La globalità della corruzione e i luoghi comuni da superare di Roberto Toscano Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2016 Da qualche tempo a questa parte il tema della corruzione occupa le prime pagine dei nostri giornali e attira l’attenzione, e lo sdegno, dell’opinione pubblica. Non mancano i cinici che, autodefinendosi realisti, fanno notare che la corruzione è sempre esistita. Deplorano quello che definiscono moralismo e denunciano le campagne anti-corruzione come sempre tendenti a squalificare l’avversario politico. Invece occuparsi, e preoccuparsi della corruzione, oggi convertita in una perversa normalità, non è moralismo, ma una oggettiva necessità sia politica che culturale. Come punto di partenza dovremmo cercare di liberarci da molti luoghi comuni. Il primo è quello che la corruzione sia un inevitabile corollario della democrazia, mentre le dittature sarebbero in grado di stroncarla grazie alla loro spietata inflessibilità repressiva. Falso. Si sapeva di certo che Pinochet era un assassino, ma è poi risultato che era anche un ladro e che aveva trasferito su un conto di Washington denaro pubblico di cui si era illegalmente appropriato. E che dire della Cina, dove i corrotti sono arrivati a un "fatturato" di miliardi di dollari a dispetto dei ricorrenti processi che si concludono anche con condanne a morte? L’altro luogo comune è che la corruzione sia esclusivamente legata al capitalismo, sistema che si basa sulla legittimazione anche culturale dell’avidità ("L’avidità è buona. L’avidità funziona" - come dice Gordon Gekko nel film Wall Street), e che l’unico antidoto sia quello di un’etica rivoluzionaria basata sui doveri sociali e sull’austerità. Falso. La Corea del Nord, il meno democratico e il meno capitalista fra i sistemi politici esistenti, è elencata da Transparency International in testa alla classifica della corruzione a pari merito con la Somalia, Io stato fallito più anarchico del mondo. Prendiamo alcune fra le grandi cause rivoluzionarie del secolo scorso. Il successore di Mandela, il presidente sudafricano Zuma, è appena stato incriminato per uso privato di fondi pubblici, e la classe dirigente del glorioso African National Congress è coinvolta in una serie di scandali. Daníel Ortega, l’eroe della rivoluzione sandinista in Nicaragua, ha impiantato un regime in cui la retorica rivoluzionaria è ormai solo una consunta copertura di un sistematico andazzo corruttivo. In Angola, ancora governata da quel Mpla che aveva resistito, con l’aiuto cubano, all’attacco combinato di Sudafrica e Cia, la figlia del presidente Dos Santos è diventata la prima miliardaria africana. È vero che il tema della corruzione viene usato contro gli avversari politici. Sta avvenendo in Brasile, contro Dilma Rousseff e Lula, ma il problema è che la corruzione c’è davvero, e a livelli colossali. Altro luogo comune è quello che la corruzione sia un fenomeno del settore pubblico. Come se le frodi che hanno innescato la crisi finanziaria globale non fossero attribuibili a Wall Street - anche se conia complicità dei "cani da guardia" federali che non hanno abbaiato. In Italia tutti danno addosso alla pubblica amministrazione e ai suoi funzionari, definiti come una manica di disonesti parassiti. Pubblico cattivo/ privato buono. Viene in mente La fattoria degli animali di Orwell: "due gambe cattivo, quattro gambe buono". Come se potesse esistere un funzionario pubblico corrotto senza un privato corruttore - come se ci potesse essere la prostituzione senza i clienti. Basterebbe ascoltare con attenzione i linguaggi, oltre che í contenuti, delle intercettazioni per capire con quanta protervia, quanta arroganza, i corruttori privati sentono di poter dominare i loro prezzolati manutengoli nella pubblica amministrazione. Ma cosa spiega il fatto che la corruzione sia passata da trasgressione a sistema? Non certo che l’umanità sia diventata più criminale. E nemmeno che siano venuti meno i freni derivanti dai precetti religiosi: che la fede religiosa non sia incompatibile con la corruzione e in genere la criminalità lo dimostrano fatti come i santini nel covo di Provenzano e l’appartamento del cardinale Bertone, finanziato con i soldi dell’ospedale Bambin Gesù. Senza parlare dei corrotti ayatollah iraniani e degli iper-religiosi/iper-corrotti sauditi. Qualcosa di profondo è però avvenuto. Si tratta del restringersi degli orizzonti culturali all’interno di una comunità che non è globale né nelle norme né nella solidarietà, ma è unificata rispetto a quello che è ormai il criterio singolo del valore, del successo, della stessa identità: il denaro. Ha ragione il Papa quando parla di idolatria. Si tratta della perdita di rilevanza della molteplicità di valori e obiettivi che dovrebbero dare un senso alla vita umana, ma che oggi risultano accantonati per lasciare tutto il campo a uno spirito acquisitivo in termini di denaro e del benessere e potere che dal denaro si possono ricavare. Un tempo il denaro serviva ad acquisire potere, oggi il potere viene usato per conseguire il denaro. Sarebbe assurdo manifestare nostalgia per il tempo delle ideologie totalitaria e dei loro crimini, dalla Shoah al Gulag, ma non dovremmo cadere nell’errore di non vedere la totalità idolatrica di quella che è oggi l’ideologia dominante. Non avrebbe senso a questo punto ripercorrere le fallite strade della lotta contro Mammona e contro il Capitale e riproporre pauperismo o collettivismo. Dobbiamo lottare non contro, ma per. Riconoscendo il giusto spazio che l’aspirazione al benessere occupa nel quadro di un sano equilibrio etico-antropologico, dovremmo ridare diritto di cittadinanza a tutto quello che il denaro e il "pensiero unico" che lo accompagna hanno accantonato, negato, squalificato, strumentalizzato: arte, cultura, religione, etica, politica. Si deve certo combattere la corruzione con gli strumenti della legge, ma la vera battaglia dovrà essere quella, di natura culturale ed etico-politica, anti-totalitaria e anti-idolatrica. Altrimenti non servirebbe nemmeno - né in Italia né altrove - mettere un poliziotto dietro ogni cittadino e sottoporlo a intercettazioni costanti. Il fiammifero della Guidi e l’incendio che ora divampa di Eugenio Scalfari La Repubblica, 3 aprile 2016 Da quando la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate (si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi dieci anni. Argomenti prima distinti si sono intrecciati: democrazia, partiti, rottamazione, riforme economiche, riforme costituzionali, elezioni amministrative, referendum abrogativi, referendum confermativi, clientele, questione meridionale, Europa confederata o federale, terrorismo, immigrazione, Libia, Turchia, un magma di problemi e un filo d’Arianna che nessuno riesce più ad impugnare per uscire da un labirinto che non è soltanto italiano. Perché questa estrema confusione ha raggiunto il culmine in Italia da un episodio così microscopico? La ragione è evidente: quelle dimissioni hanno sottolineato un fenomeno la cui diffusione è ormai dominante in tutto il mondo ma soprattutto in Italia e non da ora ma da anni, anzi da decenni, anzi da secoli. Corruzione e mafie. Corruzione e trasformismo. Corruzione e rabbia sociale. Corruzione e potere. Le dimissioni della Guidi sono stati il fiammifero che ha fatto divampare l’incendio. Non sarà facile spegnerlo e quando lo sarà, soltanto allora vedremo le rovine che ha lasciato. In una fase in cui stiamo vivendo la crisi di un’epoca, i problemi sono già numerosi ed estremamente complessi. Questo incendio è un sovrappiù che aggiunge un peggio al peggio, una ferita ad una ferita, una tempesta ad una tempesta, incertezza ad incertezza. Sicché il primo tentativo è quello di capire il senso di quanto sta avvenendo e districare i nodi di quel filo d’Arianna che ci porti a riveder le stelle. Il tema di quelle dimissioni riguarda il giacimento petrolifero trovato a ridosso d’un piccolo paese della Basilicata e investe il dibattito sulle trivellazioni che si effettuano in alcune zone dell’Adriatico. L’Italia ha bisogno di petrolio e di gas e quando riesce a trovare nuovi giacimenti in casa propria ne ricava un indubbio arricchimento, maggiori investimenti e maggiore occupazione. Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, ce ne sono altri negativi di carattere ambientale: possibile inquinamento con tutte le conseguenze che esso può arrecare. Abbiamo già visto gli effetti di queste due facce della medaglia a proposito dell’Ilva di Taranto. La zona è più o meno la stessa e lo scontro politico e sociale è analogo, con valutazioni spesso divergenti tra governo, Regione, magistratura, imprese pubbliche e private. Era opportuno indire un referendum? Ed era opportuno che, una volta indetto, il governo e il partito che lo sostiene raccomandassero di votare scheda bianca o astenersi dal voto? Personalmente ritengo di no. Si tratta d’una materia molto complessa, risolvibile soltanto con un compromesso che consenta l’estrazione della materia prima e tutte le prevenzioni necessarie a tutela delle persone. Il referendum non risolve il problema, l’astensione rischia di dare la vittoria all’una o all’altra tesi per qualche voto di differenza purché sia raggiunto il quorum del 50 più uno per cento degli aventi diritto. Il ricorso al referendum abrogativo ha aggiunto dunque un rebus al rebus. Speriamo in un’astensione di massa che annulli l’esito referendario e lasci lo spazio per il compromesso. Il caso Guidi sembra aver aperto un caso Boschi, ma non è così: l’emendamento in discussione era pienamente accettabile e la Boschi non aveva ragione alcuna per respingerlo. Altra cosa sarà l’atteggiamento della ministra delle Riforme qualora suo padre sia rinviato a giudizio per il caso della Banca Etruria. Attendiamo che la Procura di Arezzo e il gip diano una risposta, dopodiché, allora sì, la posizione della Boschi diventerebbe insostenibile. Il tema della democrazia è stato più volte riproposto da quando Renzi ha preso il potere nel 2013 come segretario del Pd prima e di presidente del Consiglio poi. Da allora Renzi comanda da solo con il suo cerchio magico composto da suoi più fedeli collaboratori. Ho più volte criticato questa tendenza autoritaria, connessa anche ad una riforma elettorale maggioritaria e ad una riforma costituzionale di trasformazione- abolizione del Senato. Fermo restando - per quanto mi riguarda - la più netta contrarietà a quelle due riforme (elettorale e costituzionale) ho invece rivisto la mia contrarietà al comando solitario. L’ho rivista per due ragioni: la prima riguarda l’estrema complessità dei problemi che oggi ogni governo deve fronteggiare nel proprio Paese, in Europa e nel mondo. La seconda sta nella constatazione che una società globale complica ancor più la complessità dei problemi e la maggiore rapidità necessaria per risolverli. Ma c’è una terza ragione: in tutto l’Occidente democratico esiste un Capo che comanda da solo: il cancelliere in Germania, il premier in Gran Bretagna, il presidente della Repubblica in Francia, il presidente degli Stati Uniti d’America. Solo per ricordare gli esempi di maggiore importanza. Questi esempi non configurano dittature: esistono contropoteri adeguati: i Parlamenti, le Corti costituzionali, la Magistratura. Questi poteri ci sono e vanno comunque rafforzati. Entro questi limiti l’esistenza di un capo dell’Esecutivo che sia al timone non desta preoccupazioni. Ho anche avuto modo di constatare che Renzi, dopo molte incertezze in proposito, ha scelto la via di sostenere in Europa la necessità di un unico ministro delle Finanze dell’Eurozona, con i poteri di pertinenza di quella nuova istituzione più volte richiesta anche da Mario Draghi. Più di recente, dopo i gravissimi episodi di terrorismo soprattutto in Francia ed in Belgio ma non soltanto, abbiamo sostenuto su queste pagine la proposta di un ministro dell’Interno europeo e di una polizia federale europea sul modello dell’Fbi americano. A questa proposta Renzi non ha ancora risposto. Gli rinnovo quindi la domanda perché il tema purtroppo è di stringente attualità e l’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, ha tutti i titoli per sostenerlo e dare battaglia a chi sarà contrario. Coloro che vedono la difficoltà del consenso per realizzare i vari passi del percorso che dovrebbe portarci agli Stati Uniti d’Europa, non dimentichino la definizione tra tempo breve e sguardo lungo che fu di Altiero Spinelli. Tanto prima Renzi si schiererà tanto meglio sarà. C’è un altro tema che mi sono posto: a chi somiglia veramente Renzi? Non sono certo il primo a porre questa domanda. Molti hanno scritto che somiglia a Berlusconi, altri addirittura a Craxi. Anch’io ho colto alcuni tratti di somiglianza a Berlusconi e qualcuno anche con Craxi. Ma il vero personaggio cui somiglia molto credo che Renzi non lo sappia: si chiama Giovanni Giolitti. Mi direte che è un paragone di troppo alto livello e certamente è così, ma per alcuni aspetti fondamentali queste due figure che distano di quasi due secoli tra loro si comportano in modi analoghi. Giolitti nacque nel 1842 e morì a ottantasei anni nel 1928. Dopo un lungo tirocinio nel ministero delle Finanze entrò decisamente nell’agone politico nel 1892. Da allora fu uno dei maggiori esponenti della politica italiana pur senza mai far parte di un partito. La sua posizione era ispirata genericamente ad un liberalismo progressista e la maggioranza di cui dispose alla Camera fu quasi sempre molto elevata. Per mantenerla tale cambiò spesso le sue alleanze. Guardò contemporaneamente al capitalismo industriale e alle classi lavoratrici, favorendo incentivi alle imprese e decenti livelli ai salari. Cercò di ottenere l’appoggio dei socialisti riformisti in genere, di Turati in particolare. Nel Mezzogiorno appoggiò clientele e proprietari terrieri guadagnandosi l’insulto politico di Salvemini che chiamò il suo governo "ministero della malavita" ed "ascari" i suoi sostenitori meridionali. Quando il Partito socialista e le organizzazioni sindacali operaie sentirono sempre più un orientamento di sinistra, soreliano, massimalista e rivoluzionario, Giolitti si alleò con il primo gruppo di cattolici democratici gestito da Gentiloni (avo dell’attuale nostro ministro degli Esteri). Quando gli operai della Fiat occuparono la fabbrica a Torino, tentò e riuscì a trovare un compromesso tra le due parti. Fu contrario all’entrata in guerra dell’Italia e neutralista, lasciò ovviamente il governo alla destra italiana ma lo riprese nel 1920. Fece sgombrare D’Annunzio da Fiume ma tollerò le violenze degli squadristi fascisti sperando di poterli assorbire gradualmente nella sua maggioranza politica. A questo fine favorì l’ingresso alla Camera nella sua maggioranza dei trenta deputati fascisti nel 1921. Ma si ritirò definitivamente dalla politica dopo la marcia su Roma e la nascita del Regime. In conclusione un partito giolittiano fu un vero e proprio partito della Nazione, che oscillava tra una destra e una sinistra moderate, con ancoraggio sostanzialmente centrista e un Capo unico che era lui. Il giolittismo e il renzismo. Il primo al livello dieci, il secondo al livello cinque. Ma la vera analogia è quella del Paese. Il nostro è un Paese percorso da un fiume sotterraneo, sempre latente e spesso emergente dove domina una corrente su tutte le altre: purché ci sia libertà privata si accetta la dipendenza pubblica. E quindi corruzione diffusa, clientele diffuse, interessi particolari diffusi. Scarsi ideali, scarsi valori, fortemente sentiti ma da piccole minoranze. Il Manzoni questa situazione la descrisse così: "Con quel volto sfidato e dimesso / Con quel guardo atterrato ed incerto / Con che stassi un mendico sofferto / Per mercede sul suolo stranier / Star doveva in sua terra il Lombardo / L’altrui voglia era legge per lui / Il suo fato un segreto d’altrui / La sua parte servire e tacer". Lui sperava di farne un popolo sovrano e in parte quel popolo sovrano è nato. Non è più servo, è libero, tutela e lotta per i propri interessi, ma l’interesse generale lo vede assai poco e da lontano. Lo lascia ad altri, a chi comanda per tutti. Il problema è sapere se chi comanda tutelerà l’interesse generale o il proprio potere. Questo, alla fine, sarà solo la storia a dirlo. Il dirigente Total e i ministri "Vogliono andare avanti" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 aprile 2016 Il compagno della ministra Guidi al manager della società petrolifera interessata a Tempa Rossa: "Se lei ha bisogno di una mano sono a disposizione". Sono diversi i ministri che si sono adoperati per far approvare l’emendamento che dava il via libera al progetto "Tempa Rossa". Alcuni hanno avuto rapporti diretti con i vertici della Total e per questo - dopo lo stop subito nello "sblocca Italia" - hanno deciso di inserirlo nella legge di Stabilità 2015. A raccontarlo, evidentemente ignorando di essere intercettato, è il dirigente del colosso petrolifero Giuseppe Cobianchi al telefono con Gianluca Gemelli, il compagno del ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi, costretta a dimettersi per il coinvolgimento nella vicenda. Gli atti dell’indagine della squadra mobile di Potenza guidata da Carlo Pagano svelano dunque i retroscena del varo di quella norma e il motivo che ha convinto i pm a interrogare la stessa Guidi e la responsabile per Riforme e rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Nelle conversazioni agli atti Guidi parla di "accordo", dunque i magistrati vogliono accertare quali trattative furono messe in piedi per "sbloccare" il provvedimento e quali esponenti dell’esecutivo furono coinvolti. "Conferme dal governo" - Il 10 dicembre 2014 Gemelli contatta i dirigenti Total perché ha saputo che c’è un rallentamento dei lavori per "Tempa Rossa". Scrivono gli investigatori: "L’ingegner Cobianchi attribuiva molte delle responsabilità alle imminenti elezioni regionali in Puglia e quindi all’indisponibilità della politica locale di schierarsi in favore della costruzione dei serbatoi di stoccaggio a Taranto". Poi viene riportata la parte di colloquio che conferma i contatti avuti con esponenti dell’esecutivo. Cobianchi: "Purtroppo dagli incontri romani, diciamo sono emerse alcune conferme positive per quanto riguarda la volontà del governo, dei ministeri di andare avanti... mi riferisco alla questione Taranto". Gemelli: "Se lei ha bisogno di una mano lo sa, a disposizione, per quello che... posso...". Cobianchi: "So che il ministro in prima persona si è adoperato nelle settimane scorse con la regione Puglia per cercare di promuovere questo incontro, che sarebbe stato importante... Purtroppo da quello che so la regione Puglia non ha dato una disponibilità a questa roba, per motivi politici sostanzialmente, da quello che ho capito, quindi adesso si cercherà di far passare nella legge di Stabilità un po’ quello che è necessario far passare... ovviamente c’è tutta una serie di iniziative che con... che si sta cercando di portare avanti anche sul piano, mi lasci dire, giuridico nei confronti delle delibere che sono state prese al comune di Taranto, eccetera... però la situazione è un po’ ingarbugliata... ecco, in questo momento... però ecco ci tengo a precisare che noi non sospendiamo niente, cioè i lavori in corso vanno avanti". L’azienda nella "bidder list" - Il problema viene invece risolto appena tre giorni dopo. È il ministro Guidi a comunicarlo a Gemelli e lui manda un sms di conferma a Cobianchi: "Le confermo che Tempa Rossa è stata definitivamente inserita come emendamento del governo nella legge di Stabilità. Buon we. Gianluca". Non è l’unico favore che Gemelli ottiene. Scrive il giudice: "È importante evidenziare come la società facente capo al Gemelli, la "Ponterosso Engineering", abbia ottenuto "rapidamente" l’inserimento nella bidder list per partecipare da subito a una gara indetta dalla Total nel settore ingegneristico pur non essendosi ancora perfezionato il discorso della attribuzione delle "qualificazioni". Esito ricollegabile al considerevole peso specifico rivestito da Gemelli, non in quanto tale, ma in quanto soggetto dotato di significativa contiguità rispetto a quegli ambienti governativi aventi competenza istituzionale nella soluzione di problematiche che stavano a cuore alla Total. Di una simile contiguità ormai la Total aveva raggiunto esatta e piena consapevolezza". "Non devono esserci danni" - A metà gennaio 2015 cominciano però a circolare notizie sull’inchiesta. Il ministro si allarma e invita il compagno a saperne di più. Annotano gli investigatori: "Il 22 gennaio 2015 Gemelli e Guidi fanno espliciti riferimenti al probabile coinvolgimento del Gemelli in una questione non meglio specificata e alla possibilità di conseguenze politiche indirette anche per lo stesso ministro (verosimile siano le indagini concernenti il presente procedimento)". Gemelli: "Ma quelle messe nella fattispecie non è né leggerezza... è una cosa naturale... solo che si è complicata tutta, posso dirti? io ti ripeto... sono in una situazione di difficoltà mia, e tua nel sens... cioè, facendo delle cose che ho sempre fatto, cioè lavorare... no, io a oggi, risultati ottenuti... non ho fatto né più né meno quello che ho fatto in tutta la mia vita (...) solo che uno di questi risultati può creare un gran casino, tutto là". Guidi: "Non debbono esserci danni per entrambi". Boschi dai pm: "Ecco la mia difesa. Solo l’ambasciata inglese ci sollecitò l’emendamento" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 3 aprile 2016 Una riunione convocata per domani al ministero dei Rapporti col Parlamento e delle Riforme. Maria Elena Boschi non sottovaluta l’onda lunga dell’inchiesta della Procura di Potenza e nemmeno l’offensiva delle opposizioni che ancora una volta hanno messo lei nel mirino. Di sicuro non crede di essere al riparo grazie alle dimissioni immediate della collega Federica Guidi. Come non lo è il governo e lo si è capito bene adesso che i pm annunciano la loro visita nei palazzi romani. Perciò Boschi vuole ricostruire con i suoi collaboratori tutti i passaggi dell’emendamento "festeggiato" al telefono dalla ex titolare dello Sviluppo economico e dal compagno Gianluca Gemelli. In modo da preparare una memoria difensiva che sgombri ogni dubbio ai pm lucani che hanno chiesto di sentirla e metta a tacere gli attacchi di Lega, Forza Italia e 5stelle. Quell’emendamento, a memoria del ministro delle Riforme, non è legato in alcun modo ad aziende italiane o alla Total finite nell’indagine potentina. Semmai, questa è la prima versione in attesa della riunione di domani, ebbe una sollecitazione dall’ambasciata britannica perché nel business di Tempa Rossa, il sito per l’estrazione del petrolio di Corleto Perticara è coinvolta anche la Shell, compagnia petrolifera inglese. Il progetto infatti è una joint venture tra Total (50 per cento), Shell (25%) e Mitsui (25%). Nel 2012 le tre sigle decidono di procedere insieme nello sviluppo della concessione Gorgoglione, dal nome di un paesino della zona. Total diventa l’operatore del sito, ma la Shell ha un suo interesse specifico nel giacimento. Anche le ambasciate partecipano in qualche modo alla legge di stabilità, con appunti diretti al Parlamento e al governo, che vanno dai contributi per i lettori di italiano nelle scuole straniere a questioni più delicate e più grosse come gli investimenti delle multinazionali. Il richiamo alla Shell ovviamente annullerebbe l’ombra del sospetto su una genesi dell’emendamento legato a imprese italiane coinvolte nell’indagine. Al netto del fatto che certo Shell non può essere considerata fuori dalla cosiddetta "lobby dei petrolieri". Ma rispetto al ruolo della Guidi e rispetto a quello di tutto il governo sarebbe una prova a discolpa. "Un emendamento che rifirmerei domattina. È un progetto strategico", ha detto la Boschi l’altro ieri. Ed è questa la linea di Renzi. "Secondo noi, l’investimento e la ricaduta sull’occupazione di Tempa Rossa sono da difendere fino in fondo", spiegava ieri Boschi ai suoi collaboratori. Ma i ricordi non bastano. Boschi vuole capire la procedura seguita prima della sua firma sul maxiemendamento. Di solito i passaggi sono standard: presentazione della proposta di modifica da parte del ministero competente (in questo caso lo Sviluppo economico), istruttoria degli uffici del dicastero dei Rapporti col Parlamento, autorizzazione del ministro o dei sottosegretari e infine inserimento nel maxi. Non è escluso che in questo caso sia saltato qualche passaggio. Succede spesso quando si tratta la legge di stabilità, con maratone notturne, maxiemendamenti scritti in fretta e furia per arrivare in tempo al voto di fiducia. Forse la Boschi non ha mai dato il via libera, ma certo il ministro non vuole nascondersi dietro gli slalom burocratici. Punta a una ricostruzione puntuale e senza buchi, anche perché sarà lei, probabilmente, a rendere pubblico, bisogna vedere come, il contenuto del colloquio con i magistrati. Le novità in arrivo da Potenza stanno rallentando anche la scelta del successore di Federica Guidi. Renzi si è lasciato sfuggire solo che pensa a una donna esterna alla politica. Un identikit che corrisponde a Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria, e Antonella Mansi, vicepresidente della stessa associazione. Sono nomi circolati in queste ore, insieme con quello di Teresa Bellanova, viceministro dello Sviluppo, molto apprezzata da Renzi per la soluzione di alcune vertenze industriali. Ma prima il premier deve affrontare gli sviluppi dell’inchiesta e già oggi lo farà con un’intervista a In mezz’ora. Carcere, per gli stranieri la detenzione dura di più. "Facilitare contatti familiari" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 3 aprile 2016 Stati generali sull’esecuzione penale. I detenuti stranieri sono 17.679, il 32% della popolazione carceraria. Per loro la pena ha un "supplemento di afflittività" a causa della lingua, dell’assenza di legami, del ridotto accesso alle misure alternative. Da qui la proposta di facilitare i colloqui telefonici e diminuire i trasferimenti. Rappresentano il 32 per cento della popolazione carceraria, età media 39 anni, provengono soprattutto dai Paesi del nord Africa, dall’Albania e dalla Romania. A parità di pena, statisticamente restano in carcere più a lungo degli italiani perché non riescono ad accedere alle misure alternative e in questi mesi sono sotto la lente d’ingrandimento per il rischio radicalizzazione. È l’esercito di stranieri recluso negli istituti di pena italiani: 17.679 persone, 16.885 uomini e 794 donne (al 29 febbraio 2016) su un totale di 52.846 detenuti. "Il triplo, rispetto alla fine degli anni 80, dopo che, nel 2007, avevano sfiorato il 50 per cento della popolazione totale". Bastano pochi numeri per capire quanto sia urgente la riforma di un ordinamento penitenziario scritto e pensato in un’epoca in cui la quasi totalità dei detenuti era italiana. Partendo dai dati e dalla necessità di leggerli anche "alla luce della mutata situazione giuridica, politica e internazionale (ad esempio gli interventi sul reato di clandestinità) e dei mutamenti dei flussi migratori", il Tavolo 7 degli Stati generali sull’esecuzione penale ha sviscerato il tema "Stranieri ed esecuzione penale", centrando bisogni e obiettivi. Gli esperti, coordinati da Paolo Borgna, procuratore aggiunto del tribunale di Torino, hanno lanciato alle istituzioni la sfida che sintetizza tutte le proposte: cercare di applicare anche ai detenuti stranieri i principi della riforma del 1975 e l’ispirazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione". E mentre le statistiche annuali del Consiglio d’Europa ci dicono che l’emergenza sovraffollamento è stata tamponata (il nostro Paese è indicato come esempio da seguire per affrontare il problema) ma che non si può abbassare la guardia (l’Italia è all’11mo posto in fatto di sovraffollamento), restiamo, secondo gli stessi dati, tra i Paesi in cui è più alto il numero di stranieri dietro le sbarre. Un supplemento di pena. "In Italia - rilevano gli esperti - è del tutto assente la cosiddetta "discriminazione istituzionale": tutti i benefici sono previsti per tutti i detenuti, stranieri e italiani. Eppure, in concreto, molti istituti processuali e benefici carcerari sono applicati in modo diseguale. In questo senso, la pena detentiva inflitta a un cittadino straniero contiene normalmente un "supplemento di afflittività". Le cause di questa diseguaglianza sono molteplici e riconducibili a due fattori: le difficoltà linguistiche e l’assenza di legami con la famiglia". Barriere linguistiche e corsi di alfabetizzazione. "Già nel corso del processo, la scarsa o mancata conoscenza della lingua italiana, determina una minore comprensione della propria posizione giuridica. Nella fase dell’esecuzione della pena questa condizione ha conseguenze non meno serie. Secondo i dati, quasi la metà della popolazione carceraria straniera è stata in qualche modo coinvolta in attività didattiche all’interno del carcere, circostanza che testimonia un grande impegno dell’amministrazione in tal senso. Uno sforzo che deve essere incoraggiato e intensificato". Gli esperti propongono di insistere su questa strada e potenziare i corsi di alfabetizzazione. Colloqui via Skype per sostenere i legami familiari. "L’Ordinamento penitenziario vede nella conservazione dei rapporti con l’ambiente familiare uno dei pilastri del trattamento rieducativo". Ma la quasi totalità dei detenuti stranieri non usufruisce di colloqui (visite) perché i familiari vivono nel paese d’origine. L’unico mezzo per comunicare resta il telefono. Da qui la proposta di consentire "ai detenuti stranieri (perlomeno a quelli in esecuzione pena e a quelli con procedimento in corso ma già condannati in primo grado) più agevoli possibilità di accesso ai colloqui telefonici, sempre che non vi siano motivi ostativi legati alla posizione giuridica e al livello di pericolosità". Il Tavolo suggerisce di rendere disponibili "collegamenti via Skype, privilegiando progetti che riguardino, ad esempio, i contatti con i figli per detenuti con condanne definitive: progetti da accompagnare con azioni di finanziamento e/o di supporto da parte di esperti informatici, presenti in ogni Provveditorato, per gli istituti interessati". La piaga dei frequenti trasferimenti. "Il fatto di non poter usufruire di colloqui con i parenti ha un’ulteriore conseguenza negativa per gli stranieri: non essendovi problemi di vicinanza al nucleo familiare, sono più facilmente soggetti a ripetuti trasferimenti da un carcere all’altro". Il fenomeno si è attenuato con il minor sovraffollamento ma "va segnalato che la maggiore frequenza di trasferimenti interrompe o rende più difficile il percorso trattamentale e i contatti con il magistrato di sorveglianza, con il conseguente rallentamento di tutte le procedure per la richiesta di qualunque tipo di beneficio". Gli esperti propongono "di agire sulla causa che determina i trasferimenti: il sovraffollamento carcerario". Ad esempio, attuando misure poco utilizzate come l’allontanamento dal territorio dello Stato (come sanzione alternativa o sostitutiva al carcere) degli stranieri condannati per reati di una certa gravità o il loro trasferimento nei Paesi d’origine per espiare la pena". Non ultimo "introducendo strumenti che consentano un accesso più agevole alle misure alternative". Alloggi protetti per uscire dal carcere. "L’applicazione di misure alternative presuppone l’esistenza di una dimora stabile, di un qualche nucleo familiare entro cui collocare il detenuto e di una possibilità lavorativa che attenui il pericolo di fuga e renda il soggetto più ancorato al tessuto sociale. Nel caso degli stranieri il giudice si trova spesso di fronte all’alternativa secca tra applicazione del carcere e liberazione". Il Tavolo propone di ricorrere a "strutture in cui poter collocare (in regime di arresti domiciliari e comunque di detenzione attenuata) gli imputati stranieri responsabili di reati seri ma non gravissimi. La capacità di accoglienza dev’essere costruita a livello locale (con iniziative di housing sociale mediante convenzioni con privati)". Come nella positiva esperienza del Comune di Brescia che dagli anni ‘90 ha stipulato con associazioni del volontariato accordi per la gestione di "alloggi protetti" in locali di proprietà comunale. Le altre proposte. Favorire l’inserimento lavorativo intramurario per gli stranieri che, non ricevendo pacchi o aiuti dalla famiglia, possono ottenere solo dal lavoro un piccolo reddito necessario per gli acquisti interni e le spese legali. Consegnare ai detenuti stranieri la "Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati", tradotta in una lingua comprensibile, al loro ingresso in carcere, come previsto dall’Ordinamento penitenziario. Apportare alla "Carta" modifiche che tengano conto delle modalità di partecipazione alle consultazioni elettorali dei detenuti, cittadini di altri Paesi dell’Unione, residenti in Italia. Incrementare la presenza dei mediatori culturali (strumento essenziale per la gestione dei detenuti stranieri e l’apertura verso l’esterno) e inserirli tra le figure professionali di cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si avvale. Quei militari che insultano Cucchi e Regeni di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2016 Il commento più gentile è questo: "Poi al municipio apriamo uno sportello per vendere cocaina e affini". Che Ilaria Cucchi stesse antipatica a buona parte delle forze dell’ordine è cosa nota. Quel che, ancora oggi, stupisce e fa indignare è che nel post sulla auto-candidatura a Sindaco della sorella di Stefano (commentato con un "ecco a cosa mirava la signora Cucchi... sciacalli e iene che traggono profitto dalla morte di un congiunto"), la persona che lo condivide possa permettersi di taggare indisturbato, tra gli altri, anche Roberto Mandolini, il maresciallo dei carabinieri indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta bis sulla morte del ragazzo. Il post è pubblico, i commenti pure, il tag è il primo in evidenza e fino a ieri sera non era stato eliminato: secondo le regole di Facebook, dunque, potrebbe comparire anche sulla pagina del militare. Una trentina di commenti, molti dei quali rilasciati da appartenenti alle forze dell’ordine. Tutti dello stesso tenore, ma non tutti contro Ilaria Cucchi: ce n’è per la madre di Carlo Giuliani e ce n’è, addirittura, per quella di Giulio Regeni. Nella testa di queste persone, evidentemente, sono tutte uguali, colpevoli di volersi fare una carriera politica sulla pelle dei familiari morti. Non serve commentare, le frasi parlano da sole. "La politica italiana si serve di questi elementi vergogna - scrive un palermitano - Italia Italia come ci siamo ridotti stavamo Meglio quando stavamo peggio". "Fanno schifo loro e chi li candida, parassiti e sciacalli. La stessa cosa accaduta per Giuliani e ora sarà così anche per il pseudo ricercatore morto in Egitto", prosegue un carabiniere in pensione, al quale dà ragione un investigatore privato che si mostra con una divisa della Marina: "La zecca Friulana (la mamma di Regeni, ndr) si sta scaldando con le già viste patetiche esternazioni del cazzo per crearsi un po’ di notorietà mediatica. Un squallido film già visto interpretato dai genitori del cesso umano dei Giuliani". C’è un altro carabiniere convinto che "tutti coloro che odiano le forze dell’ordine vengono messi sugli altari dai comunisti (leggi Pd)". "Si capisce anche dove sta andando a parare... scrive un sardo con Padre Pio tatuato sul petto, ma con la faccia di Anonymous sul profilo. E sicuramente quello che doveva dire era già stato studiato a tavolino.... diciamo che nella nostra italietta con una sciagura alle spalle è molto facile entrare in politica ancora di più nella sinistra faziosa". Non possono mancare le donne: "Alla sig. Cucchi non le mai interessato nulla del fratello.... troppo ambiziosa, poveretta davvero servirsi della morte del fratello.... squallida", afferma una signora attenta alla propria dieta. Per non lasciare nulla al caso, uno che scherza sulla famiglia tradizionale rappresentata da Rosa e Olindo se la prende anche con Nando Dalla Chiesa: "beh se pensiamo al dalla Chiesa jr..". Le forze dell’ordine sono rappresentate tutte: "Questa fa veramente schifo", chiosa un poliziotto. Il peggiore è forse un parà, uno che sfoggia una croce celtica sull’avambraccio: "Figlio di merda… madre merdosa", e non si capisce se si riferisce alla Cucchi, alla Regeni o alla Giuliani. Lo stesso personaggio, però, sul suo profilo (pubblico) ne ha anche per Laura Boldrini, presidente della Camera: "Da rinchiudere in una gabbia e immergere in acqua". Li chiamano servitori dello Stato. Così vanno avanti le intimidazioni ai No Tav di Livio Pepino Il Manifesto, 3 aprile 2016 Ci sono fatti, pur all’apparenza minori, che consentono di cogliere in modo plastico il senso di alcune vicende giudiziarie. Sono accaduti di nuovo, nei giorni scorsi, in Val Susa (sempre più cartina di tornasole delle peggiori derive istituzionali). Non si è trattato, questa volta, di contestazioni, tanto drammatiche quanto fantasiose, di terrorismo e neppure del tentativo di ridurre al silenzio voci fuori dal coro. Si è trattato "soltanto" di una, a dir poco anomala, applicazione di arresti domiciliari e di obblighi di presentazione a otto attivisti No Tav imputati di resistenza a pubblico ufficiale per un episodio non dissimile, quanto a rilevanza penale, da un banale diverbio stradale. Nei giorni scorsi il Tribunale del riesame, revocando tutti gli arresti domiciliari e alcuni obblighi di firma, ha, ancora una volta, ridimensionato l’impostazione della procura torinese (che avrebbe voluto addirittura gli imputati in carcere) ma ciò non toglie, anzi sottolinea ulteriormente, la gravità e il segno dell’operazione. I fatti, dunque, come descritti nell’ordinanza cautelare. Il 17 settembre 2015 un’autopattuglia del carabinieri di Susa ferma un furgone con a bordo due attivisti No Tav che rientrano da una "estemporanea iniziativa di contestazione svoltasi al cantiere di Chiomonte". Il conducente del furgone, pur noto ai carabinieri operanti, esibisce carta di identità e documenti di circolazione del mezzo mentre il passeggero rifiuta di declinare le generalità. Durante il controllo sopraggiunge un’auto con quattro attivisti che ingaggiano un’accesa discussione con i carabinieri nel corso della quale uno dei presenti afferra per un braccio e strattona il maresciallo dell’autopattuglia. Nulla di più e nulla di meno. Sei mesi dopo, le misure cautelari. Eseguite in modo spettacolare e con il corredo di perquisizioni domiciliari e personali a raffica. Si legge in uno dei decreti autorizzativi che le perquisizioni, finalizzate alla ricerca di "materiali e documentazione anche su supporto informatico inerenti i fatti per cui si procede", non devono riguardare solo gli imputati ma "qualunque altro soggetto anche solo temporaneamente presente nei luoghi perquisendi" e possono avvenire anche in ora notturna ("stanti le ragioni di urgenza dovute al pericolo che si disperdano ovvero deteriorino in tutto o in parte le prove e tracce relative ai reati contestati"). C’è da non crederci. La discussione tra attivisti e carabinieri era incontestata e descritta da subito sui siti del movimento, il fatto era di evidente modestia, i partecipanti erano tutti valligiani conosciuti dai carabinieri e da essi identificati (come precisato nell’annotazione di polizia giudiziaria), cinque di loro erano incensurati. C’erano dunque, a tutto concedere, le condizioni per un ordinario processo a piede libero in cui discutere di molte cose: delle reali modalità del fatto, delle responsabilità dei singoli (posto che alcuni degli imputati non risultano neppure essere intervenuti nella discussione), di eventuali reazioni ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali (alcuni dei quali usi rimpiangere i metodi del fascismo) e via elencando. Perché, dunque, le misure cautelari? E perché le perquisizioni, all’evidenza inutili ai fini dichiarati (per la natura del fatto contestato e per il tempo da esso trascorso)? E ancora: perché perquisire le persone temporaneamente (e magari casualmente) presenti nei luoghi in cui si trovavano gli imputati? Perché costringere a denudarsi, con l’accompagnamento di commenti volgari e umilianti, tutte le donne presenti? Quali materiali inerenti un episodio di resistenza potevano trovarsi nei computer o nei telefoni sequestrati a persone non gravate da alcun indizio di partecipazione al reato? Perché sequestrare (come puntualmente accaduto) oggetti del tutto privi di significato con riferimento alla resistenza? Quali ragioni di urgenza imponevano, sei mesi dopo i fatti, di procedere in tempo di notte? La risposta è tanto semplice quanto preoccupante. Per anni magistrati autorevoli e meno autorevoli - supportati da schiere di giornalisti e commentatori - hanno gridato ai quattro venti che gli interventi repressivi disposti non riguardavano il movimento No Tav ma solo reati specifici commessi da frange estremiste e violente, per lo più estranee alla Val Susa. Così cercando di dividere e di isolare. Ora anche la maschera è caduta. I destinatari delle misure cautelari sono stati vecchi e giovani valligiani imputati per fatti che in ogni altra parte d’Italia avrebbero meritato, al massimo, un dibattimento di routine al di fuori da ogni "corsia preferenziale". E le perquisizioni effettuate, nella loro inutilità e improprietà, evocano un intento persecutorio e intimidatorio e una prassi di indagine senza limiti alla ricerca di non si sa che cosa. Bersaglio dell’intervento repressivo è sempre più chiaramente, in altri termini, il movimento no Tav in quanto tale (e, dunque, l’attività di opposizione da esso svolta). A conferma - se ce ne fosse bisogno - di quanto accertato dal Tribunale permanente dei popoli nella sentenza 8 novembre 2015 nella quale si segnalano, in Val Susa, "risposte istituzionali che spesso hanno superato la soglia fisiologica del mantenimento dell’ordine democratico e dell’equilibrato perseguimento dei reati, inducendo - per le loro modalità, distorsioni o eccessi - significative violazioni di diritti costituzionalmente garantiti". È un segnale da non sottovalutare, non solo per la Val Susa. Oristano: sì del consiglio comunale al Garante civico dei detenuti di Valeria Pinna L’Unione Sarda, 3 aprile 2016 Oristano avrà un garante per i diritti dei detenuti nel carcere di Massama e delle persone private della libertà personale. Lo ha deciso il Consiglio comunale che ha approvato un regolamento che ne definisce i compiti: il garante sarà nominato dal sindaco, e sarà scelto fra persone residenti o domiciliate a Oristano che abbiano particolare competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali, negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale. Resterà in carica per 5 anni e svolgerà il suo incarico gratuitamente. Secondo il regolamento, presentato dall’assessore ai Sevizi sociali Maria Obinu, il garante potrà promuovere le opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali dei detenuti e delle persone private delle libertà personali. Inoltre dovrà promuovere iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani dei detenuti e raccogliere segnalazioni su violazioni di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale rivolgendosi alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni. Oristano: sovraffollamento, la protesta di boss e affiliati nel carcere di Massama di Nicola Pinna La Stampa, 3 aprile 2016 Una lettera con 234 firme e una protesta molto rumorosa. Boss e affiliati che scontano la pena nel carcere di Massama, in Sardegna, da due settimane portano avanti una lotta che ha attirato l’attenzione anche del garante nazionale dei detenuti. Nella casa circondariale alla periferia di Oristano ci sono quasi 300 reclusi, quasi tutti arrivano da Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Una cinquantina sono ergastolani, gli altri sono stati condannati per reati legati alla criminalità organizzata. Per loro c’è una struttura specifica, ad alta sicurezza, e ora che le celle si sono riempite i detenuti hanno fatto scattare la protesta. Ogni giorno, di buon mattino e fino a notte fonda, battono pentole, piatti e forchette contro le sbarre. Fischiano e urlano. Nelle campagne circostanti c’è sempre silenzio e il loro grido arriva molto lontano. Il baccano, questa mattina, ha accolto anche il Garante dei nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. La situazione rischia di esplodere e per questo il funzionario ministeriale ha avviato una mediazione per cercare di riportare la calma dentro il carcere. In una lunga lettera i detenuti denunciano il sovraffollamento delle celle ma allo stesso tempo chiedono che gli orari dei colloqui siano modificati e che gli incontri con i parenti si possano svolgere anche via web. Ma il direttore ribatte, Pierluigi Farci ribatte: "Il vero motivo della protesta è che qui non vogliono stare, vorrebbero tornare nelle loro città". Busto Arsizio: i detenuti dipingono la scuola "chiamateci dove c’è bisogno" di Marco Corso varesenews.it, 3 aprile 2016 Cinque detenuti del carcere di Busto Arsizio hanno lavorato per rimettere a nuovo le scuole elementari. "È stato un progetto pilota che adesso speriamo continui". La vernice non si è ancora asciugata dai vestiti quando strette di mano, saluti e sorrisi hanno cancellato la stanchezza di quattro lunghi giorni di lavoro. Ma dietro quel brindisi c’è molto di più perché rappresenta il primo frutto di un progetto pilota per portare i detenuti del carcere di Busto a realizzare interventi di pubblica utilità. Giampaolo, Filippo, Mario, Issam e Al Hossen sono i cinque improvvisati imbianchini che in quattro giorni hanno rimesso a nuovo un corridoio del seminterrato e una tromba delle scale delle scuole elementari di Gorla Maggiore. "È stata un’esperienza estremamente positiva -commenta il sindaco Alberto Zappamiglio - e che siamo prontissimi a ripetere". Il suo comune è stato infatti l’unico a rispondere all’appello dell’area trattamentale del carcere bustocco che è pronta a mettere a disposizione squadre dei suoi detenuti per progetti simili a questo "e lo abbiamo fatto cercando di far sentire questi ragazzi in famiglia", spiega l’assessore ai servizi sociali, Mariolina Vigorelli. Durante i giorni di lavoro "abbiamo organizzato pranzi comuni in modo da poter socializzare -continua- e si è creato proprio un bell’ambiente, un’amicizia che speriamo continui". E ora che a Gorla Maggiore è stato dimostrato che questo progetto funziona, la speranza è quella che l’iniziativa si espanda anche ad altre realtà. Sono gli stessi detenuti a chiederlo perché "ci vogliamo riscattare, e queste attività sono molto importanti sia per noi che per i nostri compagni". A ricordare questo loro lavoro rimarrà, sulla facciata della scuola, un disegno di una rosa con attorno le iniziali del loro nome al suo interno il simbolo del Taijitu, la rappresentazione dell’unione di due principi in opposizione. "Abbiamo voluto rappresentare l’idea che il bene e il male sono complementari -raccontano- ma che eliminando i pregiudizi anche noi che abbiamo sbagliato possiamo dimostrare di essere capaci di fare altro". Una mano tesa, quella dei detenuti, verso la società che adesso deve fare la sua parte. Pistoia: detenuti-operai al lavoro riparano il tetto del carcere di Eleonora Ferri Il Tempo, 3 aprile 2016 La struttura era stata danneggiata dalla tempesta di vento del marzo 2015 e in attesa dell’appalto per l’intervento maggiore, i reclusi si sono dati da fare. Ammontano a poco più di 300.000 euro i fondi stanziati dal ministero della giustizia per il rifacimento del tetto del carcere di Pistoia. E intanto i sei detenuti rimasti all’interno della casa circondariale lavorano alla ristrutturazione della struttura e al miglioramento delle celle e dei servizi igienici. Negli ultimi mesi i "detenuti-operai" specializzati, insieme al personale addetto, hanno partecipato a "piccoli lavori fatti in economia - come spiega il direttore della casa circondariale di Pistoia Tazio Bianchi - quello che si poteva fare in sicurezza è stato fatto, come per esempio imbiancature, riposizionamento di tegole dal sottotetto e la pulizia di alcune zone dove si erano accumulati detriti, sono lavori ordinari che serviranno anche per offrire condizioni igieniche migliori". Parte dei tetti della casa circondariale sono crollati a seguito della bufera di vento dello scorso 5 marzo. Da allora una parte del carcere è inagibile e la maggior parte dei detenuti è stata spostata gradualmente nelle strutture detentive di Lucca e Prato. Al momento, al Santa Caterina in Brana, sono presenti circa 20 detenuti: 6 all’interno del carcere e circa 14 in semilibertà. A fine ristrutturazione la capienza del carcere sarà di 66 posti più 10 per detenuti i semilibertà. "Le opere pubbliche stanno procedendo a fare le gare di appalto per i lavori - spiega il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone - speriamo di concludere tutto entro al fine dell’anno". I fondi stanziati dal ministero della giustizia verranno impiegati prima di tutto per la ristrutturazione di una sezione di accoglienza per il transito dei nuovi detenuti. Adesso infatti, le forze dell’ordine sono costrette a trasferire i nuovi arrestati nei carceri di Lucca e Prato. In seguito inizierà invece la ristrutturazione del tetto, che permetterà la riapertura totale del Santa Caterina in Brana. Quando la struttura del carcere pistoiese tornerà pienamente agibile "accoglieremo le domande dei detenuti che erano stati trasferiti e che vogliono tornare in quella sede - spiega Cantone - e per prima cosa defaticheremo il carcere di Prato che in questi mesi si è fatto carico di un buon numero di detenuti destinati a Pistoia". Anche le 43 unità del personale di polizia penitenziaria, traferite in strutture limitrofe, dovrebbero essere reintegrate completamente. "Sono ottimista, speriamo di poter riaprire completamente entro questa estate - afferma il direttore Tazio Bianchi - e a breve di iniziare i lavori per l’accoglienza dei nuovi giunti". Milano: nasce la prima Casa famiglia per mamme detenute di oriana liso La Repubblica, 3 aprile 2016 Arrivano qui le mamme con bambini piccoli che, per motivi diversi, non devono stare in carcere: perché hanno commesso reati non gravi, o perché sono a buon punto nel percorso di reinserimento. Arrivano in via Magliocco perché qui non ci sono sbarre, non ci sono agenti di custodia: i bambini non pagano le colpe delle madri, le madri intravedono quale potrà essere il loro futuro, una volta scontata la pena. L’associazione Ciao esiste già da diversi anni, ma fra pochi giorni diventerà ufficialmente la prima casa famiglia protetta d’Italia: una legge del 2011 prevede la creazione di queste strutture, ma finora nessuna città ne aveva aperta una. Sabato prossimo, durante l’ultima giornata del Forum delle politiche sociali nel carcere minorile Beccaria, l’assessore Pierfrancesco Majorino racconterà della firma di un protocollo tra il Tribunale di sorveglianza, il Prap (il provveditorato regionale alle carceri) e il Comune per riconoscere all’associazione Ciao questo ruolo: non un riconoscimento solo formale, visto che fino ad ora l’accoglienza delle mamme su richiesta del Tribunale è stata possibile solo grazie alle donazioni private. Con quei soldi, per esempio, adesso sono ospitate una donna incinta, due mamme con bimbi piccoli e una mamma che si sta gradualmente riavvicinando al figlio, affidato a una comunità per minori quando lei è finita in carcere. È stato un lungo lavoro, quello per arrivare alla convenzione: sei mesi fa la sottocommissione Carceri del Comune aveva fatto un sopralluogo in via Magliocco: ascoltando le storie delle mamme e vedendo l’impegno della responsabile Elisabetta Fontana, il consigliere Alessandro Giungi ha preso come missione quella di dare a Milano una struttura riconosciuta da tutte le istituzioni per un vero percorso di reinserimento delle mamme che hanno commesso reati. Con la possibilità di accompagnare i bambini all’asilo, di partecipare alla loro vita sociale e di fare corsi di formazione per provare ad avere un lavoro e una normalità una volta scontata la pena. Torino: si chiamerà "Allinterno" il nuovo blog per i diritti dei detenuti di Jacopo Ricca La Repubblica, 3 aprile 2016 Uscire dal carcere, prima che con il corpo, con la voce e le parole. Un blog per raccontare vita, emozioni e problemi dei detenuti che Monica Cristina Gallo incontra ogni giorno nella sua attività di garante per i diritti delle persone private della libertà della Città di Torino. Da domani, sul sito di Repubblica Torino, ci sarà una nuova finestra sull’universo carcerario cittadino: "Un progetto che nasce dalla necessità di comunicare a più persone possibile che cos’è il carcere. Prima di tutto la condizione psicologica che rende il carcere un luogo immateriale che non tutti sanno di cosa è fatto", racconta la curatrice. Il blog si chiamerà "Allinterno" perché - spiega Gallo - "lo spazio dentro è davvero troppo poco e le aperture che lo renderebbero diverso ancora non si vedono". Gli aggiornamenti saranno pubblicati ogni primo lunedì del mese: "Un modo per dare voce a quelli che ancora oggi sono invisibili. Il carcere è il luogo degli invisibili, è un pezzo della nostra Torino che i cittadini conoscono troppo poco. Spesso si immagina un dentro che fa un po’ paura. Questo blog vuol servire anche per affrontare le nostre paure del diverso". Architetto d’interni, Gallo ha iniziato a lavorare all’interno delle Vallette nel 2008, come volontaria e organizzatrice del laboratorio sartoriale con donne detenute da cui è nato il marchio "Fumne", che idea e produce linee di accessori femminili. Per anni presidente dell’associazione culturale La casa di Pinocchio, ruolo che ha lasciato dopo la nomina a garante, è anche stata l’ideatrice del primo percorso di riconciliazione fra donne detenute e donne libere, attraverso una scuola artigianale all’interno delle Vallette. Una realtà che quindi conosce bene: "La struttura del carcere torinese avrebbe bisogno di una grande ristrutturazione, non solo per sanare l’edificio, ma per ripensare agli spazi di affettività, di socialità, di spiritualità, bisognerebbe veramente ampliare gli orizzonti". Il blog sarà quindi una prosecuzione del lavoro di garante: "Un’attività dove si cerca di umanizzare il carcere, impegnarsi per garantire un maggior rispetto della dignità dei detenuti, entrare in empatia con il contesto. Soprattutto ascoltare sentire, e cercare, laddove è possibile, di mediare situazioni conflittuali". Sanremo (Im): cella incendiata in carcere. Sappe: troppi detenuti psichiatrici sanremonews.it, 3 aprile 2016 "Un appello rivolto non solo all’Amministrazione penitenziaria - afferma - ma soprattutto all’assessore regionale alla sanità ed alla magistratura perché il peso della responsabilità non gravi solo ed esclusivamente sulla Polizia Penitenziaria ligure". Nuovi episodi di origine tumultuosa riportano alla ribalta la necessità di cambiare qualcosa nel carcere di Sanremo - nuovamente il Sappe ligure richiama l’attenzione sulla esagerata presenza di detenuti psichiatrici ospitati nell’istituto penitenziario di Sanremo. Gli ultimi giorni - afferma il Sappe - sono stati contraddistinti da una rissa, anche se di piccola entità, avvenuta nel cortile passeggi tra un piccolo gruppo di detenuti stranieri di opposta fazione, poi un detenuto inveisce minaccioso contro il poliziotto di turno, ed infine un detenuto italiano di giovane età immotivatamente appicca il fuoco nella propria cella, il pronto intervento del personale di servizio ha evitato il peggio sgombrando il reparto dalla presenza di altri detenuti e spegnendo l’incendio. Questo ultimo episodio segna l’ennesima tappa di negatività sulla sicurezza di quell’istituto. È indispensabile che l’Amministrazione affronti seriamente la problematica e le conseguenze derivanti dalla presenza nelle carceri di detenuti psichiatrici e gli eventi critici che questi producono. Un appello rivolto non solo all’Amministrazione penitenziaria, conclude il Sappe, ma soprattutto all’assessore regionale alla sanità ed alla magistratura perché il peso della responsabilità non gravi solo ed esclusivamente sulla Polizia Penitenziaria ligure. Nuovi episodi di origine tumultuosa riportano alla ribalta la necessità di cambiare qualcosa nel carcere di Sanremo - nuovamente il Sappe ligure richiama l’attenzione sulla esagerata presenza di detenuti psichiatrici ospitati nell’istituto penitenziario di Sanremo. Gli ultimi giorni - afferma il Sappe - sono stati contraddistinti da una rissa, anche se di piccola entità, avvenuta nel cortile passeggi tra un piccolo gruppo di detenuti stranieri di opposta fazione, poi un detenuto inveisce minaccioso contro il poliziotto di turno, ed infine un detenuto italiano di giovane età immotivatamente appicca il fuoco nella propria cella, il pronto intervento del personale di servizio ha evitato il peggio sgombrando il reparto dalla presenza di altri detenuti e spegnendo l’incendio. Questo ultimo episodio segna l’ennesima tappa di negatività sulla sicurezza di quell’istituto. È indispensabile che l’Amministrazione affronti seriamente la problematica e le conseguenze derivanti dalla presenza nelle carceri di detenuti psichiatrici e gli eventi critici che questi producono. Un appello rivolto non solo all’Amministrazione penitenziaria, conclude il Sappe, ma soprattutto all’assessore regionale alla sanità ed alla magistratura perché il peso della responsabilità non gravi solo ed esclusivamente sulla Polizia Penitenziaria ligure. Lanciano (Ch): Sappe; detenuto aggredisce agente nel carcere e tenta la fuga di Omero Oleotti rosarossaonline.org, 3 aprile 2016 Nel tardo pomeriggio del giorno di Pasqua un detenuto di origini campane recluso nel carcere di Villa Stanazzo ha aggredito un sovrintendente di polizia penitenziaria. Il personale è stanco - riferisce Brienza - ed il Sappe sta ancora aspettando gli esiti di una alquanto "insolita" inchiesta condotta dall’ex Provveditore Regionale della Basilicata, circa un tentato omicidio occorso a dicembre scorso nel carcere di Potenza, dove due detenute hanno tentato di strangolare una poliziotta che solo miracolosamente si è salvata; un episodio che aveva suscitato molto clamore nell’ambiente, dalle dinamiche assai torbide, tanto da richiedere in primis dal Sappe un’inchiesta ministeriale per accertare eventuali responsabilità sulla gestione detentiva e sulle mancate precauzioni che l’Amministrazione avrebbe dovuto porre a salvaguardia dell’incolumità della povera collega. Cinquantenne e pluripregiudicato, l’uomo era stato accompagnato in ospedale per una visita ambulatoriale, come ha reso noto il sindacato della Polizia Penitenziaria Sappe. Dopo la visita, insoddisfatto, ne voleva fare un’altra e, al diniego del medico, ha improvvisamente aggredito i poliziotti di scorta ed ha tentato la fuga. Alla luce di quest’ultimo episodio il Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, ha lanciato un nuovo allarme sulla critica situazione delle carceri italiane: "Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti". Le carceri scoppiano, ma per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, sempre più al centro di violenze assurde e ingiustificate. Lo denuncia il segretario provinciale Uil-Pa Polizia Penitenziaria, Ruggero Di Giovanni. 7 sono stati le evasioni da Istituti penitenziari. Restano inascoltate le nostre segnalazioni al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma sulle disfunzioni e sugli inconvenienti che si riflettono sulla sicurezza e sulla operatività della Casa Circondariale di Cremona e del personale di Polizia Penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una significativa carenza di organico nonostante una organizzazione del lavoro assolutamente precaria e fatiscente, legata anche al fatto che non vi è un direttore titolare ma uno in missione da altro istituto, per altro con significate spese di bilancio. "Come dimostra anche quel che è accaduto ieri nel carcere di Asti". Torino: il detenuto si riscatta con il pugilato "se vinco 10 match divento professionista" di Massimo Massenzio La Stampa, 3 aprile 2016 Quando Amelian Nicolae sale sul ring fra il pubblico scatta un lunghissimo applauso. Seduti in prima fila ci sono due leggende della boxe come Nino Benvenuti e Francesco Musso. Nelle retrovie ex carcerati e guardie penitenziarie, assieme all’educatrice e al cappellano della casa circondariale delle Vallette di Torino. Amelian, del resto, non è un pugile come tutti gli altri. Sulle sue spalle da gigante pesa una condanna a 30 anni di reclusione per un brutale omicidio ed è il primo detenuto in Europa a cui è stata data la possibilità di uscire dal carcere per partecipare a un incontro ufficiale. Sul suo volto imperlato dal sudore si legge la tensione di chi sa di avere l’ultima occasione per riprendersi la sua vita. Si gioca tutto su quel quadrato dove è salito per la prima volta 7 anni fa quando un suo compagno di cella gli propose di sfogare la sua rabbia infilandosi un paio di guantoni. Da quel momento è cambiato e ha cominciato a lavorare duro nella palestra creata in carcere dal maestro Antonio Montecalvo. "Quando proposi al direttore di insegnare boxe ai detenuti mi guardarono tutti come se fossi pazzo - racconta il maestro. Oggi in platea vedo un sacco di guardie tifare per il mio ragazzo. È la soddisfazione più grande". Nicolae ha deciso di riscattarsi, ha imparato regole e disciplina, parole che per lui non avevano mai contato nulla. Nel giro di pochi mesi si è trasformato in un detenuto modello e in un lavoratore instancabile nella cooperativa del carcere. Oggi, dopo aver scontato i primi 10 anni di pena, ha a disposizione 45 giorni di permesso ogni 12 mesi per tornare a casa e incontrare il figlio nato quando lui era già chiuso dentro una cella. Nel suo futuro c’è ancora tanta galera, ma anche la speranza di poter costruire qualcosa di buono quando sarà fuori. E poi resta il grande sogno: vincere 10 incontri e diventare un professionista. Il primo match, quello del debutto, l’ha messo in bacheca venerdì sera, anche se solo per squalifica, sul ring della piccola polisportiva di Vinovo, alle porte di Torino. Amelian ha incassato tre pugni quando la gara era già stata fermata dall’arbitro, ma nemmeno per un attimo ha pensato di reagire. "Dieci anni fa le cose sarebbero andate diversamente", ammette mentre accarezza la testa del figlio a bordo ring. "Ero una testa calda e quando bevevo succedevano brutte cose. Volevo farmi rispettare, ma grazie alla boxe ho imparato a controllarmi e non mi sono mai più messo nei guai". Dell’omicidio di Dumitru Policarp, estate 2006, non parla volentieri. Secondo i giudici che lo hanno condannato Amelian, assieme a due complici, avrebbe ucciso il suo connazionale a colpi di martello dopo averlo legato a un albero nella baraccopoli di via Lega, alla periferia di Torino. La vittima era uno dei tanti manovali che Amelian reclutava per la sua impresa edile: fu massacrato semplicemente per una risposta non data. "Dopo tanti anni è inutile tirare fuori ancora questa storia. Mi hanno dato una seconda opportunità e non me la lascio certo sfuggire". La guerra in casa e il disordine mondiale di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2016 In Yemen i sauditi hanno ingaggiato contro gli Houti sciiti una guerra che ha già fatto migliaia di morti: ci sono attentati dell’Isis, c’è al-Qaeda, che fino a qualche tempo fa era un bersaglio dei droni americani e ora controlla l’Hadramaut e il porto di Mukalla, c’è soprattutto una popolazione allo stremo con migliaia di profughi. Eppure questa sorta di Vietnam arabo è menzionato solo di sfuggita. Washington l’anno scorso ha detto: ci pensano i sauditi. Ma vi fidereste di uno Stato che provoca enormi tensioni nel Golfo con l’Iran sciita e da cui provengono i finanziamenti agli imam più radicali dell’Islam? È questa la geopolitica del caos. Ovunque si volga lo sguardo ci circonda un disordine mondiale che però trattiamo in maniera selettiva. Se a produrlo sono i nostri clienti allora si chiude un occhio: dopo tutto la penisola arabica è il cortile di casa di monarchie petrolifere che hanno il buon gusto di investire nelle nostra finanza. È con questa logica che siamo arrivati ad avere la guerra in casa: la stessa logica perversa che scatenò settembre 2001. L’Isis nel 204 non suscitava alcun interesse negli Stati Uniti: Obama, che oggi chiama alla mobilitazione contro i jihadisti con ambizioni atomiche, definì lo Stato islamico un competitore dilettante di al-Qaeda. Dobbiamo aspettarci altri dilettanti allo sbaraglio? Si parla tanto di intelligence, ma proprio gli americani sono stati protagonisti del più devastante fallimento dei servizi degli ultimi decenni: mai erano stati bombardati in casa, e ci è riuscito Osama bin Laden la cui famiglia andava a pranzo con i presidenti e che abitava indisturbato in Pakistan, Paese alleato, compiacente con cellule terroristiche che fanno stragi di musulmani e cristiani, dotato pure di armi nucleari di nuova generazione. Ma gli Stati Uniti hanno la Cia, l’Fbi, controllano il traffico mondiale delle comunicazioni e dal tavolo della loro rete fanno cadere agli alleati soltanto briciole di informazioni: quel che basta per tenerli a guinzaglio. Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni? Prendiamo l’apertura a Teheran, dove sta per andare in missione il presidente del Consiglio: gli Usa vogliono vendere i Boeing e hanno già pronte tutte le triangolazioni finanziare necessarie, ma un’azienda italiana o europea deve stare molto attenta, se non vuole incappare nelle sanzioni Usa, a esportare qualunque prodotto che abbia un contenuto di tecnologia Usa superiore al 25 per cento. In Iraq - 12 anni di embargo - inglesi e americani avevano un ufficio per controllare l’export "dual use" (militare e civile): monitoravano con un sistema da incubo tutto quello che entrava, un po’ meno quello che usciva, petrolio di contrabbando che ingrassava il curdo Barzani, la Turchia e i dealer del Golfo. Come poi è accaduto anche con l’Isis. Ma anche questo non bastava: nel 2003 Bush jr. e Blair decisero di mettere le mani direttamente sul Paese scoperchiando un vaso di Pandora che non hanno mai richiuso. Per noi l’Iran, Paese discretamente stabile anche se implicato nel marasma mediorientale, è una cosa seria. Le commesse degli ayatollah, buoni pagatori, devono coprire la perdita di altri mercati, come la Libia e in prospettiva forse anche l’Egitto. Anche l’Italia ha un cortile di casa, ma gli alleati ci fanno spostare continuamente di posto come nel gioco dei quattro cantoni, un giorno in Iran, un altro in Libia. Meno male che siamo ragazzi svelti, se non proprio svegli. L’intelligente europea fa acqua e quella belga viene sbeffeggiata in barzellette da humor nero. Ma ha perfettamente ragione Emma Bonino quando dice che se nell’integrazione europea la sicurezza è rimasta esclusiva competenza nazionale, per rimediare bisognerebbe rivedere i Trattati, e invece gli Stati dell’Unione si illudono che chiudere le frontiere risolva il problema È assolutamente stucchevole immaginare un intelligente europea senza una politica estera e di difesa e sicurezza comuni. Quindi finché non avverrà sarà inutile paragonarsi agli Stati Uniti e dire "siamo in guerra": siamo chi, visto tra l’altro che le forze armate non sono più di leva ma professionisti che guardano anche loro ai bilanci? Siamo vittime, questo sì, ma non combattenti. Sono gli Usa che dettano le regole della guerra al terrorismo, non il Califfato, e lo fanno in funzione dei loro interessi che possono coincidere con i nostri ma non sempre. Gli europei continentali hanno una colpa grave: sperano che siano gli altri a occuparsi dei loro guai. Scaricano i profughi a Erdogan e nella guerra all’Isis, dopo avere architettato per anni la caduta del regime di Damasco, si affidano a Putin e Assad, due leader sotto sanzioni. E quando intervengono provocano danni massicci come in Libia nel 2011. Nello specchio deformante che riflette il caos europeo possiamo vedere il nostro disordine politico, l’egoismo nazionale, gli inconfessabili interessi che assegnano medaglie al valore, i fallimenti dell’intelligente e persino i volti sfocati, colti dall’obiettivo delle telecamere, dei jihadisti di casa nostra. Il futuro di Schengen? L’Europa ha bisogno di una frontiera unica di Sabino Cassese Corriere della Sera, 3 aprile 2016 Negli ultimi tre mesi del 2015 un milione di persone ha varcato illegalmente i confini dell’Unione e su questi confini sono morte dal 1988 circa 28 mila persone. Nessun Paese può gestire questi problemi da solo. L’Europa avrà presto o tardi una unica frontiera, quella esterna. Negli ultimi tre mesi dello scorso anno, circa un milione di persone ha varcato illegalmente i confini europei e su quei confini, dal 1988, sono morte circa 28 mila persone. Sono problemi che non possono essere gestiti da un solo Paese, ad esempio dalla Grecia o dall’Italia, anche perché la maggior parte dei migranti non vuole stabilirsi in queste nazioni, ma attraversarle per stabilirsi in altre, più al Nord. Singoli Stati si oppongono alla cessione di sovranità che questo comporta, ma dovranno necessariamente cedere, perché la storia ha dimostrato che le migrazioni esercitano pressioni alle quali anche l’enorme muro innalzato tra Stati Uniti e Messico non riesce a resistere. Occorre, quindi, cooperare. E per cooperare l’Unione Europea ha istituito due organismi. Il primo è l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione (Frontex), operante dal 2004. Il secondo è l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, del 2010. Questi uffici agiscono in collaborazione con l’Europol. Per capire l’importanza della loro azione, ricorderò che Frontex ha solo in Grecia più di 700 addetti e altri ne sta cercando. L’idea di nazione è associata a un territorio delimitato da una frontiera, un confine, entro il quale si esercita la sovranità dello Stato. Il confine è un elemento di organizzazione dello spazio, opera come un dispositivo di inclusione e di esclusione. Ma territorio e confini si indeboliscono. Le comunicazioni superano i territori e non possono essere tenute completamente sotto controllo dagli Stati (basti pensare a Internet). I confini sono sempre più porosi: vengono varcati, si perdono, si rafforzano, avanzano, arretrano, si ridefiniscono. Sono ogni giorno superati da una enorme quantità di merci. Il commercio internazionale, misurato dall’Organizzazione mondiale del commercio in dollari, nel 2014 ammontava a 19 trilioni (merci) e 5 trilioni (servizi). In altri casi, i confini scompaiono: quelli tra la Siria e l’Iraq, nella zona sotto il controllo di fatto del cosiddetto Stato Islamico, non esistono più. Vi sono poi frontiere che arretrano e frontiere che avanzano. Nel 1996, pur rimanendo fermi i confini cartografici, i confini definiti degli Stati Uniti, ai fini dell’immigrazione, sono stati arretrati di 100 miglia. Gli immigrati irregolari colti entro le 100 miglia dalla frontiera cartografica vengono trattati come se stessero sulla linea di confine. In altri casi, le frontiere sono spostate in avanti. Ad esempio, la guardia costiera americana, operando fuori delle acque territoriali, ha intercettato nel 1991 imbarcazioni che trasportavano migranti che fuggivano da Haiti verso la Florida e li ha riportati ad Haiti, rimpatriandoli con la forza, senza assicurarsi che non fossero rifugiati. Infine, si ridisegnano le frontiere dell’Unione Europea. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ha previsto un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne. La Convenzione di Schengen, entrata in vigore nel 1995, e il codice frontiere di Schengen del 2006 hanno disciplinato frontiere esterne e frontiere interne, regolando le verifiche da compiere, disponendo comuni regole su visti e diritto di asilo. Alla Convenzione di Schengen partecipano 22 Paesi membri dell’Unione Europea e quattro Paesi esterni (Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera). È allo studio della Commissione europea la creazione di una Guardia europea delle frontiere e delle coste comunitarie. Il dibattito in corso sull’applicazione del trattato di Schengen verte sul ruolo che debbono giocare le frontiere interne rispetto a quelle esterne. Gli Stati europei centrali richiedono a quelli periferici di gestire l’immigrazione, quelli periferici che questo avvenga a carico dell’Unione e con la distribuzione degli immigrati tra i diversi Paesi europei. Pretendere, in questa situazione magmatica, di irrigidire i vecchi confini nazionali, invece di cooperare per il rispetto di una unica frontiera, è illusorio. Migranti. Una gestione sovranazionale per i Centri di accoglienza di Stefano Passigli Corriere della Sera, 3 aprile 2016 Dando agli hot-spot carattere di extraterritorialità si supererebbe così alla radice il problema della revisione del Trattato di Dublino, che come ogni trattato internazionale non ammette modifiche unilaterali. I recenti attentati terroristici e i massicci flussi migratori dalle zone di guerra hanno mostrato le profonde carenze della risposta europea a questi fenomeni, e sottolineato la necessità di un’armonizzazione delle politiche di accoglienza e soprattutto di un più efficace coordinamento delle attività di intelligence e di polizia degli stati dell’Unione. Di fronte alle attuali difficoltà non si può’ non ricordare che se nel 1954 la Francia non si fosse opposta alla nascita della Comunità Europea di Difesa oggi avremmo istituzioni europee ben più salde e forse una vera e propria unità politica del continente. Non è infatti necessario ricordare che delle caratteristiche che da sempre identificano la sovranità - l’esercizio legittimo della forza, l’amministrazione della giustizia, e l’esigere imposte e battere moneta - solo quest’ultima è patrimonio dell’attuale costruzione europea. L’Europa, insomma, è oggi poco più che una comune moneta e un mercato comune. Per restare ai caratteri distintivi della sovranità, molto si potrebbe fare nel campo della giustizia con una armonizzazione dei codici; difficile è, ad esempio, varare politiche fiscali comuni se non si è prima provveduto ad uniformare il diritto societario e le norme sulle crisi di impresa. Ma difficile è armonizzare i codici penali se non si vuole prima modificare le norme sulla prescrizione (che solo in Italia e Grecia agisce anche nel processo). E difficile, infine, è armonizzare il diritto amministrativo e lo stesso diritto privato se perfino nel caso di alcuni elementari diritti civili permangono ancora diversità tra i paesi dell’Unione, per non parlare dell’abisso che tuttora la separa da alcuni paesi che aspirano a farne parte: come ipotizzare, ad esempio, un ingresso a breve-medio termine della Turchia se alcune delle libertà fondamentali vi sono negate? Poco insomma hanno fatto e poco fanno le élites politiche europee al di fuori dell’economia, specie rispetto a quanto seppero realizzare i padri fondatori agli albori della costruzione comunitaria. Alcuni piccoli passi sono però possibili, ed alcuni con effetti sorprendenti proprio in uno dei settori che oggi mostrano con più evidenza le difficoltà di una comune azione europea come l’accoglienza dei migranti. Si pensi, ad esempio, alla situazione degli hot-spot - dei centri, cioè, di prima accoglienza ed identificazione dei migranti, sostanzialmente localizzati in Italia e Grecia - oggetto di continue critiche da parte della Commissione e di molti stati dell’Unione. Ebbene, basterebbe che gli hot-spot passassero da gestioni nazionali ad una gestione sovranazionale con personale dell’Ue per ottenere una più equa condivisione dei costi e delle responsabilità. Se poi lo stato ospitante desse a tali centri carattere di extraterritorialità, come avviene per le ambasciate, i migranti accettati verrebbero ammessi direttamente in Europa e non in un singolo stato. Si supererebbe così alla radice il problema della revisione del Trattato di Dublino, che come ogni trattato internazionale richiede revisioni condivise e non ammette modifiche unilaterali. Un simile passo può sembrare di poco conto. Non è così. Nell’attuale situazione dell’Unione europea dopo il suo allargamento, con paesi caratterizzati da diversi livelli di sviluppo e diversi tassi di crescita, con il ricorrente rischio di default di qualche stato membro e il pericolo che un’eventuale Brexit determini quell’effetto domino che lascerebbe aperta solo la via dell’Europa a due velocità ben descritta su queste colonne il 27 marzo da Lucrezia Reichlin, una politica dei piccoli passi può essere ben più utile di grandi annunci destinati a rimanere senza seguito. Migranti. Idomeni, dove il tempo si consuma in fila di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 3 aprile 2016 Reportage. La beffa dell’inservibile lasciapassare, sale la tensione nell’accampamento: "Siamo abbandonati". Ingabbiati a un passo dalla "rotta balcanica" verso l’Europa. Inchiodati nella campagna che prima sfamava gli agricoltori locali. Indiavolati perché alimentano soltanto la forza della disperazione. Nei giorni scorsi i migranti del campo di Idomeni hanno replicato inutilmente le proteste sul binario morto del confine macedone: la nuova tensione è prodotta anche dall’annunciato arrivo di altri bus per trasferire i "volontari" con passaporto siriano in strutture più piccole, ma con accesso interdetto a giornalisti e ong. E ieri in oltre 200 hanno invaso l’autostrada, a una ventina di chilometri dal campo: per sollecitare il loro sospirato "lasciapassare" verso Skopje hanno bloccato le merci viaggianti di tir, camion e furgoni sull’asfalto greco. Idomeni è diventata la succursale di Damasco (ma anche di Baghdad, Kabul, Kobane). Da lontano, sembrerebbe un mega-camping. Dentro, c’è un lager a cielo aperto. L’inferno dell’Europa senza memoria, coscienza, vergogna. L’elicottero non sgancia bombe chimiche. Il pick up viaggia senza mitragliatrice sul pianale. E la voce roca del muezzin non invoca il califfo, il sultano o l’emiro. Ma il campo profughi è davvero lo sconfinato limite di un’umanità costretta oltre l’incredibile. Idomeni è la catastrofe di Bruxelles e insieme lo spettro di un esodo altrettanto biblico. Buco nero dei diritti umani non negoziabili, missione impossibile di centinaia di volontari internazionali, specchio aggiornato di guerre e terrorismi. Una bolgia maledetta. E il gorgo di Idomeni restituisce souvenir da scandalo. Poliziotti in assetto di guerra scattano selfies con i profughi ammassati al confine della Macedonia. Disabili in carrozzina, bambini soli, mutilati di guerra (magari con un tubo al posto della protesi) vagano nella tendopoli. Un gruppo assalta il camion con i viveri rimasto isolato; altri uomini con le corde recuperano pigne e spezzano rami dagli alberi; nelle stalle dell’ormai ex centro veterinario si rassetta il tappeto di paglia davanti alla "casa" in poliestere formato igloo. Eppure, alla vigilia di Pasqua qui è perfino nata una bambina: figlia di curdi in fuga da Kobane, frutto del parto di fortuna, il primo in assoluto nel campo dopo i quattro all’ospedale di Kilkis. Qui Michael Grossenbacher, cabarettista di Berna, si deve improvvisare medico nelle pause della raccolta di firme con cui vuole "rappresentare" i profughi in Svizzera. E Sabrina Yousfi della coop Alternata Silos è partita da Minturno (Latina) per verificare di persona la vita dei "fantasmi" di Idomeni. Soltanto nel campo principale - che si snoda dai binari al bosco, dai grandi tendoni di Medici Senza Frontiere fino ai piedi del piccolo paese - le ultime statistiche Unhcr contabilizzano 11.324 persone (su 51.430 presenti in tutte le strutture di accoglienza dell’intera Grecia). Più del 60% sono donne, bambini e minori non sempre insieme al resto della loro famiglia. Metà della "popolazione" arriva dalla Siria con una nutrita presenza dall’Afghanistan, ma anche da Pakistan e Iraq. Dall’alba al tramonto, il tempo si consuma in fila. Occorre mettersi alle spalle di chi aspetta la distribuzione dei pasti o di una bevanda calda, pazientare davanti alle "ciabatte" dell’elettricità, attendere il turno per inseguire una connessione wi-fi, rimettersi in fila alla ricerca d’informazioni o medicine. E ogni giorno ricomincia il "presidio" di fronte alla gabbia metallica che sbarra il passo, con la vana speranza di attraversare la frontiera, a beneficio delle tv in diretta satellitare. Nel girone infernale, un paio di famiglie allargate curde insegue le note del kopuz pizzicato con nostalgia. "Non possiamo tornare indietro, tanto meno in Turchia. E nemmeno procedere. L’Europa ci ha abbandonato qui" chiosa sconsolato il più anziano. È il destino amaro di chi dall’estate accarezza l’approdo in Germania o Svezia e si ritrova truffato soprattutto dal "lasciapassare", foglio in caratteri incomprensibili rilasciato a nome del governo di Atene. È stato tradotto come il visto d’ingresso europeo. Ma i vertici Ue hanno preferito conciliare Tsipras e Erdogan senza tanti complimenti. E quel pezzo di carta sgualcito non servirà, nell’ultimo pertugio che si schiude forse nella sponda albanese del lago Prespa. Ai ragazzi basta un pallone per sfogarsi in mezzo all’erba o accennare la sfida a volley senza rete. I più piccoli si accontentano di un girotondo, saltare nello "scalone" abbozzato sull’asfalto, rincorrere il clown con l’ombrello. Tutti disegnano inesorabilmente aerei che bombardano, troppi morti e tanto sangue. Nessuno va più a scuola da mesi, mentre inizia a serpeggiare non solo la varicella. Ai margini del mega-accampamento, l’acqua è un miraggio. Dhaki, giovane meccanico fuggito dalla regione di Dara accenna pudicamente alle cicatrici nella spalla sinistra. Siede davanti al bricco di caffè. I bambini di 4 e 2 anni saltano davanti alla tenda. La moglie, incinta del terzo figlio, capisce bene l’inglese e spiega: "Abbiamo preso i bambini, attraversato la Siria e raggiunto le isole greche. Era impossibile restare fra l’assedio di Isis, le bombe dal cielo e il caos totale. Ma non possiamo restare così ancora a lungo". L’inferno di Idomeni brucia tutto. Stracci, plastica, rifiuti alimentano i fuochi della miseria quotidiana. E le "cucine" (quanto le "stufe") restituiscono con la cenere l’inconfondibile odore di Seveso, Marghera o Taranto. Gli "spazzini" volontari arrancano per cercare di garantire il livello minimo d’igiene pubblica. E staff attrezzati di sanitari arrivati da mezzo mondo si dannano l’anima per scongiurare il peggio. Ma al buio, nei ruderi o nelle coltivazioni abbandonate si annida ogni indicibile diavoleria. La disperazione nutre il bazar delle infamie. Una donna siriana che rivendica la fede sunnita spinge la carrozzina con l’ultima figlia di otto mesi. Intorno ruotano altri tre bambini, mentre il marito è in fila da qualche parte. Parla con un filo di legittima rabbia agli interlocutori che aspettano la traduzione: "Assad è un ateo che usa la guerra civile per fare pulizia etnica. Daesh e al-Quaida fanno strage anche dell’islam. Sul gommone ero terrorizzata come in Siria, cercando di tenere la più piccola sollevata sulla mia testa. Ero pronta a morire, purché loro quattro si salvassero. Sono ancora terrorizzata, perché la nostra famiglia non ha più certezze". Poi con gli occhi lucidi saluta il giovane interprete arabo: riprende a camminare con i quattro figli dentro un intollerabile recinto a perdita d’occhio. Lui abbassa la testa, si copre la faccia, sospira. E non parla più. Migranti. Brennero, l’Austria invia soldati di Angela Mayr Il Manifesto, 3 aprile 2016 Linea dura di Vienna: "Mettiamo in sicurezza i nostri confini, i controlli saranno serrati e i cittadini capiranno i disagi". Accordo trovato alla conferenza dei ministri della difesa dei Paesi Cedc riuniti venerdì: "Nuova mission civile e militare ai confini dell’Ue, visto che Frontex non ce la fa". Ogni rotta di fuga va chiusa, i confini blindati, anche con l’aiuto dell’esercito. Ormai ogni giorno il governo austriaco annuncia misure nuove sempre più restrittive contro il diritto di fuga e di asilo, a tutto campo. Le ultime sull’onda della conferenza dei ministri della difesa dell’Europa centrale, orientale e sudorientale (Cedc) che si è svolta a Vienna venerdì. Assenti anche stavolta Germania e Grecia, pare per propria scelta. In cambio c’erano i Paesi cosiddetti Visigrad, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria quelli che avevano rifiutato e bloccato ogni piano di ripartizione europea dei rifugiati. A questa conferenza invece l’accordo si è trovato: certo, si tratta di mandare soldati ai confini esterni dell’Ue "visto che Frontex non ce la fa" creando una nuova "mission civile e militare", ecco la proposta della conferenza, da mandare ora al confine greco ma anche in altri posti a secondo dove si sposta l’afflusso di profughi. È quanto i convenuti hanno scritto in una lettera indirizzata a Federica Mogherini. Intanto, "visto che i confini esterni non vengono efficientemente tutelati", l’Austria agisce di nuovo da sola, "a breve metterà in sicurezza i suoi confini", ha detto la ministra degli interni Johanna Mikl-Leitner del partito popolare (Oevp) al quotidiano tedesco "Die Welt". Concetto ribadito con determinazione anche dal ministro della difesa Hans Peter Doskozil, socialdemocratico (Spoe) al Muenchner Merkur, annunciando massicci controlli al Brennero con l’intervento di soldati. Priorità massima è "garantire stabilità e sicurezza" come se le masse di disperati che arrivano ai confini fossero un pericolo. Colpisce la mutazione di Doskozil, ex funzionario di polizia che in autunno al confine tra Austria e Ungheria mostrò un forte impegno umanitario verso i profughi, da nuovo ministro della difesa (da due mesi) è divenuto hardliner di spicco assumendo posizioni che i socialdemocratici fino a tre mesi fa avevano sempre rifiutati. "I cittadini di certo capiranno, se ci saranno code", commentano Mikl Leitner e Doskozil in piena sintonia in riferimento all’intenso flusso di turisti sull’asse del Brennero. Il governo austriaco è convinto che con l’accordo con la Turchia si intensificherà la presenza di migranti sulla rotta mediterranea. "Sappiamo che nei prossimi giorni il tempo migliorerà e che centinaia di migliaia di persone si metteranno in cammino", dice Mikl-Leitner. "In Turchia al confine con la Grecia aspettano 700.000 persone, a Istanbul ci sono 400.000 persone pronte a mettersi in cammino verso la Bulgheria". Non deve ripetersi quanto accaduto nel 2015, quando circa un milione di profughi attraversavano i confini austriaci, e circa 90 mila chiesero asilo sul posto, ribadisce il governo austriaco che per raggiungere lo scopo aveva fissato per questo anno un tetto massimo di accoglienza di 37.500 rifugiati. Un tetto che gli stessi giuristi commissionati dal governo hanno dichiarato come incostituzionale e violazione della convenzione europea dei diritti umani. Nel frattempo però blindata la rotta balcanica e inviando truppe al Brennero il problema giuridico del tetto massimo non si porrà più, perché non potrà più entrare nessuno. A pensare solo pochi mesi fa il cancelliere austriaco Werner Faymann, socialdemocratico, accusò Victor Orban di vicinanza al nazismo per la sua chiusura verso i rifugiati. "A chi soffre e fugge da situazioni disumane dobbiamo aprire i confini", disse. Un forte movimento civile esemplare sostenne e praticò la cultura dell’accoglienza. Metà gennaio la svolta di 360 gradi di Faymann arreso alla linea dei popolari. In Turchia sale la preoccupazione per i rifugiati "non siamo pronti per l’accoglienza" di Giovanna Locatelli La Stampa, 3 aprile 2016 "La regione non è pronta ad accogliere, a lungo termine, tutti i rifugiati che verranno rispediti indietro dalla Grecia" ha dichiarato alla Reuters Mustafa Tosun, sindaco di Dikili, città sulla costa Egea, nella provincia di Izmir. Tosun ha poi aggiunto : "Ho paura che non solo nella città di Dikili, ma in tutta la Regione, le infrastrutture presenti non siano sufficienti se i rifugiati rimangono qui, si tratti di strutture sanitarie o educative. Abbiamo più volte espresso questi timori". Secondo l’accordo siglato con l’Unione Europea ed entrato in vigore il 20 marzo, da quella data chi arriva in Grecia verrà rispedito nel Paese della Mezzaluna. I primi rimpatri forzati sono previsti per lunedì 4 aprile. In questi ultimi giorni, le autorità turche parlano della costrizione di due campi per la riammissioni dei rifugiati: uno appunto a Dikili, l’altro a Manisa, una città della Turchia occidentale. Per ora gli scenari possibili non sono incoraggianti. Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International in Turchia, ha sottolineato che c’è la possibilità concreta che i nuovi rifugiati e richiedenti asilo vengano portati nei centri di detenzione e poi rispediti forzatamente nei loro paesi di origine. "Ci sarebbe bisogno - dice Gardner - di un centro indipendente che possa monitorare quello che succederà, ma questo purtroppo non sarà possibile". Inoltre, ha affermato che i centri che dovrebbero essere costruiti - a Dikiki e Manila - presentano molti punti interrogativi: "Ad esempio, non si sa quando saranno operativi né che chi potrà accedervi" afferma Gardner. Da parte sua, il vicedirettore turco della Mezzaluna Rossa, Kerem Kinik, sembra vedere un quadro generale più chiaro: "Il centro di riammissione a Manisa potrà accogliere fino a 5mila persone. Per ora non si sa quali saranno i tempi per il suo completamento, ma i lavori andranno avanti speditamente". Kinik ha spiegato come la sua Organizzazione intende rispondere alle esigenze dei prossimi giorni : "Molto probabilmente, ospiteremo i primi arrivati in alberghi o strutture vacanziere lungo la costa". Secondo il vicedirettore della Mezzaluna Rossa, alcuni rifugiati potrebbero essere portati, in un secondo momento, in campi profughi; mentre altri potrebbero ritornare nelle province turche dove si erano inizialmente insediati. La Mezzaluna rossa ospita già circa 250 mila rifugiati siriani in 22 campi nel sud-est del Paese. Oltre il 90% dei 2,7 milioni di siriani in Turchia vive però al di fuori delle strutture organizzative. Amnesty International Turchia - come altre organizzazioni umanitarie - critica pesantemente l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia: "È stato siglato frettolosamente, senza pensare in maniere sufficiente alla sua reale attuazione". tuona Gardner. Per poi aggiungere: "Chi è già in Europa e non vuole tornare in Turchia, dovrebbe avere la possibilità di spiegare, attraverso una procedura individuale, le sue motivazioni. Ma i tempi, così come sono stati scanditi, non lo permettono". Andrew Gardner non ha dubbi: "La Turchia non è un Paese sicuro per rifugiati e richiedenti asilo. Una nostra fonte ci ha detto che 150 rifugiati siriani, uomini, donne e bambini, sono stati rimpatriati forzatamente giovedì mattina dalla provincia di Hatay. Ma ancora. Abbiamo documentato in passato diversi casi di rimpatri forzati in Paesi come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan. Succederà ancora, con la complicità dell’Unione Europea". Egitto: non solo Regeni, sono state 533 le sparizioni forzate negli ultimi otto mesi di Farid Adly Corriere della Sera, 3 aprile 2016 "Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato", ha denunciato la madre, Paola Regeni. Lo ripetono gli attivisti egiziani sin dal ritrovamento del suo cadavere con chiari segni di tortura, mentre il governo del Cairo nega che pratiche simili vengano commesse sistematicamente dai suoi apparati. La verità su Giulio non è ancora emersa. Ma la sua morte ha portato l’attenzione sul fenomeno delle sparizioni forzate. "Nel diritto internazionale riguardano persone arrestate da agenti dello Stato o in borghese e portate in centri di detenzione ufficiali e non, senza comparire di fronte a un giudice", spiega Riccardo Noury di Amnesty. Il Corriere della Sera ha deciso di pubblicare online i nomi degli egiziani vittime di sparizioni forzate dall’agosto 2015 ad oggi, in base ai dati finora diffusi da due Ong: la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, diretta dall’ex ricercatore di Amnesty Mohamed Lotfy e il Centro El Nadim della psichiatra Aida Seif Al Dawla. Il totale è di 533 casi. Molti sono accusati di appartenere alla Fratellanza Musulmana o di essere dissidenti laici, ma non solo. Dopo settimane o mesi, alcune vittime riappaiono con segni di tortura e maltrattamenti. Ma di 396 scomparsi non si sa ancora nulla. Egitto: cosa sono e come funzionano le sparizioni forzate sotto Al Sisi di Viviana Mazza Corriere della Sera, 3 aprile 2016 La "Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà" denuncia che dalla morte di Giulio sembra sia iniziata una nuova "pericolosa fase": tre cadaveri di egiziani in obitorio. "Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato", ha denunciato la madre, Paola Regeni. Lo ripetono gli attivisti egiziani sin dal ritrovamento del suo cadavere con chiari segni di tortura, mentre il governo del Cairo nega che pratiche simili vengano commesse sistematicamente dai suoi apparati. La verità su Giulio non è ancora emersa. Ma la sua morte ha portato l’attenzione sul fenomeno delle sparizioni forzate. "Nel diritto internazionale riguardano persone arrestate da agenti dello Stato o in borghese e portate in centri di detenzione ufficiali e non, tenute incommunicado e senza comparire di fronte a un giudice", spiega Riccardo Noury di Amnesty. Il Corriere della Sera ha deciso di pubblicare online i nomi degli egiziani vittime di sparizioni forzate dall’agosto 2015 ad oggi, in base ai dati finora diffusi da due Ong. Si tratta della "Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà", diretta dall’ex ricercatore di Amnesty International Mohamed Lotfy, e del "Centro El Nadim per la riabilitazione delle vittime di violenza" della psichiatra Aida Seif Al Dawla. Entrambe sono ritenute organizzazioni assolutamente attendibili da Amnesty International. Il totale è di 533 casi. Molti sono accusati di appartenere alla Fratellanza Musulmana o di essere dissidenti laici, tuttavia ci sono anche storie diverse. Dopo settimane o mesi, alcune vittime riappaiono con segni di tortura e maltrattamenti. Ma di 396 scomparsi non si sa ancora nulla. La scelta di partire dall’agosto 2015 è legata al fatto che la "Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà" ha iniziato solo da quel mese a documentare le sparizioni in maniera sistematica: un team di quattro persone (più un avvocato) è entrato in diretto contatto con le famiglie e gli avvocati per confermare ogni singolo caso. La Commissione ha così registrato 320 casi dall’agosto al novembre 2015 e un nuovo rapporto sulle sparizioni forzate (tra dicembre 2015 e marzo 2016) sul quale abbiamo avuto alcune anticipazioni uscirà tra pochi giorni. A questi dati abbiamo aggiunto un numero limitato di casi aggiuntivi tratti nell’archivio del Centro El Nadim, che dal 1993 fornisce assistenza psicologica alle vittime di tortura. Questo archivio si basa anch’esso sui dati della Commissione Egiziana ma include alcuni casi eclatanti pubblicati sulla stampa e confermati su Facebook da gruppi di famiglie degli scomparsi o associazioni a difesa dei diritti dei detenuti. Entrambe le organizzazioni notano comunque che i nomi e le storie che sono riuscite a documentare costituiscono una stima conservatrice rispetto alla reale portata fenomeno: molte famiglie hanno paura di denunciare le sparizioni, per timore di ritorsioni o nella convinzione che gli attivisti possano fare poco. Il termine - Per il diritto internazionale, il termine "sparizioni forzate" indica non solo coloro che sono spariti e mai più ritrovati, ma "tutte le persone arrestate da agenti dello Stato o in borghese e portate in centri di detenzione ufficiali e non, tenute incommunicado e senza comparire di fronte a un giudice", ci spiega Riccardo Noury di Amnesty International. Sono considerate sparizioni forzate per esempio casi come quelli di Esraa Al Tawil, una fotogiornalista ventitreenne prelevata in strada il 1° giugno e rintracciata due settimane dopo in una prigione femminile: tenuta in carcere per sette mesi, con l’accusa di far parte della Fratellanza Musulmana, e rilasciata per motivi umanitari solo perché cammina con l’aiuto delle stampelle dopo essere stata colpita da una pallottola durante le proteste dell’anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Un altro caso famoso è quello di Islam Khalil, scomparso il 24 maggio insieme al padre e al fratello Nour, ad Alessandria d’Egitto: i suoi familiari sono stati rilasciati, mentre lui è rimasto in una prigione segreta per 122 giorni; poi è "riapparso" davanti alla procura con segni di torture sul corpo, ma è rimasto in carcere. Grazie a Islam, però, sono state localizzate molte altre vittime di sparizioni forzate nel famigerato carcere di Lazoghli. Questi due esempi non sono inclusi nel nostro conteggio, perché precedenti alle ricerche sistematiche della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, ma li ricordiamo perché sono stati importanti nel risvegliare la società civile egiziana. Islamisti ma non solo - Centinaia di persone sono vittima di sparizioni forzate in Egitto. Gli apparati non prendono di mira solo gli islamisti, ma un gruppo più ampio di persone, inclusi studenti e attivisti politici laici, ma anche persone politicamente non affiliate. Le donne sono una minoranza, ci sono alcuni minorenni. "La maggioranza dei casi sono: non necessariamente membri della Fratellanza Musulmana ma persone sospettate di essere tali o di esserne amici o parenti. C’è anche chi non ha nulla a che fare con i Fratelli Musulmani. Come Reefat Shehata, sparito dal 13 gennaio 2014, e Mostafa Massoni, scomparso nove mesi fa", dice la direttrice del centro El Nadim. "C’è un 20% di arresti che avvengono praticamente a caso - ci spiega l’avvocato Hisham Halim, che lavora con Lotfy -. Una volta, per esempio, le forze di sicurezza cercavano una determinata persona e, trovandola a casa con gli amici, hanno fermati tutti e 17 i presenti, incluso un cieco". Il modus operandi è il seguente, spiega la ricercatrice Riham Wahba: 1) le forze di sicurezza prelevano le persone a casa, nel luogo di lavoro o in strada "indipendentemente da età, sesso, professione"; 2) le perquisiscono, minacciano di fronte ai familiari e colleghi; 3) bendano la vittima e l’arrestano; 4) negano che l’arrestato si trovi in alcun commissariato o prigione. Wahba sottolinea che si tratta di una violazione della Costituzione egiziana che all’articolo 54 richiede la notifica scritta delle ragioni dell’arresto e l’accesso ai familiari e avvocati entro 24 ore (periodo esteso dalla legge anti-terrorismo a 8 giorni). La metà degli scomparsi solitamente riappare nel giro di due settimane o un mese - spiega Lotfty, il 25% entro sei mesi e il resto ci mette di più e a volte non riappare. Quasi tutti hanno subito torture, come elettroshock e minacce di violenze sessuali, al fine di estrarre loro confessioni o informazioni sull’organizzazione di proteste o presunti attacchi terroristici, e comunque soffrono tutti di un peggioramento delle condizioni di salute a causa della detenzione. I luoghi - Uno dei luoghi frequenti di "riapparizione" è la sede della Sicurezza di Stato a "Città 6 ottobre", non lontano dal luogo di ritrovamento del cadavere di Giulio, secondo il Centro El Nadim. Proprio davanti ad esso c’è anche un campo della Sicurezza centrale (la polizia anti sommossa). Ma c’è anche Lazoghli, un carcere dove riappaiono molti degli scomparsi, con accuse di reati contro la sicurezza dello Stato. Nella lista si trovano anche il quartier generale della Sicurezza di Stato a Tanta e le prigioni militari. Nuova "fase" dal 25 gennaio 2016 - Quinto anniversario della rivoluzione egiziana e data della sparizione di Giulio: il 25 gennaio 2016 viene indicato dalla Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà come la data d’inizio di una nuova fase. Prima di questa data - spiega la ricercatrice Wahba - gli scomparsi tendevano a riapparire prima o poi in prigione, nei commissariati o davanti al procuratore "con accuse costruite, solitamente incentrate sull’appartenenza alla Fratellanza Musulmana, la destabilizzazione del Paese e la diffusione di notizie false". Dal 25 gennaio 2016 però tre scomparsi sono riapparsi all’obitorio, con chiari segni di tortura sul corpo. Già nel 2015 c’erano state cinque morti accertate dopo sparizioni forzate. "La differenza sta nel fatto che gli scomparsi del 2015 erano inizialmente tornati vivi e sono poi deceduti in prigione o in libertà dopo le torture e a causa del peggioramento delle loro condizioni di salute. Solo nel 2016 sono spuntati invece i cadaveri in obitorio". L’opinione pubblica - Il ministero dell’Interno nega l’esistenza del fenomeno, affermando che possono esserci casi isolati ma non pratiche sistematiche di questo genere per mano dei suoi apparati di sicurezza. "Ma ciò cui siamo assistendo dalla rivoluzione del 2011 e soprattutto dal 2013 (da quando Al Sisi ha preso il potere ndr) è qualcosa di mai visto dal 1993 a oggi", spiega Aida Seif del Centro El Nadim. "Le sparizioni forzate sono considerate un crimine contro l’umanità quando vengono praticate in maniera sistematica e diffusa", sottolinea Riham Wahba. "Ma la giustificazione della lotta al terrorismo fa sì che una parte della società egiziana chiuda gli occhi o arrivi ad appoggiare misure come queste". A gennaio si temeva che il Centro El Nadim fosse costretto a chiudere per non precisate "infrazioni relative alla licenza" denunciate dal ministero della Sanità. "Il centro è aperto, non l’abbiamo mai chiuso e continuiamo a lavorare e continueremo finché siamo liberi - commenta la direttrice. E se lo chiudono troveremo un altro modo per lavorare". Egitto: soldi e stellette, il tentacolare business dell’esercito di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 aprile 2016 Le forze armate gestiscono il 35-40% del Pil del paese. Producono di tutto, dal cibo alle tv, e ottengono gli appalti più redditizi. Su di loro si fonda il potere extraparlamentare di al-Sisi. La famiglia Regeni, con la sua caparbia e necessaria ricerca della verità, non sfida solo uno Stato. Sfida un sistema monolitico di potere in cui interessi economici, strategia politica e autoritarismo si intrecciano nelle mani dei responsabili, diretti e indiretti, della morte di Giulio. Le apparenti spaccature dentro il governo egiziano tra Ministero degli Esteri (che ancora ieri ribadiva al quotidiano al-Shorouq l’intenzione di collaborare con l’Italia) e il Ministero degli Interni (intenzionato a salvarsi dalla tempesta) possono essere relegate in un angolo, esercizi filosofici che difficilmente si tradurrano in un reale cambiamento degli equilibri nazionali. Non è un caso che, nonostante le pressioni dell’opinione pubblica italiana e dei media indipendenti egiziani, il parlamento resti in silenzio, spettatore passivo di un regime che opera in totale autonomia. Per capire l’Egitto del presidente-generale basta guardare a chi detiene il potere economico. Il Cairo uscito dalle ceneri di una rivoluzione senza precedenti è ancora preda dell’esercito. Un potere radicato da ben prima di Gamal Abd el-Nasser e oggi sempre più tentacolare. Su questo si fonda il regime del golpista al-Sisi e del suo Ministero degli Interni, la mano che gestisce forze di sicurezza e servizi segreti, vera autorità interna in uno Stato di polizia. Abdel Fattah al-Sisi non gode di un partito politico d’appoggio, di una forza parlamentare a cui sostenersi. Perché il parlamento non è la chiave per il controllo dell’opinione pubblica, ma lo è l’esercito, unica sua fonte di legittimazione politica. Al-Sisi ha l’esercito e l’esercito ha la ricchezza. E la ricchezza porta con sé influenza politica, autorità sociale, posti di lavoro in una fase di recessione, reti clientelari fedeli per interesse. Da quando ha assunto il potere con la forza, il presidente-generale ha emesso 263 decreti presidenziali. Di questi 32 hanno a che fare con l’esercito: ha aumentato del 10% gli assegni pensionistici dei militari; ha autorizzato la Difesa a creare compagnie di sicurezza private; ha dato alla Lands Projects Agency, compagnia dell’esercito nata nel 1981, il potere di lanciarsi nel settore commerciale per fare profitto. Ovviamente senza pagare le tasse e sfruttando come manodopera gratuita i giovani chiamati alla leva. I numeri sono esorbitanti, un business coperto dal segreto di Stato che rappresenterebbe - secondo stime di fonti indipendenti - il 35-40% del prodotto interno lordo. Oltre un terzo dell’economia di un paese di 85 milioni di persone, di cui una parte è attribuibile alle forze armate e una parte al Ministero degli Interni. Al-Sisi, in un’intervista del 2014, negò e parlò di una fetta minima dell’economia nazionale: non più del 2% del Pil. Ma due anni prima l’allora vice ministro per gli Affari Finanziari, il generale Mohamed Nasr, rivelò entrate pari a 198 milioni di dollari. L’esercito controlla innumerevoli compagnie private, dal settore delle costruzioni a quello agricolo, dal turismo alla sanità. Fino alla produzione di fertilizzanti: a novembre al-Sisi ha annunciato la creazione di un’industria di fertilizzanti, affidata alla compagnia el-Nasr di proprietà delle forze armate, che sfornerà un milione di tonnellate l’anno in nove diversi impianti. Dietro sta la National Service Projects Organization, ente creato dall’esercito nel 1979 per soddisfare le necessità di consumo delle forze armate ma ben presto diventato così potente da vendere l’ingente surplus al mercato interno egiziano. Produce e vende di tutto, pasta, acqua minerale, benzina, cemento, frigoriferi, tv, computer. Allo stesso tempo, all’esercito vengono affidati i progetti infrastrutturali più redditizi: l’allargamento del Canale di Suez, 9 miliardi di dollari; l’aeroporto di Sohag e il porto di Gurghada; ponti, stadi, ospedali e strade; e ora il mega progetto di trasformazione di 600mila ettari di deserto in terra coltivabile. Il sistema si fonda su un oligopolio impossibile da scalfire: prima il potere politico rappresentato dal governo concede appalti alle aziende legate alle forze armate; poi quelle stesse aziende producono beni e servizi a costi più bassi di quelli del settore privato civile, mangiandosi buona parte della domanda di consumo. Fuori resta il popolo egiziano, costretto nel limbo della crisi economica, del gap di investimenti tra centro e periferia, dell’indebolimento delle piccole e medie imprese soffocate da tasse e concorrenza sleale, dell’assenza di opportunità di lavoro. La risposta è spesso la stessa: clientelismo, favori, fedeltà all’élite politico-economica per entrare nell’ingranaggio. E il parlamento egiziano non ha voce in capitolo: non ha il diritto di conoscere il budget reale delle forze armate, il valore delle terre pubbliche possedute, i tentacolari interessi economici dei vertici dell’esercito. Né tantomeno ha il potere di sottoporre a controlli o supervisioni i progetti commerciali ed economici dei militari. Nonostante ciò, ci prova ancora: un gruppo di parlamentari sta lavorando a disegni di legge volti ad ottenere risposte definitive a richieste rimaste sempre inevase. Gli assetti economici dell’esercito, dice un parlamentare in anonimato al sito web Al-Monitor, si sta espandendo di anno in anno ma "l’interesse nazionale impedisce al parlamento di aprire un’inchiesta". Burundi: muore in carcere l’ex ministro ruandese Bihozagara Dire, 3 aprile 2016 Secondo fonti di stampa internazionale un ex ministro ruandese detenuto in Burundi con l’accusa di spionaggio è morto in carcere a fine marzo scorso. La scomparsa di Jacques Bihozagara è stata confermata dall’amministrazione penitenziaria del Burundi e dal ministero degli Affari esteri del Ruanda. Secondo alcuni suoi compagni di prigionia, il politico sarebbe morto pochi minuti dopo essere stato portato in ospedale per curare alcuni problemi di salute. L’esecutivo di Kigali si dice scioccato dalla sua morte. Il ministro degli Esteri ruandese ha chiesto alle autorità di Bujumbura "di chiarire questa morte improvvisa, che solleva molte domande". Secondo Kigali si tratterebbe di un omicidio. Il Ruanda ha sempre affermato che Bihozagara era detenuto illegalmente nella carceri di Bujumbura.