Libertà di parola, anche per i detenuti di Serena Santagata Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2016 Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione: vale anche per il carcere. Di carcere in Italia si parla ancora troppo poco, come se fosse un luogo che non esiste, una sorta di isola - infelice - che non c’è. Al contrario, il carcere esiste, non solo fisicamente, ma anche eticamente, come istituzione che fa parte della società, a cui sono destinati nell’immaginario collettivo coloro che hanno sbagliato e che questo vanno puniti senza possibilità di appello. In realtà, proprio perché il carcere esiste e non può essere ignorato, si avverte sempre più l’esigenza che la società si apra al carcere. Per questa ragione diventa fondamentale far circolare l’informazione sul carcere e dentro il carcere, per affermare una nuova cultura della pena, non afflittiva ma costruttiva, senza stravolgere quelle misure di sicurezza che sono fisiologiche per la funzione stessa degli istituti di pena. Proprio in tema di pena, sebbene l’art. 27 comma 3 della Costituzione, postulando la funzione rieducativa, non consenta la negazione dei diritti fondamentali dei reclusi, come la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di informazione e di comunicazione, la censura in carcere gioca ancora un ruolo molto forte, visto che nei sistemi carcerari, al fine di impedire che persone sottoposte a restrizione della libertà possano continuare a delinquere, possono essere controllate le letture o i mezzi di comunicazione solitamente concessi (telefono, corrispondenza, colloqui con i familiari). Un filtro precauzionale importante e irrinunciabile per monitorare i detenuti pericolosi, certo, ma al tempo stesso una forma di controllo che allontana il percorso verso la normalizzazione della vita detentiva. Di tutto questo si è discusso al convegno organizzato da Antigone al carcere di Rebibbia il 28 aprile 2016, "Libertà di parola. Il diritto delle persone detenute ad esprimere il proprio pensiero e ad essere informate", a cui hanno partecipato il direttore dell’istituto Mauro Damiani, il sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore, il presidente della Commissione parlamentare Vigilanza Rai Roberto Fico, Il Garante Nazionale delle Persone private della libertà personale Mauro Palma, Daniela De Robert di Usigrai, Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzonti, Luca Telese, il prof. Stefano Anastasia e Susanna Marietti di Antigone, insieme a molti altri personaggi di spicco del mondo del carcere, tra cui circa 40 dei detenuti internati a Rebibbia. Moltissimi gli spunti e i suggerimenti emersi per adeguare il modus puniendi italiano al sistema di esecuzione penale proprio di uno Stato costituzionale di diritto. In particolare, si è evidenziato da più parti come la libertà di pensiero e di espressione fanno parte del diritto di cittadinanza, così come il diritto all’informazione pluralistica. Per questo, anche se l’art. 18 della l. n. 354/75 stabilisce che i detenuti sono autorizzati a tenere i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione, l’accesso informatico e alle nuove tecnologie va fortemente potenziato, non solo per migliorare il sistema di comunicazione con l’esterno, ma anche per agevolare la formazione dei detenuti. A tal fine, un passaggio fondamentale consiste nell’assicurare una maggiore uniformità nella regolamentazione di tali aspetti negli istituti di pena, anche alla luce della circolare emanata dal Dap lo scorso novembre, la quale detta le linee guida sull’utilizzo dei personal computer e della connessione internet per motivi di studio, formazione e aggiornamento professionale. In particolare, la circolare dà la possibilità di avere un personal computer nelle camere di pernottamento e nelle sale per le attività comuni mentre l’accesso a internet, invece, è possibile solo dalle postazioni attivate in aree specifiche, come le biblioteche, con delle limitazioni di rete relativamente ai siti da poter consultare. La circolare prevede, inoltre, la possibilità di usare Skype per facilitare i rapporti tra detenuti e familiari: misure rilevanti che vanno tuttavia assicurate in tutte le realtà penitenziarie e non solo a macchia di leopardo. Se la circolare menzionata è un segnale importante, tuttavia internet e Skype non sono sufficienti. Occorre anche un salto culturale. L’informazione è anche cultura e la cultura in carcere non può essere catalogata ancora come forma di intrattenimento, ma come uno strumento essenziale per scontare la pena in modo virtuoso ed efficace. Limitare la cultura e la possibilità di informarsi, come cittadini, nulla c’entra infatti con il fare i conti con la giustizia. Sarebbe utile allora applicare i principi contenuti nelle massime della Corte Costituzionale, la quale più volte ha affermato che la restrizione della libertà personale non comporta una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione. Cosicché l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in trattamenti penitenziari che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà. Il richiamato art. 27, terzo comma, della Costituzione prescrive infatti che la pena non debba avere una finalità puramente afflittiva, ma che debba mirare alla "rieducazione" del condannato: con questa espressione, sempre secondo la Corte Costituzionale, si deve intendere l’aiuto al soggetto perché si possa predisporre ad un nuovo inserimento nella società, sulla base del recupero del significato della convivenza e della legalità. Non solo quindi sono vietati i trattamenti "contrari al senso di umanità" ma è giuridicamente necessario che la struttura carceraria fornisca strumenti concreti perché il detenuto eserciti tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, potendosi escludere solo le modalità di esercizio incompatibili con la sicurezza della custodia. Pertanto, ogni limitazione nell’esercizio dei diritti dei detenuti che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 Cost. (sul punto, si veda la sentenza della C. Cost. n. 135 del 2013) e inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova appunto nella privazione della libertà personale il limite massimo di punizione non oltrepassabile per alcun motivo. In definitiva, per una risocializzazione effettiva del detenuto e per un reinserimento consapevole, senza rischiare di cadere nella recidiva, occorre rimettere al centro la persona. Questo significa concepire i reclusi come persone da responsabilizzare e non come bambini da educare o teppisti da redarguire. Solo quando l’esercizio dei diritti in carcere sarà considerato come una normale realtà e non come premio questo sarà possibile. Carceri, emergenza continua di Rita Bernardini Il Dubbio, 30 aprile 2016 La circolare "urgentissima" del Dap per il sovraffollamento. Il rischio "deportazioni" e le misure alternative. Il sovraffollamento delle carceri c’è e lo certifica il Dap in una circolare "urgentissima" contenente "disposizioni per contenere e migliorare il trend delle presenze negli istituti. Nonostante le rassicurazioni del ministro Andrea Orlando, che ha dichiarato cessata l’emergenza sovraffollamento nelle carceri, al ministero della Giustizia sono preoccupati per l’andamento crescente delle presenze dei detenuti nei 193 istituti italiani: 1.300 reclusi in più negli ultimi tre mesi. Sono così impensieriti che il capo del Dap, Santi Consolo, ha recentemente diramato una circolare "urgentissima" contenente "disposizioni per contenere e migliorare il trend delle presenze negli istituti" rivolta ai Provveditorati regionali, agli Uffici per l’Esecuzione penale esterna e a tutti i direttori. Circolare che ho sotto gli occhi grazie alla disponibilità di Riccardo Arena di Radio Carcere. Gli obiettivi indicati da Santi Consolo nella circolare sono tre: il primo, che si propone il "bilanciamento delle presenze negli istituti penitenziari", conferma le reiterate denunce del Partito Radicale secondo le quali, a fronte di istituti semi-vuoti o comunque ben al di sotto della capienza regolamentare ce ne sono altri che scoppiano con grave-gravissimo disagio sia dei detenuti che del personale. A tutti i Provveditorati regionali si indica di raggiungere la media nazionale di sovraffollamento del 117%; non quindi del 105% come aveva proclamato il ministro Orlando in Europa omettendo il fatto che quasi 4.000 celle sono inutilizzabili? Come si intende perseguire questo "bilanciamento"? Con i trasferimenti? necessariamente di massa dei detenuti. E qui, sebbene il capo del Dap inviti provveditori e direttori a tener conto del principio di territorializzazione della pena, arrivano le nostre preoccupazioni perché essendo la Sardegna la regione con più posti inutilizzati è difficile che non si ripetano quelle vere e proprie "deportazioni" che hanno caratterizzato l’iniziativa dell’amministrazione penitenziaria negli ultimi 5 anni. Allontanamenti che per i detenuti significano distacco dai propri affetti e interruzione improvvisa di attività trattamentali di lavoro e di studio, devastanti dal punto di vista psicologico anche per i familiari che non possono permettersi lunghi viaggi e soggiorni per i colloqui settimanali. Proprio in questi giorni, l’ergastolano Vincenzo Dell’Anna, si è visto riconoscere un risarcimento da parte della Corte Edu per aver dovuto subire un trasferimento in Sardegna a causa del quale era stato troncato il suo percorso di studio (è comunque poi riuscito a laurearsi in Giurisprudenza con 110 e lode) e affettivo, essendo la sua famiglia originaria della Puglia. Lo Stato italiano, ancora una volta, ha dovuto pagare per una violazione di diritti umani. Il secondo obiettivo della circolare è molto interessante perché chiede ai direttori di farsi parte attiva per agevolare i detenuti nella fruizione di misure alternative: una platea di 25.000 persone condannate definitivamente alle quali è rimasto un residuo pena non superiore ai 5 anni. Parliamoci chiaro, Santi Consolo non si inventa niente di nuovo, visto che l’art. 76 del regolamento penitenziario, che va sotto il titolo di "ricompense", prevede proprio che i direttori possano premiare quei detenuti che si siano particolarmente distinti con una serie di provvidenze che vanno dall’encomio alla ricompensa, dalla proposta di concessione dei benefici alla proposta di grazia, dalla proposta di liberazione condizionale a quella di revoca anticipata della misura di sicurezza. Positivo è il fatto che il capo del Dap richiami alle loro prerogative e responsabilità in primo luogo i direttori e, con loro, tutto il personale penitenziario. Ma, forse, (ed ecco il dubbio che mi permetto di manifestare) se fino ad oggi i direttori si sono poco prodigati nel favorire il percorso trattamentale individualizzato per ciascun detenuto, non dipenderà dal fatto che devono occuparsi di troppi reclusi e spesso di più istituti? Perché non si fa più un concorso per direttori dal 1997? Come si può agevolare l’adozione di misure alternative se mancano all’organico centinaia di educatori e di assistenti sociali e se persino i magistrati di sorveglianza scarseggiano? Il terzo obiettivo (pure significativo) riguarda il recupero dei posti inagibili, annosa questione posta dai radicali, considerato che nelle statistiche ufficiali diffuse dal ministero della Giustizia anche le celle chiuse entrano a far parte della capienza regolamentare. Si tratta di ben 3.988 posti per ristrutturare i quali il Dap sembra abbia deciso di attingere alla Cassa delle Ammende, cassa che - è bene ricordarlo - originariamente era stata concepita per aiutare i detenuti e le loro famiglie a reinserirsi socialmente e che è finita (per una contestata modifica di legge) a coprire altre finalità come la costruzione di nuovi edifici e padiglioni penitenziari. In conclusione, come mi sono permessa di dire al ministro Orlando, nella giornata conclusiva degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il rischio è che tutto rimanga sulla carta in cui sono scritte le proposte dei 18 tavoli, le meritorie circolari del Dap, le leggi, la Costituzione, le Convenzioni internazionali. Pannella lo ripete spesso: il problema, in Italia, è che le leggi non vigono. Diritti dei detenuti: tanti Garanti e poche garanzie di Laura Arconti* L’Opinione, 30 aprile 2016 A chi si rivolge un italiano che si ritiene vittima di un sopruso, di una truffa o di una indebita richiesta onerosa? Se il nostro uomo è un risparmiatore, ha diritto alla protezione dell’Ombudsman bancario, istituito in Italia nel 1993, così chiamato in omaggio ad un organo fiduciario del Parlamento che nella civile Svezia tutela i cittadini contro ogni sopruso dal lontano 1809. Il significato letterale della parola ombudsman è "uomo che fa da tramite". Nella sua veste di consumatore, l’italiano può invocare la vasta normativa raccolta nel 2005 nel Codice del consumo, ma deve rivolgersi al difensore civico per essere aiutato, se la sua richiesta non viene soddisfatta in prima istanza dall’Ufficio reclami della ditta che ha erogato il servizio in questione. Se il nostro italiano è incappato nelle maglie della Giustizia e si trova in carcere, magari soltanto per un errore di persona o una assurda delazione, e non gli viene consentito un minimo dei diritti che gli spettano, a chi chiede aiuto, se non trova un Garante dei diritti dei detenuti? Secondo la Costituzione italiana e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i detenuti, siano essi in attesa di giudizio oppure già condannati, hanno il diritto ad un trattamento umano per la reintroduzione nel mondo del lavoro e del vivere civile. La figura di un garante delle persone private della libertà personale è prevista anche dalla convenzione Onu contro la tortura, risalente al 1987, che l’Italia ha sottoscritto. Tuttavia in Italia la figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti è stata istituita 27 anni dopo; e poi si è dovuto attendere ancora il Regolamento per la composizione dell’Ufficio del Garante nazionale. Altri undici mesi dopo, il 6 febbraio del 2016, il ministero della Giustizia ha comunicato: "Il professor Mauro Palma è il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La sua nomina, insieme a quella dell’avvocato Emilia Rossi come membro dell’Ufficio, è stata formalizzata in un decreto del Presidente della Repubblica". Ma l’Italia è il Paese del "fai da te" individuale: ancor prima che ci fosse un Garante nazionale dei diritti dei detenuti, esistevano qua e là Garanti comunali, provinciali, regionali, ciascuno di tutti loro nominato in base ad una legge o ad un regolamento deliberato dai relativi Consigli secondo testi diversi, che raramente hanno qualche consonanza normativa. Con l’intento di capire quanto sia stato fatto, e soprattutto quanto ancora ci sia da fare per assicurare un minimo di legalità all’esecuzione della pena detentiva, si è provato a costruire una mappa almeno dei Garanti regionali, in modo da restringere la ricerca soltanto a venti casi. Prima mossa, l’esame, nel sito del ministero della Giustizia, dell’elenco dei Garanti regionali in carica: l’elenco esiste ma è incompleto; mancano indicazioni per alcune regioni e in alcune altre è indicato il nome di un Garante che - in base alla durata del mandato stabilita dall’atto istitutivo - decadrà ben presto oppure è addirittura già decaduto. Per scoprire la reale situazione, bisogna trovare il testo della legge regionale istitutiva, perché in alcune Regioni il mandato del Garante dura cinque anni, in altre Regioni sei o sette anni e altrove il Garante decade con il decadere della consiliatura regionale. Non basta: in alcune Regioni il Garante può essere rieletto al termine del mandato, in altre non può essere nuovamente incaricato. Il Garante nazionale appena nominato ha già posto mano all’aggiornamento dell’elenco ufficiale presso il ministero della Giustizia, ma tuttora c’è molta confusione: la costruzione di una mappa dei Garanti è lavoro arduo perché tutti gli elenchi disponibili sul web sono carenti, disordinati e spesso inattendibili ed i siti delle varie Regioni sono incompleti. Il Garante nazionale ha a disposizione strutture e risorse umane, e potrà fare molto, ma chi scrive sa bene che per ottenere le informazioni non basta mandare un questionario e richiedere le risposte. Alla fine, non è rimasto che darsi da fare col telefono, chiamando gli "Urp" delle Regioni oppure chiedendo ad amici, compagni, colleghi, di andare negli uffici regionali ad informarsi. Questo lavoro è in corso, è un continuo divenire, perché la notizia della nomina del Garante nazionale suggerisce a qualche governatore di accelerare i tempi biblici trascorsi, e le cose fatte in fretta - si sa - sono spesso frutto di cattiva riflessone. È, per esempio, ciò che è accaduto alla Regione Sicilia. In Sicilia la figura del Garante è stata istituita nel 2005 (articolo 33 della Legge regionale n. 5 del 19 maggio 2005); il mandato, affidato dal presidente della Regione con proprio decreto, ha una durata di sette anni. Nel 2006 è stato nominato Garante il senatore Salvo Fleres, che ha svolto la funzione fino alla scadenza del mandato, il 16 settembre 2013, e da allora il presidente della Regione non ha ritenuto opportuno procedere ad una nuova nomina. Non c’è il Garante, ma l’Ufficio del Garante (che ha ben due sedi, a Palermo ed a Catania) tuttora esiste con una decina di funzionari ed impiegati che percepiscono stipendi ma non possono operare: non sono neppure autorizzati ad aprire la corrispondenza che arriva dalle carceri agli uffici, all’indirizzo del Garante che non c’è. I Radicali che vivono e operano in Sicilia hanno più volte sollecitato il presidente della Regione a nominare il Garante, e nel gennaio del 2015 hanno presentato un esposto alla Procura regionale della Corte dei conti per il danno conseguente alla mancata nomina del Garante. Il costo delle due sedi e del personale (in stipendi e contributi) è stato stimato in circa 500mila euro all’anno. Nel 2015 la Legge regionale n. 9 (Legge di stabilità regionale 2015) con l’articolo 98/5 modifica i requisiti prescritti dalla norma originaria, prevedendo che il Garante venga nominato esclusivamente fra "i dirigenti di ruolo dell’amministrazione regionale". Su questa base, il 6 ottobre del 2015, viene nominata Garante la dottoressa Maria Antonietta Bullara, dirigente regionale di ruolo, che ricopre anche la carica di direttore generale del Dipartimento delle Politiche sociali presso l’assessorato del Lavoro. L’incarico è conferito per sette anni, ma ben presto cade, perché la successiva legge di stabilità regionale 2016 rovescia la normativa, e con l’articolo 22 stabilisce che non possano essere nominati i dipendenti della Regione, dirigenti e non, sopprimendo la norma del 2015. Ad aprile 2016 l’incarico di Garante regionale delle persone detenute è nuovamente vacante, e la Sicilia è messa alla gogna per le inspiegabili contraddizioni legislative ed il grave ritardo negli adempimenti prescritti, con costi ingiustificati gravanti sul bilancio regionale. La Sicilia non ha quelle pastoie burocratiche o politiche che spesso impediscono la nomina di funzionari là dove la legge istitutiva prescrive che la scelta venga effettuata per elezione con maggioranze qualificate: secondo l’articolo 33 della Legge regionale del 19 maggio 2005, successivamente integrata in parte con l’articolo 16 della Legge regionale n. 18/2/2008, il mandato viene affidato dal presidente della Regione con proprio decreto. Era dunque soltanto la volontà del presidente Rosario Crocetta a bloccare la nomina: e neppure si potrebbe pensare che il ritardo fosse dovuto a motivi finanziari, poiché dal primo gennaio del 2012 l’incarico di Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti è espletato a titolo onorifico, senza onorari, mentre i due uffici restano aperti, inoperosi ma costosissimi, continuando a correre gli stipendi ed i relativi contributi del personale (un dirigente, quattro funzionari, tre istruttori e un assistente) che dal settembre del 2013 sono semplicemente pagati per non lavorare. L’ex Garante, il senatore Salvo Fleres, ha dichiarato a la Repubblica: "I carcerati che non possono affidarsi a una figura come il Garante, emanazione dello Stato, si rivolgono alla mafia". Questa era la situazione in Sicilia quando il 13 aprile il Governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, con un improvviso "motu proprio" ha nominato il Garante regionale nella persona di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Fiandaca è stato componente laico del Consiglio superiore della magistratura militare e successivamente del Consiglio superiore della magistratura ordinaria. Attento studioso della criminalità organizzata, ha presieduto commissioni di inchiesta ministeriali per le riforme, e poi la commissione di studio istituita dal ministero di Grazia e Giustizia per il riordino e la riforma della legislazione in materia di criminalità organizzata. È stato componente della commissione per la riforma del Codice Penale, dal giugno 2013 è presidente della commissione istituita presso il ministero della Giustizia per elaborare una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, fra le quali la più importante è un manuale di diritto penale in quattro volumi scritto con Enzo Musco, mentre uno dei più recenti è il saggio "La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa" scritto dal professor Fiandaca in collaborazione con un altro docente dell’Università palermitana, Salvatore Lupo. Infine, il professor Fiandaca è noto per la sua frequente partecipazione a convegni di stretto argomento giuridico. Siamo dunque di fronte a una personalità di alto livello, ed è ciò che occorre in Sicilia, perché il senatore Flores, che è stato il primo Garante per sette anni fino al 16 settembre del 2013, ha lasciato il ricordo di un garantista attento ai bisogni degli ultimi della società, che non si è risparmiato sia nelle visite in carcere anche durante i giorni di festa, sia negli interventi creativi per il recupero alla vita civile dei detenuti. Non sarà facile, per il suo tardivo successore dalle molteplici attività, reggere il confronto. Intanto, sul sito del ministero della Giustizia l’elenco dei Garanti - che fino al 12 aprile recava ancora per la Sicilia il nome della dottoressa Maria Antonietta Bullara già rapidamente fatta decadere con un articolo della Legge di stabilità 2016 - è stato prontamente aggiornato il 14 aprile. Peccato che il nome del nuovo Garante regionale sia stato storpiato in "Fiandanca". Piccoli incidenti ministeriali. *Militante storica del Partito Radicale Braccialetto ininfluente nella scelta dei domiciliari di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2016 Le Sezioni Unite: il giudice valuti solo i rischi di reiterazione. Il braccialetto elettronico non determina alcun automatismo nella scelta delle misure cautelari per un indagato. Le Sezioni unite della Cassazione hanno anticipato ieri con l’informazione provvisoria 14 - la decisione sulla questione sollevata l’11 febbraio scorso dalla Prima sezione penale (sentenza 5799/16). La Corte, che depositerà la motivazione nelle prossime settimane, ha in sostanza escluso dal terreno della legittimità una questione - la disponibilità o meno del braccialetto elettronico da parte dell’amministrazione interessata - che riguarda la valutazione propriamente di merito, e che spetta quindi solo al giudice titolare del procedimento. Per le Sezioni unite, il magistrato "escluso ogni automatismo nei criteri di scelta delle misure deve valutare, ai fini della applicazione o della sostituzione della misura coercitiva, la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna di esse in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto". Con la conseguenza che, se adeguatamente motivata, la scelta del giudice di merito tra custodia in carcere oppure ai domiciliari non può essere oggetto di scrutinio in Cassazione. Il caso partiva dal rigetto, da parte del Tribunale di Potenza, dell’istanza di revoca dell’ordinanza di custodia in carcere proposta da un condannato a 7 anni e 10 mesi, in appello, per tentato omicidio. A giudizio del Tribunale, il condannato denotava una "personalità trasgressiva" e ribelle "ai precetti dell’autorità" - come attestava una violazione agli orari di obbligo di dimora in casa previsto dai domiciliari - che, combinata alla indisponibilità del braccialetto elettronico, impediva la continuazione del regime dei domiciliari. Per il difensore il Riesame aveva "illegittimamente condizionato la scarcerazione dell’imputato al presupposto della disponibilità del braccialetto", scostandosi in sostanza dal giudizio prognostico sulla attualità e concretezza del rischio di reiterazione richiesto dalla nuova formulazione dell’articolo 274 del codice di procedura. Censure che colgono nel segno, dicono ora le Sezioni unite, a cui due mesi fa la Prima aveva rimesso il conflitto giurisprudenziale sul punto. Il versante che considera dirimente la disponibilità del braccialetto per decidere il "dentro o fuori" dal carcere sostiene che l’adozione della cavigliera sia una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari necessaria ed idonea a fronteggiare le esigenze cautelari. Il giudice può quindi rifiutare la sostituzione della custodia in carcere anche solo per la semplice indisponibilità materiale del dispositivo da parte della polizia giudiziaria, senza per questo arrecare un vulnus ai principi costituzionali. L’impossibilità di concedere la scarcerazione senza controllo dipende, infatti, dall’intensità delle esigenze cautelari ed è pertanto "addebitabile" all’indagato. L’orientamento opposto, avallato ieri dalla Sezioni unite, ritiene invece che la prescrizione del braccialetto elettronico non riguarda un giudizio di adeguatezza della misura più tenue, che è già evidentemente stato positivo, ma la capacità dell’indagato di autolimitare la propria libertà di movimento. Per questo è da considerare illegittimo il provvedimento con il quale il giudice, pur ritenendo idonea la misura, subordina la scarcerazione alla reperibilità del dispositivo elettronico, quando il detenuto può invece essere controllato con i mezzi tradizionali. Intercettazioni col trojan, parziale sì della Cassazione di Carola Frediani La Stampa, 30 aprile 2016 Via libera della Corte a intercettazioni ambientali via captatore informatico per reati di criminalità organizzata e terrorismo. Non è esattamente uno sdoganamento, ma come tale potrebbe essere interpretato. Ieri le sezioni unite della Cassazione hanno dato un via libera, per quanto circoscritto a un preciso ambito di utilizzo, all’uso di trojan (o captatori informatici) su dispositivi portatili - come pc, tablet e cellulari. Il caso specifico riguardava la realizzazione di intercettazioni ambientali tra presenti senza dover indicare preventivamente i luoghi - e quindi anche all’interno di dimore private, anche se lì non si sta commettendo un’attività criminosa. Tuttavia la deroga rispetto alle garanzie previste dalla legge italiana riguarderebbe solo procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, inclusa l’associazione per delinquere (ed escluso il mero concorso di persone nel reato). La decisione della Corte non stupisce molto gli addetti ai lavori, perché di fatto estende ai trojan una deroga, rispetto al divieto di intercettare nei luoghi di "privata dimora" (salvo si stia consumando un reato), già prevista dal decreto antimafia del 1991 (n. 152). Nello stesso tempo, la sentenza sancisce di fatto un via libera a uno specifico utilizzo di questi software spia che per anni sono stati impiegati in Italia in molte indagini, mantenendo un basso profilo, in una situazione di incertezza giuridica e vuoto legislativo, come avevamo descritto in questo precedente articolo. Un limbo che per anni non ha tenuto particolarmente conto della specificità tecnica, potenza e invasività di strumenti che sono in grado di prendere il controllo completo di un computer o uno smartphone, oltre che di accedere all’intera vita digitale dei suoi possessori. "L’esito era prevedibile, perché il problema affrontato dalla Cassazione sembra essere solo in relazione a intercettazioni ambientali e al limite del domicilio fisico, ma poiché nel caso in questione si trattava di mafia, sappiamo già che dal 1991 quel limite non c’è più per quei reati", commenta alla Stampa l’avvocato penalista e fellow del Centro Nexa su Internet & Società, Carlo Blengino. Che, da questo punto di vista, parla di quesito mal posto. Anche per l’avvocato penalista e docente di informatica e diritto Stefano Aterno la sentenza chiaramente non affronta altre questioni legate ai trojan, come il loro utilizzo quale mezzo di ricerca atipico della prova o come intercettazione telematica. Tuttavia, "lo stesso procuratore generale ha fatto presente sia l’invasività dei trojan, e altri problemi quali l’alterabilità dei dati, sia le attuali lacune legislative". E da questo punto di vista sarà interessante vedere se ci saranno degli accenni al riguardo nelle motivazioni della sentenza. Secondo l’avvocato Francesco Micozzi, che da tempo si occupa della questione "trojan di Stato", la sentenza non va a toccare i dubbi sul captatore come strumento in sé, "ma sembra intenderlo qua solo come una modalità tecnica per fare intercettazioni ambientali". Una prima conseguenza del pronunciamento della Corte potrebbe essere comunque un’accelerazione sulle proposte legislative in materia. Dopo i precedenti tentativi del governo di regolamentare i captatori - abortiti perché tentavano di dare un via libera generalizzato a questi strumenti - ora potrebbero emergere nuovi progetti di legge. In prima fila quello presentato nei giorni scorsi dal deputato del Gruppo Misto Stefano Quintarelli, che su La Stampa aveva parlato della necessità di rendere i trojan anche tecnicamente compatibili con le garanzie costituzionali. Sia da un punto di vista politico che tecnico, non sarà una impresa facile. Così i pm ci spieranno col cellulare. Il nostro di Giulia Merlo Il Manifesto, 30 aprile 2016 Sì della Cassazione all’uso dei "Trojan Horse" per le intercettazioni. Sono i nostri occhi e le nostre orecchie, tengono traccia di ogni conversazione, sms e e-mail che riceviamo. Una bomba a orologeria pronta a esplodere, rivelando ogni segreto. I cellulari, i tablet e i personal computer custodiscono ormai gran parte di ciò che avviene nella nostra vita e sono diventati la nuova frontiera delle intercettazioni. Addio alle obsolete intercettazioni telefoniche e via libera (parziale) a quelle "informatiche": collegandosi grazie a un virus ai terminali, gli inquirenti avranno accesso alle videocamere montate sui cellulari e registreranno tutte le conversazioni a portata di microfono. Tanto da trasformare i cellulari in microspie da taschino che ogni indagato porta con sé ovunque. La decisione delle Sezioni Unite penali della Cassazione, presiedute dal presidente Giovanni Canzio, ha modificato la prassi fin qui adottata dalle Procure, allargando l’ambito di utilizzo dei "captatori informatici", i cosiddetti Trojan Horse. L’utilizzo di questi spyware autoinstallanti sarà ora permesso per i reati "di criminalità organizzata, anche terroristica" e - nello specifico - nel caso di associazione per delinquere di stampo mafioso, di scambio elettorale politico-mafioso, pornografia e pedopornografia e sequestro di persona. Tutti i casi, insomma, previsti dall’articolo 51 del codice di procedura penale, "o comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato". Il "cavallo di Troia" - Il virus di Stato si chiama così perché il meccanismo è lo stesso architettato da Ulisse per fare entrare gli Achei a Troia. Mascherato da innocuo sms o email, l’intercettato lo apre e lo spyware si installa automaticamente sul suo cellulare. Da quel momento, i tecnici informatici hanno accesso a tutto ciò che il terminale "vede" e "sente" e anche ai suoi spostamenti, grazie al gps. Un’arma d’indagine potentissima e invisibile, perché l’intercettato non può accorgersi del Trojan Horse. Ma soprattutto - punto controverso - non esiste alcun modo di tutelare la privacy delle terze persone che entrano in contatto con l’indagato. Nel caso oggetto del ricorso, infatti, la Procura aveva autorizzato l’utilizzo del Trojan Horse sullo smartphone di un indagato per mafia e aveva utilizzato anche le intercettazioni avvenute nella sua casa. Intercettazioni, queste, che avrebbero bisogno però di una specifica autorizzazione del gip, perché violano la privacy di terze persone in una "privata dimora". Il ricorrente, allora, ha chiesto ai giudici del Palazzaccio "se - anche nei luoghi di privata dimora, pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa - sia consentita l’intercettazione di conversazione mediante l’installazione di un captatore informatico". La risposta del collegio è stata affermativa, aprendo de facto ad un nuovo bilanciamento tra diritto alla privacy ed esigenze di indagine. Le Sezioni Unite hanno modificato un precedente orientamento del 2015, che escludeva l’utilizzabilità delle captazioni in mancanza di una preventiva indicazione dei luoghi da parte del giudice. La gravità del reato associativo, per le Sezioni Unite, invece giustifica la deroga alle garanzie per la salvaguardia della sfera privata. La discussione sui "cavalli di Troia" cibernetici e sulla loro potenzialità invasiva passa ora alla Camera, dove pende una proposta di legge depositata da Stefano Quintarelli, ex di Scelta Civica e docente di Sicurezza informatica. Oppure potrebbe trovare spazio nella delega sulle intercettazioni, ora all’esame del Senato. Cosentino sta subendo un’ingiustizia, da 1.000 giorni in prigione senza processo di Valter Vecellio Il Dubbio, 30 aprile 2016 D’accordo: Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario del Pdl, deputato per quattro legislature consecutive, nato a Casal di Principe, Campania, è un fior di mascalzone; un camorrista o para-camorrista; di più: non un semplice "cumpariello", è un capo-camorra, o come diavolo si chiamano e si gerarchizzano tra loro. È perfino colpevole di tutte le imputazioni che gli vengono contestate. Va bene così? Si è sgomberato a sufficienza il terreno, per fugare dubbi e si è ribadito con sufficiente fermezza che Cosentino è parte di quel genere umano che quando lo si incontra si cambia marciapiede? Lo si deve dire meglio: allora, di Nicola Cosentino come persona, come individuo, non ci importa un fico secco. Chiaro? Allora, qualcuno lecitamente può obiettare: perché occuparsene? Perché perdere tempo con lui. Per la semplice ed ottima ragione che Cosentino, anche se è quello che si è appena scritto, e magari anche di più, ci riguarda direttamente. Non per quello che è, o che ha fatto, ma per quello che subisce, ha subito, e per come lo ha subito e lo subisce. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prima sezione collegio B, dinanzi al quale pende il processo cosiddetto "Carburanti", che vede imputato Cosentino per estorsione e illecita concorrenza con l’aggravante mafiosa, ha stabilito che deve restare in carcere. Il collegio ha respinto la richiesta di sostituzione della misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, fuori regione, avanzata dai difensori; una decisione che "neutralizza" altri verdetti, questa volta favorevoli a Cosentino, emesse mesi fa da altri due collegi dello stesso tribunale, per processi che vedono Cosentino imputato per concorso esterno in associazione camorristica. Una corte di giustizia ritiene necessaria la carcerazione per un individuo accusato di illeciti "con l’aggravante mafiosa". Altre corti di giustizia dello stesso tribunale dicono che lo stesso individuo, pur accusato di "concorso esterno" non nuoce se invece di soggiornare in cella, è detenuto ai "domiciliari". Una logica deve senz’altro esserci. A riuscire a trovarla, beninteso. Ma al di là delle logiche giudiziarie, che spesso sono qualcosa di inafferrabile come la famosa araba fenice (ricordate Pietro Metastasio? Si riferiva all’infedeltà in amore, ma può valere anche per le cose di giustizia: "È la fede degli amanti/come l’araba Fenice, / che vi sia ciascun lo dice, / dove sia nessun lo sa"). Il fatto è che l’infame Cosentino (si ribadisce l’infamità, a beneficio e usbergo per possibili fulmini alla Piercamillo Davigo), in cella non ci sta da ieri, o da una settimana, o da un mese. "Nick ‘mericano", come un tempo lo chiamavano, ci sta da un migliaio di giorni. E sarà pure ‘mericano, ma lo è tanto da essere una sorta di Al Capone o di John Gotti per cui lo si sbatte in cella e si butta via la chiave, senza prima darsi pena di condannarlo "in nome del popolo italiano"? Da quello che si crede d’aver capito, Cosentino entra in carcere il 15 marzo del 2013. Le inchieste che lo vedono coinvolto sono quattro: "Eco4", concorso esterno in associazione camorristica: pe l’accusa ha favorito il clan dei Casalesi; "Il principe e la scheda ballerina", reimpiego di capitali illeciti per la realizzazione di un centro commerciale; estorsione per agevolare la società dei fratelli Orsi nella distribuzione di carburante; corruzione degli agenti penitenziari. Per "Eco4" la misura cautelare è disposta nel 2009 (respinta dalla Camera) ed eseguita il 15 marzo del 2013. Come si giustifica? Con il fatto, dicono i magistrati dell’accusa che Cosentino, parlamentare, sottosegretario e coordinatore del Pdl, esercita un enorme "potere politico". Però quando viene eseguita, "Nick" non ricopre più cariche. Per questo la Cassazione (giugno 2013), dispone la scarcerazione. Puntuale ricorso, la pubblica accusa sostiene che il "potere relazionale" è intatto. La Cassazione questa volta è d’accordo, ma è un esser d’accordo inutile, che Cosentino è comunque tornato in carcere per l’inchiesta relativa al carburante. Un via vai: in carcere dal 15 marzo 2013, per 131 giorni; poi ai "domiciliari", per 105 giorni. Libero dall’8 novembre fino al 3 aprile 2014, e di nuovo arrestato. Da allora in cella: quasi mille giorni di preventiva galera. Gli avvocati difensori sottolineano che nei confronti di Cosentino non c’è nulla di concreto, niente che processualmente possa reggere; e si dirà: cosa volete che dicano i difensori? E infatti non perdiamo tempo ad ascoltarli. Lo si ripete per l’ennesima e ultima volta: hanno assunto la difesa di un "infame". Ma la domanda, la questione è questa: è giusto che un "infame", fosse pure "Nick ‘mericano" debba subire e patire un migliaio di giorni di preventiva carcerazione (che non è comunque finita) prima che si stabilisca e si sappia se è davvero l’"infame" che si dice e si sospetta sia? Quando lo si potrà sapere con certezza che siamo stati rappresentati e "governati" da un "infame"? Quando, finalmente si celebrerà il processo, e Nick ‘mericano sarà condannato, e noi tutti potremmo serenamente lasciare che sconti fino all’ultima ora la sua pena? Come si vede, a chi scrive non importa un fico secco se sia vero o no che Cosentino abbia corrotto, se abbia favorito clan camorristi in cambio di voti, se sia vero o no che nessun collaboratore di giustizia abbia fato il suo nome, se alla conta dei voti abbia ottenuto un exploit elettorale o no, se la camorra è stata "grata" a "Nick", che a sua volta ha ricambiato. Tutto questo è interessantissimo, utilissimo da sapere; ma non ora. Ora c’è solo da sapere: fino a quando Cosentino resterà in questo limbo, "tra color che son sospesi"? Il caso Cosentino va ben al di là del caso Cosentino in sé, di cui poco o nulla importa. È il caso di una carcerazione preventiva che dura da un migliaio di giorni. Se poi è vera la "fotografia" scattata da Antigone, che ci racconta di 53mila detenuti, incarcerati spesso in condizioni inumane, con 43 suicidi e oltre settemila atti di autolesionismo nel solo 2015, che i detenuti in attesa di sentenza definitiva sono quasi il 35 per cento, che la maggior parte delle prescrizioni si verifica quando il procedimento è ancora nella sua fase preliminare, dal GIP o dal GUP? Ecco, se tutto questo è vero, si può sommessamente esprimere un po’ di inquietudine e di preoccupazione senza essere accusati da una parte di para-mafiosità o di connivenza con Cosentino? Inquietudine e preoccupazione che aumenta di fronte al pressoché silenzio dei tanti che pure qualcosa potrebbero dirla, e unirsi alle silenziate voci di un Marco Pannella, di una Rita Bernardini, di un Maurizio Turco, di pochi altri, "soliti" radicali. Chissà se si risentiranno i non pochi Davigo in servizio permanente effettivo: perché sarà pur vero (ma vero non è) che in Italia ci si divide tra colpevoli e quelli che ancora non si sono scoperti; ma ci sommergeranno coi loro fulmini se si dice che non si può, non si deve comunque restare in carcere per un migliaio di giorni in attesa di processo e sentenza, anche se si è "infami" come si dice sia Cosentino? Sappiano, comunque, che i loro fulmini e i loro furori ci lasciano assolutamente e perfettamente indifferenti. Stefano Graziano, il silenzio di Renzi dopo l’invettiva antigiustizialista di Daniela Gaudenzi Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2016 Dopo aver imperversato per giorni sulla giustizia e aver usato persino la ribalta della mozione di sfiducia per un’invettiva estemporanea, ma forse no, contro "la barbarie giustizialista" che avrebbe avvelenato il paese dai tempi di Mani Pulite, il presidente del Consiglio è rimasto significativamente silente su quanto sta emergendo in Campania con "il caso Graziano". E pensare che la Campania e Napoli, in mano al "masaniello" De Magistris, sono stati i set prediletti, prefettura inclusa, per esibire la corrispondenza di amorosi sensi con il mitico De Luca presidente anche grazie agli impresentabili "certificati" da cui per lungo tempo si era mantenuto prudentemente distante, e per sostenere la candidata Valente, premiata dalle ennesime primarie opache e contestate. Ma ora non si tratta di fare passerelle per esibire presunti stanziamenti milionari ma di pronunciare parole nette da parte di un segretario di partito che usa il territorio solo per la propaganda elettorale, nonché di un presidente del Consiglio tanto "interventista" da rivendicare la paternità dell’emendamento su Tempa Rossa per "assolvere" il suo ministro per le Riforme e soprattutto per tentare di delegittimare l’inchiesta di Potenza e "i magistrati che non concludono i processi". In una regione dove Renzi non ha mai lontanamente messo piede per realizzare la rivendicata politica "autorevole e seria" non più "succube della giustizia", si è squadernato uno scenario che vede al centro il clan Zagaria quale corruttore di pubblici funzionari tra cui spicca il presidente regionale del Pd, Stefano Graziano, che, come risulta dalle intercettazioni, avrebbe goduto dell’ appoggio elettorale della camorra in cambio degli appalti pilotati in suo favore. E se si volesse fare una veloce ricognizione della progressiva presa di distanza e poi totale rimozione della proclamata "pulizia" iniziale all’interno del partito, basterebbe andare all’ormai lontano 15 maggio 2014 quando il Pd, sotto la pressione del M5s e nonostante alcune decine di defezioni, si pronunciò per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Francantonio Genovese trasmigrato velocemente in Fi; poi a seguire Marco Di Stefano rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, truffa e falso è rimasto sempre iscritto al partito, Vito De Filippo, sottosegretario indagato a Potenza per induzione indebita, è sempre al suo posto e la lista degli impresentabili redatta dall’Antimafia, secondo il codice di autoregolamentazione del Pd, è stata usata come un macete contro la presidente Rosy Bindi. In questo contesto va inserita l’insofferenza velenosa nei confronti degli interventi del neo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che si è limitato nel suo linguaggio diretto e inequivocabile a una constatazione fattuale e cioè che oggi i politici che rubano, e quanti siano abbiamo modo di constatarlo quotidianamente, non si vergognano più e rimangono al loro posto. E quanto "l’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica" preceda le parole puntuali di Piercamillo Davigo ce l’ha ricordato dalle pagine del Corriere Gian Antonio Stella che è partito da Giacomo Leopardi e da Carlo Marx per arrivare alla "scomunica", molto più recente, per i corrotti definiti da papa Francesco, lodato da tutti per opportunismo, come "coloro che non hanno vergogna". Quanto ai contenuti espressi da Davigo e al diritto-dovere del magistrato di parlare e non solo con le sentenze, come pretendevano i sistemi monarchici precostituzionali che lo relegava a "bocca della legge" e cioè del potere, è intervenuto anche Raffaele Cantone precisando che vi sono scelte della politica imprescindibili che non possono essere sostituite dalla legge. La politica che vuole essere "seria ed autorevole" deve vigilare e intervenire sulla selezione ben prima del controllo della magistratura perché "ci sono impresentabili che hanno la fedina penale immacolata". E così, pure sull’introduzione dell’agente sotto copertura, utilizzato nelle democrazie più avanzate come deterrente contro la corruzione e che in Italia viene considerato un attentato alla classe politica, Raffaele Cantone, usato troppe volte dal Pd come una specie di santino da ostentare in funzione meramente propagandistica, si è espresso in totale sintonia con "il provocatore" Davigo. Identica consonanza sulla gravità della penetrazione mafiosa e sulla centralità dello strumento delle intercettazioni, di cui anche Armando Spataro ha segnalato la genericità della delega governativa, ha espresso anche il procuratore Pignatone che è ritornato pure sull’esigenza improrogabile di riformare la prescrizione che ha un impatto fortissimo sui tempi dei processi per corruzione. Viene legittimo il dubbio che l’intralcio al funzionamento della giustizia e ai processi che "non vanno a sentenza" non siano le analisi impietose di Davigo ma il polverone che solleva il presidente del Consiglio per perseguire il contrario di quanto afferma a proposito di voler velocizzare la macchina giudiziaria (a costo zero) in perfetta continuità con il recente passato. Ne uccide più l’eufemismo che la spada di Luigi Manconi Il Manifesto, 30 aprile 2016 Verità per Giulio. Sembra anche risentire di una sorta di complesso di inferiorità che, tradizionalmente, la nostra politica estera ha rivelato di fronte a congiunture particolarmente drammatiche e a conflitti che tendevano a farsi più acuti. In altre parole, il governo italiano temporeggia, differisce, esita. Siamo in molti - persone pacate, razionali e fin moderate - a chiederci: ma che cosa si sta aspettando? Che cosa sta aspettando l’Italia per far sentire la propria voce e tutta la propria determinazione alle riluttanti, e sempre più ostili, autorità egiziane? Dopo il richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo - provvedimento significativo, anche se assunto in ritardo - si è parlato insistentemente di "nuove misure allo studio". Ma finora, di quelle possibili misure, non si è colta alcuna traccia. E proprio ieri il ministro degli Affari esteri, Paolo Gentiloni, ha pronunciato parole che non possono in alcun modo rassicurare. Certo, ha dichiarato la propria "insoddisfazione" ma - per definire l’atteggiamento delle istituzioni egiziane - ha utilizzato la seguente formula: "collaborazione assolutamente inadeguata". Ora, qui siamo incondizionatamente disponibili ad assecondare l’arte della parafrasi fino alle sue più esauste espressioni, ma le parole sopportano una deformazione eufemistica che pure ha un suo limite. E chiamare inadeguato un atteggiamento, quello del regime egiziano, che è decisamente oltraggioso, mi sembra davvero troppo. Tanto più che il ministro Gentiloni sembra seriamente impegnato nel tentativo di trovare una soluzione e qualche mossa opportuna, l’ha pur fatta. Ma sembra anche risentire di una sorta di complesso di inferiorità che, tradizionalmente, la nostra politica estera ha rivelato di fronte a congiunture particolarmente drammatiche e a conflitti che tendevano a farsi più acuti. In altre parole, il governo italiano temporeggia, differisce, esita. E, in un gioco geopolitico tanto complesso e delicato, rischia non solo di lasciare l’iniziativa al regime di Al Sisi, ma anche di concedergli un tempo eccessivo per decidere le proprie mosse, modificarle, adattarle all’evolversi delle circostanze. E, invece, palesemente non c’è tempo da perdere. Da settimane più voci sostengono la necessità di fare pressione su alcune essenziali leve economico- commerciali all’interno del sistema dei rapporti tra Italia e Egitto. Mi limito qui a considerare una sola di tali leve: quella relativa ai flussi turistici. Nonostante il notevole calo registrato negli ultimi anni, questo settore rappresenta tutt’ora una percentuale assai elevata (non lontana dal 13%) del prodotto interno lordo. L’ipotesi di ricorrere a questo strumento democratico di pressione e a questo esercizio di forza rigorosamente non bellica, costituisce il senso di un appello che oltre 100 europarlamentari hanno indirizzato all’Alto rappresentate per gli affari esteri dell’Unione europea, Federica Mogherini (ed è possibile aderire scrivendo a: abuondiritto@abuondiritto.it). Ma è un’opinione che si va largamente diffondendo: un osservatore equilibrato come Lucio Caracciolo ha dichiarato opportuno che il governo "sconsigli formalmente agli italiani il turismo in Egitto". E in senso analogo si sono pronunciati autorevoli columnist di giornali stranieri; ed è di qualche giorno fa la decisione dell’Associazione italiana per il turismo responsabile (Aitr) di sospendere le proprie attività verso l’Egitto. Insomma, rappresentanti istituzionali e studiosi, associazioni e soggetti organizzati della vita collettiva, si orientano verso un obiettivo capace di rispondere alla necessità di interferire proficuamente nel complesso di relazioni tra l’Europa e l’Egitto. Si afferma l’idea che l’Egitto vada dichiarato un paese non sicuro perché non lo è stato per Giulio e potrebbe non esserlo per i tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori europei che vi si recheranno in futuro. E perché non lo è, in questo momento, per centinaia e centinaia di egiziani reclusi, per coloro che sono stati rapiti e sottoposti a torture e sevizie, per quanti sono spariti per poi essere ritrovati cadaveri. E ogni giorno al quadro, già gravemente compromesso, si aggiungono ulteriori elementi, a cominciare dai recentissimi arresti di massa di giornalisti e militanti politici. Pensiamo a quanta angoscia può aver provocato ai genitori e ai legali di Regeni la notizia dell’incarcerazione per promozione del terrorismo di Ahmed Abdallah, attivista per i diritti umani, e prezioso interlocutore di Amnesty International e dei familiari di Giulio Regeni. Ebbene, questa esibita brutalità della repressione di stato, sembra contenere un messaggio di sfida nei confronti di quanti, non solo in Italia, denunciano la pesantissima torsione dispotica che il regime va rapidamente assumendo. Una sfida cui il governo italiano non può che rispondere con atti formali sempre più determinati, altrimenti si rischia di rimanere inevitabilmente subalterni alle scelte di Al Sisi. A quasi tre settimane dal richiamo in patria dell’ambasciatore italiano in Egitto, infatti, e in assenza di alcuna rilevante novità sul caso, il nostro governo non può che dichiarare l’Egitto paese non sicuro, con tutto ciò che questa decisione comporta. Anche perché suona stridente fin quasi a manifestare un’offensiva insensibilità, certo non consapevole, che sul sito Viaggiare sicuri della Farnesina, nella sezione sicurezza, è come se la morte di Giulio Regeni non solo non risulti registrata, ma è come non fosse mai avvenuta. Vi si legge, infatti, che "in considerazione del deterioramento della generale situazione di sicurezza nel Paese" si consiglia di "di evitare i viaggi non indispensabili in Egitto in località diverse dai resort sul Mar Rosso e dalle aree turistiche dell’Alto Egitto e di quelle del Mar Mediterraneo" e si raccomanda la massima prudenza dato il clima di "instabilità e turbolenza che spesso sfocia in turbative per la sicurezza e in azioni ostili anche di stampo terroristico". Ancora una volta: ne uccide più l’eufemismo che la spada. La punizione e i diritti umani di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 30 aprile 2016 Anders Breivik - il folle pluriomicida norvegese - sta scontando la sua pena detentiva. Recentemente, una giudice del distretto di Oslo ha stabilito che i suoi diritti sono stati violati durante la detenzione. La sentenza ha fatto scalpore: quanta premura per un mostro crudele! Nick Kohen, opinionista del "Guardian", ha scritto in un articolo, intitolato "I diritti umani non stanno mai in piedi da soli", che tali diritti sono invenzione dell’illuminismo e devono coesistere con la democrazia. Si reggono sul consenso dell’opinione pubblica, che deve essere persuasa. Specialmente in tempi di populismo alimentato dalla crisi dei profughi. La combinazione del realismo politico con il relativismo etico nel discorso di Kohen, è segno della confusione che regna nel nostro modo di intendere la giustizia e, di conseguenza, la democrazia. Il consenso è condizione necessaria della democrazia che, tuttavia, diventa sufficiente solo in presenza della giustizia: l’ugual diritto dei cittadini di realizzare il loro modo di vivere secondo le loro potenzialità e le loro inclinazioni. La giustizia è protetta dal consenso, ma non deriva da esso: essendo il fondamento della condizione umana, la parità di tutti sul piano del desiderio non si decide per votazione. È il grado di uguaglianza dei cittadini all’interno della Polis che decide della possibilità della maggioranza (necessariamente variabile) di rappresentarli tutti nella gestione dell’interesse comune. Conseguentemente, la gestione del conflitto politico attraverso il suffragio universale è tanto più democratica quanto più aspira all’uguaglianza. Nella direzione opposta, più si allontana dall’uguaglianza, più il consenso maggioritario diventa strumento di conformazione di tutti a un principio totalitario. Sfortunatamente (ma non incomprensibilmente) nell’esperienza reale la validità del principio di uguaglianza è confermata più da esempi negativi che da esempi positivi. La dissuasione prodotta delle catastrofi a cui conduce la violazione del principio della fraternità umana, è più forte della persuasione derivante dalle situazioni di prosperità che il suo rispetto garantisce. Di conseguenza l’amministrazione della giustizia si fonda eticamente sulla punizione dell’infrazione del diritto dell’altro e non sulla premiazione del suo riconoscimento. Ciò che è punito è l’hubris: l’espandersi in modo disordinato, arrogante del proprio spazio senza alcuna preoccupazione per lo spazio dell’altro. La punizione è proporzionata al grado di intenzionalità e non a quella del danno, perché deve sancire, di fronte ai capaci di intenderlo, il principio di inviolabilità di un limite e non essere usata come vendetta. Tuttavia, in ogni misfatto intenzionale il danno provocato aumenta proporzionatamente alla sua componente di preterintenzionalità: l’intenzionalità di danneggiare che supera la capacità di intendere l’entità del danno. L’hubris vera e propria è questa e la punizione assume qui il suo significato catartico: "Per te, capace e, al tempo stesso, non capace di intendere (ora o per sempre), e per tutti noi che ci vogliamo capaci, valga l’inammissibilità assoluta del fatto da te compiuto; chiunque lo compia sarà duramente sanzionato". La sanzione ripristina un limite invalicabile. E per questo non può a sua volta valicarlo. Ragion per cui, una volta punito secondo legge per la sua intenzionalità/preterintenzionalità e non per l’entità del danno, Breivik non può essere discriminato nei suoi diritti di detenuto. È improbabile che questo serva a restituirgli la sua umanità. Ma serve a noi per conservare la nostra. Veneto: progetto di Confagricoltura per gli orti nelle carceri della Giudecca e di Padova Gente Veneta, 30 aprile 2016 Prenderà il via mercoledì 4 e giovedì 5 maggio, con le visite alle carceri della Giudecca di Venezia e al Due Palazzi di Padova, il progetto congiunto di Confagricoltura Veneto e del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto che si propone il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti con il coinvolgimento in attività imprenditoriali legate all’agricoltura. L’accordo, di durata biennale, prevede di destinare le aree verdi dei penitenziari del Veneto ad attività agricole, trasformando e commercializzando i prodotti e formando i detenuti per inserirli nelle aziende agricole regionali. I corsi di formazione verranno svolti da Confagricoltura Veneto, con il supporto di imprese e cooperative del settore che potranno dare lavoro al personale formato. Le visite alle due carceri hanno lo scopo di eseguire una mappatura delle aree verdi potenzialmente coltivabili, collocate prevalentemente tra i fabbricati e il muro di cinta, e visionare le attività agricole già esistenti. Alla visita al carcere della Giudecca, che si svolgerà mercoledì 4 maggio alle 11.30, parteciperà una delegazione composta da Enrico Sbriglia, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto; Gabriella Straffi, direttore del carcere; Lorenzo Nicoli, presidente regionale di Confagricoltura Veneto e Giulio Rocca, presidente di Confagricoltura Venezia. Attualmente alla Giudecca esiste un’attività agricola che si chiama "L’orto delle meraviglie", gestita dalla cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri che si occupa di inserimento lavorativo di persone in esecuzione penale. Tra l’orto e un laboratorio di cosmetica naturale lavorano in media una decina di detenute. Vengono coltivati seimila metri quadrati di terra, con il metodo dell’agricoltura biologica, da cui si ricavano verdura di stagione e molte delle erbe officinali utilizzate nel laboratorio. Alcune detenute sono coinvolte anche nella vendita diretta a contatto con il pubblico, con appuntamento settimanale. Il laboratorio di cosmetica produce una linea a marchio, Rio Terà dei Pensieri, che si compone di prodotti come saponette, deodoranti, shampoo, creme viso e corpo, in vendita anche on line. Giovedì 5 maggio si svolgerà la visita al carcere di Padova, dove sono una decina i lavoratori impiegati in attività agricole, con produzione di ortaggi solo per il fabbisogno domestico e cura delle aiuole. La cooperativa Giotto da anni organizza un corso di giardinaggio che ha coinvolto, in totale, 250 detenuti, che sono stati aiutati in maniera concreta a trovare un primo lavoro una volta usciti dal carcere. Grazie al loro contributo è stato realizzato anche un parco didattico nelle aree esterne della casa di reclusione. "Con il provveditore Enrico Sbriglia metteremo in piedi un piano strategico per la gestione agricola e la manutenzione delle aree verdi dei penitenziari e la formazione - spiega Lorenzo Nicoli, presidente regionale di Confagricoltura -. L’ipotesi è di avviare, in maniera continuativa e organica, piccole attività a carattere imprenditoriale come l’apicoltura, la coltivazione di erbe officinali, piccoli frutteti o serre negli istituti penitenziari di tutto il Veneto. Noi metteremo a disposizione il nostro know how, con attività formative e imprenditoriali all’interno delle carceri, che porteranno anche al rilascio di attestati legalmente riconosciuti e spendibili dai beneficiari. Avvieremo inoltre percorsi collaborativi con le nostre imprese agricole, che potranno dare lavoro ai detenuti in semilibertà beneficiando di sgravi previdenziali e contributivi, come previsto dalle leggi 381/91 e 193/2000. Infine presteremo un’assistenza mirata in campo legale, fiscale, previdenziale e tecnico economico a favore delle aziende agricole e degli istituti penitenziari aderenti al progetto". Paola (Cs): la "morte annunciata" del suicida in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2016 "Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa". Così aveva scritto - in una lettera indirizzata ai familiari ed al suo avvocato - Maurilio Pio Morabito che era ristretto nel carcere calabrese di Paola. Una morte annunciata. Ieri è stato ritrovato morto nella sua cella. Ufficialmente un suicidio, ma considerando le premesse qualche dubbio è lecito. Morabito, 46 anni, era stato recluso nel carcere calabrese di Arghillà, e sarebbe stato aggredito e minacciato di morte. Nella prima lettera infatti lo aveva denunciato dichiarando "di aver ricevuto minacce di morte, conseguenti ai fatti accaduti nel carcere di Arghillà (Rc)". Dopo quei fatti era stato trasferito nel carcere di Paola. Qualche giorno dopo aver spedito la lettera, datata 6 aprile 2015, nella sua cella posta nella Prima Sezione, si è verificato un incendio ed il Morabito è stato salvato dagli agenti. L’uomo temeva per la propria vita, come se qualcuno fosse stato incaricato di ucciderlo. Infatti, dopo l’incendio, il detenuto aveva scritto l’ennesima lettera con la quale richiedeva - per la tutela della sua incolumità - "di essere trasferito in una struttura sita in qualsiasi punto della penisola, purché sia dotata di un’area protetta". Inoltre chiedeva che per il tempo di attesa necessario al suo trasferimento "sia mantenuto il cancello ed il blindo 24 h chiuso e aperto soltanto per i vari colloqui, il divieto di incontro con qualunque detenuto anche lavorante". Aveva paura Morabito, temeva chiaramente per la sua incolumità tanto da richiedere un isolamento vero e proprio. Nei giorni scorsi l’attivista radicale Emilio Quintieri era stato allertato dai familiari del detenuto, perché il loro congiunto non aveva voluto nemmeno incontrali per il colloquio ed erano molto preoccupati per la sua vita. Quintieri si era subito attivato comunicando telefonicamente con la casa circondariale di Palmi ed era stato riassicurato sul miglioramento delle condizioni di salute di Morabito. L’esponente radicale aveva comunque in programma di andare a fare una visita ispettiva nel carcere per verificare la situazione. Ma non ha fatto in tempo. Suicidio? Le modalità della cosa risultano un po’ strane. Secondo una prima ricostruzione dei fatti avrebbe chiesto una sigaretta a un piantone, con la quale poi avrebbe bruciacchiato una coperta e, dopo averla fatta a brandelli, l’avrebbe utilizzata come cappio per suicidarsi. Come ha potuto fare tutto ciò senza essere visto dal personale addetto alla sorveglianza del reparto e quindi del detenuto, soprattutto alla luce delle sue richieste per preservare la sua incolumità? Se la causa della sua morte non fosse il suicidio la risposta sarebbe da ricercarsi in quello che è accaduto nel carcere di Arghillà. Da chi è stato picchiato? Ma, soprattutto, perché è stato minacciato di morte? Morabito è stato arrestato per reati legati allo spaccio di stupefacenti, non risulta legato a nessuna associazione mafiosa. Il reato è comune tra la popolazione carceraria. Ha visto qualcosa che non doveva vedere o sentire? Sarà la magistratura a indagare sulla sua morte misteriosa. Intanto il militante radicale Emilio Quintieri nella prossima settimana farà una visita al carcere di Paola per tentare di capire che cosa può essere successo. Trento: convegno su carcere e rieducazione, recidivi il 56% dei detenuti Il Trentino, 30 aprile 2016 Confronto ieri sul tema fra la mancanza di fondi per i detenuti, la situazione delle strutture e i suicidi. "Il carcere può rieducare? Un’ambiziosa scommessa di dialogo e di dibattito intorno all’esecuzione penale". Questo il titolo del convegno, ospitato a Lettere, che ha attirato studenti, avvocati, docenti e studiosi accorsi al richiamo di Elsa, la più grande associazione di studenti e neolaureati in Giurisprudenza. La sezione trentina, presieduta da Matilde Bellingeri, dal 2005 raccoglie circa 270 soci ed organizza seminari, conferenze, visite e colloqui di orientamento professionale. I lavori, moderati da Gabriele Fornasari, ordinario di diritto penale a Trento, sono stati preceduti dai saluti dell’assessora Mariachiara Franzoia e dell’avvocato Filippo Fedrizzi, responsabile dell’Osservatorio carcere, Camera Penale Trento. Quindi la relazione di Valerio Pappalardo, direttore della Casa Circondariale di Spini, che ha proposto uno spaccato della vita carceraria nella struttura che purtroppo non propone strutture, spazi e percorsi educativi al regime detentivo. Con la sezione femminile, che accogliere 12 detenute che potrebbe essere adibita a laboratori ma l’idea è stata bocciata. A Spini la popolazione carceraria vede il 68% formata da stranieri, prevalentemente da Tunisia e Marocco e la maggioranza con pene detentive sotto i 5 anni. Se poi si pensa che le pene alternative alla detenzione assommano ad un 15%, si comprende che parlare di rieducazione è quanto mai utopico. Francesco Maisto, (Osservatorio dei detenuti) si è chiesto se dopo aver vissuto sulla sua pelle le atrocità "ha ancora senso rinchiudere tutti in una cella" ricordando che la popolazione vede circa 26 mila detenuti extracomunitari a fronte di un totale di 53 mila: "il sistema non funziona". La dignità dell’individuo è stata affrontata nella relazione della professoressa Antonia Menghini, docente di diritto penitenziario a Trento. L’avvocato Fabio Valcanover, ha parlato della "Reinterpretazione della sanzione" mentre in conclusione l’avvocato Andrea de Bertolini, Presidente Ordine Avvocati Trento, ha analizzato "Il superamento della pena". Accennando al fatto che la dislocazione a Spini rende il carcere invisibile alla cittadinanza. Ed un suggerimento ha fatto pensare: il costo di mantenimento di un carcere tecnologico come quello di Trento è di molto superiore a quello di un vecchio edificio tradizionale. I numeri dei suicidi, dicono che nel 2015 ci sono stati 43 casi accertati con 21 in fase di accertamento e che dall’inizio dell’anno ce ne sono stati già 11 E per ciò che concerne la recidiva, causa la non rieducazione, il 56% dei detenuti torna in carcere dopo una precedente esperienza. Lecce: detenuto morì per una dieta alimentare non prescritta? indagati quattro medici corrieresalentino.it, 30 aprile 2016 Quattro medici in servizio presso il carcere di Lecce sotto inchiesta per la morte del detenuto di Frigole Claudio Lazzari. E in giornata dinanzi al gip Vincenzo Brancato è stata discussa l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero Angela Rotondano. Il pm non ha ravvisato responsabilità da parte dei camici bianchi sulla scorta di una consulenza del medico legale Mele che aveva escluso il nesso di causalità tra l’operato dei medici e il decesso del detenuto. Per il consulente nominato dalla Procura, Lazzari sarebbe deceduto a causa della cirrosi epatica di cui soffriva da tempo e non per l’ipotetico trattamento alimentare di cui necessitava e che non sarebbe stato prescritto dai medici. A tali conclusioni si è opposto l’avvocato della famiglia, Ladislao Massari, che ha sostenuto come la dieta non rispettata avrebbe determinato un aggravamento della cirrosi epatica portando di fatto alla morte il detenuto. Dal canto suo, la difesa (rappresentata, tra gli altri, dall’avvocato Fulvio Pedone) ha rimarcato come ai medici del carcere non si possa muovere alcuna contestazione perché ricoprono un ruolo paritetico a quello della guardia medica. Seguendo tale ragionamento, i medici non risponderebbero ad un logica ospedaliera che prevede il controllo della dieta. La decisione del gip è prevista per i prossimi giorni. Il presunto caso di malasanità in carcere risale al 21 luglio del 2014. I fatti hanno inizio nel lontano 1997 quando l’uomo viene sottoposto ad un intervento chirurgico di "diversione bilio-pancreatica" presso il Policlinico Gemelli di Roma al fine di porre rimedio ad una grave forma di obesità in una persona ad alto rischio cardiovascolare. Lazzari rispetta una dieta alimentare ricca di proteine e carboidrati, provvedendo ad assumere costantemente integratori alimentari ed a sottoporsi a controlli clinici e di laboratorio periodici. L’esperienza detentiva per Lazzari inizia il 4 ottobre del 2011 quando il 45enne viene raggiunto da una misura cautelare in carcere nell’ambito della nota operazione "Augusta". Nel febbraio successivo Lazzari viene sottoposto ad una visita specialistica richiesta dalla difesa, ed eseguita dal medico legale Francesco Faggiano, che evidenzia un sostanzioso calo di peso "a causa della incongrua dieta alimentare". Per un anno, i controlli medici specialistici e le analisi del sangue sarebbero stati saltuari e sempre più sporadici, nonostante un controllo più accurato delle condizioni di salute fosse stato più volte sollecitato e prescritto dagli stessi sanitari che avevano visitato Lazzari in carcere. Nell’estate del 213 le condizioni di salute del detenuto si aggravano. Dopo una serie di ricoveri e di richieste di scarcerazione rigettate dal Tribunale e di perizie medico legali, il gip Giovanni Gallo concede i domiciliari a Lazzari sulla scorta di un’apposita richiesta presentata dal suo legale. In casa, però, l’uomo rimane solo per pochi giorni perché viene immediatamente ricoverato presso il "Vito Fazzi". Dopo una serie di ricoveri e immani sofferenze Lazzari muore il 21 luglio di tre anni fa. Vibo Valentia: ispezione dei Radicali nel carcere e oggi alla Casa circondariale di Crotone Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2016 Ieri pomeriggio una delegazione dei Radicali, giusta autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha fatto una visita ispettiva alla Casa Circondariale di Vibo Valentia. La delegazione, guidata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, è stata accolta dal Direttore dell’Istituto Mario Antonio Galati e dal Commissario Domenico Montauro, Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria. Della delegazione facevano parte anche Valentina Moretti, esponente dei Radicali Italiani, Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus e Mediatrice Culturale e Sandro D’Agostino, Avvocato, Presidente del Consiglio Comunale e Segretario del Pd di Tropea. Il Carcere vibonese, che era stato già visitato dal radicale Quintieri, nel mese di ottobre 2014, unitamente al Senatore della Repubblica Enrico Buemi del Partito Socialista Italiano, si compone di due padiglioni detentivi, rispettivamente di due e tre piani, con gli uffici e gli spazi comuni ubicati nella parte centrale del corridoio a piano terra. Al momento della visita, nella struttura penitenziaria, a fronte di una capienza regolamentare di 396 posti, vi erano ristrette 380 persone aventi le seguenti posizioni giuridiche : 160 condannati, 91 in attesa di primo giudizio, 79 appellanti, 30 ricorrenti e 20 con posizione mista. I detenuti "comuni", appartenenti al Circuito della Media Sicurezza sono 139 mentre quelli appartenenti all’Alta Sicurezza e, nello specifico, al sotto circuito "AS3" (criminalità organizzata) sono 241. Gli stranieri sono 37, quasi tutti detenuti per reati comuni. Pochi i tossicodipendenti (13) e pochissimi (2) quelli in terapia metadonica. Solo 57 detenuti hanno la possibilità, con rotazione trimestrale, di poter lavorare alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Potrebbero essere impiegati altri 4 detenuti ai sensi dell’Art. 21 per attività di manutenzione all’esterno degli spazi detentivi ma a Vibo Valentia non ci sono detenuti che possiedano i requisiti previsti. Per tale motivo, sono stati fatti anche degli interpelli agli altri Istituti Penitenziari, per verificare se ci fosse qualche detenuto interessato ad essere trasferito a Vibo Valentia per essere impiegato in tale attività. Ma nessuno ha presentato la domanda. Quindi, stante l’urgenza di effettuare alcuni lavori esterni, saranno impiegati alcuni detenuti assegnati alla Casa di Reclusione di Laureana di Borrello (Reggio Calabria). Tra la popolazione detenuta la delegazione, tramite le informazioni fornite, ha rilevato la presenza di detenuti sieropositivi (1), affetti da epatite C (3) e da patologie psichiatriche (11). Non sono stati segnalati detenuti affetti da malattie infettive (tubercolosi, scabbia, etc.) e con problematiche di disabilità motoria. Recentemente, a causa di sfollamenti da altre Istituti, sono aumentati i detenuti che risiedono fuori dalla Regione Calabria, più che altro appartenenti al circuito dell’Alta Sicurezza (sono 123 i detenuti "non calabresi", 39 appartenenti alla Media Sicurezza e 84 all’Alta Sicurezza). 210 sono i detenuti che fanno regolarmente i colloqui con i propri familiari (70 della Media Sicurezza e 140 dell’Alta Sicurezza). A breve, per alcuni detenuti, sarà possibile effettuare i colloqui all’aperto nell’area verde che è in fase di ristrutturazione grazie ad un progetto approvato e finanziato dalla Cassa delle Ammende. La Casa Circondariale di Vibo Valentia viene frequentemente visitata anche dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro che tiene udienze con i detenuti e visita anche le loro celle così come prevede l’Ordinamento Penitenziario. A tal proposito l’ultima visita è stata effettuata il 23/03/2016. La delegazione visitante ha accertato che l’Azienda Sanitaria Provinciale di Vibo Valentia non effettua con regolarità le ispezioni igienico - sanitarie all’interno dell’Istituto Penitenziario. Ed infatti, l’ultima ispezione, risulta sia stata effettuata il 16/10/2014 mentre l’Ordinamento Penitenziario prevede che ne venga fatta una ogni semestre. I detenuti hanno lamentato alcune problematiche alla delegazione che le ha immediatamente girate al Direttore Galati ed al Commissario Montauro, sollecitando interventi risolutori. Tanti detenuti dell’Alta Sicurezza hanno protestato per le recenti disposizioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che prevedono l’aggiunta nei cubicoli della terza branda e nei camerotti della sesta. Numerosi hanno protestato e chiesto di essere sentiti con urgenza dal Magistrato di Sorveglianza. Nel frattempo, una delle problematiche che era stata segnalata ad altra delegazione radicale, nel corso di una precedente visita ispettiva, è stata risolta. I detenuti avevano segnalato l’eccessivo costo delle telefonate : 90 centesimi al minuto contro gli 11 centesimi pagati in altri Istituti. Il Direttore Galati ha riferito che, all’esito di alcuni accertamenti, le doglianze dei detenuti erano fondate, per cui la spesa per le telefonate è stata adeguata e, probabilmente, si cercherà di restituire i soldi spesi in più dagli stessi. Per quanto riguarda il personale di Polizia Penitenziaria, 146 sono quelli effettivamente in servizio e 22 quelli impiegati nel Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. Altra nota dolente da segnalare è che l’Istituto di Vibo Valentia dovrebbe avere 9 Educatori ed invece ne dispone soltanto 4. Sia la carenza del personale di Polizia Penitenziaria che della professionalità giuridico pedagogica si ripercuote, negativamente, anche sui detenuti. Domani pomeriggio, alle ore 14,00, la delegazione radicale guidata da Quintieri, si recherà - per una visita ispettiva - presso la Casa Circondariale di Crotone. Mercoledì pomeriggio, durante i solenni festeggiamenti di San Francesco di Paola, i Radicali visiteranno la Casa Circondariale di Paola ove, nella notte, è deceduto in condizioni "poco chiare" un detenuto calabrese, prossimo alla scarcerazione per fine pena. Taranto: la canapa industriale entra nel carcere, i detenuti diventano agricoltori di Veronica Netti paese7.it, 30 aprile 2016 Trasformati 2 ettari di terra incolti in un’azienda agricola modello, toccherà infatti ai detenuti lavorare la terra e raccoglierne i frutti. Il direttore della Casa Circondariale "Carmelo Magli", Stefania Baldassari: "È la prima volta in un istituto di pena, un progetto importante per il reinserimento dei detenuti" La canapa industriale entra per la prima volta nel Carcere di Taranto. E compie un piccolo miracolo: trasformare due ettari di terra incolti in un’azienda agricola modello. Che fa agricoltura innovativa e sociale al tempo stesso, perché toccherà ad un gruppo di detenuti della Casa circondariale "Carmelo Magli" lavorare la terra e raccoglierne i frutti. A otto mesi di distanza dal Protocollo d’Intesa siglato tra Confagricoltura Taranto e Direzione del Carcere questa mattina è stato tagliato il traguardo più importante: mettere a dimora i semi di canapa. Primo passo concreto e insieme potente metafora di un’idea innovativa che comincia a prendere forma. Grazie alla collaborazione di Casa Circondariale di Taranto, Confagricoltura Taranto, Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi (A.B.A.P.) e South Hemp Techno srl di Crispiano, che hanno messo insieme le proprie forze e competenze nell’ambito del progetto di più ampio respiro di promozione e sviluppo di iniziative operative, finalizzate a fornire alla popolazione detenuta possibilità di reinserimento lavorativo, attraverso delle concrete opportunità offerte dal lavoro agricolo. "Oggi a Taranto - dice il presidente di Confagricoltura Taranto Luca Lazzàro - nasce la prima azienda modello di agricoltura sociale e biologica. E nasce grazie al lavoro corale di diversi attori locali e istituzionali e alle qualità di una pianta versatile come la canapa, capace di grandi sviluppi nella valorizzazione dei suoi prodotti, assieme alla coltivazione e commercializzazione di altri prodotti orticoli biologici, e soprattutto in quello delle bonifiche: una prospettiva importante in un territorio così compromesso come quello tarantino". Sulla base del Protocollo d’Intesa nasce dunque, per la prima volta a Taranto e in Italia, un progetto sperimentale completamente innovativo nell’agricoltura sociale: dalla semina della canapa industriale germoglierà una nuova prospettiva di futuro per la popolazione detenuta. "È la prima coltivazione di canapa - spiega il direttore Stefania Baldassarri - in una Casa circondariale. Successivamente sarà la volta della prima azienda agricola bio, che produrrà ortaggi e frutta biologica all’interno della cinta dell’Istituto di pena. Tutto ciò è finalizzato al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, che è poi il cuore di questo progetto". Un progetto da costruire giorno dopo giorno in attesa del "fine pena". Stamattina la semina manuale della canapa nel campo adiacente al settore femminile, con la finalità di utilizzare il raccolto per progetti produttivi che impegneranno le stesse detenute. E prim’ancora, il 23 aprile scorso, la prima semina meccanica su una superficie di 3000mq nella fascia di sicurezza extramurale della Casa circondariale, che servirà per aumentare la resa finale del raccolto. Passi concreti in vista di un più ampio ed articolato intervento che ha l’obiettivo di introdurre la coltivazione nel centro penale jonico dando vita a diversi cicli produttivi: tessuto, carta, alimenti e bioedilizia. "Coltivazione della canapa - afferma Rachele Invernizzi, presidente della South Hemp Tecno - ma anche formazione dei detenuti. L’idea è riuscire a fare impresa in carcere con prodotti da vendere all’esterno. Una prospettiva che ha conquistato i detenuti, felicissimi di poter avere un rapporto col mondo esterno, un contatto umano che spesso gli manca. Il nostro è un progetto-pilota, un’esperienza ripetibile in altri istituti di pena italiani ed è per questo che stiamo lavorando per pubblicizzarlo il più possibile". La versatilità nelle applicazioni della canapa è già nota ed apprezzata in diversi settori e rappresenta una chiave di svolta nella direzione della sostenibilità e dell’inserimento lavorativo successivo alla detenzione. Marcello Colao, dell’Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi, sottolinea in particolare l’aspetto della "sostenibilità": "È un progetto molto ampio - spiega - che si basa sulla sostenibilità, soprattutto perché realizzato in un carcere, con detenuti e in condizioni difficili. Vogliamo anche puntare sulla tutela della biodiversità pugliese, col recupero di colture in via d’estinzione, e in un secondo momento speriamo di farne uno strumento didattico, coinvolgendo le scolaresche. L’obiettivo è diffondere la cultura della biodiversità, dei diritti, della sostenibilità e della bellezza dei prodotti pugliesi. Lanciamo qui dal carcere di Taranto - conclude Colao - un segnale forte: a queste persone svantaggiate che vogliono impegnarsi e migliorare, noi vogliamo dare un valore in più". Confagricoltura Taranto - Unione Provinciale degli Agricoltori di Taranto - è l’organizzazione di rappresentanza e tutela dell’impresa agricola jonica. Essa rappresenta il tessuto produttivo agricolo ed agroalimentare della provincia di Taranto e le imprese associate nei rapporti con le istituzioni ed amministrazioni, con le organizzazioni economiche, politiche, sindacali e sociali. Favorisce e tutela l’attività d’impresa sul piano economico, sindacale, previdenziale e tributario. Per realizzare questo obiettivo, Confagricoltura Taranto favorisce rapporti ed intese tra gli associati per lo studio e la risoluzione di problematiche di interesse comune, provvedendo alla tempestiva informazione delle imprese aderenti e offrendo consulenza su tutte le problematiche connesse al mondo imprenditoriale. L’A.B.A.P. da vent’anni promuove la diffusione della cultura della sostenibilità ambientale, civica ed umana, promuovendo stili di vita e produttivi il più possibile confacenti ad un modello ambientale non impattante ed inclusivo. Dallo scorso anno aderisce al Forum Regionale dell’Agricoltura Sociale. South Hemp Tecno srl nasce nel 2013, per dare modo alla canapa di diventare una realtà possibile per l’economia agricola del sud Italia, dalla consapevolezza della necessità di realizzare un impianto di prima trasformazione. La Direzione della Casa Circondariale, sempre lungimirante rispetto alla ricerca di percorsi concreti di recupero ed possibilmente alternativi alla detenzione, si è impegnata a cedere in comodato d’uso gratuito i terreni individuati nell’ambito dell’Istituto penitenziario, mettendo a disposizione la manodopera costituita da detenuti. Cosenza: biblioteca detenuti in allestimento nell’Istituto penitenziario "Sergio Cosmai" reggiotv.it, 30 aprile 2016 È in allestimento la biblioteca dell’Istituto penitenziario "Sergio Cosmai" di Cosenza, grazie al progetto Liberi di Leggere, dall’associazione LiberaMente, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Il progetto di inserimento e inclusione dei detenuti, presentato stamane nel corso di una conferenza stampa, prevede la gestione della biblioteca all’interno del carcere, la realizzazione di reading, incontri con gli autori e laboratori di scrittura creativa ed il coinvolgimento della cittadinanza tramite la possibilità di lasciare un "libro sospeso" per i detenuti. "La nostra mission - ha affermato il presidente dell’associazione, Francesco Cosentini - è prestare assistenza morale e materiale ai detenuti allo scopo di facilitarne il reinserimento sociale e lavorativo, ma anche costruire una maggiore sensibilità nell’opinione pubblica verso la realtà della detenzione. Da qui l’idea del libro sospeso proprio per creare un legame tra il dentro e il fuori". Soddisfatto il direttore del carcere, Filiberto Benevento, secondo il quale "la biblioteca, nella casa circondariale di Cosenza esiste già, ma non siamo riusciti, con le nostre finanze, ad arredarla. Ora, con questo progetto, allestiremo due sale per la lettura attraverso l’acquisto di nuovi arredi e l’acquisizione di libri". È stato firmato anche un protocollo d’intesa tra Benevento, Cosentini e don Franco Bonofiglio, presidente della Onlus della Parrocchia Santa Maria Madre della Chiesa che ha devoluto i fondi del 5 per mille al potenziamento della biblioteca, ma anche all’avvio di attività teatrali e sportive in carcere. Il direttore Benevento ha anche anticipato che, grazie ad un finanziamento della Cassa delle Ammende, il campo sportivo del carcere sarà trasformato in due campi più piccoli con pista di atletica. Ascoli: laboratorio di Radio Incredibile nel carcere di Marino del Tronto ilquotidiano.it, 30 aprile 2016 Il progetto - un laboratorio radiofonico - si inscrive nel contesto delle attività che Radio Incredibile promuove nei più svariati ed articolati contesti. Venerdì 29 Aprile 2016, alle ore 11:00, presso la Casa Circondariale di Marino del Tronto (Ascoli Piceno), si è tenuto l’incontro di presentazione dell’ultimo lavoro del laboratorio di radiofonia che l’Associazione Culturale Radio Incredibile svolge con i detenuti, ormai da sei anni, all’interno della suddetta struttura. Il laboratorio - che per anni ha impegnato i detenuti nella creazione di una redazione radiofonica e nella realizzazione di un programma radiofonico strutturato - ha realizzato per l’anno 2015/2016 su cd, un elaborato audio che raccoglie una fiaba e un brano musicale. La fiaba originale e inedita, dal titolo "Il bambino e la farfalla" è stata ideata e scritta dai detenuti ed è stata poi recitata e registrata dagli stessi, nel corso degli incontri di laboratorio. Il brano musicale "Jail Song" - interamente realizzato con effetti vocali a cui è stato aggiunto solo il suono di un pianoforte - è il risultato degli sforzi e del talento musicale degli stessi ragazzi della redazione. Anche la copertina del cd è stata realizzata con i disegni creati durante gli incontri di laboratorio. Aiuto fondamentale è stato dato da Roberto Paoletti, che con la Casa di Asterione ha curato l’interpretazione e la recitazione dei ragazzi, e da Pierpaolo Piccioni, che si è occupato della registrazione, degli effetti, della qualità audio, del missaggio e della stampa dei cd, le cui copie sono state regalate ai detenuti che hanno dato vita al lavoro. L’esperienza, si inserisce nel quadro delle attività che l’Associazione Radio Incredibile si impegna da anni, a portare avanti nei contesti sociali della differenza e dell’esclusione. Essa è stata inoltre ulteriore conferma del carattere estremamente positivo di simili progettualità e dell’importanza e necessità delle attività radiofoniche e media-educative realizzate in tali contesti; oltre che, terreno di incontro e collaborazione con l’apparato educativo interno alla Casa Circondariale. "Caino e Abele. Vita per vita?, di Nicolò Amato recensione di Alessandro Zaccuri Avvenire, 30 aprile 2016 Sulla pena di morte Nicolò Amato vuole riaprire il caso. Quando è questione di vita o di morte tutto conta, perfino le virgole. Hands off Cain!, "nessuno tocchi Caino!", è diverso da Hands off, Cain!, "giù le mani, Caino!". Potrebbe essere una svista, d’accordo, ma è la seconda versione a fare la sua comparsa in un passaggio particolarmente delicato di Caino e Abele, il sorprendente - e a tratti sconcertante - saggio con il quale il giurista e magistrato Nicolò Amato si propone di riaprire il dibattito sulla pena di morte. Più che un’arringa a favore del patibolo, è una requisitoria contro la "retorica" - così la definisce Amato - dell’abolizionismo senza se e senza ma. E già questa è una scelta inconsueta, perché se c’è un argomento che davvero non sembra tollerare sfumature è questo della pena di morte. L’autore, come ormai si sarà compreso, è di diverso parere. Ed è un parere comunque impegnativo, considerato il ruolo che Amato ha svolto in molti momenti cruciali della nostra storia recente (ha a lungo diretto il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ed è stato, tra l’altro, il pubblico ministero del processo Moro e di quello per l’attentato a Giovanni Paolo II). Come in altri suoi libri, anche in Caino e Abele Amato inserisce nel ragionamento giuridico osservazioni di più ampia portata, che qui si spingono a indagare la natura del Male assoluto. La pena di morte non può essere applicata indiscriminatamente, afferma Amato riferendosi in particolare ai Paesi nei quali vige la sharia islamica. Eppure, insiste, possono esserci casi in cui non si dà alternativa. Al cospetto dei cosiddetti "Mostri" - assassini e stupratori seriali, torturatori, sfruttatori eccetera - la pena di morte si rivelerebbe addirittura "ragionevole", stante il carattere "irragionevole" delle motivazioni messe in campo dagli abolizionisti. Amato non recepisce l’obiezione illuministica per cui il cittadino non ha conferito allo Stato un potere di vita o di morte: alla stessa stregua, ribatte, si potrebbe affermare che lo Stato non dispone neppure del diritto di imprigionare, tanto meno di comminare l’ergastolo. Ma anche l’argomento della sacralità della vita è tacciato di debolezza da Amato, che in più di un’occasione cita in modo incompleto il n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, dove vige sì il richiamo "all’insegnamento tradizionale" che non esclude a priori la pena di morte, ma dove si dichiara anche con forza che, nel contesto attuale, "i casi di assoluta necessità di soppressione del reo "sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti". A risultare poco convincente, però, è la pretesa di affidarsi al medesimo principio di autoevidenza (un Mostro è un Mostro) che lo stesso Amato contesta altrove. E questo non è più un problema di punteggiatura. "Caino e Abele. Vita per vita?, di Nicolò Amato. Treves. Pag.176. Euro 18,00. Le intercettazioni hanno ucciso il romanzo di Angela Azzaro Il Dubbio, 30 aprile 2016 Un tempo non troppo lontano si prendeva in mano Proust (giusto per fare un esempio) e si entrava direttamente nella vita delle persone. Il protagonista della Recherche (La ricerca del tempo perduto) si metteva a nudo, raccontandoci vita e morte delle persone che il vero Marcel aveva incontrato. Tutti. Nessuno escluso. Per questo leggere una biografia su Proust risulta noioso. Quello che aveva da dire lo aveva già detto lo scrittore francese nella sua opera. Quanto ci fosse di vero, quanto di inventato è poco importante: in quelle pagine, in quella assoluta nostalgia per il tempo che passa, scorreva qualcosa di unico. Di speciale. Scorrevano odio e amore, invidia e peccato, gelosia e passione. Dolore. C’era tutto. C’era la vita raccontata in maniera struggente e conflittuale. Oggi i sette volumi della Recherche sono riposti nello scaffale. Al loro posto apriamo il giornale per leggere le intercettazioni. Il meccanismo è lo stesso: scorre apparentemente la vita delle persone, appaiono i loro vezzi, le loro paure, le loro insicurezze. Come quando l’ex consigliera regionale Nicole Minetti chiede a più riprese, a un amico comune, se davvero Berlusconi quella sera vuol vedere lei, proprio lei. O quando l’ex ministra Federica Guidi si lamenta del fatto che viene tratta come una "sguattera del Guatemala" dal suo compagno. L’esistenza delle persone ritorna nelle frasi spezzettate delle intercettazioni, sottratte dal flusso vitale e messe in fila sulle pagine dei quotidiani. Il privato viene sbattuto in prima pagina, ma la vita, quella vera, muore. Perché quelle frasi non ci danno il senso dello scorrere del tempo, ma di un’immagine congelata al momento del trapasso. Mettono in scena la fine, la morte. Eppure sono il genere oggi più in voga. Il linguaggio - Senza forse volerlo, pm e giornalisti hanno inventato un nuovo genere letterario che a tratti potrebbe ricordate lo stile di uno scrittore italiano come Carlo Emilio Gadda. Linguaggio nervoso, frasi nominali, costruzione paratattica con frasi accostate senza alcuna apparente connessione. Uno stile moderno, che però solo con una forzatura sarcastica possiamo accostare a uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. In Gadda lo stile non conforme alla narrazione tradizionale era ricerca di un nuovo immaginario, era il tentativo estremo e riuscito di non banalizzare il mondo per restituirlo in maniera ancora più potente, più forte. Lo stile delle intercettazioni è l’esatto opposto: uno stile senza stile, un racconto senza racconto, una narrazione che non restituisce niente se non il vuoto di una messa in scena ad uso e consumo dei voyeur che siamo noi. Leggendo le intercettazioni ci illudiamo di sapere tutto, di conoscere tutto. Ma in realtà stiamo assistendo alla fine della conoscenza, alla fine di quel nobile tentativo che era, in parte la letteratura: mettere ordine al caos che ci circonda, entrare in profondità, oltre le apparenze. Aspettando Godot - Leggendo e rileggendo le frasi che appaiono sui giornali viene in mente anche un altro paragone, quello con Samuel Beckett, lo scrittore e drammaturgo irlandese che meglio rappresenta il teatro dell’assurdo: battute ossessive e ripetute, fondate sulla illogicità del mondo. Ma come per Gadda, il paragone è giocato sul filo del paradosso. Beckett contestava la realtà, la metteva a soqquadro con uno stile inconfondibile che ha fatto scuola. Le intercettazioni fanno esattamente l’opposto: certificano l’esistente, lo innalzano a modello, ci dicono che tutto inizia e finisce nel nostro piccolo microcosmo. Beckett era un rivoluzionario, uno scrittore che non si accontentava della banalità dell’evidenza. Le pagine e pagine di ordinanze che finiscono sui giornali ci dicono che viviamo come nel Processo di Franz Kafka: vittime e allo stesso tempo carnefici di un potere che non riusciamo più a capire, neanche quando parla o trascrive le nostre conversazioni con la pretesa di certificare la verità. Non disperiamo - Viene da chiedersi se tutto è finito. Se si fa un giro in libreria, a tratti viene da rispondere di sì. A parte alcuni titoli di grande successo, non si può non riconoscere la crisi della letteratura. Tutti l’hanno superata, a destra e a sinistra. Eppure resta lì. Resta lì come una speranza, come una possibilità. Quella di non rinunciare a raccontare pezzetti di mondo dandogli un ordine e un senso che non sia quello del mettere in piazza, senza mediazioni e senza pietà, la vita altrui. Non è il rimpianto di uno stile classico, tradizionale, che si dipana secondo parametri prefissati. Si tratta di non rinunciare alla bellezza di una narrazione che ci rappresenti vivi ancora prima che imputati, di una storia che sia capace di restituire ciò che siamo senza giudicarci. Se la letteratura ha un senso rispetto alle intercettazioni è propria questo: raccontare contraddizioni, sfumature, conflitti di un privato che non può essere ridotto a una o più telefonate. Chi non terrorizza s’ammala di terrore di Giorgio Ferrari Il Manifesto, 30 aprile 2016 A distanza di poche settimane dal sequestro di un filmato posseduto dagli attentatori di Bruxelles che riprendeva un esperto dei programmi di ricerca nucleare in Belgio, questa notizia sembra confermare che c’è una particolare attenzione verso quei luoghi dove è più facile asportare sostanze radioattive per compiere un attentato (centri di ricerca, laboratori universitari, fabbriche di sorgenti radioattive per scopi medici o industriali). Di queste località nel mondo ce ne sono migliaia e la maggioranza si trova in Europa con una concentrazione massima tra Francia, Belgio e Germania. Come affrontare il problema? Nel 2004 gli Usa hanno varato il programma Global Threat Reduction Initiative (Gtri) sotto l’egida del Ministero della Difesa americano e in particolare della Nnsa (National Nuclear Security Agency, parente stretta della più nota Nsa). Lo scopo è quello di ritirare e portare negli Usa (con molta discrezione, per non dire in segretezza) il materiale fissile e/o altamente radioattivo disseminato in migliaia di piccoli reattori sperimentali o di ricerca in tutto il mondo, compresi paesi dell’Est e arabi. Si tratta di materiale spesso classificato come "weapon grade" perché altamente arricchito (anche al 90%, ma che non ha niente a che vedere con gli armamenti), di piccole quantità (alcuni Kg) che giace spesso abbandonato e con scarsi controlli. Finora nel mondo sono stati denuclearizzati 88 tra reattori di ricerca e laboratori oltre a 1700 siti radiologici da cui, complessivamente, si sarebbe potuto produrre migliaia di bombe sporche. Perché gli USA fanno tutto questo? Per due motivi: il primo è impedire che questa roba possa servire per attività terroristiche (attentati, ricatti); il secondo è che nella quasi totalità dei casi è materiale fornito da ditte Usas a partire dal varo del programma Atoms for peace degli anni 50. Il programma Gtri (di cui in parte si occupano i vertici biennali sulla sicurezza nucleare mondiale) ha riguardato anche l’Italia: il trasporto avvenuto a La Spezia nel 2014 rientrava in questo quadro, così come ci rientrava quello avvenuto l’anno prima a luglio dal centro di Rotondella, per il quale si fecero ipotesi fantasiose poi smentite (rimpatrio delle barre di Elk River e/o soluzioni radioattive imbarcate su aerei militari, etc.). In realtà si è trattato di trasporti messi in conto già al vertice di Seoul del 2012 nell’ambito del Cppnm Convention on Physical Protection of Nuclear Material che rientravano negli obiettivi del programma Grti. Ma non si può contare sull’amico americano, perché nel mentre che la Nnsa toglie di mezzo un po’ della sporcizia nucleare disseminata dai tempi di Eisenhower (e meno male!), dall’altra Obama vara un programma di riammodernamento degli arsenali nucleari Usa: come dire che in un mondo in cui "chi non terrorizza si ammala di terrore", gli Usa vogliono esser certi di avere l’esclusiva del terrore, Russia e Cina permettendo ovviamente. In questo fosco contesto, lo scorso 4 aprile la Commissione Europea ha varato un documento in cui si prevede, per il 2050, un apporto di energia elettrica da fonte nucleare pari a 105.000 Mw (appena 16.000 Mw in meno rispetto al 2015) da ottenere - più che con la costruzione di nuovi reattori ormai costosissimi- prolungando la vita operativa di quelli vecchi fino a 60 anni con rischi enormi dato che la vita media attuale dei 123 reattori in funzione in Europa è di 29 anni ma circa un terzo ha più di 40 anni. Se a questo si aggiunge che degli altri 89 reattori già posti fuori servizio le operazioni di smantellamento non decollano, che l’ammontare dei rifiuti radioattivi sta saturando gli impianti esistenti, si ottiene un quadro allarmante per ciò che riguarda sia la safety (sicurezza nucleare) che la security (sicurezza/sorveglianza dei siti). Quanto alle vicende di casa, basta prendere in considerazione gli ultimi provvedimenti di legge (Dlgs 15.02.2010 n.31; Dl. 04.03.2014 n.45) per rendersi conto che la questione dei rifiuti radioattivi sparsi in una ventina di depositi (di cui alcuni decisamente insicuri e mal controllati) è in preda al disordine: con l’eccezione dei criteri di selezione del sito del deposito assegnati ad Isin (Ispettorato per la sicurezza nucleare), ma emanati da Ispra, tutte le attività più importanti relative alla sitizzazione, progetto, costruzione ed esercizio del deposito sono affidate a Sogin che risulta essere non solo operatore principale di tutta la catena dei rifiuti, ma anche ente normatore laddove gli si assegna il compito di fissare le caratteristiche dei rifiuti che dovranno essere ospitati nel deposito essendo contemporaneamente progettista e costruttore dello stesso. L’evidente conflitto di funzione/interesse è dovuto al fatto che in tutti questi anni non si è pensato di stabilire quali fossero i Waste acceptance criteria che secondo la normativa Iaea devono essere stabiliti da un soggetto diverso da chi materialmente esegue le operazioni di trattamento dei rifiuti l’istruttoria tecnica, procedurale e amministrativa per la selezione/assegnazione del sito ivi incluse le fasi di informazione/coinvolgimento della popolazione e dei soggetti interessati, è fortemente caratterizzata dal ruolo assegnato a Sogin l’esercizio/gestione del Parco tecnologico è affidata a Sogin del Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi che doveva essere definito entro il 31 dicembre 2014 non c’è traccia. Intanto la carta preliminare dei siti per il deposito nazionale, pronta da oltre un anno, è bloccata dal governo che non vuole andare incontro ad un’altra querelle con gli enti locali dopo quella sulle trivellazioni e chissà che non si aspetti cinicamente la minaccia di un attentato per imporre, sull’onda dell’emergenza, la scelta del sito. Migranti. Centri di raccolta e di carcerazione, piano Ue per fermare gli arrivi dalla Libia di Patrizia Antonini Ansa, 30 aprile 2016 L’Ue lavora ad un piano che prevede "misure drastiche", con "centri temporanei di raccolta per profughi e migranti" in Libia, ipotizzando anche "aree di carcerazione", per fermare i flussi nel periodo estivo, sulla rotta del Mediterraneo centrale. Lo scrive Der Spiegel on-line, sulla base di un documento riservato di 17 pagine, elaborato dal Servizio europeo di azione esterna (Seae), dipartimento che sostiene l’attività dell’Alto rappresentante, Federica Mogherini. Ma un portavoce Ue sottolinea: nel "lavoro preparatorio" che stiamo facendo per sostenere il governo libico "nel management delle frontiere, nella lotta alla migrazione irregolare ed ai trafficanti", "l’obiettivo principale" è che "la gestione di migranti e profughi in Libia" rispetti "i più alti standard dei diritti umani e delle leggi internazionali". Nel documento del Seae - ricostruisce lo Spiegel - si traccia lo schema di un accordo col nuovo governo di unità nazionale libico. E in particolare, sui centri raccolta ed i campi di detenzione, gli esperti Ue evidenziano la necessità di trattare con dignità e rispetto dei diritti umani i migranti. Sul piano operativo si prospettano aiuti nella formazione di una guardia costiera e di una marina libica attraverso il supporto della missione Ue Sofia e nella costruzione delle infrastrutture di polizia e giustizia. Ma i problemi sono tanti. Gli esperti Ue affrontano la piaga del traffico di migranti, ritenendo che non ci sia da aspettarsi una rapida fine del business, "ancora estremamente remunerativo a fronte di bassi rischi" e individuano il pericolo per la sicurezza in Libia causato "dalla crescente influenza dell’attività dell’Isis e di altri gruppi terroristici". Intanto alla dg Interni della Commissione Ue si sta finendo di mettere a punto la proposta legislativa per riformare il regolamento di Dublino. L’iniziativa sarà presentata - salvo sorprese dell’ultim’ora - mercoledì, assieme alla valutazione decisiva sulla liberalizzazione dei visti per la Turchia, uno dei punti centrali su cui si regge l’accordo tra i 28 e Ankara, per la riduzione dei flussi sulla rotta dei Balcani occidentali. Dato che dalle discussioni con i 28 è emerso che a sostenere la proposta più ambiziosa di una gestione europea dei flussi di richiedenti asilo erano solo Italia, Germania, Svezia, Cipro, Malta e Grecia, la Commissione ha lavorato sullo scenario "1 plus", vale a dire: la responsabilità dell’asilo resta al Paese di primo ingresso, ma oltre un certo numero di arrivi, viene alleggerito da un meccanismo obbligatorio di ridistribuzione tra i Paesi Ue. Dello schema di ricollocamenti dovrebbero entrare a far parte richiedenti asilo di varie nazionalità, oltre agli attuali siriani ed eritrei. Le percentuali per Paese saranno determinate da una chiave di ripartizione sulla base di alcuni parametri, ma diversi dai criteri usati per ricollocare da Italia e Grecia. Anche su questa proposta comunque, la strada della riforma appare in salita. I più scettici restano Ungheria e Slovacchia. Mentre Spagna, Francia, Lussemburgo, Estonia, Lettonia, Romania, Lituania, Repubblica Ceca, Gran Bretagna e Danimarca sono disponibili a lavorare, ma col freno a mano tirato. Migranti. Mogherini: "Basta schizofrenia. Gli Stati devono seguire l’Europa" di Marco Zatterin La Repubblica, 30 aprile 2016 Il capo della diplomazia Ue: fanno di testa loro e poi danno la colpa a noi. È un’illusione pensare di gestire i fenomeni migratori a livello nazionale. C’è anche un’Europa "schizofrenica", ammette Federica Mogherini, Soprattutto nel gestire gli Affari interni, e l’immigrazione in particolare. Troppe volte, spiega l’alto rappresentante Ue per la Politica estera, "si riconosce che il problema è più grande di quanto qualsiasi Stato da solo sia in grado di gestire, si chiede una risposta europea, ma subito dopo - anche se è stata presa una decisione - non la si mette in atto, si riprende la strada nazionale e si scarica la colpa sull’Europa". Brutta storia, "un circolo vizioso rischia di neutralizzare gli strumenti europei che abbiamo faticosamente iniziato a costruire, dalla gestione delle frontiere alla politica migratoria e di asilo comune". Come se ne esce? "Bisogna allineare il discorso politico che sta a monte delle decisioni comuni con quanto i governi fanno quando tornano a casa. Finché non si mantiene una condotta coerente, il sistema non può funzionare. Così aumenta la frustrazione delle opinioni pubbliche perché non si hanno le risposte e si indeboliscono gli strumenti comunitari. È questa la crisi che l’Ue sta vivendo, una crisi di coerenza e visione, di miopia, frutto di una leadership che fatica a trovare la direzione di marcia e seguirla coerentemente". Non è lo stesso per la politica estera? "Molto meno. Su tutti i principali temi di politica estera c’è identità fra l’agenda nazionale dei ventotto e quella europea. È il contrario della nazionalizzazione". Anche sulla Russia? "Qui come altrove le differenze ci sono, ma non divisioni. Al Consiglio Esteri ho proposto di rivedere la strategia "russa" oltre le sanzioni, che sono uno strumento e non una politica. L’intesa su un impegno mirato su certi dossier è totale". A luglio scadono le sanzioni economiche. Che si fa? "Hanno sempre deciso i leader. Il caso andrà al vertice di giugno. Sino ad oggi si è detto che la fine delle sanzioni è legata al rispettò dell’accordo di Minsk. È difficile che fra due mesi sia attuato in pieno. A un certo punto, sarà utile che Ue, Francia e Germania - che rappresentano l’Europa nel Formato Normandia - propongano una valutazione dello stato di attuazione di Minsk, delle sue prospettive di realizzazione e gestione futura". Si parla di Francia e Germania. E l’Italia, che ruolo ha? "Molto positivo. La sua politica estera è quella europea. Lo dimostra il Migration Compact. È un sostegno politico all’opera che abbiamo avviato con l’Africa, programmando investimenti intelligenti e di lungo periodo per gestire i fenomeni migratori con i paesi di origine e transito". In che modo? "Dedichiamo all’Africa ogni anno 20 miliardi. Ora lavoriamo a un strumento per lo sviluppo dell’Africa che ricalchi il piano Juncker per gli investimenti che abbiamo realizzato per l’Ue. Qualcosa che faccia leva su finanziamenti europei e che li moltiplichi con investimenti privati". Restiamo in Italia. Si sente sempre tirare in ballo l’Europa per ogni: i marò, il caso Regeni. Ha senso? "Sono casi diversi, ma è giusto che l’Italia invochi la dimensione europea. Cercare soluzioni europee implica anche contribuire a costruirne. È ciò che tutti dovremmo fare". Poi però i marò non tornano, l’Egitto fa quel che vuole e si gonfia il fronte euroscettico. "Per entrambi i casi il lavoro al fianco delle autorità italiane è stato costante, come la disponibilità a sostenerle in ogni modo ritenuto utile. Abbiamo sollevato il tema in tutti i bilaterali, con l’India e con l’Egitto. Continueremo a farlo". E la guerra del Brennero? "Senza una politica europea condivisa sul l’immigrazione anche un Paese come l’Austria, che è stato generoso nell’accogliere i rifugiati, finisce per evocare la reintroduzione dei controlli. È una illusione pensare di gestire il fenomeno a livello nazionale, oltretutto l’idea di innalzare barriere fisiche all’interno dell’Ue è inaccettabile, sproporzionata e contraria allo spirito dei trattati. Reintrodurre controlli alle frontiere deve essere un fatto eccezionale e temporaneo, come ha ribadito la Commissione". Si può essere ottimisti sulla Libia? "Siamo iniziando a lavorare con il governo di unità nazionale, abbiamo non solo annunciato 100 milioni di aiuti ma anche avviato già alcuni dei progetti sui quali attivarli. Se i libici riescono ad unire le forze attorno ad istituzioni comuni, per un impegno comune su sicurezza, controllo delle risorse, ricostruzione, e contrasto al traffico di esseri umani, il Paese ha un futuro. Una volta ripartita, la Libia non ha bisogno di un aiuto economico". La stampa tedesca parla di un piano "con misure drastiche" per fermare i profughi dal Nord Africa. È così? "Nessuna "misura drastica", ma un lavoro serio per evitare che migliaia di persone muoiano. La logica del "soldi in cambio della garanzia di tenere i migranti in carcere" appartiene al passato, ed abbiamo già visto i danni che ha fatto. Quel tempo è finito. Oggi quello a cui lavoriamo è un partenariato, che richiede risorse, impegno politico e, soprattutto, un governo libico". Perché dire sì alla legalizzazione dell’uso personale di cannabis di Filomena Gallo Left, 30 aprile 2016 Secondo la relazione 2016 dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze di Lisbona (Oedt) elaborata insieme a Europol, il traffico di stupefacenti è "una delle attività più lucrative della criminalità organizzata in Europa" e coinvolge gruppi dediti ad "altre forme di criminalità, incluso il terrorismo". Di questo mercato illegale, che vale 24 miliardi di euro l’anno, la fetta più consistente è rappresentata dalla cannabis, circa il 38% totale, tra gli 8,4 e i 12,9 miliardi l’anno, seguono eroina, 28% delle vendite di stupefacenti per un ammontare tra i 6 - 7,8 miliardi e la cocaina, 24%, tra i 4,5 e i 7 miliardi di incassi. Le anfetamine e l’ecstasy rappresentano rispettivamente 1’8 e il 3% del totale di questo commercio illegale. Negli ultimi anni, la vendita e il consumo della cannabis e suoi derivati sono divenuti legali in quattro Stati degli Usa e in Uruguay. In Portogallo, Spagna e Repubblica Ceca la coltivazione per uso personale non è penalizzata, e da oltre 40 anni nei Paesi bassi un (florido) commercio è tollerato. 11 nuovo governo canadese di Justin Trudeau ha avviato un processo nazionale di consultazioni per la legalizzazione della pianta e suoi derivati, mentre in Italia è incardinato un progetto di legge d’iniziativa parlamentare per la regolamentazione della produzione, consumo e commercio della cannabis. Che la cannabis sia popolare anche in Italia ce lo dice la relazione del governo del 2015, che stima in 4 milioni il numero dei consumatori, ma ce lo dimostra anche l’incoraggiante inizio della raccolta firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare che l’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani hanno lanciato il 20 aprile scorso con il sostegno della Coalizione Italiana per le Libertà civili e democratiche, Forum droghe, Antigone, La Società della Ragione, La PianTiamo e il coordinamento dei grow shop italiani. L’iniziativa vuole complementare i testi presentati alla Camera e accompagnare dal fuori del Palazzo il dibattito parlamentare, purtroppo sospeso al momento. Di cannabis si è anche molto parlato al Palazzo di Vetro dal 19 al 21 aprile scorsi in occasione della sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite dedicata alle droghe. Alla sanguinaria "guerra alla droga", che comunque miete ancora vittime in mezzo mondo, si son sostituite parole d’ordine più diplomatiche che invitano gli Stati ad applicare le convenzioni internazionali con "flessibilità". Un’interpretazione che però, secondo la Giunta internazionale per gli stupefacenti, non include, a convenzioni vigenti, la possibilità di legalizzare. Quel che sta avvenendo negli Usa intorno alla cannabis - a novembre di quest’anno altri quattro Stati, tra cui la California, voteranno per la legalizzazione - è molto probabilmente l’inizio di una nuova era di "controllo delle droghe" che si basa sulla regolamentazione legale in radicale alternativa alla proibizione. Una risposta antiproibizionista come lo furono le campagne storiche del Partito radicale per la legalizzazione del divorzio e dell’aborto: consentire scelte consapevoli e libere protette dalla legge. Non si tratta di promuovere gli stupefacenti, ma di creare le condizioni per cui chi decide cosa assumere possa farlo senza incorrere in sanzioni di alcun tipo e, se del caso, accedere all’assistenza socio-sanitaria necessaria. Si tratta, cioè, di garantire diritti. Per maggiori informazione sulla proposta di legge d’iniziativa popolare legalizziamo.it Gran Bretagna: realtà virtuale, video che riproduce l’esperienza del carcere termometropolitico.it, 30 aprile 2016 Realtà virtuale: un nuovo esperimento di giornalismo digitale realizzato dal The Guardian prova a esplorare la vita di un detenuto in isolamento. Per realizzare "6×9 A virtual experience of solitary confinement" sono stati impiegati 9 mesi di lavoro. Nonostante i tagli previsti per il prossimo futuro, il quotidiano inglese ha dato il via a un progetto importante: realizzare un’app dedicata all’esperienza interattiva che utilizzando i Google Cardboard permetta la completa immersione dello spettatore in diversi scenari. Il video - che è disponibile anche nella versione 360° - prova a riprodurre la vita di un detenuto all’interno di una cella d’isolamento di un carcere statunitense. Viene mostrato come questo tipo di reclusione possa causare gravi danni alla psiche di un individuo: 23 ore di solitudine al giorno per settimane, mesi, in alcuni casi, per anni. Nel video si possono leggere le storie di 6 detenuti uomini e di una donna che in prima persona hanno vissuto questa condizione. Le voci che si possono distinguere nella clip sono prese dal documentario Solitary Nation di Frontline, storico programma dell’emittente Pbs, girato all’interno di un carcere del Maine. Nel video si provano a rappresentare le vere e proprie allucinazioni raccontate dai detenuti alla squadra del Guardian capeggiata dall’editor Francesca Panetta: a ogni porzione di schermo corrisponde una storia diversa, a seconda di ciò che lo spettatore sceglie di guardare si attiva un’esperienza personalizzata di "isolamento". Francia: Abdeslam fischiato da detenuti islamici radicalizzati "dovevi farti esplodere" Il Secolo XIX, 30 aprile 2016 Al quarto piano del carcere di Fleury-Merogis, in cella di isolamento, guardato a vista da secondini addestratissimi, Salah Abdeslam non è un detenuto qualunque. Al suo arrivo, ieri a metà giornata, dalle celle - popolate in buona parte da salafiti e radicalizzati - si sono levati applausi ma soprattutto parecchi fischi contro il terrorista jihadista. "Non ti sei fatto esplodere come gli altri", gli rimproverano ricordandogli la sera degli attentati di Parigi, il 13 novembre. Quando lui, a differenza degli altri, "ci ripensò" e gettò in un cestino la sua cintura esplosiva. Carcere di massima sicurezza, precauzioni mai viste prima: dopo esserselo fatti sfuggire a ripetizione, ora i francesi non vogliono rischiare nulla su Salah. Ma a preoccupare è la reazione degli altri detenuti. Da un video postato sui social network si sente chiaramente - all’ arrivo del prigioniero super scortato - un misto di applausi e fischi. Secondo un sindacalista del penitenziario più grande d’Europa, intervistato dalla tv BFM, a prendersela con Salah sono stati i "radicalizzati", che gli rimproverano di "non essere andato fino in fondo facendosi esplodere". Salah è stato attivo nella preparazione e nella logistica degli attentati di Parigi, affittò appartamenti per farne covi dei vari commando, noleggiò le auto utilizzate poi per depositare i terroristi sui luoghi degli agguati. Lui, personalmente, lasciò allo Stade de France i tre kamikaze che non riuscirono ad entrare e si fecero saltare nell’antistadio. Lasciò poi l’automobile in quel 18/mo arrondissement, ai piedi di Montmartre, che il comunicato di rivendicazione dell’Isis affermava essere stato uno dei luoghi attaccati. Invece Salah parcheggiò e se ne andò in giro per Parigi, lasciando la sua cintura esplosiva in un cestino a Montrouge, nella banlieue sud. Agli inquirenti belgi ha detto semplicemente di averci "ripensato". Quanto al clima nel carcere di Fleury, a una trentina di chilometri da Parigi, fonti giornalistiche riferiscono che a provocare i "buuu" e i fischi sono state anche le condizioni tutte speciali del trasferimento di un detenuto ancora più speciale: elicottero, furgoni delle tv che lo hanno seguito passo dopo passo, scorta della polizia. Fra chi lo fischia accusandolo di viltà e tradimento della jihad, chi lo snobba per la per l’esposizione sui media e le misure di sicurezza, la permanenza di Salah a Fleury-Merogis già si annuncia agitata. E questo preoccupa la Francia.