadine somali perpetrate da militari italiani. La procura di Livorno apre un'inchiesta penale contro i militari, il Parlamento istituisce la Commissione Gallo. Cassini viene spedito laggiù (unico diplomatico italiano mentre divampa la guerra civile, in assenza di un governo locale), per trattare con la comunità somala la questione dei risarcimenti dei danni subiti dai militari. Il ministro degli esteri di allora è Lamberto Dini, vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni, Il segretario generale della Farnesina è Boris Biancheri. Cassini riceve un incarico non scritto, informale: "Visto che sei in Somalia per la questione dei militari, vedi di trovare gli assassini di Ilaria Alpi". E Cassini si prodiga per farlo. Ma lo fa con tale zelo, che alla fine - a detta dei commissari della Commissione - sembra essere "artefice" - testuale - di un teorema accusatorio fondato su testimonianze costruite ad arte. Cassini: "Gelle attendibile per proprietà transitiva". Ecco come Gelle è stato individuato da Cassini. Il diplomatico - così racconta - si rivolge a Ahmed Washington, funzionario della Unione Europea, e gli chiede aiuto. Questo gli presenta un suo amico, tal Abdessalam Shino, che a sua volta gli fa conoscere il Gelle. "Questo Washington - chiede il presidente Carlo Taormina a Cassini - ha dichiarato a lei di conoscere poco Gelle. Quindi, in che modo questo Gelle diventa attendibile per lei?". Cassini: "Per la proprietà transitiva, il fatto che ci sia Shino di mezzo. Tutto qua". Deiana. "È un ragionamento fantasioso". Cassini: "Ma non esiste altro modo". La deputata di Sel Elettra Deiana contesta a Cassini di aver creato una "trappola" per Ashi. "Questo Hashi Omar Hassan viene impacchettato fin da metà dicembre come responsabile". "Già da metà dicembre - incalza Deiana - si sa in ambienti somali che costui dovrà venire in Italia e probabilmente verrà arrestato. Si impacchetta un personaggio per portarlo in Italia per questo scopo. Questa è l’idea che mi sono fatta. Quindi, di conseguenza, si impacchetta questo personaggio sulla base di fantasie e non sulla base di indizi e di riscontri". Lo scoop di Repubblica prova dell'"impacchettamento" di Hashi. La prova dell'impacchettamento la danno alla Commissione-Alpi alcuni scoop di Repubblica, a firma Gianni Maria Bellu, che dalla Somalia, quando ancora nessuno in Italia sa nulla, scrive che una delle vittime dei militari (Ashi), è coinvolto nell'omicidio Alpi. Bellu, interrogato, confermò di avere appreso la notizia da fonti somale. Precisamente dice: "È una fonte della Somalia, dell’Unione europea". Il convincimento che Ashi sia stato attirato in una trappola è bipartisan. Ne è convinto anche il presidente del Pdl Carlo Taormina, ma questa volta i dubbi riguardano il teste Gelle. "Ambasciatore - dice Taormina - lei deve ricordare che ci può essere un cittadino somalo che sta in galera, con sentenza passata in giudicato, a causa di una testimonianza (quella di Gelle, ndr), di cui lei è l’artefice assoluto". Siria: il documento degli alawiti "con Assad al potere non ci saranno riforme" di Gianluca Di Feo La Repubblica, 4 aprile 2016 La comunità che ha sostenuto fino a oggi il regime chiede un nuovo corso a Damasco, un appello per la transizione che può far finire la guerra. Sono una delle comunità più antiche e misteriose del mondo, quella che alimenta il potere della famiglia Assad, che ha combattuto senza pietà per difendere il regime e sta pagando un prezzo altissimo nella guerra civile che insanguina la Siria. Ma adesso una parte dei tre milioni di alawiti chiede un nuovo corso a Damasco, che determini il cambiamento nel vertice e permetta di iniziare un cammino di pacificazione, attraverso la costruzione di uno Stato laico e democratico. Lo fa con un documento in 35 punti, analizzato in esclusiva da un'inchiesta congiunta di Repubblica, Welt e Figaro, condotta incontrando diversi promotori dell'iniziativa: esponenti alawiti che vivono in Siria e i cui nomi non vengono riportati a tutela della loro incolumità. Il documento intreccia aspetti politici e religiosi, presentandosi come una "Dichiarazione di riforma dell'Identità". Ha infatti l'obiettivo di superare i contrasti dottrinari che da secoli oppongono gli alawiti ai musulmani sunniti, la maggioranza della popolazione siriana che dal 2011 ha preso le armi contro la dittatura. Rivalità che risalgono al tardo medioevo, quando una fatwa sunnita ha marchiato di eresia la setta: una persecuzione violenta che ha forgiato il pensiero della comunità, rimasta per mezzo millennio arroccata sulle montagne, fino al crollo dell'impero ottomano. Da allora gli alawiti si sono lentamente espansi, diventando dominanti nelle forze armate e ispirando la nascita del partito laico Baath. Finché nel 1971 uno dei loro esponenti, il generale Hafez al Assad, ha imposto la dittatura e li ha resi una "minoranza al potere". Nel 1982 c'è stata una feroce rappresaglia contro i movimenti sunniti, con il massacro di migliaia di persone. Quasi una premessa alla repressione condotta da Bashar, il figlio ed erede di Hafez al Assad, dopo le proteste popolari che 5 anni fa hanno dato inizio alla guerra civile. Adesso con questo documento una parte degli alawiti cerca di inserirsi nelle trattative di pace in corso a Ginevra. E gli autori del testo spiegano che pur di mantenere unita la Siria sono pronti anche ad accettare un presidente sunnita a capo però di uno Stato laico che rispetti tutte le religioni. Un'apertura che - se realmente sostenuta dalla setta - potrebbe segnare una svolta nei colloqui. I promotori dell'iniziativa dichiarano che dietro di loro c'è la maggioranza degli alawiti: "Ci siamo rivolti prima ai Mashaeikh (ndr. leader religiosi) di livello più basso e la gran parte ci ha sostenuto, rappresentando il 40 per cento della comunità. Quindi siamo passati a quelli di alto rango raccogliendo l'appoggio dei rappresentanti di un altro 25 per cento". La situazione in Siria non ha permesso di verificare queste valutazioni, né è stato possibile riscontrare l'adesione al proclama di alcune decine di capi religiosi, intellettuali, parlamentari - indipendenti o membri del partito Baath - e ufficiali delle forze armate - in carica o in pensione - di primo piano. Le personalità incontrate dai giornalisti di Repubblica, Welt e Figaro rivestono ruoli importanti nella comunità: non si tratta di esiliati o dissidenti, ma di figure che mantengono la loro attività nel paese. E sottolineano di fare riferimento alle quattro "famiglie" principali che compongono la setta: "I sostenitori dell'appello vengono da tutte le zone abitate dagli alawiti, da Latakia e Tartus sulla costa ma anche da Homs, Hama e Damasco nell'interno". Non propongono un golpe, ma una trasformazione dall'interno: "Non siamo contro Assad come persona, siamo contro l'attuale sistema. Non possiamo salvare lo Stato se lui si dimette subito. Ma con lui al potere non ci saranno riforme. Così abbiamo bisogno di un cambiamento per fasi, monitorato dalla comunità internazionale". Nei loro propositi, l'iniziativa "può essere una via d'uscita per il regime. I nostri capi religiosi possono negoziare un accordo e garantire la protezione della famiglia Assad". E credono che questa sia l'ultima occasione per salvare la loro comunità e l'intera nazione dal disastro. "L'idea della Dichiarazione è anche di disegnare una roadmap per la pace. Vogliamo la fine del massacro". Le loro parole testimoniano le ferite scavate da 5 anni di scontri senza quartiere. "In ogni famiglia, almeno una persona è stata uccisa. Ci sono madri che hanno perso 4 figli e i loro mariti". Per poi rimarcare il loro punto di vista: Assad ha sfruttato la rivolta del 2011 per lasciare gli alawiti senza alternative alla guerra. "Questo conflitto è stato scatenato nel nostro nome ma sono soprattutto i nostri ceti popolari che ne pagano il prezzo". Il documento ha un carattere religioso perché questa è l'essenza della comunità. Il loro culto è esoterico, riservato agli iniziati e celebrato in templi privati. Ha radici antichissime, che affondano nelle dottrine neoplatoniche e gnostiche, con un'entità superiore da cui tutto emana, "come la luce dal sole": "Nell'alawismo la questione centrale è la natura di Dio. Nell'Islam sciita e sunnita, Dio è un essere superiore che punisce alcuni e premia altri. L'alawismo trascende questa visione. Dio è infinito, indefinibile e rappresentato in ogni essere vivente". Il loro credo va oltre i canoni musulmani: "Emanazioni di Dio possono essere riscontrate in ogni religione e fede. Per gli alawiti Platone è un santo, come lo sono Pitagora e Alessandro il Grande". Ribadiscono la centralità e sacralità del Corano, anche se seguono una loro interpretazione: "Cerchiamo di leggere il vero significato del Corano. Nel racconto di Noè, ad esempio, nel diluvio vediamo la vita degli umani in questo mondo, mentre l'arca per noi è la Sapienza". Fino a ora, sono stati considerati una branca della disciplina sciita sulla base dei principi insegnati nel nono secolo da Muhammad Ibn Nussayr. Un aspetto valorizzato dalla famiglia Assad, potenziando i legami con l'Iran degli ayatollah e con gli Hezbollah libanesi, che dal 2011 sono intervenuti a fianco del regime nel conflitto. Il documento invece sancisce che l'alawismo è "un terzo modello dell'Islam e dentro l'Islam. Formiamo una confessione separata, che non è né testuale, né razionale come nel modello rappresentato dai nostri fratelli sciiti e sunniti". I promotori spiegano: "Il nostro scopo è marcare le distanze tra la comunità e Assad, dichiarare la nostra vera identità e fare pace con i sunniti". Che speranza ha questo proclama di influire sulle trattative di pace? Lo snodo oggi è quello di definire un'alternativa a Bashar al Assad. I risultati ottenuti sul campo grazie all'intervento russo offrono i presupposti per un cambiamento al vertice che non appaia come una disfatta. E Mosca pare decisa a trovare una soluzione che salvaguardi i suoi successi, anche a costo di sacrificare il dittatore. Una questione ben chiara ai firmatari: "Ai russi importa solo tutelare i loro interessi, non chi sia la persona al comando in Siria". La chiave del potere però è nelle forze armate, guidate da ufficiali alawiti, alcuni dei quali sono anche capi religiosi. Fonti dell'intelligence occidentale hanno rivelato che finora i contatti con i generali siriani per costruire un'alternativa a Bashar sono stati "infruttuosi". Ma le personalità che hanno scritto il documento si rivolgono pure all'Europa e agli Usa: "L'Occidente deve capire che durante un cambiamento di regime, gli interessi di tutti i gruppi etnici e religiosi vanno tenuti in considerazione. Altrimenti il risultato sarà un genocidio". Iraq: scoperta prigione sotterranea del Daesh, i detenuti erano prevalentemente civili Avvenire, 4 aprile 2016 Nel corso di una battaglia nella città di Hit è stata scoperta una prigione sotterranea nella quale i guerriglieri avevano rinchiuso un gran numero di civili. L'agenzia France Press, citando le autorità locali, ha fatto sapere che l'esercito iracheno ha liberato circa 1.500 detenuti da una prigione sotterranea dei guerriglieri del gruppo terrorista Daesh nella parte occidentale del paese. Le forze di sicurezza irachene hanno trovato i prigionieri durante un combattimento contro i guerriglieri nella città di Hit, nella provincia di Anbar. "Nel corso dell'avanzata per la repressione dei guerriglieri e la liberazione della città di Hit, le forze di sicurezza hanno avuto modo di rinvenire una grande prigione", ha dichiarato il colonnello delle forze di polizia Fadhel al-Nimrawi, aggiungendo che "la prigione si trovava sotto terra e ospitava 1.500 persone che sono state liberate dalle forze di sicurezza". Il funzionario provinciale locale, Mallah Al-Obeidi, ha confermato il numero dei detenuti imprigionati e ha detto che la maggior parte di loro erano civili. In Iraq la situazione rimane tesa a causa delle attività del gruppo radicale Daesh. Per tre anni i terroristi sono riusciti a catturare grandi aree dell'Iraq e della Siria. Un fronte unico nella lotta contro il Daesh non c'è: contro il gruppo terroristico combattono le truppe governative di Siria ed Iraq, la coalizione internazionale guidata dagli Usa (attività limitata agli attacchi aerei), e le milizie curde, libanesi e irachene sciite.