Csm, le 32 nomine che cambiano i poteri della giustizia di Liana Milella La Repubblica, 2 aprile 2016 Giorni febbrili al Csm. In scena c’è il grande risiko delle nomine che entro poche settimane cambierà la guida e la gestione di importanti uffici, dalla Cassazione a procure notoriamente strategiche, Milano in testa. Dall’insediamento del vice presidente Giovanni Legnini si contano 136 capi uffici cambiati, tra cui 25 donne in posizioni di vertice, ma ne mancano ancora 124. Di questi una quarantina arrivano in scadenza proprio a partire dalla prossima settimana. Corrono nomi famosi nella storia della magistratura. Le trattative tra le correnti, come sempre, sono frenetiche. Le scelte intrecciate perché le stesse toghe corrono per più di un ufficio. Due nodi dovranno essere sciolti prima degli altri - la procura di Milano e i 21 presidenti di sezione della Cassazione - per consentire il via libera ad altri uffici importanti, come Catania e Caltanissetta, Bologna e Catanzaro, Genova e Cagliari. Una partita strategica si gioca ancora a Firenze, la città di Renzi, per la procura generale dopo quella per corte di appello e tribunale. E pure a Potenza, dov’è scoppiata la grana per l’ex ministro Guidi. Bisogna partire da Milano per acchiappare il capo del gomitolo delle nomine. La procura scoperta dal 16 novembre, i soliti tempi, troppo e immotivatamente lunghi dei consigli giudiziari nel dare un parere sui concorrenti, il parterre di candidati noti, i milanesi Francesco Greco, Alberto Nobili, Ilda Boccassini, i "fuori area" Giovanni Melillo, capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando e Giuseppe "Gimmi" Amato, procuratore di Trento e figlio dell’ex direttore delle carceri Nicolò Amato. La quinta commissione - presieduta da Lucio Aschettino, della sinistra di Area - dovrebbe decidere la prossima settimana. Ma siamo ancora alla querelle tra un capo milanese e il "papa straniero". La scelta si stringe a Greco, Nobili, Melillo, perché Amato viene dato in pole per la procura di Bologna. L’alternativa tra un milanese (Greco, Nobili) e Melillo sta lacerando il Csm. A favore di Melillo, nonostante la sua corrente sia Area, è la relatrice del caso, Elisabetta Alberti Casellati, ex senatrice di Forza Italia. Ma, come dice "radio Csm", Berlusconi in persona vuole evitare che la procura "finisca in mano a uno dei pm che hanno fatto Mani pulite, Greco in testa". Voci di corridoio rivelano che Legnini tiferebbe per Greco, i numeri sarebbero per lui se lo votasse Unicost. La contrapposizione tra Greco e Melillo potrebbe favorire Nobili, a quel punto votato da tutti. In queste ore si confrontano le audizioni di lunedì scorso, come se davvero carriere ventennali potessero risolversi in mezz’ora di domande. Tant’è. È un modo per prendere tempo. Sbloccata Milano si passa alla procura di Bologna. E qui Amato dovrebbe battere il procuratore di Forlì Sergio Sottani e quello di Trapani Marcello Viola. A Milano corre pure Nicola Gratteri, oggi procuratore aggiunto di Reggio Calabria, le cui quotazioni, in vista del plenum, sono in netta risalita per il posto di capo della procura di Catanzaro. Più complicato l’intreccio tra la procura generale di Firenze e le procure di Catania e Caltanissetta. Per tutti e tre i posti corre Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone. Oggi è procuratore a Termini Imerese. A Firenze lo incalzano Federico Sorrentino e Renato Finocchi Gherzi, toghe della Cassazione, e Teresa Principato, nota toga antimafia. A Catania la partita si gioca con Carmelo Zuccaro, uno degli aggiunti che ha lavorato con l’ex capo Giovanni Salvi, oggi pg a Roma. Mentre a Caltanissetta la battaglia è complessa. In gara Maurizio De Lucia, creatura del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, ancora Principato, Zuccaro, Roberto Saieva, pg a Cagliari, e di nuovo Viola. Per Genova il nome sicuro è quello di Franco Cozzi, già procuratore aggiunto. Lotta sul filo per la Corte d’appello di Potenza, Area si batte per Francesca La Malfa, la destra per Antonio De Luce. Solo un voto, di Paola Balducci, per l’ex deputato Pd Francesco Bonito. Pacchetto quasi chiuso per 21 presidenze di sezioni della Cassazione e per due avvocati generali. Via libera in settimana. La magistratura che fa paura alla politica di Ugo Magri La Stampa, 2 aprile 2016 C’è un’espressione che Renzi si guarda bene dal pronunciare, ma nel suo mondo circola con insistenza: "giustizia a orologeria". Amici fidati del premier vedono (o credono di scorgere) i segni premonitori di un nuovo protagonismo giudiziario. Temono che una parte delle toghe voglia profittare dei prossimi passaggi politici - le elezioni nelle grandi città, il referendum costituzionale d’autunno - per assestare un colpo al capo del governo e al partito di cui Renzi è il leader. In altre parole, provano la sgradevole sensazione di sentirsi nel mirino delle procure. Non esattamente come lo fu Berlusconi, anzi il paragone verrebbe considerato oltraggioso dal presidente del Consiglio, però con qualche tratto in comune. Per esempio, dell’inchiesta di Potenza sui petroli viene contestato il metodo. Che consiste nell’isolare e descrivere un sistema di potere, in questo caso del Pd in Basilicata, per poi cercare a strascico le prove del malaffare che lì e più in alto loco si sarebbe consumato. Dalla Guidi il premier ieri ha preso congedo senza rimpianti, ha colto anzi l’occasione per rivendicare la novità dei ministri che finalmente si dimettono alla prima telefonata "inopportuna", non come prima che restavano incollati alla poltrona. Però l’inchiesta di Potenza non si ferma qui, il premier ne è consapevole. Procede sulla base di un’ipotesi criminale che in Italia è al suo debutto: il cosiddetto "traffico di influenze". Cioè gli scambi di favori tra lobbismo e sottobosco del potere, in quella zona d’ombra dove il confine tra lecito e illecito è sempre stato incerto, spesso indefinibile. E adesso, con l’avvento di questo nuovo reato, lo diventa ancora di più. È in fondo, a guardar bene, lo stesso mix di affari e politica locale che emerge dalle vicende di Banca Etruria, per cui risulta indagato Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena. Circolano da giorni i "rumor" di nuovi prossimi sviluppi giudiziari, figurarsi se a Palazzo Chigi non ne sono al corrente. Così come non è sfuggita a ottobre la proroga dell’inchiesta genovese che riguarda Tiziano Renzi, babbo del premier, da due anni sulla graticola (un tempo particolarmente lungo). Il sospetto è che si possa o si voglia sollevare un grande polverone. E guai se il metro di giudizio fosse quello di una magistratura prevenuta o vogliosa di riprendersi il centro della scena: questo si osserva non solo ai vertici del Pd, ma pure negli ambienti istituzionali più responsabili. La giustizia deve aiutare i partiti a liberarsi delle loro zavorre. L’allarme di questi giorni, invece, è che possa diventare la scusa per qualcos’altro: per l’esercizio di una tutela permanente nei confronti della politica. Anche di quella pulita, che Renzi è sicuro di incarnare. Giudici di nuovo in campo. E ora la sfida è a Renzi di Mattia Feltri La Stampa, 2 aprile 2016 Le inchieste fecero cadere i governi di Berlusconi e Prodi. Ieri Fabrizio Cicchitto ha detto apertamente quello che Matteo Renzi sospetta e si limita a riferire a beneficio dei retroscena: "Bisogna parlare di una bomba ad orologeria fatta esplodere con il meccanismo procedurale della richiesta di custodie cautelari e la conseguente pubblicità degli atti". E poi: "Non a caso questa richiesta è stata avanzata adesso, indipendentemente dal fatto che l’indagine è stata aperta nel 2014 e in questo modo si fa esplodere la bomba proprio alla vigilia dei referendum di aprile". Il concetto di "giustizia a orologeria" sembrava ormai fuori moda, almeno da quando il massimo teorico, Silvio Berlusconi, occupa i margini della cronaca, compresa quella giudiziaria. Ed è forse la prima volta che esponenti di una maggioranza di centrosinistra - presidente del Consiglio compreso, e nonostante Cicchitto venga dal centrodestra - si esprimono così apertamente sui fini politici dell’azione giudiziaria. Eppure l’ultimo governo caduto per effetti penali è stato quello di Romano Prodi nel 2008 (l’altro era quello di Berlusconi nel 1994). Ora è preminente e comodissima la tesi secondo cui l’esecutivo era venuto giù per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato con la Casa delle libertà in cambio di finanziamenti e onori (e sempre che la teoria regga ai tre gradi di giudizio); ma chiunque capirà il diverso peso dell’uscita dalla maggioranza dell’Udeur di Clemente Mastella ministro della Giustizia. La moglie Sandra Lonardo era stata arrestata e messa ai domiciliari per una serie di accuse che otto anni dopo sono evaporate o disperse, e Mastella, in lite con un molto turgido Antonio Di Pietro, chiedeva a Prodi solidarietà. Fra i due, il Professore scelse naturalmente l’alleato prossimo alla magistratura, e Mastella votò la sfiducia. È complicato sostenere che a Potenza coltivino progetti politici e calibrino i tempi d’intervento, anche perché dell’inchiesta in sé si è capito poco, nulla di quanti denari siano eventualmente girati, in che cosa consistano gli atti corruttivi e se non siano piuttosto di lobbying, ma tutto delle imbarazzanti implicazioni della ministra Federica Guidi e del suo fidanzato. È uno schema abbastanza ripetitivo. Pochi ricorderanno il nome di Ercole Incalza, nessuno i contorni degli addebiti con cui la procura di Firenze lo ha arrestato un anno fa, ma tutti del tracollo del ministero delle Infrastrutture retto da Maurizio Lupi e di cui Incalza era altissimo dirigente. Poche settimane fa Incalza è stato prosciolto nel disinteresse generale, e alla fine l’azione della procura magari non aveva obiettivi politici ma le conseguenze sono state tali, e gravi. Dall’inizio della Seconda repubblica la maggior causa di mortalità in politica è dipesa dalle inchieste della magistratura, non sempre concluse con successo, spesso con condanne decisamente ridimensionate rispetto ai presupposti, altre volte con il trionfo pieno degli imputati (il caso di Calogero Mannino, assolto dopo quattordici anni da accuse di mafia è il più notevole) e viene in mente per esempio l’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris, una specie di kolossal giudiziario in cui era finito dentro chiunque, da Prodi in giù. Alla fine i condannati saranno stati cinque o sei su una cinquantina, e il pubblico ministero è stato premiato con la fama e l’elezione a sindaco di Napoli. Dimostrare la premeditazione di De Magistris è impossibile e inutile, però è dura trattenere il sospetto che tante inchieste contro la politica (così scalcagnata da offrire occasioni a ripetizione) dipendano almeno in parte dal rilievo che hanno in tv e sui giornali, dalla reputazione che garantiscono, dall’assenza di conseguenze in caso di errore, soprattutto dalla guerra fra politica e magistratura cominciata con Mani pulite nel 1992, e davanti alla quale una classe dirigente corrotta e squalificata, anche se ben oltre i suoi demeriti, accettò di arretrare. Un regola classica delle dinamiche istituzionali dice che un potere tende per sua natura ad espandersi: quello giudiziario ha occupato lo spazio lasciato libero da esecutivo e legislativo e, sempre per sua natura, non accetta di cederlo. Berlusconi e Prodi, per motivi opposti, hanno perso la partita. Ora sembra volerla riprendere Renzi, e promette di essere una partita avvincente. Petrolio, si allarga lo scandalo: indagato anche il capo della Marina di Alberto D’Argenio e Leo Amato La Repubblica, 2 aprile 2016 Inquisito l’ammiraglio De Giorgi. Il premier: "Tempa Rossa progetto sacrosanto". Grillo: boom, salta tutto. Si allarga l’inchiesta sul petrolio in Val d’Agri che l’altro ieri ha portato alle dimissioni del ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi. Nell’inchiesta di Potenza sull’impianto di Tempa Rossa entrano nuovi nomi eccellenti con l’iscrizione nel registro degli indagati di Giuseppe De Giorgi, Capo di Stato maggiore della Marina, e di Valter Pastena, dirigente della Ragioneria dello Stato. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere all’abuso d’ufficio fino al traffico di influenze, stessi illeciti contestati a Gianluca Gemelli, compagno della Guidi inquisito insieme a loro. Intanto l’opposizione non si accontenta delle dimissioni della Guidi, attacca la Boschi e lo stesso Renzi. E l’M5S annuncia una mozione di sfiducia contro tutto il governo. Anche Lega, Sel, Forza Italia, Fdi e fittiani voteranno contro l’esecutivo anche se probabilmente non tutti sposeranno il testo dei grillini preferendo una mozione propria che depotenzierà l’iniziativa M5S. Grillo twitta: "Boom, salta tutto!". Renzi risponde ostentando calma: "Andremo in Parlamento e ne discuteremo, ormai le mozioni di sfiducia sono settimanali". Poi il premier da Washington difende il governo. "Tempa Rossa - afferma - è un provvedimento giusto, sacrosanto. Io stesso l’avevo annunciato: porta investimenti stranieri e posti di lavoro". Aggiunge che la Guidi non ha commesso reati, ma ha fatto "una telefonata inopportuna che riguarda solo lei e con grande serietà si è dimessa a dimostrare che con noi qualcosa è cambiato" (come raffronto cita il caso Cancellieri). Quindi difende la Boschi: firmare l’emendamento Guidi è "un atto dovuto" per il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Il ruolo delle lobby, di Giuliano Foschini e Marco Mensurati Il Ministro, il capo di Stato Maggiore, il presidente della Regione, il capo della segreteria dell’Onorevole, la Fondazione influente, il potente burocrate del Ministero. C’è di tutto nella grande rete della "Lobby del Petrolio", una specie di colossale mercante in fiera, in cui al posto delle figure tipiche ci sono pezzi di istituzioni. Il capo di imputazione, traffico di influenze, per quanto singolare, non rende giustizia di quanto fitta sia questa rete né di quanto fluide siano le relazioni. Il porto di Augusta - Una fluidità che si poteva intuire già a settembre scorso quando è stato notificato un avviso di proroga delle indagini al capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, indagato insieme con Gianluca Gemelli, compagno dell’ormai ex ministro Federica Guidi, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze per una storia che riguarda l’Autorità portuale di Augusta. Uno stralcio, che nasce dall’ascolto del telefono di Gemelli (che ad Augusta ha molti affari), e che rischia di andare via da Potenza per una questione di competenza. E sono proprio le intercettazioni sul telefono di Gemelli il centro di tutta questa storia: telefonate sulle quali è possibile che vengano chiamate a rispondere, come testimoni, anche il ministro Maria Elena Boschi, citata in un’intercettazione dalla sua ex collega ("Dovremmo riuscire a mettere dentro al senato se è d’accordo anche Mariaelena quell’emendamento") e la stessa Guidi. Al momento però, spiega il procuratore Luigi Gay, nessuna decisione è stata presa. "Purtroppo siamo in Italia" - Del resto, stando all’inchiesta, l’obbiettivo di Gemelli era consegnare il ministro alla Total, e contemporaneamente farsi dare (ovviamente dalla Total) un subappalto dal valore di due milioni e mezzo di euro. L’occasione d’oro arriva con un "innocente" convegno in materia di rifiuti, organizzato l’11 novembre del 2014 dalla Fondazione Italiani Europei. Sono previsti gli interventi della ministra Guidi oltre che di altri pezzi grossi, il ministro dell’Ambiente Galletti, Roberto Prioreschi (Bain & Company), Francesco Profumo (Gruppo Iren), Carlo Tamburi (Enel), Tomaso Tommasi di Vignano (Gruppo Hera). Il 28 ottobre del 2014, Gemelli alza il telefono e chiama Paolo Quinto, membro dell’assemblea nazionale del Pd, e capo della segreteria della senatrice Anna Finocchiaro, e gli chiede "come si può fare se servisse di invitare una persona della Total al convegno ". Quinto risponde che non c’è problema e che può fare tutto lui. Ma a Gemelli non basta e chiede "uno di quei posti che facciano sentire importante una persona ". "Avrai posti in prima fila", risponde Quinto. Gemelli saluta. Poi chiama il dirigente della Total Giuseppe Cobianchi, l’uomo da cui dipende il suo subappalto milionario. "Ingegnere buongiorno, sono Gemelli (...) la disturbavo per sapere se era interessato... siccome c’è un bel convegno a Roma, fatto da Italiani Europei, che lo tiene il Ministro dello Sviluppo Economico, eccetera e... le faccio arrivare anche a lei l’invito, perché è una cosa interessante... a parte il tema... c’è tutto un ambiente interessante, che le può servire, c’è il ministro dello sviluppo economico... Perché, una volta che c’è sto Sblocca Italia e c’è il ministro, mi è venuto subito in mente lei, mi spiego? (risata, ndr)". Colbianchi: "Sì sì sì..., effettivamente è molto interessante. C’è anche un risvolto politico...". Gemelli: "Già, purtroppo viviamo in Italia..." "Facciamo un po’ di show" - A quel punto Cobianchi entusiasta comunica a Gemelli l’avvenuta autorizzazione del suo subappalto. "Perfetto dottore, la ringrazio dottore!". Pochi secondi dopo, Gemelli telefona al ministro Guidi: "Allora guarda che io vengo al convegno dell’11 novembre. Ho invitato anche il numero due di Total. L’ho fatto invitare da Paolo (Quinto, ndr) e me lo faccio sedere vicino, così facciamo un po’ di show". Lo show della ministra e del fidanzato funziona. E Gemelli al telefono spiega ad un amico come la rete che stava tessendo per i suoi amici petrolieri si era ingrandita. "Gli ho presentato quelli di Italiani Europei, poi è arrivata Federica, gliel’ho presentata, hanno parlato, con Cobianchi c’era anche il capo delle relazioni esterne, quello che sta Roma (Roberto Pasolini, ndr)... Poi ci è andato quello di Italiani Europei: "Ah, per qualsiasi cosa, a disposizione... Chiamate Gianluca..." Erano scioccati". Il direttore "amico nostro" - I petrolieri, al Ministero potevano contare anche su altre amicizie, oltre alla Guidi. In una telefonata tra Pasquale Criscuolo, uno degli imprenditori locali indagati e Gabriella Megale, anche lei imprenditrice, vice presidente della Confindustria Basilicata, e anche lei amica della Guidi, la donna racconta di come avesse "stretto amicizia con Terlizzese (direttore generale del Mise, - Risorse minerarie ed energetiche, ndr). Ci siamo trovati addirittura io, lui, Somma, il direttore e Pittella in una... a discutere di alcune questioni anche un po ‘ delicate... una... diciamo una riunione privata e ho stretto amicizia con lui, siamo rimasti a chiacchierare abbiamo parlato un pochino insomma anche di quando abbiamo lavorato con Federica ed è stato veramente molto, molto gentile e mo’, insomma voglio dire..." Il "fratello" Sottosegretario - Nelle agende del gruppo, ci sono altri due numeri importanti. Quello del sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo, punto di riferimento politico di Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto arrestato giovedì. "Io e lui - dice Vicino - siamo come fratello e sorella ". E quello del Governatore della Regione Basilicata, Pittella Marcello, che con la sua azione politica avrebbe cercato di mettere le "bandierine" sui territori da "conquistare" nella zona del giacimento. Il vecchio lobbista - Tra i pezzi grossi della lobby del petrolio gli investigatori intercettano infine una vecchia conoscenza della giustizia italiana, Nicola Colicchi. Nel 2001 fu indagato a Milano, insieme a Massimo De Carolis, dal pm Gherardo Colombo in una vecchia inchiesta sul depuratore milanese. Oggi lo ritroviamo consulente della camera di commercio di Roma, mentre al telefono con Gemelli spiega al "compagno della ministra" la natura dell’emendamento Tempa Rossa. "Ai grossi grossi di quell’emendamento non frega niente (...) È una marchetta (...) C’hanno già un nome e un cognome, c’hanno, sta roba qua... Hai capito? Ma ‘ndo vai?". "Tempa rossa", un mega-appalto che vede alleate Eni, Total, Exxon e Shell di Gianmario Leone Il Manifesto, 2 aprile 2016 Le quattro sorelle dell’oro nero lucano. L’inchiesta del 27 aprile 2012 del manifesto su Tempa Rossa. "Un sistema capace di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattive". Il progetto, dal valore di oltre 1 miliardo di euro, giudicato da Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti del mondo. "Se in questo paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina": quando Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, pronunciò questa frase a Vittorio Valletta, storico dirigente della Fiat, eravamo sul finire degli anni ‘50. Chissà cosa penserebbe oggi se fosse ancora in vita, sapendo che proprio la sua Eni, creata per rompere il monopolio delle famose "sette sorelle" (le maggiori compagnie di petrolio dell’epoca), ancora oggi recita una parte da comprimaria nell’Italia che lui stesso difese, da partigiano "bianco", durante la Resistenza. C’è un progetto dei colossi petroliferi Eni, Total, Exxon Mobil e Shell, approvato a occhi chiusi da istituzioni e sindacati, che sta mettendo a rischio l’ecosistema della Basilicata, considerata l’Arabia Saudita italiana, e aumenterà ulteriormente l’inquinamento a Taranto, dove si trova una delle più grandi e strategiche raffinerie Eni in Italia. Cuore pulsante di Tempa Rossa, considerato dalla banca d’affari Goldman Sachs tra i 128 progetti più importanti al mondo in fase di attuazione, "capaci di cambiare gli scenari mondiali dell’energia estrattiva", le installazioni petrolifere della Val d’Agri sull’appennino lucano e la raffineria ionica, suo terminale d’esportazione, collegate dall’oleodotto di Viggiano (lungo 136 km). La fase d’attuazione sta per scadere, in quanto la Total Esplorazione & Produzione Italia (Gruppo Total) ha reso noto di aver sottoscritto il 5 aprile una Lettera di intenti con la Maire Tecnimont Spa, quotata in borsa dal 2007 e gestita dall’imprenditore romano Fabrizio Di Amato (scelto direttamente dalla francese Total). L’attività di ingegneria prenderà il via il prossimo 14 maggio e la firma del contratto è attesa a breve. Affinché le ruspe entrino in azione nel cuore della Basilicata, serve solo l’ultima autorizzazione dell’Ufficio nazionale minerario, che dovrebbe arrivare in tempi rapidi. Alle aziende locali lucane, la Total concederà il "privilegio" di effettuare soltanto i lavori civili (di preparazione a quelli che farà la Maire Tecnimont) per la modica cifra di 60 milioni di euro. Il valore complessivo dell’opera sarà di circa 500 milioni e secondo il Cipe, che lo scorso 23 marzo ha approvato il progetto definitivo (perché "contribuirà a sviluppare la produzione di petrolio in Italia e ridurre la dipendenza energetica dall’estero"), mobiliterà 1,3 miliardi di euro di fondi privati. Sul lato ionico, invece, i via libera ci sono già tutti: il 19 settembre 2011 l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, firmò il decreto di pronuncia di compatibilità ambientale per la raffineria di Taranto per l’Adeguamento stoccaggio del greggio proveniente dal giacimento Tempa Rossa, per il cui progetto l’Eni ha stanziato 300 milioni di euro. Sempre nel corso del 2011 sono arrivati i vari ok da parte del Comune e della Provincia di Taranto, oltre che della Regione Puglia del governatore Nichi Vendola. Alle origini dei mega pozzi - Ma cos’è in realtà Tempa Rossa? È un giacimento petrolifero dell’alta valle del Sauro situato nel cuore della Basilicata, che ricade in gran parte sul territorio del Comune di Corleto Perticara, in provincia di Potenza, a quattro chilometri dal quale verrà costruito il futuro centro di trattamento. I cinque pozzi già perforati si trovano sul territorio del paesino lucano, mentre il sesto, i cui lavori di perforazione sono in corso, si trova nel Comune di Gorgoglione. Altri due pozzi saranno perforati nel corso di quest’anno sempre in agro Corleto Perticara. L’area dove verrà realizzato il centro di stoccaggio Gpl si trova invece nel Comune di Guardia Perticara. Il giacimento Tempa Rossa, che fu scoperto nel 1989 dalla Fina (società belga poi assorbita dalla Total che a sua volta nel 2002 ottenne dall’Eni la cessione del 25% della concessione del giacimento di Gorgoglione), possiede una particolarità: non solo per la natura degli idrocarburi presenti nel sottosuolo (oli pesanti da 10 a 22 Api e presenza di zolfo) ma anche e soprattutto per il suo contesto ambientale: esso infatti si trova tra il parco regionale di Gallipoli Cognato e il parco nazionale del Pollino, proprio nel cuore della Basilicata. Ma ciò che interessa davvero è quello che si trova nelle viscere. Nel sottosuolo è infatti custodito uno dei principali giacimenti petroliferi europei su terraferma: allo stato attuale il 78,5% della produzione italiana di greggio su terra proviene dalla Basilicata. Quando l’impianto lavorerà a pieno regime, avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50.000 barili di petrolio, 250.000 m³ di gas naturale, 267 tonnellate di Gpl e 60 tonnellate di zolfo. Il gas sarà convogliato alla rete locale di distribuzione Snam, mentre il petrolio sarà trasportato tramite una condotta interrata fino all’oleodotto Viggiano-Taranto, che ha come terminale d’esportazione la raffineria Eni del capoluogo ionico. Non è un caso, dunque, se lo sviluppo del progetto Tempa Rossa veda interessati due tra i più grandi gruppi petroliferi mondiali. Al fianco di Total E&P Italia, operatore incaricato dello sviluppo del progetto, figurano infatti anche la Shell (25%) e la Exxon Mobil (25%) tra le compagnie americane di petrolio più importanti al mondo. Tre delle "sette sorelle" combattute invano dal fondatore dell’Eni Enrico Mattei nella metà del secolo scorso. Tra fanghi e ricatti - Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché il 15 aprile 2011, 19 anni dopo l’inizio delle perforazioni esplorative effettuate dalla Total Mineraria Spa e il successivo abbandono dei fanghi petroliferi per la mancanza di una discarica che potesse raccoglierli, la regione Basilicata riceve la notifica ufficiale del sito in questione, indicato come "situazione a rischio". Sulla vicenda Total ed Eni hanno iniziato il solito scaricabarile, in quanto il terreno ora in concessione alla Total, all’epoca era di proprietà dell’Eni, per cui la Total Mineraria Spa tra l’altro lavorava. Ma ciò che più preoccupa in questo momento l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (Arpab), è cosa sia successo nei terreni in cui sono stati abbandonati i fanghi, specie per quanto concerne l’inquinamento delle acque di falda e la regimazione di quelle di pioggia. Inoltre, al momento è in corso un’inchiesta, avviata dal pm Henry John Woodcock prima del suo trasferimento a Napoli, il quale inquisì "i vertici della Total per presunti accordi corruttivi con ditte lucane interessate ai lavori di realizzazione delle infrastrutture legate al giacimento Tempa Rossa, il secondo più grande dopo quello dell’Eni". Inchiesta che vede come parti lese i pochi agricoltori che si opposero all’esproprio dei terreni, che avvenne su cifre imposte dalla compagnia petrolifera e ritenute dagli agricoltori e dagli stessi inquirenti a dir poco ridicole: si parla infatti di somme di dieci volte inferiori al reale valore di mercato. Affari neri - Ma mentre in Basilicata la Total continua a perforare il terreno in uno dei luoghi naturali più affascinati della regione lucana, a Taranto l’Eni continua ad allungare la sua ombra sia all’interno che all’esterno della raffineria. I 300 milioni di euro stanziati, serviranno infatti per la costruzione di due enormi serbatoi (oltre ai tanti già presenti che si affacciano su Mar Grande) per stoccare i 180mila metri cubi di greggio che arriveranno dalla Basilicata e per l’ampliamento del pontile della raffineria che ospiterà dalle 45 alle 140 petroliere l’anno. E proprio l’aumento delle navi nella rada di Mar Grande è uno dei punti meno chiari del progetto, visto che nello Studio d’Impatto Ambientale manca l’analisi di rischio di incidente rilevante, di fondamentale importanza in questi casi. Il progetto dell’Eni, inoltre, produrrà un 12% in più di emissioni diffuse, dato confermato dai tecnici di Arpa Puglia che l’Eni non smentisce, anche se nello Studio d’Impatto Ambientale presentato la percentuale scende all’8%. A tutto questo le nostre istituzioni, accompagnate a braccetto dai sindacati confederali e da Confindustria, hanno conferito la loro sentenza definitiva di "compatibilità ambientale" e di "pubblica utilità". Si è parlato di occasione unica per l’economia del territorio e di imprecisati posti di lavoro in più. Ma al bando emesso dall’Eni per l’aggiudicazione dei lavori per il progetto Tempa Rossa, scaduto lo scorso anno, potevano partecipare solo aziende con un profitto annuale minimo di 250 milioni di euro. E aziende tarantine di questo calibro non ce ne sono. Anche se, a pensarci bene, visto che il progetto prevede che "il pontile e tutte le strutture accessorie saranno realizzate interamente in acciaio", il nome di un’azienda viene in mente eccome: l’Ilva della famiglia Riva, che si trova a pochi metri dalla raffineria. Si chiedeva, poi, in quel 2012, il nostro Gianmario Leone… È possibile giudicare un progetto come quello di cui parliamo in questa pagina "compatibile con l’ambiente" e soprattutto di "pubblica utilità"? È compatibile con l’aria di Taranto l’aumento del 12% delle emissioni diffuse? È compatibile con l’ecosistema del Mar Grande tarantino l’aumento annuale di enormi petroliere? È compatibile con la vita dei cittadini il sicuro aumento della dispersione delle emissioni odorigene che già oggi avviene sistematicamente quando sono in corso operazioni di caricamento di greggio dalla raffineria Eni su nave? È compatibile con l’ambiente lucano la perforazione di otto pozzi petroliferi nel cuore di uno degli scenari naturali più belli che abbiamo in Italia? È di pubblica utilità un progetto che farà aumentare solamente il bilancio delle multinazionali del petrolio come Total, Shell, Exxon Mobil, Eni? È di pubblica utilità un progetto che per la costruzione di tutte le sue opere affiderà i lavori ad aziende con un profitto annuale altissimo e lascerà solo le briciole alle aziende presenti sul territorio lucano e ionico? Ci piacerebbe che qualcuno rispondesse alle nostre domande. Il resto è cronaca di oggi. Caso Guidi, le mosse del premier per evitare il rischio contraccolpo di Francesco Verderami Corriere della Sera, 2 aprile 2016 Se c’è un pericolo per il premier è l’omologazione, l’idea cioè che possa essere considerato dall’opinione pubblica simile ai suoi predecessori. Un presidente del Consiglio come tanti altri, insomma. Ecco il rischio a cui Renzi vuole sfuggire, consapevole di come la novità sia un processo che il tempo inevitabilmente tende a levigare e che gli inciampi della politica finiscono per appannare. Perciò ha indotto il titolare dello Sviluppo economico alle immediate dimissioni, nonostante l’iniziale smarrimento di chi non si aspettava di dover affrontare una tale emergenza. La rapidità della mossa gli è servita per attutire il colpo, che è stato comunque avvertito ed è stato causa di una forte arrabbiatura. Perché è parso subito chiaro al leader del Pd che gli avversari - fuori e dentro il suo stesso partito - avrebbero coinvolto nel "caso Guidi" anche la Boschi, intrecciando l’affaire Banca Etruria al ruolo istituzionale avuto dal titolare per i Rapporti con il Parlamento sull’emendamento incriminato, e servendo così al Paese l’immagine di un impasto esiziale per chi due anni fa ha promesso discontinuità. Per Renzi non c’era (e non c’è) tempo per cercare indizi su un complotto giudiziario ai suoi danni, sebbene il sospetto alberghi nella sua testa. Così come non era (e non è) tra le sue priorità il referendum sulle trivelle, se è vero che ieri autorevoli esponenti del governo erano pronti a scommettere sulla percentuale dei votanti alla consultazione del 17 aprile: "Nonostante tutto, non supererà il 25%". Non è un problema per il premier nemmeno la mozione di sfiducia. Anzi, l’offensiva delle opposizioni è considerata un’opportunità da sfruttare in Parlamento. La manovra del grillino Di Maio, a cui si è accodato il capo della Lega Salvini, ha aperto infatti una crepa nell’area di centrodestra. Perché a fronte della pubblica adesione del capogruppo forzista alla Camera Brunetta, è stato notato il silenzio del suo collega al Senato. E Romani non sarebbe convinto dell’approccio: la sua tesi è che in questo modo si rafforzerebbe il governo. Opinione condivisa da altri esponenti del partito e rappresentata a Berlusconi. L’obiettivo dei Cinque Stelle è far risaltare che il governo verrebbe "salvato" in Parlamento da Verdini, ammaccando ancor di più l’immagine di Renzi. Ma c’è un motivo se il leader di Forza Italia ha invitato i suoi interlocutori a "parlarne con Brunetta". Il punto è che l’ex premier si trova a un bivio: non vorrebbe rompere ciò che resta della vecchia coalizione, ma non intende nemmeno accodarsi alle manovre grilline, conscio che solo loro ne trarrebbero giovamento. Nel giorno delle dimissioni della Guidi è passato in secondo piano una sua frase, riportata dall’Agi: "In futuro - ha detto evocando lo strappo per il Campidoglio - non avrei alcun timore di andare divisi alle elezioni politiche". Berlusconi deve decidere se essere irrilevante nel campo delle forze populiste oppure essere determinante nel campo delle forze governative (non del governo). È uno scenario che fa da sfondo al gioco sulla mozione di sfiducia e che potrebbe avvantaggiare Renzi. Ma rimane pur sempre un gioco di Palazzo. Nel Paese è tutta un’altra storia. La sindrome dell’omologazione il premier la scorge nei sondaggi, dove - rispetto al passato - il suo personale indice di fiducia è oggi valutato di pochi punti superiore rispetto ai valori del suo governo. La riduzione di quella forbice rappresenta un segnale, rivela che l’opinione pubblica si è ormai assuefatta alle dosi massicce di "ottimismo" iniettate da Renzi, e che non fanno più presa le citazioni sugli "80 euro, il Jobs act, la riforma della scuola". Già lo storytelling è da rivedere, se il leader del Pd vuole raggiungere l’obiettivo a cui continua a credere: "Noi alle Politiche prenderemo il 40%". Ma il rischio sulla strada, più della classica buccia di banana, è rappresentato dalla quotidianità. E Renzi non vuole offrire del suo gabinetto l’immagine di un governo del tran-tran, che combatte con i decimali dell’Istat e della Commissione europea. Metterà mano al dicastero dello Sviluppo economico, dove potrebbe tornare De Vincenti, liberando un ruolo a palazzo Chigi in attesa di definire la posizione di Carrai. Il nodo politico è però un altro: trovare la leva per il rilancio. Il premier - malgrado metta in conto un risultato negativo alle Amministrative - è convinto che la chiave di volta sarà il referendum sulla riforma costituzionale. Così metterebbe a tacere quanti, nel suo stesso partito, pensano ciò che il governatore pugliese Emiliano dice: "Non c’è bisogno di opporsi a Renzi. Andrà a sbattere da solo". Provenzano, in isolamento o no? Le Procure si dividono sul boss di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 aprile 2016 Il Guardasigilli favorevole al 41 bis, per i medici è ormai incapace di intendere. Scrive il ministro della Giustizia Andrea Orlando che "non risulta essere venuta meno la capacità del detenuto Provenzano Bernardo di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza, anche in ragione della sua particolare concreta pericolosità". Sebbene costretto da anni su un letto d’ospedale in condizioni di salute sempre più precarie, "non sono stati rilevati dati di alcun genere idonei a dimostrare il mutamento né della posizione del Provenzano nei confronti di Cosa nostra, né di Cosa nostra nei confronti di Provenzano". Un capomafia formalmente in carica, dunque. Ecco perché il 24 marzo il Guardasigilli ha firmato una proroga del "41 bis" nei suoi confronti per altri due anni, notificata al figlio Angelo in qualità di "amministratore di sostegno" del padre, proprio per la sua incapacità di comprendere ciò che gli accade intorno. Il boss - Il boss corleonese resta così al "carcere duro", che nell’attuale situazione significa poter ricevere soltanto una visita al mese, di un’ora al massimo, all’ospedale San Paolo di Milano, da parte di un familiare. In realtà le visite durano molto meno, riferisce il suo avvocato Rosalba Di Gregorio, perché Provenzano (83 anni compiuti a gennaio) non ce la fa a parlare e chissà se capisce chi è andato a trovarlo. La decisione di Orlando è arrivata una settimana dopo che il primario della V divisione di Medicina protetta del San Paolo, dottor Rodolfo Casati, ha firmato l’ultima relazione con cui Provenzano è stato dichiarato incapace di partecipare a un processo penale (quello per la presunta trattativa Stato-mafia, che nei suoi confronti non è mai cominciato proprio per motivi di salute). Nel referto Casati scrive che il detenuto "è in uno stato clinico gravemente deteriorato dal punto di vista cognitivo, stabile da un punto di vista cardiorespiratorio e neurologico; allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana... Alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale. Si ritiene il paziente incompatibile con il regime carcerario. L’assistenza di cui necessita è erogabile solo in struttura sanitaria di lungodegenza". La negazione del "differimento pena" - Tuttavia agli atti dell’ormai corposo dossier sanitario-giudiziario su Provenzano c’è la sentenza della Cassazione che nel settembre scorso confermò la negazione del "differimento pena" per il capomafia sancita dal Tribunale di sorveglianza di Milano. Il quale, nell’occasione, rigettò l’istanza dell’avvocato difensore "non già per problemi di pericolosità sociale, ma perché il suo accoglimento avrebbe comportato il trasferimento dell’interessato in reparti promiscui, dove l’attenzione curativa avrebbe dovuto necessariamente distribuirsi tra gli altri pazienti, verosimilmente con diverse problematiche sanitarie". Carcere confermato per "tutelare il diritto alla salute del detenuto", dunque. Un groviglio di paradossi - Un groviglio di paradossi e pareri contrastanti, a cui si aggiungono quelli dei magistrati interessati, anch’essi discordanti. Mentre le Procure di Caltanissetta e Firenze hanno confermato l’assenso all’eventuale revoca del "41 bis", già espresso nel 2014, la Procura di Palermo ha cambiato idea: due anni fa era favorevole al "regime ordinario", oggi non più. Per diversi motivi, tutti riportati nelle 16 pagine di provvedimento ministeriale, tra i quali spicca questo: "Seppure ristretto dal 2006, Provenzano è costantemente tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa". Anche la Superprocura s’è detta d’accordo (come nel 2014), al mantenimento del "carcere duro", e così il Guardasigilli ha deciso. Alla vigilia del decimo anniversario dall’arresto del padrino, preso dalla polizia l’11 aprile 2006 nella campagna di Corleone, circondato da centinaia di pizzini che ne testimoniavano lo status di capomafia in piena attività; lo stesso per cui, ancora oggi e in quelle condizioni di salute, resta al "41 bis". Marche: la disumanità nelle carceri, il resoconto di Antigone di Enrico Fede vivereancona.it, 2 aprile 2016 Approda in via Astagno il primo incontro sulla situazione delle carceri marchigiane. A fare il punto sulla drammaticità della questione, soprattutto per il capoluogo, è il Presidente di Cnca Ancona Samuele Animali che ha spiegato venerdì pomeriggio: "La specificità è preoccupate perché non è stata rifinanziata la legge quadro sulle carceri marchigiane. Niente più corsi professionalizzanti, dunque e meno ore di psicologo. Da 1,4 milioni di euro del 2014 siamo passati a 0 nel 2015". Dimenandosi tra chi ha ancora a cuore l’accoglienza per i detenuti, sarebbe stato possibile recuperare alcuni fondi da altre fonti per non rimanere proprio con l’acqua alla gola. Tuttavia, ha continuato Animali, "In un sistema piccolo come le Marche (con meno di novecento detenuti) le morti sono parecchie, con tre o quattro suicidi a Montacuto negli ultimi 3 anni. Non sempre l’incompatibilità con la detenzione viene segnalata in tempo. Sono problematiche su cui bisogna lavorare". È piaciuta molto l’idea di un’appendice regionale alla situazione italiana al Presidente Onorario di Antigone Nazionale Stefano Anastasia, nelle Marche per presentare il libro "Abolire il Carcere" (alle 17.45 alla Casa delle Culture di Ancona e alle 21.15 alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro). Aspettando il rapporto generale del 15 aprile prossimo ha sottolineato l’importanza di questa anticipazione come "Una fase di passaggio molto significativa e molto delicata. La morbosa attenzione di alcuni politici al riutilizzo dello strumento carcerario come cavallo di battaglia della propria campagna elettorale è preoccupante. La loro riuscita potrebbe far sfumare le conquiste fatte negli anni precedenti". Tra i presenti all’incontro anche l’Ombudsman regionale Andrea Nobili. Le sue conclusioni sono state un sentito ringraziamento per "il prezioso lavoro che Antigone fa sul territorio perché prima i soggetti che lavoravano su queste tematiche erano pochissimi". Ferrara: i Radicali "carcere vivibile, ma si deve fare di più" di Lauro Casoni La Nuova Ferrara, 2 aprile 2016 Radicali, avvocati e garante Ieri all’Arginone. L’appello: "L’ufficio di sorveglianza ha sospeso colloqui con legali e detenuti". "Non si è mai spenta e non si spegnerà l’attenzione che i Radicali dell’Emilia Romagna pongono sui grandi temi etici e morali riguardanti i cittadini che vivono ai margini della società in quanto carcerati, ammalati o ospiti di qualsiasi struttura": con queste parole Mario Zamorani, coordinatore di "Pluralismo e dissenso", ha introdotto ieri mattina ai giornalisti il resoconto della visita effettuata dai Radicali dell’Emilia-Romagna nel carcere di Ferrara così come in altri luoghi di detenzione nelle città capoluogo di provincia in Emilia Romagna. Nelle parole di Zamorani si comprendono i miglioramenti evidenziati in questi ultimi anni, merito della dirigenza del carcere di Via Arginone e di un corpo amministrativo sicuramente sensibile alle richieste di modernità proveniente dall’esterno. "La rieducazione - insiste Zamorani - in Italia praticamente non esiste salvo in alcuni sporadici casi. E questo è un danno non solo per chi è carcerato ma soprattutto per chi è fuori e chiede maggiore giustizia e sicurezza. Se portiamo come esempio la Norvegia, paese europeo all’avanguardia nelle attività di reinserimento del detenuto, possiamo notare che la percentuale di recidiva si assesta attorno al 17% mentre in Italia è circa del 70%". "Questo sta a significare - sottolinea Zamorani - che in un paese che mette nelle condizioni il detenuto di non estraniarsi definitivamente dal mondo esterno avrà ancora la concreta possibilità di cambiare stile di vita mentre non potrà farlo in un paese che non ha investito nel futuro". Da qui l’appello alle istituzioni, "alle quali ci rivolgiamo - ha concluso Zamorani - ma anche ai privati affinché creino quelle condizioni perché i detenuti non vengano abbandonati a loro stessi e si stabiliscano momenti formativi all’interno delle carceri anche culturali ed educativi". Presenti oltre a Mario Zamorani, anche Ilaria Baraldi, consigliera comunale Pd, Pasquale Longobucco, avvocato e Alessandra Palma, presidente Camera penale Ferrara, e anche il Garante per i diritti dei detenuti di Ferrara, Marcello Marighelli. Nelle parole dei legali della Camera penale, oltre a prendere atto delle condizioni (buone) dei detenuti di Ferrara (circa 330 su una capienza massima che si assesta sulle 270 unità) che pone il carcere della nostra città tra i migliori come vivibilità e programmazione di attività formative volute dalla attuale dirigenza dell’istituto, vi è anche un grido d’allarme. La critica riguarda la gestione della giustizia carceraria: "Ad oggi - sottolineano gli avvocati - la magistratura di sorveglianza ha sospeso, non sappiamo fino a quando, colloqui con avvocati e con detenuti. Non dipende chiaramente da Ferrara ma è causa di carenza di organico degli uffici giudiziari preposti a vagliare richieste di scarcerazione o di affidamento in prova: tutto questo si riflette su gestione dei detenuti, loro aspettative e diritti". Milano: condanna a sei anni di carcere, si taglia il collo e le vene in tribunale milanotoday.it, 2 aprile 2016 Dramma venerdì mattina nell’aula della quinta Corte d’appello del tribunale di Milano. L’imputato, un cinese di ventisette anni, è riuscito a entrare in aula con una lametta. È grave. Ancora un uomo armato all’interno di uno dei palazzi che dovrebbe essere tra i più controllati e sicuri della città. Ancora un dramma, questa volta per fortuna soltanto sfiorato. Mattina agitata, quella di venerdì, al tribunale di Milano, teatro del tentato suicidio di un cinese di ventisette anni, imputato - e poi condannato - per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti e alla prostituzione. Appena il giudice ha letto la sentenza di condanna a sei anni di carcere, il giovane - che era detenuto nella cella di sicurezza - ha tirato fuori una lametta dalle tasche e ha iniziato a ferirsi al collo e ai polsi, nel tentativo - molto probabilmente - di tagliarsi le vene. Sul posto sono immediatamente intervenute un’ambulanza e un’auto medica, pre allertate in codice rosso, con i medici che hanno soccorso e stabilizzato la vittima, poi trasportata in codice giallo al Fatebenefratelli. Il ventisettenne è grave, ma non sarebbe in pericolo di vita. Il tentato suicidio di venerdì, però, riaccende i dubbi sulla reale sicurezza del tribunale di Milano. Ad aprile scorso, i corridoi e le aule del palazzo di giustizia si erano trasformati nel teatro della strage di Claudio Giardiello, l’imputato che aveva ucciso a colpi di pistola il giudice Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e l’altro imputato nel processo per bancarotta fraudolenta ed ex socio in affari Giorgio Erba. Quel giorno Giardiello, catturato dopo una caccia all’uomo durata quasi un’ora, era riuscito ad entrare in tribunale con una pistola nei pantaloni semplicemente passando da un metal detector. Santa Maria Capua Vetere (Ce): emergenza idrica in carcere ma i fondi sono inutilizzabili di Vincenzo Altieri Il Mattino, 2 aprile 2016 Dopo oltre due anni e mezzo dalla stipula dell’accordo di programma, resta l’emergenza idrica nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Era il 31 ottobre 2013 quando, nelle stanze di Palazzo Lucarelli, veniva apposta la firma a quell’accordo in presenza dell’ex sindaco Biagio Di Muro e del provveditore regionale Tommaso Contestabile - che avrebbe dovuto prevedere la realizzazione della nuova condotta idrica comunale che, di conseguenza, avrebbe consentito alla struttura penitenziaria un costante rifornimento di acqua. Quella che Romolo Vignola, presidente della Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, in occasione di una conferenza tenuta nel luglio dello scorso anno ha definito "uno scandalo tipicamente italiano", purtroppo non ha fatto registrare progressi positivi. A pagarne le conseguenze sono gli oltre mille detenuti che, con l’approssimarsi della stagione estiva, vedranno ridotto ai minimi temimi il rispetto dei propri diritti umani I maggiori disagi saranno avvertiti dagli ospiti del reparto "Tamigi", ubicato al quarto piano dell’edificio, dove l’acqua soprattutto nel periodo estivo non arriva quasi mai. La struttura della città del Foro, fin dal momento della sua realizzazione, benché sia di recente costruzione non è mai stata allacciata alla rete idrica pubblica. Le soluzioni individuate nel2013 dall’amministrazione comunale guidata dall’ex sindaco Di Muro e dal Dap erano finalizzate proprio al superamento dell’emergenza. Sul piatto un finanziamento di circa un milione di euro, stanziato inizialmente dal Dap che sarebbe servito alla realizzazione di una condotta idrica lunga circa 4 chilometri. A distanza di due anni, però, si "scopre" che i fondi non possono essere usati perché le opere di allacciamento vanno fatte al di fuori del perimetro del carcere, su cui il Dap non ha competenza. Ne segue la protesta, nel luglio 2015, portata avanti proprio dalla Camera penale promotrice di un’istanza firmata da 1.050 detenuti e indirizzata al magistrato di sorveglianza con la richiesta di "ottenere uno sconto di pena di un giorno per ogni dieci giorni trascorsi in condizioni disumane". È recente, invece, la visita che il commissario prefettizio Michele Campanaro - alla guida di Palazzo Lucarelli dal dicembre scorso - ha fatto al Ministero della Giustizia. In quella occasione sarebbe emersa la necessità di aumentare i fondi inizialmente previsti - perché insufficienti per la realizzazione delle rete idrica in questione - e il contestuale impegno che, in quel preciso istante, avrebbe assunto la Regione Campania al fine di porre fine all’annosa vicenda. Monza: lo portano a fare un esame in ospedale, un detenuto cerca di scappare ilcittadinomb.it, 2 aprile 2016 Tentativo di fuga di un detenuto del carcere di Monza, che si trovava all’ospedale San Gerardo per un esame: dopo il test in ambulatorio ha aggredito gli agenti e ha tentato l’evasione ma è stato bloccato. L’esame clinico lo ha fatto. Poi però ne avrebbe voluto fare un altro e al no dei medici ha tentato la fuga dall’ospedale San Gerardo. Strano? Non proprio: il paziente è un detenuto che si trovava in ambulatorio sotto la scorta della polizia penitenziaria di Monza. È successo in settimana, quando un detenuto italiano di 50 anni ha cercato di scappare dai corridoi del Nuovo senza i poliziotti. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe riscostruisce così quanto accaduto: "Sono stati momenti di grande tensione e la possibile evasione è stata sventata dall’ottimo intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Il detenuto aveva una visita programmata in ospedale e per questo era accompagnato da una scorta. Dopo la visita, insoddisfatto, ne voleva fare un’altra e, al diniego del medico, ha improvvisamente aggredito i poliziotti di scorta ed ha tentato la fuga. Gli agenti, pur feriti, lo hanno però bloccato". Il sindacato invita il ministero a un riconoscimento ufficiale agli agenti della scorta, intanto denuncia la situazione critica vissuta all’interno delle carceri italiane. "Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla polizia penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti. Sette sono stati le evasioni da istituti penitenziari. Le carceri dunque sono ad alta tensione e scoppiano: ma per gli agenti, sempre più al centro di violenze assurde e ingiustificate. La Penitenziaria continua a ‘tenere botta’, nonostante le quotidiane aggressioni". Per il sindacato all’organico nazionale della polizia penitenziaria mancano 8mila agenti e nonostante questo "la legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di almeno 800 nuovi agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione". Piacenza: fiaccolata dalla parrocchia di Santa Franca fino al carcere delle Novate piacenzasera.it, 2 aprile 2016 "Ogni uomo è più grande del suo peccato". In tanti, più del previsto, hanno partecipato in un composto silenzio alla fiaccolata dalla parrocchia di Santa Franca fino al carcere delle Novate. L’iniziativa è stata promossa venerdì 1 aprile dalla Curia di Piacenza nell’ambito degli eventi del Giubileo della Misericordia. Molte le persone comuni, gli scout, i gruppi parrocchiali (almeno 500 persone nel complesso) che non hanno voluto mancare a un appuntamento del tutto inusuale, un momento di preghiera e di riflessione che si è concluso nel piazzale antistante al carcere, un luogo vissuto dai più come estraneo alla città, come un corpo separato, non solo dalla tangenziale sud. Sono le parole pronunciate da Kastriot, che ha parlato ai partecipanti e alle autorità (quasi assenti i politici, con l’eccezione del consigliere comunale Claudio Ferrari) in rappresentanza della comunità dei detenuti, a dare il senso della manifestazione: "La parola carcere non suscita particolare emozione in chi non l’ha conosciuta, qui si vive in un mondo a parte, ogni minuto e secondo passa con dolore; molti detenuti cercano di far capire quanto dolore c’è nei loro cuori. In carcere si diventa più ragionevoli, più uomini, perché essere uomini significa capire che esistono anche altri. La vita è una sola e vale la pena viverla. Grazie per averci dimostrato con questa fiaccolata che non siamo soli, il vostro essere qui stasera ci allontana dall’isolamento e ci fa sentire più vicini alla città. Dimostra che a qualcuno sta a cuore la nostra sofferenza e la nostra situazione". La fiaccolata è partita alle 21 dal piazzale della chiesa di S. Franca con le parole del parroco don Maurizio Noberini: "Una serata per sognare, per trovare un’altra via per esorcizzare il male". Tappa intermedia alla sede della cooperativa sociale Geocart che dà lavoro anche ex detenuti. Davanti al carcere le fiaccole e i rami di ulivo della Pasqua appena trascorsa hanno alimentato il fuoco di una pira simbolica, accesa per bruciare il male. E da un piccolo palco si sono susseguiti gli interventi dei rappresentanti della comunità carceraria. Per prima la direttrice delle Novate Caterina Zurlo: "Porto il saluto di una comunità di 350 uomini e donne, che sono molto contenti che siate qui. È’ una cosa molto importante, un cammino fatto di un passo anche stancante, ma è molto significativo essere arrivati sin qui. Anche le persone che vivono in carcere soffrono, ma non hanno nemmeno il conforto dei parenti. Molti di loro hanno capito quello che hanno fatto, e questo vostro abbraccio è di sprone per migliorare. Ringrazio gli organizzatori e tutti voi che siete così numerosi". La parola è passata al comandante della polizia penitenziaria Mauro Cardarelli: "Il carcere è un’esperienza che ci auguriamo di non fare, ma fa parte delle possibilità che ci può riservare la vita. Per risolvere il problema, non si può negarlo, innanzitutto occorre capire che c’è. La cosa che noto è che in realtà sono troppo pochi quelli che si domandano cosa avviene nella carcerazione e cosa accade dopo. Quando le persone escono il carcere, il periodo trascorso deve essere servito a qualcosa, è fondamentale che ci sia la consapevolezza che la pena è stata espiata. Non deve mai mancare la comprensione e l’ascolto". Il Cappellano del carcere don Adamo Affri si detto soddisfatto della grande partecipazione: "È commovente trovarci qui, ancora di più pensare che da dentro in tanti cercano di guardare dalla finestra per vedervi. Qui c’è una concentrazione di persone che hanno una vita sfigurata dal male e dal peccato, però io ho scoperto che incontrandoli uno a uno l’uomo è più grande del suo peccato. È proprio vero che quando si ama si vede meglio. Dio ama questi fratelli, condanna quello che hanno fatto e non loro. L’uomo non è il suo peccato. Qui dentro noi siamo una comunità, noi scopriamo che siamo tutti peccatori e cerchiamo tutti lo stesso Salvatore". La conclusione è stata affidata al vescovo Gianni Ambrosio: "Questa fiaccolata è stata davvero un’espressione di chiesa, un’espressione di umanità. Quella distanza che abbiamo colmato, tra il dentro e il fuori, in realtà non c’è, perché siamo tutti bisognosi della stessa cosa. Desiderosi di un abbraccio e di buona umanità. Non è più periferia questo luogo, da oggi il carcere è nel cuore della nostra città. È un segno di Pasqua e di vita nuova, e cerchiamo di non dimenticare". Rimini: pellegrinaggio dei detenuti organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII altarimini.it, 2 aprile 2016 Domenica, a Rimini, va in scena il settimo "pellegrinaggio dei carcerati". Alcune decine di detenuti da tutta Italia - che stanno scontando la pena in soluzioni alternative alla prigione - saranno nella città romagnola fronte al Carcere per poi percorrere a piedi la ventina di chilometri che li separa dalla Casa Madre del Perdono, aperta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII a Taverna di Monte Colombo. I detenuti, si legge in una nota della Comunità fondata da Don Oreste Benzi, "offriranno a tutti la possibilità di incontrarli per conoscere la loro esperienza", ospitati dalle Cec, le Comunità Educanti con i carcerati, che la Papa Giovanni XXIII sta sperimentando come modello per il superamento della detenzione. "I ragazzi - osserva Giorgio Pieri, responsabile del progetto Cec - arriveranno alla casa di accoglienza che il vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi ha voluto riconoscere dicembre scorso come una delle Porte Sante di Papa Francesco. Qui sono 30 i detenuti inseriti in progetti di recupero alternativo. Si tratta di un modello innovativo che abbiamo presentato nei mesi scorsi al ministero della Giustizia; saremo presenti il 18 aprile a Roma agli Stati Generali dell’esecuzione penale e - conclude Pieri - lo porteremo il 19 aprile a Bruxelles all’evento conclusivo del progetto europeo Reducing prison population". Como: l’assessore Rossi visita il Bassone "con lo sport recupero dei dipendenti" di Marco Romualdi ciaocomo.it, 2 aprile 2016 L’attività di recupero dei detenuti deve passare anche dallo sport. Questa mattina al carcere del Bassone di Albate insieme ai vertici del carcere ed all’assessore Antonio Rossi per promuovere iniziative legate allo sviluppo dello sport dietro alle sbarre. "Lo sport declinato in tutte le sue discipline è importantissimo per accrescere l’autostima delle persone, che attraverso l’attività fisica possono riscattarsi e ritrovare la loro dignità sociale - commenta la consigliera regionale comasca Daniela Maroni. Penso che lo sport per i detenuti possa essere anche un mezzo per potersi riappropriare della propria personalità, facilitando il reinserimento nella società civile alla fine del percorso detentivo. Credo che queste iniziative, infatti, consentano di aiutare i detenuti a migliorare la qualità della loro vita all’interno delle mura e, al tempo stesso, siano un modo per portare l’uomo ad un maggiore benessere psicofisico". Ue-Turchia, l’inutile accordo. Il deterrente non funzionerà di Luigi Manconi e Valentina Brinis Il Manifesto, 2 aprile 2016 L’immagine può risultare crudelmente beffarda, ma si deve riconoscere che, purtroppo, rischia di corrispondere alla realtà in tutti i suoi drammatici contorni. L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia evoca davvero il disperato tentativo di svuotare il mare con un cucchiaino. Dopo l’entrata in vigore del piano, il 20 marzo scorso, e a seguito delle politiche di chiusura adottate dai paesi che confinano con la Grecia del nord, cinquantamila migranti sono bloccati in quello Stato in attesa di ricevere informazioni precise per proseguire il proprio viaggio. Il confine con la Macedonia, di recente reso inaccessibile, è presidiato dalle forze di polizia che impediscono il passaggio verso una delle rotte balcaniche attraverso le quali si raggiungono l’Austria e la Germania. Proprio per questo motivo migliaia di persone alloggiano nell’accampamento di Idomeni, nella speranza di riuscire a oltrepassare la frontiera. E si tratta di donne, uomini e bambini che vivono in condizioni a dir poco disumane all’interno di tende da campeggio piantate nel fango. Sono strutture non impermeabili in cui il freddo è pungente e le condizioni igieniche assai precarie: manca tutto e quel poco che c’è, dal cibo ai pannolini per i bambini, viene messo a disposizione dai volontari. Ma l’alternativa offerta dal governo greco è sicuramente peggiore e consiste nel trasferimento in centri hotspot, da cui accedere, poi, alla procedura di ricollocamento in altri Stati dell’Europa, dove presentare la domanda di asilo. Sono strutture di accoglienza chiuse, da cui non è possibile uscire fino al termine dell’iter previsto. E tra l’altro questa è una soluzione contemplata solo per i siriani e gli iracheni presenti in Grecia. Tutti gli altri - le cui domande di asilo sono state considerate inammissibili - verranno riportati in Turchia. Lo scopo prioritario del piano è quello di limitare ai soli richiedenti asilo l’accesso ai paesi europei, e di rifiutare le domande presentate da chi si muove per ragioni economiche, attraverso misure di contenimento, attuate dalla Turchia. E proprio per questo l’Ue ha stanziato dei fondi. Il pericolo che già si intravede riguarda le modalità che verranno utilizzate dalla Grecia e dalla Turchia per rispettare l’accordo. Per quanto concerne il rimpatrio forzato verso la Turchia dei richiedenti asilo la cui domanda è stata dichiarata inammissibile, c’è da augurarsi che esso avvenga solo in seguito a un esame individuale di quella stessa domanda. Se così non fosse, verrebbe violata la direttiva europea (2013/32/UE) sulle procedure. Quest’ultima prevede, inoltre, che la persona sia rimandata in un paese "di primo asilo" considerato "sicuro". In questo caso, è molto probabile che si incorra di nuovo in una violazione della direttiva appena citata. La Turchia, infatti, difficilmente si potrà considerare uno stato "sicuro" dal momento che da anni vengono messi in discussione sia il suo livello di sicurezza che il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Ragioni, queste ultime, che hanno impedito finora alla Turchia di entrare a far parte dell’Unione europea. Ma in definitiva il più che probabile fallimento del piano si misurerà attraverso la verifica dell’effetto deterrente che vorrebbe ottenere. Se l’Europa pensa di aver in questo modo risolto la questione dei migranti in arrivo nei suoi stati membri, si sbaglia di grosso: la volontà di superare i confini europei e raggiungere altri paesi in cui richiedere una protezione è troppo forte per essere anche solo arginata. E questa non è una novità: come insegna la storia umana e quella dell’irresistibile vocazione a mettersi in movimento, a lasciare il poco o il nulla che si possiede, e a cercare un altro posto sulla terra dove trovare una nuova opportunità di vita e di futuro. Amnesty denuncia: rimpatri illegali in Siria di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 2 aprile 2016 Incarcerati in campi di detenzione semi-segreti, costretti a firmare fogli in cui si dichiarano pronti al rimpatrio volontario nella stessa zona di guerra da dove stavano fuggendo e ora acciuffati e rispediti direttamente indietro, oltre quel permeabile confine, in massa. Amnesty International strappa il velo, di per sé molto sottile, che ammanta l’accordo tra Ue e Turchia sui profughi siriani. In base a quell’accordo i migranti che arrivano in Grecia illegalmente a partire da lunedì prossimo, domani l’altro, se non chiederanno asilo o se la loro richiesta è stata respinta potranno essere rispediti in Turchia, da dove sono venuti. Ma da lì rischiano di essere rimandati in Siria e comunque la Turchia non può essere considerato un "paese sicuro". Questo denuncia Amnesty a chiare parole. "Nella loro disperata ansia di sigillare i confini, i leader europei hanno deliberatamente ignorato il più semplice dei fatti: la Turchia non è un paese sicuro per i rifugiati siriani ed è sempre meno sicuro di giorno in giorno", ha detto John Dalhuisen, direttore di Amnesty per Europa e Asia centrale chiarendo che i rimpatri su larga scala di rifugiati siriani, vietati dal diritto internazionale, sono documentati. Centinaia di persone la cui storia di migrazione è stata ricostruita dall’ong, come punta di un iceberg di migliaia di storie simili. Alcune sono state accertate anche da un’inchiesta giornalistica pubblicata nel gennaio scorso dalla Bbc. È il caso di Ahmed, giovane siriano che invece di rischiare la vita su un gommone ha cercato di ottenere asilo legalmente in Europa attraversando la Turchia e si è ritrovato arrestato, picchiato e spedito in un campo di detenzione a due ore di auto da Istanbul, Tekirdag, dove non poteva comunicare con l’esterno. Un campo d’internamento per siriani e migranti come gli altri di Aydin e Erzurum che le autorità turche cercano di occultare. Così come negano di obbligare i siriani indesiderati o soprannumerari a firmare una dichiarazione in cui accettano di far ritorno in Siria, dietro la minaccia di internamento in quei campi. Il governo turco dopo le prime cento segnalazioni di Amnesty sui respingimenti oltreconfine di iracheni e siriani ha negato che la firma sul foglio del rimpatrio volontario venga richiesta con metodi coercitivi e ha parlato di controlli a cui vengono sottoposti solo individui con legami criminali. Ma la Bbc ha raccolto storie diverse. Racconti di siriani internati nei campi in Turchia che con stupore mentre non possono contattare i familiari, vengono localizzati e raggiunti da messaggi dei miliziani dell’Isis, come fossero segnalati dagli stessi che li hanno in custodia. Del resto anche l’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr, che pure è presente al confine tra Siria e Turchia e ha contatti continui con i rifugiati di qua e di là della frontiera, ancora ieri è tornata a chiedere garanzie prima che l’accordo Ue-Turchia entri in vigore. L’Unhcr "esorta le parti del recente accordo tra l’Unione europea e la Turchia affinché garantiscano che le misure di tutela necessarie siano attuate prima che i rimpatri abbiano inizio". L’Alto commissariato per i rifugiati chiarisce che "non si oppone al rimpatrio di persone che non hanno bisogni di protezione e che non hanno presentato richiesta di asilo, purché siano rispettati i diritti umani fondamentali". E che la Turchia non dia queste garanzie lo dicono ormai molti soggetti terzi. "Il principio di non respingimento è scritto nero su bianco nell’accordo ed è una linea rossa che vogliamo vedere rispettata", risponde la portavoce della Commissione europea, assicurando Unhcr e Amnesty in una verifica comune delle condizioni dei profughi a due giorni dall’entrata in vigore dei nuovi meccanismi di rimpatrio e accoglienza. Ma per il direttore di Amnesty Dalhuisen "la disumanità" dimostrata dalla Turchia è tale che l’accordo andrebbe soltanto sospeso immediatamente. Regeni: "Seguito dai servizi egiziani, c’è un dossier con foto e documenti" di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 2 aprile 2016 Investigatori italiani ed egiziani si incontreranno il 5 aprile a Roma. Intanto i magistrati hanno fatto richiesta per avere i tabulati telefonici di Giulio. In attesa del vertice tra gli investigatori italiani ed egiziani del 5 aprile a Roma, nuove notizie sulla morte di Giulio Regeni arrivano dal Cairo. Ma dopo le tante false piste e le palesi bugie circolate dal 25 gennaio in poi stavolta si tratterebbe di indiscrezioni positive. Il condizionale è obbligatorio trattandosi per ora di indiscrezioni di stampa, ma le anticipazioni vanno nel senso auspicato dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dal governo italiano. Le indiscrezioni del quotidiano Al Akbar - Il quotidiano Al Akbar scrive infatti che "una delegazione della sicurezza egiziana" consegnerà martedì alle autorità italiane "un esaustivo dossier" che conterrebbe anche i risultati di indagini compiute da apparati egiziani sui numerosi incontri dal giovane ricercatore friulano con ambulanti e sindacalisti al Cairo. È questa una delle piste, se non la più accreditata, per risalire ai torturatori e assassini del 28enne di Fiumicello. Non solo. Secondo il giornale, uno di più venduti in Egitto, nel dossier ci sarebbero "molti documenti e informazioni importanti" tra cui "foto" e "tutte le indagini su Regeni dal suo arrivo al Cairo fino alla sua scomparsa", ovvero "gli innumerevoli rapporti, i segreti dei suoi incontri con i lavoratori e i responsabili di alcuni sindacati sui quali conduceva ricerche e studi". La pista dei rapinatori e la richiesta dei tabulati telefonici - Quindi gli studi e gli spostamenti di Giulio, ma anche le sue frequentazioni. Scrive ancora Al Akbar: "Ci sono anche le deposizioni dettagliate dei suoi amici sugli spostamenti durante i suoi ultimi giorni al Cairo" e quelle "dei vicini dell’appartamento in cui viveva" nella capitale egiziana. Il giornale cita anche "informazioni importanti" del ministero degli Interni egiziano sulla banda di criminali uccisi al Cairo e che avevano rapinato "l’italiano David qualche mese fa". Quest’ultima è la pista lanciata la scorsa settimana dalla polizia egiziana e già bollata come "non idonea" dai magistrati italiani, che hanno fatto invece esplicita richiesta dei tabulati telefonici di Regeni e del report delle celle agganciate dal suo telefono nei giorni successivi alla scomparsa. Cosa che chiarirebbe con chi ha avuto contatti prima del rapimento e dove è stato portato in seguito nei giorni precedenti al suo ritrovamento quando era ormai cadavere. Gli effetti personali verranno riconsegnati - La delegazione egiziana, riporta ancora il quotidiano, consegnerà "gli effetti" personali di Regeni, tra cui il passaporto, il bancomat e la tessera universitaria, "ricomparsi" nel blitz dei giorni scorsi durante il quale sono stati uccisi i cinque membri della presunta banda di rapinatori poi accusati del delitto, salvo la marcia indietro imposta dalle proteste italiane. Giulio Regeni nel mirino del Cairo dal suo arrivo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 aprile 2016 Egitto. Indiscrezioni del quotidiano al-Akhbar sul dossier che gli egiziani consegneranno a Roma: i servizi segreti stavano indagando sulle ricerche di Regeni. La macchina della repressione colpisce tutto il paese: altri 96 attivisti condannati al carcere, Facebook bloccato. Giulio era seguito da tempo, su di lui gli occhi vigili e onnipresenti dei servizi segreti egiziani. A rivelarlo è il quotidiano egiziano Al-Akhbar che riporta un’anteprima del dossier che il 5 aprile Il Cairo ha promesso di condividere con il team investigativo italiano. Secondo fonti anonime della sicurezza, il dossier contiene "documenti e informazioni importanti, foto e indagini su Regeni dall’arrivo al Cairo fino alla scomparsa, gli innumerevoli rapporti, i segreti dei suoi incontri con i lavoratori e i responsabili dei sindacati su cui conduceva ricerche e studi". Per la prima volta, dunque, l’Egitto ammetterebbe quanto immaginato da tempo dalle opinioni pubbliche italiana e egiziana: il giovane ricercatore era nel mirino della pervasiva intelligence interna egiziana da tempo. Prove di tale interesse erano già emerse dalle testimonianze di amici di Giulio che, dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato dalle torture, avevano riportato delle visite di poliziotti nel suo appartamento nel quartiere di Dokki. Lo stesso Giulio, prima della sua scomparsa, aveva confidato di avere paura dopo aver notato di essere stato fotografato ad una riunione dei sindacati a dicembre. Il famoso dossier conterrebbe, quindi, anche i risultati delle indagini compiute dai servizi sugli incontri di Giulio con sindacalisti e attivisti egiziani e le deposizioni degli amici e dei vicini di casa. Il 5 aprile, aggiunge il quotidiano, saranno consegnati anche i suoi effetti personali, ritrovati - a quanto dice la polizia - nella casa di Tareq Abdel Fattah, il criminale accusato della sua morte. Non si sa invece se sarà presentato il traffico telefonico registrato nelle ore e nella zona della sua sparizione, più volte chiesto dagli inquirenti italiani. I pezzi del puzzle potrebbero così, almeno in parte, ricomporsi. Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da una serie di rivelazioni che dimostrano il coinvolgimento degli apparati statali. Prima le fonti citate da Cairo Portal, che parlano di una spaccatura all’interno del governo tra Ministero degli Esteri (propenso ad ammettere parzialmente la responsabilità governativa) e quello degli Interni (intenzionato a proseguire sulla via della negazione), poi l’intervista allo zio di uno dei membri della banda criminale al programma tv Dream: il nipote, ha detto l’uomo, è stato prelevato dalla sua casa prima di essere ritrovato crivellato di colpi in un minibus. E ora le rivelazioni di al-Akhbar. Difficile prevedere un’ammissione di colpa da parte dei vertici statali egiziani, che con maggiore probabilità potrebbero puntare a qualche pesce piccolo per soddisfare il governo alleato di Roma. Eppure, con i riflettori finalmente accesi sulle politiche repressive di un regime che da quasi tre anni stringe la morsa sull’Egitto post-rivoluzione, questo dovrebbe essere il momento per i governi europei e la stampa mainstream di denunciare le pratiche del generale golpista al-Sisi. Ma è improbabile che l’alleato di ferro venga messo in imbarazzo, visto il ruolo che si è ritagliato nel prossimo intervento militare occidentale in Libia, nella pantomima della guerra all’Isis e nel mercato sempre fruttuoso delle risorse energetiche. A tutelare Il Cairo pensa anche un altro Stato-canaglia, l’Arabia Saudita, che con il denaro tiene a galla la traballante economia interna: la prossima settimana re Salman volerà in Egitto per firmare l’accordo da 1,5 miliardi di dollari a favore di progetti di investimento nella Penisola del Sinai. A pagare il prezzo dell’impunità del Cairo è il popolo egiziano (e la Fratellanza Musulmana, acerrima nemica di Riyadh), che subisce una repressione senza precedenti anche per la dittatura trentennale di Hosni Mubarak. Ieri l’ennesimo caso: 96 attivisti sono stati condannati a 3 anni di prigione, in carceri di massima sicurezza, dalla corte penale di Zagazig. 72 sono accusati di "violenze e manifestazioni illegali" (dal novembre 2013 è vietato organizzare proteste senza previa autorizzazione governativa); 5 di aver dato alle fiamme la stazione di polizia di al-Qareen; 19 di possesso di volantini dei Fratelli Musulmani. Alla repressione nelle strade si aggiunge quella online: fonti anonime hanno rivelato che alla fine di dicembre l’Egitto ha bloccato il servizio gratuito di Facebook, Free Basics, dopo che la compagnia si era rifiutata di fornire le chiavi di accesso per spiare gli utenti. Dopo il lancio, ad ottobre, Free Basics aveva subito ottenuto un discreto successo (tre milioni di utenti nel paese) perché permetteva di usare l’account Facebook per accedere senza pagare a molti siti internet. Per i servizi segreti una ghiotta occasione di controllare i giovani egiziani, soprattutto delle classi più povere, che vedevano in Free Basics il modo di utilizzare la rete a costo zero. Manconi: "un complesso di inferiorità verso l’Egitto del tutto immotivato" Luca Liverani Avvenire, 2 aprile 2016 L’Italia mostra un complesso di inferiorità verso l’Egitto del tutto immotivato. Il senatore dem Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani, non si fa illusioni sui dossier in arrivo il 5 aprile. Nella gestione del caso Regeni l’Italia mostra un complesso di inferiorità verso l’Egitto del tutto immotivato. Secondo partner commerciale europeo, il nostro Paese potrebbe sconsigliare i viaggi turistici in una nazione in cui sparizioni e torture sono frequenti. Il senatore dem Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, non si fa troppe illusioni sui dossier in arrivo il 5 aprile. Cosa pensa delle anticipazioni del quotidiano Al-Akhbar? "Quanto anticipato non dice nulla di nuovo. Che Regeni avesse rapporti con alcune categorie di lavoratori è un dato: era la materia della sua ricerca. O si avranno conferme dettagliate o si tratterà del solito copione, tra il reticente e l’oltraggioso, tra l’ambiguo e il ridicolo". Regeni sarebbe stato nel mirino dei servizi sin dal suo arrivo in Egitto. Perché un ricercatore? "Un sistema paranoico di controllo e repressione come quello del regime egiziano può arrivare a concentrarsi su un ricercatore che, proprio in ragione della sua indipendenza e della sua curiosità scientifica e culturale, finisce con l’apparire come un nemico. O, peggio, un agente del nemico". La procura di Roma vuole altro: tutto quello finora raccolto dalla polizia egiziana. "Noi non sappiamo se le indagini siano state condotte con serietà e profondità, e c’è da dubitarne. Finora abbiamo avuto solo informazioni frammentarie e superficiali. La precondizione è avere tutto: tabulati, intercettazioni, traffico telefonico, video delle telecamere, interrogatori, perizie. E poi l’impegno a svolgere tutte le attività finora non realizzate. Il 5 aprile ci sarà un incontro tra polizie, ma teniamo conto che la magistratura italiana può fare poco o nulla all’interno di quel paese. Dunque, solo la più incondizionata collaborazione da parte della procura egiziana può consentire a quella italiana di svolgere un ruolo efficace". Il governo ripete che non si accontenterà di verità di comodo. È sufficiente? "I genitori di Giulio hanno detto che, in assenza di risposte adeguate si aspettano un’azione forte dal nostro governo, che finora è stato fin troppo prudente. Le pressioni a livello di relazioni bilaterali riservate, evidentemente sono state insufficienti. Si rischia di accettare una falsa alternativa: quella tra intangibilità degli interessi diplomatici, economici e commerciali e retorica dei diritti umani. Un paradigma che va rovesciato: la tutela dei diritti fondamentali è priorità tra le priorità, non l’ultimo punto dell’agenda delle relazioni tra due Stati". Il mancato rispetto dovrebbe mettere in forse le relazioni diplomatiche ed economiche? "L’Italia sembra avere un complesso di inferiorità. E invece, per una volta, ci troviamo in una posizione di forza. Siamo il secondo mercato europeo per i prodotti egiziani. E la questione del giacimento di gas Zohr interessa all’Egitto persino più di quanto interessi all’Italia. Se teniamo conto, poi, che nel 2014 il turismo ha rappresentato il 12,8% del Pil egiziano, l’ipotesi che la Farnesina indichi l’Egitto come "destinazione non sicura" potrebbe essere una preziosa risorsa per una legittima pressione. L’Italia con 600 mila partenze verso l’Egitto nel 2014 è stata terza in Europa, dopo Inghilterra e Germania. "Appunto, è sicuro un paese in cui Regeni viene ucciso in quel modo, le indagini sono condotte come sappiamo e nei soli primi tre mesi del 2016 sono state rapite 88 persone, 8 delle quali uccise?". Stati Uniti: C-Murder condannato all’ergastolo, un rap per la libertà Avvenire, 2 aprile 2016 "Liberatemi. Ho tre bambine da nutrire. Sono innocente. La giuria era corrotta...". È di questo tenore, con il tipico stile martellante dei rap, il contenuto di un video su YouTube, diffuso da Corey Miller, un rapper americano condannato all’ergastolo per avere ucciso un suo fan di 16 anni nel 2002, per chiedere la revisione del suo processo. Corey è rinchiuso in un penitenziario della Louisiana, ma da giorni gira online un suo video musicale, dal titolo "Dear Supreme Court/Under Pressure" (Cara Corte Suprema/Sotto pressione), in cui proclama la sua innocenza. Al di là dei contenuti del video, le autorità stanno cercando di capire se il 45enne abbia registrato la canzone proprio mentre era in prigione, cosa vietata dalla legge. Il nuovo brano di Miller, in arte C-Murder, farà parte dell’album "Penitentiary Chances", in uscita a metà mese. Il rapper, pur non volendosi sottoporre alla macchina della verità, ha affermato che tutto il materiale pubblicato dalla sua casa discografica è stato registrato prima di venire incarcerato. L’artista, ha precisato il suo manager Manuel Ortiz, ha registrato le parti vocali dell’album quando era agli arresti domiciliari alcuni anni fa. C-Murder era stato giudicato colpevole per la prima volta nel 2003 per l’uccisione di un adolescente durante una rissa in un nightclub poco fuori New Orleans. Successivamente, un giudice distrettuale aveva chiesto un nuovo processo sostenendo che i procuratori avevano nascosto informazioni riguardo i precedenti penali di un testimone. Ma C-Murder è stato condannato nuovamente nel 2009. Il rapper ha comunque già chiesto formalmente un nuovo processo. Nel video la parte di Miller viene recitata da un attore con un cappellino da baseball rosso; il set che rappresenta la sua cella.