A Rebibbia un convegno sull’informazione dietro le sbarre di Tiziana Barillà left.it, 29 aprile 2016 Il sole è ancora alto e il polline spadroneggia nell’aria. Cancello dopo cancello, arriviamo dentro l’istituto penitenziario. Il teatro della struttura è stato allestito per un convegno, nei corridoi incrociamo qualche detenuto, non scambiamo alcuna parola, non si può, ma i sorrisi quelli sì, si sprecano, tra le smorfie di curiosità e sorpresa nel vederci. Non facciamo nessuna foto, abbiamo lasciato il telefono all’ingresso, insieme agli altri oggetti personali. Tutto ciò che abbiamo sono un pass, un quaderno e una penna. Entriamo, nelle ultime file troviamo Marco, Federico, Luigi, Nicolò e gli altri delegati in rappresentanza della redazione del Giornale Radio di Rebibbia. Sono stati loro a "convocarci" qui, per questo incontro dal titolo "Libertà di parola. Il diritto delle persone detenute ad esprimere il proprio pensiero e ad essere informate". Si parla di carcere e informazione, del diritto dei detenuti a esprimersi e a essere informati. Da sei anni, insieme ad Antigone, una trentina di detenuti lavora a una trasmissione radiofonica, con un giornale radio settimanale che irrompe tra le note per raccontare la "vita detentiva". Marco prende la parola, rappresenta l’intera redazione coordinata da Giorgio Poidomani. "Quando sono tornato a Rebibbia, quattro anni fa, ho scoperto questa radio e ne ho subito preso parte", racconta Marco che ha indosso un cartello con su scritto: "Io sono Giulio", Giulio Regeni ovviamente. "Nonostante la Costituzione", riprende, "la maggioranza dei rei o degli inquisiti sono ancora oggi considerati dei reietti". Per questo il giornale radio raccoglie le esperienze di vita dei 1.700 uomini che scontano una pena tra queste quattro mura. "Lo facciamo per dare voce a quei ragazzi che sono chiusi in quelle celle". Federico ci saluta, ha una copia di Left in mano e ce la mostra sorridendo. All’interno di un carcere è possibile fruire di carta stampata, ma a pagamento "e non tutti se lo possono permettere", sottolinea ancora Marco che nel farlo prende in mano una copia del Messaggero in "formato cortesia", quello pensato ad hoc per gli istituti penitenziari. Cioè un formato ridotto. "Questo è l’unico quotidiano distribuito qui, vedete? Ha solo tre pagine. Niente sport, niente cultura… Di tanto in tanto arriva anche l’Avvenire che, si sa, è un giornale espressamente cattolico". Come può vivere o, addirittura reinserirsi un detenuto che non abbia la chiara idea di cosa accade lì fuori? Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono soprattutto gli stessi detenuti. "Il sistema dell’informazione è cambiato, non è più come negli anni 80 e 90, oggi le notizie le trovi sul web", analizza il rappresentante della redazione. "L’informazione su internet è più libera, più vasta, più aggiornata e, soprattutto, gratuita. Ci pensate agli stranieri che così potrebbero informarsi sui loro Paesi d’origine e abbattere ogni barriera linguistica?", chiede e si chiede Marco. Da sei anni, questi detenuti, provano a farla loro l’informazione, in entrata e in uscita. Marco mostra la pila di giornali che acquista ogni giorno. Leggono, Marco e i suoi colleghi, si informano. E informano gli altri detenuti senza censura, per il momento, sottolinea soddisfatto il redattore. "Anche se - ammette - c’è sempre un certo grado di autocensura, usiamo le parole meno forti… ci poniamo il problema". E lo ammette davanti alla platea intera, inclusi i vertici della Penitenziaria. Diritto a essere informati e diritto a esprimersi, diritti politici, religiosi, diritti che vanno mantenuti anche quando si è in uno stato di restrizione di libertà. Sono tanti gli argomenti in discussione, troppi, per discuterli tutti oggi. Serve un’informazione costante, corretta. Che non faccia sensazionalismo, che non si fermi - anche morbosamente - al racconto delle storie dei singoli. Ma che sia specchio della realtà, il più possibile. Anche quando questa realtà è complessa, come dentro un carcere. Poco prima di terminare la relazione, Marco riporta le parole del suo compagno Federico: "È l’opinione pubblica che deve cambiare l’idea che si è fatta sui detenuti". Carcere e media in Italia: rapporto difficile e Rai assente di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente IsICult) key4biz.it, 29 aprile 2016 Ieri nel carcere di Rebibbia il "Convegno sulla libertà di parola e il diritto dei detenuti ad essere informati" organizzato da Antigone. Assente la Rai, debole intervento del Presidente della Vigilanza Roberto Fico. Ieri mattina, in un luogo inevitabilmente… impenetrabile ai più, ovvero il carcere romano di Rebibbia e specificamente la Sala Teatro (che pure aveva ospitato il 18 e 19 aprile scorso gli "Stati Generali" promossi dal Ministero della Giustizia, di cui "Key4biz" ha scritto, si è tenuto un incontro seminariale di alto livello qualitativo e di seria capacità propositiva, promosso dall’eccellente associazione Antigone, che da oltre vent’anni si dedica in modo serio ed appassionato (e volontaristico) allo studio della dimensione carceraria italiana ed alla lotta per la tutela dei diritti ed il riscatto culturale e sociale delle persone detenute. Il "Convegno sulla libertà di parola e il diritto dei detenuti ad essere informati", patrocinato dal sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini (Usigrai) e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi), si è posto come "full immersion" (sei dense ore, senza pause di sorta) su tre tematiche correlate, come ha ben illustrato la Coordinatrice Nazionale di Antigone, Susanna Marietti: il racconto mediatico del carcere; il diritto delle persone detenute ad essere informati; il diritto delle persone detenute ad informare ed a esprimersi. Oltre un centinaio di persone (tra le quali molti giovani giornalisti, ma va segnalato che l’iniziativa produceva anche "crediti" per le procedure di aggiornamento professionale imposte dall’Ordine) hanno assistito ad un seminario di gran qualità, per impostazione tecnica e pluralità di approcci: è emersa una fotografia sconfortante, da diversi punti di vista, perché il rapporto del sistema penitenziario italiano con la dimensione informativo-mediale mostra dinamiche deprimenti, indegne di un Paese (che vorrebbe essere) civile. Si ricorda che, a fine marzo 2016, nelle 205 carceri italiane erano detenute 53.495 persone. Basti pensare che - fatte salve rare eccezioni - la popolazione detenuta ha accesso sì alla televisione, ma non ad internet: vengono addotte motivazioni di "sicurezza", allorquando le tecnologie attuali rendono possibile l’imposizione di filtri che potrebbero consentire alla polizia penitenziaria una vigilanza attiva nei flussi comunicazionali in entrata ed in uscita. Per chi non ha dimestichezza con la dimensione carceraria, basti poi ricordare che un detenuto italiano ha diritto ad 1 telefonata una a settimana, della durata massima di 10 minuti dieci, e previa verifica che la conversazione avvenga con un numero corrispondente ad un telefono fisso ben rintracciabile. Anche in caso di malattia grave di un parente, per esempio, si deve rispettare questo assurdo limite quantitativo. Soltanto in alcuni carceri più evoluti, come a Padova, le telefonate son divenute 2 a settimana, ed il limite è quindi cresciuto a 20 minuti a settimana. In taluni casi, è possibile utilizzare il web per inviare e ricevere email, ma incredibilmente ognuna di queste operazioni (invio e ricezione) viene fatta pagare al detenuto 0,50 euro… Con il suo abituale fare da polemista, Luca Telese (conduttore di "Matrix" su Canale 5 dal settembre 2013) è intervenuto a gamba tesa nel dibattito, sostenendo a chiare lettere che, prima di affrontare le tematiche "alte" (la libertà di informazione e di espressione nel carcere, ovvero l’uso di internet in carcere…), lo Stato italiano dovrebbe intervenire per eliminare queste incredibili pratiche "basse", che oscillano tra "il medioevale ed il folle", e si pongono come violazione dei diritti di libertà, che - per quanto limitati - anche un detenuto deve poter esercitare. Il convegno è stato aperto dai saluti del Direttore del Centro Circondariale "Rebibbia Nuovo Complesso" Mauro Mariani (dichiaratosi disponibile alla massima autocritica), ma va segnalato e lamentato che non è intervenuto nessuno in rappresentanza dell’amministrazione competente, ovvero il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria (il "Dap"), nonostante fosse annunciato il Capo Dipartimento Santi Consolo (autore di una controversa circolare del dicembre 2015 sull’uso di internet nelle carceri), e si attendesse comunque il Vice Capo del Dap Massimo De Pascalis (che è però dovuto correre in Sardegna per un’emergenza). Questa assenza preoccupa un po’, ma è stata almeno in parte compensata dall’intervento, serio finanche serioso per quanto fugace, del Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Capo Gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà fino al giugno 2014, passato quattro mesi dopo al Pd, Sottosegretario da fine gennaio 2016), che ha ribadito l’intenzione del Governo di mettere in atto una moderna revisione delle politiche di esecuzione della pena (si attende che il Parlamento approvi una legge-delega), ed ha rivendicato il carattere innovativo della consultazione da poco conclusasi (gli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale", appunto), che va proprio nella direzione di una "apertura" della dimensione carceraria verso la risocializzazione. Migliore ha sostenuto la necessità di usare la parola "detenuto" come aggettivo e non come sostantivo, e che anche gli operatori dell’informazione dovrebbero sempre utilizzare la formula "persona detenuta" (e non appunto "detenuto" soltanto), per enfatizzare che non si può ridurre l’umano in una interpretazione monodimensionale e transitoria (in effetti, il carcere è sì strumento di pena ed afflizione punitiva, ma dovrebbe essere anche di rigenerazione psico-morale, di riabilitazione culturale per un ritorno nella comunità sociale). Migliore ha ricordato come la Corte Costituzionale sia più volte intervenuta per affermare il diritto delle persone detenute ad essere informate. Il Sottosegretario si è soffermato sulle recenti polemiche intorno al caso di Doina Matei, la ventenne che nell’aprile 2007, nella metropolitana di Roma, ha duramente litigato con la coetanea Vanessa Russo, colpendola all’occhio con la punta di un ombrello, e determinandone la morte; la giustizia ha accertato che si è trattato di omicidio non volontario, ma preterintenzionale (cioè causato da un atto che non intende causare la morte, ma va oltre le intenzioni dell’omicida), e la Matei è stata condannata definitivamente a 16 anni di carcere; dopo quasi 9 anni scontati in prigione, grazie alla buona condotta, aveva da poco tempo ottenuto dal giudice una misura alternativa al carcere, per i quasi 8 che le restavano da scontare; la Matei ha però commesso l’errore di usare uno di questi permessi per andare a Venezia, e per fare un bagno al Lido, e per sorridere davanti a un obiettivo; le sue foto, postate su Facebook, sono state pubblicate da alcuni giornali, e subito i "social network" si sono riempiti di indignazione, con invocazioni forcaiole da parte di esponenti della destra giustizialista. Migliore ha sostenuto che queste dinamiche non depongono a favore di un modo serio ed equilibrato di fare informazione, e che la condannata Doina deve comunque però poter esercitare il "diritto a sorridere", libera di postare quel che meglio ritiene su un "social network" (è questione semmai di sensibilità, non afferente all’esecuzione della pena). In ogni caso, va segnalato che, dopo la polemica, Doina Matei è stata riportata in carcere, dato che il magistrato le ha sospeso la semilibertà… I lavori del convegno sono stati ben avviati dall’intervento accorato di un detenuto di Rebibbia, Marco Costantini, che lavora come redattore del "Giornale Radio dal Carcere Jailhouse Rock", messo in onda da Radio Popolare e promosso giustappunto da Antigone, che ha raccontato episodi di piccole ma comunque gravi vessazioni subite ad opera di guardie carcerarie (per esempio, egli acquista ogni giorno molti quotidiani, ma un poliziotto un giorno glieli ha buttati via, sostenendo che erano troppi ed ingombravano la cella, facendo riferimento ad un articolo del vetusto regolamento carcerario che consente limiti discrezionali), ed ha rivendicato il diritto ad un accesso più agevole all’informazione e quindi ai media (internet in primis), sia in entrata sia in uscita. Costantini ha segnalato come i quotidiani abbiano speso paginate intere sul caso del figlio di Riina intervistato da Vespa, e poche righe ad una notizia positiva, come la disponibilità di un centinaio di detenuti di Rebibbia a prestare lavori socialmente utili al Comune di Roma (come da recente accordo stipulato tra Dap e Roma Capitale nella persona del Prefetto Francesco Paolo Tronca). Il detenuto-giornalista (o giornalista-detenuto che sia) ha peraltro anche lamentato come oggi, a fronte di una popolazione carceraria di Rebibbia di ben 1.700 persone, fossero presenti in sala soltanto una sorta di "delegazione" di 40 detenuti soltanto (e pressoché nessuna detenuta di genere femminile). E certo il convegno non è stato reso accessibile con un sistema di televisione a circuito chiuso… Il giovane accademico Dario Ippolito (docente di Filosofia del Diritto, Università Roma Tre) ha definito il carcere, in Italia, un "ripostiglio di pene pre-moderne", un luogo di strumenti burocratici anacronistici, ed ha invocato la necessità di muoversi verso una nuova dimensione, "un carcere di diritto", che tuteli il detenuto dall’arbitrio potestativo (esercitato dal direttore del carcere o dalla guardia di turno). Si debbono quindi definire in modo netto e soprattutto tassativo i diritti / doveri della persona detenuta, senza affidarne la gestione alla discrezionalità soggettiva - ovvero, spesso, "al buon cuore"… - dell’autorità preposta (si debbono eliminare le cosiddette "pene in bianco"). Molto accurato l’intervento del professor Mauro Palma, da un paio di mesi Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà Personale (istituto che proprio ieri 27 aprile è stato presentato alla stampa ed ai media, purtroppo nel disinteresse dei più), che ha segnalato come quasi sempre il diritto segua la realtà, e quindi finisca per "arrancare" nel tentativo di regolarla. Non si deve quindi nutrire "eccessiva fiducia" nelle norme, che "tardivamente arrancano rispetto ai processi sociali". Ha ricordato che in Italia, fino al 1975, ai detenuti non fosse nemmeno concesso il diritto di parlare tra loro! Ha ribadito che l’utilizzazione di strumenti come Skype nelle comunicazioni tra i detenuti ed i familiari dovrebbe essere oggetto di concreta e diffusa applicazione, così come si debbono assolutamente promuovere pratiche di tele-medicina. In relazione ai media, Palma ha ricordato come siano ormai la cultura e le informazioni i "costruttori della realtà sociale", ed ha sostenuto che il sistema penitenziario italiano "non deve aver paura delle tecnologie". Criticando esplicitamente la "circolare Consolo" (la succitata del dicembre 2015, che intenderebbe regolare l’uso del web in carcere), ha sostenuto che essa è impostata proprio male: l’uso di internet in carcere (pur con tutti gli accorgimenti tecnici che prudenza detta) dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Meritano di essere citati gli interventi di Ornella Favero (Direttrice della rivista e della newsletter quotidiana "Ristretti Orizzonti", nonché Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia), che ha lamentato come gli "Stati Generali" promossi dal Ministero della Giustizia non abbiano previsto un "tavolo" di lavoro specificamente dedicato all’informazione ed ai media. Di fatto, l’odierna iniziativa di Antigone ha svolto una funzione di… supplenza. Favero si è soffermata sulle condizioni nelle quali sono costretti i 9.000 detenuti in regime di "alta sicurezza", in particolare quelli sottoposti al cosiddetto "articolo 41-bis": 1 colloquio uno al mese, di durata massima di 1 ora una, e contatti di non oltre 10 minuti con eventuali figli minori. Ha sostenuto Favero che "il tema della sicurezza è un colossale alibi", ed ha lamentato come il Dap non sostenga le iniziative di attivismo informativo e giornalistico nelle carceri, mostrando piuttosto maggiore sensibilità nei confronti delle pur importanti attività teatrali (che verosimilmente fanno più "colore", nel senso di notiziabilità positiva). Mattia Motta, in rappresentanza del Presidente della Fnsi Beppe Giulietti, ha segnalato come una testata giornalistica carceraria di Vicenza, "Sosta Forzata", sia stata costretta alla sospensione delle pubblicazioni, proprio a causa di quella "discrezionalità" dell’amministrazione penitenziaria da più voci denunciata per la sua eccessività (in assenza di norme chiare e regolamenti tassativi). Motta ha anche segnalato il ritardo che l’Italia mostra nella "regolazione" dei rapporti tra sistema dell’informazione ed "over-the-top", questione delicata quanto cruciale. Non è intervenuto il pur annunciato Presidente dell’Usigrai Vittorio Di Trapani, ma a nome del sindacato ha parlato Daniela De Robert (che è anche componente del Garante Nazionale), giornalista Rai, che ha segnalato la necessità di superare la abituale "reiterazione dei luoghi comuni" che caratterizza buona parte dell’informazione sul carcere, ed ha ricordato come una delle iniziative dell’Usigrai si intitoli proprio "illuminare le periferie", intendendo con "periferie" tutte le aree del sociale rispetto alle quali l’attenzione dei media è purtroppo assai limitata e spesso distorta dal sensazionalismo. Stefano Anastasia, Garante dei Diritti dei Detenuti dell’Umbria nonché Presidente Onorario di Antigone, ha anch’egli denunciato la gravità della "discrezionalità": la funzione ri-educatrice e rigenerativa della pena è subordinata alla valutazione soggettiva dell’operatore. Ha ricordato scherzosamente come in Italia siano ormai soltanto i detenuti, di fatto, ad utilizzare… carta e penna e francobolli, per comunicare! I lavori sono stati conclusi da Susanna Ripamonti (Direttrice della testata "Carte Bollate", e promotrice della "Carta di Milano" sui diritti dei detenuti, un codice deontologico approvato nel marzo del 2013), che si è soffermata in particolare sul confine incerto tra "diritto all’oblio" (del condannato che ha espiato la propria pena) e "diritto di cronaca" (del giornalista). Una giornata di lavori molto intensa, succosa, stimolante, peraltro caratterizzata dalla curiosa impossibilità di tutti i partecipanti ad utilizzare tecnologie telefonico-telematiche: tutti i cellulari sono stati infatti "sequestrati" all’ingresso e posti in buste sigillate e restituiti soltanto alla fuoriuscita dal carcere. Telese ha scherzato sul fatto che mai gli era capitato, nella sua vita personale e professionale, di restare isolato dal proprio "device" per sei ore di seguito… Quel che ci ha sorpreso, di tutto il convegno, è stata la sconsolante debolezza dell’intervento del Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, il grillino Roberto Fico: anzitutto, si è dichiarato emozionato perché non aveva mai, prima di oggi, avuto la ventura di entrare in un carcere, e già questo - a parer nostro, e non per emulare la sensibilità storica del Partito Radicale e dei suoi deputati (quando ne aveva) in materia - non depone esattamente a favore di un rappresentante dell’italico Parlamento, che pure dovrebbe interessarsi anche di quel circa 1 per cento della popolazione che è in qualche modo… "ristretta". Quel che ci ha impressionato è stata la sua moderatissima critica nei confronti della Rai, che pure resta il "convitato di pietra", ovvero il grande assente di questo convegno. Chi dovrebbe infatti promuovere un’informazione plurale e sensibile (anche) sulle tematiche carcerarie (e, più, in generale, rispetto a tutte le "minoranze"), se non il "public service broadcaster" in primis?! Perché la Rai continua a mostrare invece un’enorme disattenzione rispetto a tutto quel che è "sociale", dalle persone detenute agli immigrati passando per i diversamente abili, senza dimenticare le minoranze religiose e di gender?! Perché l’infinita ricchezza del patrimonio sociale nazionale non è oggetto da parte di Viale Mazzini di adeguata attenzione, se non in rare occasioni e trasmissioni spesso emarginate (ci limitiamo a citare il caso sintomatico di un programma ben curato ed impegnato come "Crash - Contatto Impatto Convivenza" di Valeria Coiante, relegato nelle lande televisive periferiche di Rai Storia e quindi destinato a nanoshare)?! Fico ha ricondotto tutto nell’economia capitalistica di una mercificazione globale del sistema dell’informazione, ed ha sostenuto - giustamente, ma con eccessiva delicatezza (anche considerando il ruolo istituzionale che gli è stato affidato ed il potere che potrebbe esercitare) - che Rai dovrebbe differenziarsi rispetto all’informazione "commerciale". Oh, perbacco! Presidente Fico, da cittadini, ci consenta: ancora una volta (vedi "Key4biz" del 9 gennaio 2015, "Il mistero del ‘contratto di serviziò che Mise e Rai ‘si rifiutano di firmarè (Fico dixit)"), la invitiamo simpaticamente a dimettersi dalla presidenza della Commissione, o, almeno, ad incatenarsi davanti ai cancelli di Viale Mazzini, anche alla luce dei risultati (fallimento totale) delle commendevoli battaglie da lei condotte per il famoso (ormai ridicolo) "contratto di servizio" Rai, che la Commissione da lei presieduta ha approvato nel maggio del 2014 (due anni fa!!!), e che è stato completamente ignorato da Stato e Viale Mazzini… Non resta da augurarsi che eco del convegno odierno giunga anche alle orecchie dell’Amministratore Delegato Rai, Antonio Campo Dall’Orto, e possa stimolare in lui una riflessione sulla dimensione sociale dell’"azienda" Rai, che deve sì divenire "media company" competitiva, ma anche sviluppare al meglio l’anima giustappunto "sociale" della propria missione di servizio pubblico. Osserviamo purtroppo che, finora, è stata prestata tanta attenzione rispetto alla prima dimensione, e poca assai rispetto alla seconda. Stati Generali: consultazione riuscita, ma poco spazio a cultura e media di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente IsICult) key4biz.it, 29 aprile 2016 Lunedì 18 e martedì 19 aprile, le porte del carcere romano di Rebibbia si sono aperte alla "società civile", ed il grigio auditorium dell’istituto penitenziario ha accolto oltre trecento persone, con un "parterre de roi": dal Ministro Andrea Orlando al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Cardinal Angelo Bagnasco, dalla Commissaria Europea per la Giustizia Vera Jourová al Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, tutti attivi partecipanti delle giornate conclusive degli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale", avviati un anno fa. La prima sessione del dibattito (nel pomeriggio di lunedì 18) ha registrato anche la presenza (silente) del Presidente Sergio Mattarella. Circa 700 persone (detenuti inclusi) hanno potuto seguire i lavori grazie al maxi-schermo allestito nella chiesa del carcere. Il Ministero ha garantito la diretta in streaming degli Stati Generali. L’iniziativa ha registrato una buona rassegna stampa, e complessivamente si è registrato un diffuso apprezzamento per la due giorni di riflessione teorico-pratica: molte ore dense di riflessioni (spesso iperspecialistiche), tutte concentrate sul tentativo di abbattere i "muri" che separano storicamente il carcere dalla società. Da segnalare - e lamentare - una forte prevalenza di magistrati e giuristi, a fronte di un approccio che vorrebbe invece essere sociologico-culturologico, di apertura in ottica multidimensionale e multidisciplinare. Non è certo bastato l’intervento eterodosso di un’attrice del calibro di Valeria Golino per comprendere al meglio la funzione catartica che la cultura può svolgere (anche) nell’habitat carcerario. In effetti, nessuno degli interventi si è concentrato sulla funzione rigenerativa che la cultura può / deve svolgere all’interno del carcere, e non ci è parso ben focalizzato nemmeno l’intervento della Presidente della Rai Monica Maggioni (peraltro costretta a parlare alla conclusione della prima giornata dei lavori, a tarda ora - oltre le 20 - con un uditorio decimato, ovviamente stremato), che ha fatto riferimento soprattutto alla propria esperienza giornalistica (dalla Nigeria a Guantanamo), ma poche parole ha speso sulla rappresentazione Rai (e, più in generale, del sistema mediale italiano) della dimensione carceraria. Eppure ci sarebbe molto, e di problematico, da analizzare su come i media italiani trattano la dimensione carceraria e, più in generale, il sistema della giustizia, tematiche delicate spesso affrontate con logiche di allarmismo emergenziale, di semplificazioni giustizialiste, di populismo securitario. Come abbiamo già scritto su queste colonne una delle caratteristiche del Governo a guida Matteo Renzi è la volontà di "deliberare" alla luce di una conoscenza delle istanze dei settori sui quali si interviene, attraverso lo strumento della consultazione "dal basso": questo spirito è in sé apprezzabile metodologicamente, anche se spesso le migliori intenzioni sono contraddette da procedure operative che si rivelano deficitarie, fallaci, erratiche. Più che una autentica logica "bottom-up", sembra che venga messa in scena una rappresentazione mediatica della stessa. Come dire?! La "consultazione renziana" sembra in qualche modo un’evoluzione mediologica del "sondaggismo berlusconiano" (alla fin fine sempre all’interno di una logica da "politica spettacolo"). Gli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale" rappresentano un’operazione consultiva di approccio diverso: non grandiosi (a livello dimensionale e di interazione con la cittadinanza) come la consultazione della "Buona Scuola", ma strutturati certamente meglio rispetto alla consultazione "CambieRai" (il Ministero della Giustizia ha promosso un dibattito approfondito tra gli esperti coinvolti, arricchito da numerose audizioni durate alcuni mesi). La kermesse di ieri e l’altro ieri ha cercato di proporre una qualche sintesi dei mesi di lavoro di 18 "tavoli tematici", formati da oltre 200 persone (accademici, giuristi, magistrati, architetti, sociologi, medici, sportivi, educatori, dirigenti penitenziari e poliziotti, psicologi, politici…), che hanno anche promosso audizioni con altre centinaia di operatori del settore ed esperti. Ogni "tavolo" ha prodotto un corposo rapporto finale. Dal 12 febbraio al 12 marzo 2016, è stato anche possibile inviare commenti (l’Ufficio Stampa del Ministero, nonostante le nostre reiterate istanze, non ha fornito un dato quantitativo sui flussi di feedback: quanti cittadini hanno espresso il proprio parere?! non è dato sapere…). Il Professor Glauco Giostra (accademico di lungo corso e già membro del Csm) ha coordinato i lavori degli "Stati Generali", nella veste di Presidente del Comitato Scientifico. È stata distribuita ai partecipanti una pen-drive con tutti i documenti (centinaia di file, considerando anche gli allegati) ed è stato presentato un "Documento finale" di un centinaio di pagine. Tutta questa documentazione è disponibile online, nella apposita sezione del sito web del Ministero dedicata agli Stati Generali. Certamente assai apprezzabile questa pubblicità e disseminazione dei materiali di lavoro. Superata l’emergenza del sovraffollamento (i detenuti in Italia sono attualmente 53mila - di cui un 30 per cento è straniero - a fronte dei 68mila di fine 2010, e l’Italia non è più nella "black list" della Corte Europea dei Diritti Umani), il Ministro Orlando ha voluto promuovere un ripensamento sull’istituzione "carcere". Si ricordi che la dimensione carceraria costa all’italico Stato ben 3miliardi di euro l’anno, con un tasso di recidiva tra i peggiori d’Europa (circa il 56 per cento). Il Guardasigilli, nella sua relazione, s’è dichiarato impressionato da una scritta che ha trovato spesso nei graffiti sulle mura delle carceri: "Il carcere è un ozio senza riposo, dove le cose facili sono rese difficili da cose inutili". Orlando ha auspicato una riforma del sistema delle pene (serve una "nuova idea di pena"), sostenendo che "il carcere più sicuro è oltre le celle". Si deve ragionare su "un nuovo modello di esecuzione penale per superare lo stigma del carcere". Le statistiche dimostrano che chi svolge attività culturali (e comunque lavorative) in carcere ha un tasso di recidiva assai basso, così come chi è sottoposto a misure alternative rispetto al carcere. In sostanza, il "carcere" è una istituzione che, se resta chiusa nella propria autoreferenzialità, ri-produce se stessa. Il lavorio degli Stati Generali dovrebbe fornire un contributo concreto anche alla messa a punto della "delega" che il Parlamento ha affidato al Governo, in materia di riforma della giustizia, attualmente all’esame del Senato. Complessivamente, gli interventi a Rebibbia son stati "positivi", nel senso che tutti hanno manifestato plauso nei confronti del Ministro Orlando e dell’iniziativa degli Stati Generali. In casi come questo, l’assenza di voci fuori dal coro preoccupa sempre un po’. Sarebbe stato stimolante ascoltare, per esempio, la voce di un’associazione indipendente e pugnace che funge da osservatore critico del sistema delle carceri italiane, qual è Antigone (che proprio pochi giorni fa ha presentato la XII edizione del proprio rapporto annuale). Qualche cenno discretamente critico nelle parole del giovane ed appassionato Francesco Cascini, capo del nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, che ha lamentato il deficit di risorse, a fronte di impegni crescenti in materia di "esecuzione penale esterna" (son state gestite nel 2015 ben 41mila misure, a fronte delle 26mila nel 2011, implementate dalle norme su messa alla prova e lavoro di pubblica utilità), dinamica che sta spostando la sanzione penale dal carcere verso la comunità. Molto ci si attende anche dall’eccellente Mauro Palma (accademico ed esperto di livello, tra l’altro Membro per l’Italia del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti), nominato qualche settimana fa Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale, e ci si deve augurare che quest’istituzione venga dotata delle risorse adeguate. Quel che in verità più ci ha impressionato è stata la relazione letta dal Presidente della Cei, il Cardinal Bagnasco (che è anche Arcivescovo di Genova): come dire?! Non ha affrontato paradossalmente la questione centrale - il carcere - ma ha proposto una raffinata lettura critica della giustizia umana nella dimensione del sociale, interrogandosi su cosa sia il "bene comune". Ci hanno colpito le sue parole: "Non sempre è stata la coscienza collettiva una coscienza sana. Quando la cultura alimenta miti, esigenze, simboli vuoti, mode, nasce una società sotto il segno della menzogna, che induce comportamenti tragicamente coerenti con una bolla di fantasmi". Centrale appare il concetto di "cultura", giustappunto. Critica ben severa nei confronti dell’immaginario prodotto dal capitalismo (vecchio e contemporaneo), in perfetta sintonia con le tesi di Papa Francesco. Avremmo molto apprezzato, se un esponente dello Stato italiano avesse manifestato un’interpretazione critica altrettanto alta e sensibile. Grande assente, anche se evocato da molti intervenuti, Marco Pannella: notoriamente le sue condizioni di salute sono gravi, ma ci domandiamo se sarebbe stato effettivamente invitato ad intervenire agli Stati Generali se fosse stato bene… E naturale sorge il quesito: la Rai non ha forse una sua grave responsabilità, in questa riproduzione di un immaginario consumistico e materialistico, prevalentemente conformista banale stereotipato, lontano anni-luce da una dimensione spirituale - semplicemente umana - dell’esistenza? Da segnalare infine il divertente ed acuto contributo che il Ministro Andrea Orlando ha chiesto al noto regista ed attore pugliese Checco Zalone, che ha già registrato un buon successo su web. Santi Consolo (Dap) audito al Copasir: 354 i radicalizzati islamici in carcere Askanews, 29 aprile 2016 Restano preoccupazioni malgrado miglioramenti nei penitenziari. Sono in tutto 354 le persone detenute nelle carceri italiane coinvolte, a vario titolo, in processi di radicalizzazione. Il dato è stato fornito oggi dalla direttore del Dap, Santi Consolo nel corso di una audizione presso il Copasir. Malgrado i miglioramenti delle condizioni complessive di vita nei penitenziari italiani, da quanto si apprende, il direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria avrebbe confermato però la "preoccupazione" legata a possibili rischi di radicalizzazione nei nostri carceri per i detenuti di fede islamica. Una situazione, comunque, sotto controllo anche perché il nostro paese ha il vantaggio di aver affrontato questo difficile tema con anticipo rispetto ad altre nazioni, usando vari approcci che sono andati dal monitoraggio dei segnali di rischio fino a quello investigativo e preventivo. Con una circolazione di informazioni che, negli anni, sono sempre giunte puntuali agli organi inquirenti. In questo momento nelle carceri italiane vi sarebbero circa 18 mila stranieri dei quali 11mila provenienti da paesi di religione islamica. Di questi sarebbero, invece, 7-8 mila i praticanti islamici. La società della paura genera il diritto della paura di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 29 aprile 2016 Stiamo attraversando la fase della società circolare basata sui flussi: flussi finanziari, tecnologici, migratori. Il risultato è una società liquida, nella quale "la sensazione che si ha è che questi flussi ci sovrastino ed è quindi abbastanza comprensibile l’insorgere di paure collettive". Così il sociologo Aldo Bonomi nella bella intervista realizzata da Daniel Rustici e pubblicata su Il Dubbio dì mercoledì 27 aprile. L’intervista prosegue, poi, dando conto di come operano i meccanismi della paura sul piano sociologico. È un tema, quello della società dominata dalla paura, che merita di essere considerato anche da un altro punto di vista: quello del diritto. La società della paura genera un diritto della paura, caratterizzato soprattutto dalla prevaricazione delle libertà civili e dei diritti fondamentali. Il tema è stato, tra l’altro, oggetto di un bel saggio di Cass R. Sunstein già professore ad Harvard (Il diritto della paura, trad. it., Il Mulino, 2005). Vi è l’agire combinato di due fattori. Da un lato la paura collettiva finisce con il mettere a fuoco lo scenario peggiore, anche quando le probabilità del suo verificarsi siano assolutamente minime o addirittura inesistenti. Il risultato è che l’effetto paura si estremizza nel sentire individuale e collettivo. Dall’altro, la causa del pericolo e della conseguente paura è identificata in sottogruppi sociali (quali possono essere oggi i migranti) con una bassa capacità di reazione e di aggregazione del consenso. Il risultato, sul piano del diritto, è una aggressione radicale alle libertà civili e ai diritti fondamentali di questi gruppi, che non solo non trova ostacoli nel sentire generalizzato, ma che addirittura ne riceve il sostegno ed il progressivo incentivo. La società della paura, dunque, porta ad un diritto segnato da un cattivo bilanciamento tra esigenze di sicurezza e tutela delle libertà civili e dei diritti fondamentali, in quanto è portata a vedere come assolutamente legittima una radicale intrusione nelle libertà civili e nei diritti fondamentali in funzione di una pretesa maggiore sicurezza. Se le limitazioni alla libertà sono concepite come applicabili a tutti e comunque alla maggior parte delle persone, in una democrazia sono comunque operanti delle salvaguardie di tipo politico, connesse alle esigenze di consenso, che possono operare da contrappeso ed evitare che si superino i limiti della ragionevolezza. Quando, invece, le limitazioni alle libertà e ai diritti fondamentali riguardano solo alcuni o solo pochi, i contrappesi vengono a mancare anche nei sistemi democratici ed il rischio, concreto, è di un imbarbarimento legislativo assolutamente lontano dai principi di una civiltà giuridica matura e democratica. Le affermazioni che precedono hanno un puntuale riscontro nell’ambito del diritto penale. Questo viene, sempre di più, ad essere visto come uno strumento per combattere il nemico nel quadro di un sistema formalmente legittimo. È così che nasce il cosiddetto diritto penale del nemico. Si individuano le caratteristiche del sottogruppo sociale ritenuto causa del pericolo e su cui si appunta la paura collettiva e quelle caratteristiche sono utilizzate per delineare i tratti di un reato. In questo modo appartenenza al sottogruppo che spaventa ed assunzione di responsabilità penale vengono a coincidere. Emblematica di questo modo di procedere è stata la legge italiana sul reato di clandestinità. Il clandestino è criminale in quanto clandestino: i tratti sociali della figura integrano automaticamente gli elementi costitutivi del reato. Attraverso il diritto penale del nemico è operata, nel quadro di una legittimità solo formale e perciò solo apparente, una distinzione tra la maggioranza dei cittadini, assoggettata al diritto penale comune, ed il sottogruppo ritenuto pericoloso, assoggettato ad un diritto penale speciale, scritto appositamente per quel sottogruppo. A questa prima tendenza, il diritto della paura ne aggiunge un’altra. La paura collettiva è utilizzata per ostacolare il cammino verso un diritto penale mite, orientato alla risocializzazione e restio ad infliggere pene detentive se non nei casi di assoluta necessità. Si determina, al contrario, una tendenza volta da un lato ad inasprire le pene e, dall’altro, ad anticipare la soglia della punibilità, colpendo il pericolo anche quando è solo astratto e meramente ipotetico. È una prospettiva che, in nome di una emergenzialità permanente, nega alle radici la visione di uno stato autenticamente democratico, e perciò rispettoso dei diritti fondamentali di tutti, privilegiando una tendenza autoritaria ed antidemocratica. Ne deriva un diritto penale della sicurezza, articolato sempre di più con una accentuazione del momento preventivo e repressivo e che sfocia inevitabilmente nella costruzione di uno stato di sorveglianza, che trova la propria ragion d’essere in una punizione esemplare del suddito, che possa placare le ansie della collettività. Ha ragione, quindi, Bonomi quando afferma che "la paura è una risposta alla crisi, ma noi dobbiamo sconfiggerla". Se la nostra società non riuscirà a sconfiggere la paura il risultato sarà il precipitare irreversibile in un imbarbarimento del sistema giuridico, e di quello penale in modo particolare, che farà regredire (ed in parte ha già fatto regredire) l’ordinamento ad epoche che consideravamo ormai alle nostre spalle. Appello al ritorno dei garantisti di Arturo Diaconale L’Opinione, 29 aprile 2016 Ciò che colpisce della levata di scudi dei magistrati di ogni genere e grado non è la compattezza con cui chiedono che la legislazione emergenziale antimafia venga estesa a tutti i reati riguardanti la vita pubblica per combattere più efficacemente i fenomeni di corruzione. E neppure l’insistenza con cui l’intera categoria, in linea subordinata, insiste nella richiesta di allungare i tempi della prescrizione per consentire di perseguire senza limiti temporali i reati che vengono commessi nelle sfere della politica e della Pubblica amministrazione. A stupire ed a preoccupare è la totale assenza di una qualche voce dissonante da un coro così massiccio ed assordante. Nessuno si azzarda a denunciare il rischio che l’estensione ad ogni aspetto della vita pubblica della legislazione antimafia figlia della legislazione antiterrorismo possa provocare una deriva autoritaria nel Paese. Nessuno aggiunge che l’allungamento dei tempi di prescrizione comporta il pericolo di processi senza fine destinati non a colpire i responsabili della corruzione, ma a far crescere la sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti di una giustizia incapace di dare certezze. Nessuno, infine, tenta di spiegare che la corruzione non è affatto connaturata con la storia dello Stato unitario come sostiene il Procuratore Scarpinato, ma è la figlia di uno Stato che più aumenta le sue strutture burocratiche più diventa matrice di ogni tipo di illegalità e di malaffare. Certo, non mancano i singoli garantisti che combattono battaglie personali. Ma rappresentano delle eccezioni individuali che non hanno riscontro e rappresentanza sul terreno politico e parlamentare. In passato c’erano almeno i radicali che si battevano contro il giustizialismo corporativo dei magistrati e la passività di una classe politica costretta dalle sue responsabilità ad essere prona ai procuratori ed ai giudici. Ma adesso anche loro sembrano aver ammainato la bandiera del garantismo in attesa di capire quale potrà essere il loro spazio politico senza la carica vitale di Marco Pannella. Questo vuoto politico va necessariamente riempito. Perché la richiesta che viene dalla parte più raziocinante della società italiana non è per un aumento incontrollato della repressione ma per una giustizia giusta al servizio del cittadino. E, soprattutto, non è per la moltiplicazione all’infinito di norme e pene più severe ma per una eliminazione progressiva delle cause che provocano l’illegalità, la corruzione e la criminalità organizzata. Compito che non spetta alla magistratura, ma alla società politica e civile. Serve, allora, che chi crede nello stato di diritto e nelle garanzie dei cittadini esca dal proprio torpore ed in nome dei valori liberali e civici ritrovi al più presto una forma ed un peso politico adeguati. La via giudiziaria alla pubblica virtù è sempre lastricata non solo di ingiustizie ma anche di fallimenti. Consulta: le sentenze che hanno cambiato l’Italia di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 aprile 2016 La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi: dallo sciopero politico alla fecondazione eterologa, dai crimini contro l’umanità al ruolo del volontariato. 1) La "numero 1" fu sullo sciopero politico. Due operai tessili di Prato, Enzo Catania e Sergio Masi, si prestarono a distribuire volantini a pioggia pur sapendo che sarebbero stati arrestati, e Antonino Caponnetto, pretore alle prime armi, scrisse l’istanza di remissione alla Corte della legge fascista che proibiva la protesta per motivi politici. A difendere i due Vezio Crisafulli, Giuliano Vassalli e Massimo Severo Giannini. Il 23 aprile del 1956 la Corte sancì l’illegittimità di quel divieto. Da allora la Consulta ha accompagnato la vita degli italiani. E giovedì, in linea con la "maggiore attenzione rivolta all’esterno" voluta dal presidente Paolo Grossi, ha festeggiato i suoi 60 anni di sentenze in un confronto con la presidente Rai, Monica Maggioni, i direttori Luciano Fontana (Corriere), Mario Calabresi (Repubblica) e Alessandro Barbano (Mattino). Concluso da un excursus appassionante del costituzionalista Maurizio Fioravanti, sulle pronunce che più hanno segnato il nostro tempo. A costo di correggersi, come fu per l’adulterio. Nel 1961 la corte ritenne legittima la differenziazione tra uomo e donna (punita con la reclusione). Nel 1969 richiamò il principio di eguaglianza. Una presenza, quella della Consulta, che ha contribuito alla crescita della nostra democrazia senza valicarne i limiti. "Ogni volta che una questione arriva alla nostra attenzione, ci chiediamo dove possiamo arrivare noi e dove possa arrivare il Parlamento", ha evidenziato il giudice Giuliano Amato. Un limite ben chiaro nei rapporti con la politica: "Noi possiamo scegliere se la soluzione è a rime obbligate - ha aggiunto Amato. Se invece ci possono essere più soluzioni, allora deve trovarla il Parlamento". Non serve maggiore trasparenza? Magari - hanno chiesto i direttori - anche sulle opinioni dissenzienti? "In passato ero a favore - ha concluso Amato. Poi mi sono reso conto che la dissenting opinion può indurre un giudice a fare la "prima donna". 2) I crimini contro l’umanità - "Una sentenza coraggiosa che sta cambiando la sensibilità internazionale su un punto: la tutela delle persone vince contro il formalismo del diritto internazionale". Marco De Paolis, ora procuratore militare di Roma, nel 2006 condannò la Germania a risarcire i danni di guerra ai deportati di Auschwitz. La Cassazione confermò. E la Corte Costituzionale con la sentenza n. 238 del 2014 ha avallato quel principio, malgrado il parere opposto della Corte dell’Aja. Ma cosa è cambiato? "Molto - spiega De Paolis - anche se sul piano pratico siamo in una fase di stallo, c’è l’affermazione che i crimini contro l’umanità sono talmente gravi che superano il principio dell’immunità degli Stati di fronte alla giurisdizione degli altri Stati. Ciò sta modificando i principi del diritto internazionale". 3) Le scelte politiche - "La prima volta che esercitai il diritto di sciopero politico era il 14 luglio del 1948: il giorno in cui spararono a Togliatti. Finii in prigione, seppure solo per otto giorni". Luciana Castellina ha sperimentato in cella l’assenza di quel diritto che la Consulta affermò con la sentenza n. 290 del 1974. Che dichiarava illegittima la norma del codice penale che puniva le proteste non per fini economici. "La democrazia non è soltanto garanzia dei diritti individuali, ma anche, e soprattutto, il diritto a partecipare alle determinazioni delle scelte politiche. Un diritto che si sta via via esaurendo". "Anzi - conclude - penso che l’Europa sia così antidemocratica proprio perché non è ancora passato questo principio. Non è riconosciuto lo sciopero politico europeo". 4) Le coppie formate all’estero - "Certo, noi chiedevamo di estendere il matrimonio ai gay, e non l’abbiamo ottenuto. Ma la sentenza 138 del 2010 ha davvero fatto da spartiacque, perché incorpora un cambiamento giuridico e sociale che non è solo italiano, ma internazionale". Antonio Rotelli, 41 anni, avvocato, è tra i fondatori dell’Arcigay. E cita molte cose, "anche pratiche", cambiate dopo quella pronuncia. "Fatico molto meno a difendere i nostri assistiti. Uno ha potuto avere le ceneri del compagno con cui aveva vissuto trent’anni ma che gli erano state negate. Molti, sposati all’estero, hanno ottenuto la carta di soggiorno. È stato stabilito in maniera chiara che le coppie dello stesso sesso hanno una rilevanza sociale e sono garantite ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione". 5) Il ruolo del volontariato - "Senza i nostri 1.800 volontari non saremmo in grado di essere una Fondazione a livello nazionale che tutela l’identità e il patrimonio artistico-culturale del nostro Paese" dice Paola Giuliani, 50 anni, di Cassano d’Adda, provincia di Milano. Ne è talmente convinta, che coordina la rete volontari del Fai (Fondo ambiente italiano) da sette anni. "Il ruolo riconosciuto ai volontari anche dalla Consulta con sentenza 65 del 1992, è stato importantissimo: i volontari rappresentano l’impegno civile della società e hanno un ruolo spesso sussidiario delle istituzioni. Vedere come nel Fai i giovani si integrano e collaborano con quelli che invece hanno trent’anni di esperienza mi dimostra ogni giorno che è attraverso il volontariato che cresce la società civile. Gli italiani attivi nascono così" 6) I bisogni primari - Un mal di testa cronico, terribile, che le impediva persino di alzarsi dal letto. Così un giorno Martha Banegas si è decisa ad andare al Policlinico Umberto I di Roma, la città dove vive come un fantasma da sei anni. "Sono dell’Honduras, ho sempre lavorato ma non sono mai riuscita ad avere un permesso di soggiorno. In ospedale non mi hanno cacciato: avevo un tesserino provvisorio e mi hanno curato. Ora ci torno ogni tre mesi per fare delle punture e sto guarendo". Questo grazie alla sentenza 230 del 2015 che stabilisce che i bisogni primari vadano garantiti a tutti, anche in assenza di una "carta di soggiorno". Martha ha 36 anni, non ha figli, vive con una cugina in un appartamento in affitto, e lavora come colf in tante case: "Nessuno mi ha mai chiesto documenti per curarmi. Qui sto bene". 7) La fecondazione eterologa - Maria Cristina Paoloni ha 37 anni e sta insieme ad Armando da 22 anni. Ma forse solo quest’anno potrà finalmente realizzare il sogno di avere un figlio con lui. "E grazie a ben due sentenze della Corte costituzionale". Maria Cristina è infatti portatrice sana di una malattia genetica, la distrofia muscolare di Becker, e con la legge 40 rischiava di dover portare in grembo più embrioni, anche malati, senza poter intervenire. "Ho il 50% di possibilità di generare un figlio malato. La prima volta ho provato naturalmente, e infatti il bimbo era malato e ho dovuto abortire. È stato dolorosissimo, ho capito che l’unica strada era l’eterologa". Ma dopo la sentenza del 2009 c’era ancora il divieto di diagnosi preimpianto. "C’è voluta la sentenza del 2015 per intraprendere un nuovo primo passo". "Ho il 50% di possibilità di generare un figlio malato. La prima volta ho provato naturalmente, e infatti il bimbo era malato e ho dovuto abortire. È stato dolorosissimo, ho capito che l’unica strada era l’eterologa". Ma dopo la sentenza del 2009 c’era ancora il divieto di diagnosi preimpianto. "C’è voluta la sentenza del 2015 per intraprendere un nuovo primo passo". Politica e giustizia, quel pericoloso déjà-vu di Marco Damilano L’Espresso, 29 aprile 2016 Politici contro magistrati, inchieste, ministri dimissionari, consiglieri regionali accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, il partito di maggioranza nella bufera. In pochi giorni il sistema politico sembra tornato indietro di decenni. Nel breve periodo che va dal discorso di Matteo Renzi al Senato contro "le pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo" negli ultimi venticinque anni fino all’indagine di Santa Maria Capua Vetere che vede coinvolto il presidente del Pd campano Stefano Graziano. In mezzo, c’è stata la clamorosa intervista al presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo sui "politici che continuano a rubare, ma hanno smesso di vergognarsi". Toni e argomenti di altre stagioni. Con qualche cambio di ruolo: chi ieri applaudiva Davigo oggi l’ha criticato, e viceversa. Quando l’allora pm del pool Mani Pulite il 27 settembre 1994 tuonò contro i corrotti e spiegò che l’Italia andava rivoltata "come un calzino" fu linciato dal governo dell’epoca, il primo di Silvio Berlusconi, ma nessuno ricorda che quella memorabile invettiva fu lanciata a Roma, nel residence Ripetta, a un convegno di "Micromega" di fronte allo stato maggiore del nascente centro-sinistra: Romano Prodi, Massimo D’Alema, Walter Veltroni. "Le parole di Davigo sono state accolte dagli applausi", testimonia l’Ansa. Davigo in questi anni è rimasto nel suo ruolo di giudice, lontano dalla politica: non ha fatto il ministro, non è entrato in Parlamento, non si è candidato a premier, ha coltivato un profilo distante da quello della toga rossa o militante, coerente con se stesso. Mentre il mondo cambiava. Fin troppo facile farlo passare per l’ultimo giapponese che combatte ossessivamente una guerra finita da tempo. Il guaio è che invece lo scontro politico sulla giustizia si è riacceso con una virulenza che non si ricordava da anni. Prima l’inchiesta di Potenza su petroli, lobby e affari attorno al ministero dello Sviluppo economico. E ora l’accusa più infamante e da dimostrare, un politico del Pd che si propone come punto di riferimento di imprenditori in odore di camorra. Il presidente del Pd della Campania Stefano Graziano è stato subito sospeso, Palazzo Chigi ha fatto sapere che la sua consulenza con il governo era finita da tempo e in molti amici e compagni di partito hanno finto di non conoscerlo. Ma Graziano non è solo un esponente locale che alle elezioni regionali del 2015 ha conquistato quasi 15mila preferenze nel collegio di Caserta, 868 soltanto a Santa Maria Capua Vetere, di gran lunga il più votato nel comune al centro dell’indagine. Graziano è stato anche dirigente nazionale dei partiti che via via ha contribuito a formare, deputato dal 2008 al 2013, amico di quasi tutti i big, sempre presente in Transatlantico fino a qualche giorno fa. Anche questa vicenda dimostra che sulla questione morale c’è un nodo mai davvero affrontato nel partito di maggioranza. In almeno due città importanti che stanno per andare al voto, Roma e Napoli, un pezzo di classe dirigente del Pd è stato coinvolto in inchieste giudiziarie (Mafia Capitale) e scandali politici (il voto alle primarie) che indeboliscono la campagna elettorale dei candidati sindaci Roberto Giachetti e Valeria Valente. E sull’intreccio politica e affari (con il seguito avvelenato in alcuni territori della presenza criminale e mafiosa) Renzi si gioca un bel pezzo di credibilità. Su un doppio fronte. Come segretario del Pd continua la mancanza di una nuova classe dirigente. "Matteo ascolta solo chi è portatore di grossi pacchetti di voti", ha accusato la giornalista e senatrice del Pd Rosaria Capacchione. Potrebbe diventare un’emergenza quando si voterà con la nuova legge elettorale, l’Italicum, che prevede il mix di capilista bloccati e di candidati che devono spingere la lista del partito con le preferenze. Con quali criteri saranno scelti, dal Pd (e dagli altri partiti)? ll ritorno delle preferenze, unito all’assenza di trasparenza sui finanziamenti privati, ora che non ci sono più i rimborsi elettorali pubblici, e al nuovo reato del traffico di influenze introdotto dalla legge Severino, sembra quasi un invito a indagare, per i magistrati. È l’altro fronte di Renzi. Nella rivoluzione promessa dal Rottamatore c’era anche questo: una politica in grado di fare pulizia da sé, rispettosa di chi per obbligo costituzionale deve fare rispettare la legalità. L’ultima cosa che si aspettava chi ha appoggiato Renzi nella sua scalata al potere era un ritorno alla stagione della guerra con le toghe. Il premier che corre in avanti rischia di intestarsi un déjà-vu. Pericoloso. Parla Morosini (Csm) "Giustizia? Prevedo una riforma-mostro" di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2016 "La nuova legge sulla prescrizione? Attenti ad accorparla nel maxi-ddl sulla riforma penale: c’è il rischio che si tentino scambi tra i tempi del processo e le intercettazioni. Ne verrebbe fuori un mostro". Lo dice Piergiorgio Morosini, il magistrato che oggi presiede la commissione Riforme del Csm. Richiesto di dare un parere, Piergiorgio Morosini non si è nascosto dietro ipocrisie: da presidente della commissione Riforme del Csm ha messo nero su bianco il giudizio del Consiglio superiore sulla riforma della prescrizione. Lo ha fatto quando il testo era a Montecitorio, prima che intervenisse l’emendamento Ferranti. "Scrissi che la soluzione più appropriata alle esigenze degli operatori della giustizia consisteva nell’interrompere definitivamente il decorso della prescrizione una volta pronunciata la sentenza di primo grado. Vedo che sono state fatte scelte diverse". Nel testo della Camera c’è una stratificazione: sospensione dopo i primi due gradi di giudizio e, per i reati di corruzione, base di calcolo innalzata dai nuovi massimi di pena e aumento della metà dei tempi di estinzione. Il prodotto che ne risulta è irrazionale. Ripeto quello che scrivemmo nel parere per la commissione Giustizia della Camera: bisognerebbe fermare la prescrizione dopo la condanna in primo grado. E invece un anno fa ci fu l’innalzamento delle pene nel ddl anticorruzione anche per allungare i tempi di prescrizione. È un modo strano di concepire la legislazione penale. La sanzione dovrebbe essere parametrata al grado di offensività, alla pericolosità della condotta. Condizionare il quantum di pena all’impatto sulle norme processuali è una scelta con forti aspetti di irrazionalità. Nel diritto penale il processo è lo strumento, andrebbe ricordato. Ora il Pd è fermo su quel disegno "stratificato": in questi casi la politica è spinta da un compulsivo bisogno di ottenere l’approvazione della magistratura per farne uno spot elettorale? Non ho questa sensazione. Piuttosto il problema è che determinate decisioni sulle riforme di sistema a volte vengono prese sulla scorta delle urgenze del momento. Ne derivano norme decontestualizzate rispetto al quadro in cui andrebbero inserite. Sulla prescrizione per reati di corruzione prendiamo un caso, per esempio l’imputato di Mafia Capitale Tredicine: ma se lo immagina di avercelo ancora sotto processo tra 17 anni, nel 2032? Guardi, sa qual è la cosa davvero irrazionale? Il fatto che i processi durino troppo. E qui il tema non è limitato alle regolette per la prescrizione, è nell’eccessiva domanda di giustizia. Quella italiana vale quanto i dati di Spagna, Francia e Regno Unito messi insieme. Come se ne esce? Innanzitutto con meccanismi che incidano sul perimetro dei reati. Qualcosa è stato fatto, sul piano delle depenalizzazioni, ma ci vorrebbero scelte ancora più forti. Penso alle varie commissioni per la riforma del codice penale che ormai da lustri propongono il trasferimento di alcuni reati nell’alveo degli illeciti amministrativi. Ipotesi che dopo almeno vent’anni di lavori non sono mai state tradotte in legge per il timore che le amministrazioni non siano in grado di fronteggiare l’ondata di procedimenti che ne verrebbe. Faccia un esempio. Le sembra possibile che per una guida in stato di ebbrezza dobbiamo prevedere tre gradi di giudizio e arrivare a tenere inchiodati sul singolo caso 5 giudici di Cassazione? Superare l’obbligatorietà dell’azione penale: non può essere questa la via? In sé è una scelta pericolosa, c’è un’inderogabile necessità di garantire l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Credo però molto in un sistema che stabilisca delle priorità nella trattazione degli affari penali diversificati su base distrettuale, valorizzando le peculiarità territoriali di ogni area. Questo potrebbe avvenire attraverso un confronto all’interno dei Consigli giudiziari e con delibera "di copertura" da parte del Csm. Oltre alle istituzioni che vi partecipano andrebbero ascoltati i rappresentanti degli enti territoriali. Ad esempio il peso dell’abusivismo edilizio ad Agrigento può essere diverso rispetto alla Brianza. Torniamo alla prescrizione: per rimediare al tardivo emergere dei casi di corruzione non si potrebbe far decorrere l’estinzione del reato dalla notitia criminis anziché dal compimento? Si rischia di condizionare le scelte di governo del paradigma incriminatorio: il magistrato potrebbe essere inconsapevolmente tentato dal privilegiare un determinato capo d’accusa per avere a disposizione un termine di prescrizione diverso. Ma anche l’aumento della metà invocato dal Pd comporta questo rischio. Sì, infatti: la scelta più chiara è interrompere il decorso alla prima sentenza. Dopodiché siamo chiamati a esaminare tutte le possibili soluzioni. L’accorpamento della prescrizione nella riforma penale rischia di allungare i tempi? Il ddl complessivo è così articolato che l’accorpamento rischia di essere un ostacolo a un’approvazione rapida. C’è poi un timore ancora più forte. Quale? Non vorrei che la prescrizione fosse stata inserita affinché diventi oggetto di trattativa con materie del tutto eterogenee. Se ci fosse uno scambio tra determinate clausole inserite per le intercettazioni con modifiche sulla prescrizione, ne verrebbe fuori qualcosa di mostruoso. E se invece passa la linea dell’Ncd, cioè prescrizione allungata solo con i tre anni di sospensione dopo primo grado e appello, è presumibile che l’Anm dia un giudizio molto severo? Faccio fatica a esprimere un pronostico. Posso dire solo che quello forse andrebbe valutato come un primo passo avanti, ma non so fino a che punto riuscirebbe ad accontentare le esigenze concrete degli operatori del diritto. Dottor Morosini, la prima giunta Anm si è tenuta all’insegna della collegialità, ma si è anche deciso che la collegialità dovrà esserci sempre, rapporto con i media incluso. Affiancare al presidente Davigo, da questo punto di vista, il segretario generale, non è un po’ come avere Cantona in squadra e sostituirlo sempre a fine primo tempo, per evitare che litighi con gli avversari? Non mi ha meravigliato il clima disteso in cui si è svolta la prima giunta, e penso anche che i primi giorni di questa giunta abbiano costituito una forma di rodaggio, sul piano della comunicazione. Il presidente Davigo è uno straordinario comunicatore. E questa incisività non la si deve solo al suo eloquio o ai suoi esempi fulminanti, ma anche ad altri suoi aspetti: la sua storia professionale, innanzitutto, e il fatto di essere un magistrato assolutamente distante da ambienti di potere potenzialmente in grado di affidare incarichi extragiudiziari di prestigio. Dopodiché, come è sempre accaduto in tutte le giunte Anm, è chiaro che la interlocuzione pubblica spetti anche al segretario generale e al vicepresidente. Credo che in questo momento la giunta abbia bisogno di tutti. E che in momenti in cui si aprono inchieste come quelle sul traffico di influenze a Potenza, non ci possa essere persona più preparata e efficace di Davigo nell’interloquire su temi così delicati. I procuratori: la legge sulle intercettazioni non serve di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 29 aprile 2016 Una legge sulle intercettazioni non serve, basta applicare le norme già esistenti, e comunque la delega riservata al governo per intervenire sul dossier degli ascolti è troppo ampia. Ecco in sintesi il ragionamento dei procuratori della Repubblica Armando Spataro (Torino), Giuseppe Pignatone (Roma), Giuseppe Creazzo (Firenze) e dell’aggiunto di Napoli, Giuseppe Borrelli, durante l’audizione avuta ieri in commissione giustizia al Senato. I quattro sono autori delle circolari, diramate ai rispettivi uffici, per autoregolamentare l’utilizzo delle registrazioni considerate non rilevanti, che non costituiscono cioè prova di reato, ma che riportano solo fatti personali o circostanze che coinvolgono non indagati. Proprio la scelta di emanare questi vademecum, ha ricordato Pignatone, dimostra che "le norme ci sono, vanno applicate e fatte applicare". La delega a intervenire sulle intercettazioni è contenuta nel ddl sul processo. Dieci righe in tutto, considerate poco stringenti dai quattro magistrati. "Abbiamo rilevato che per ora è troppo generica", fa sapere Spataro, al termine di un’audizione durata un’ora e chiusa alla stampa. Ma non basta. Secondo il procuratore di Torino, è soltanto il giudice - e non una norma approvata dal legislatore - a poter "filtrare" i nastri: "La rilevanza penale delle intercettazioni - fa presente - non può che essere rilevata dai magistrati che procedono nel contraddittorio con gli avvocati e il pubblico ministero. E non può essere disciplinata per legge". Un ragionamento rilanciato anche da Pignatone: "A decidere la rilevanza può essere solo il giudice, perché questa può cambiare da un momento all’altro". Un esempio? "Se un camorrista telefona alla moglie per dire che entro mezz’ora sarà a casa per pranzo - ipotizza Borrelli - fornisce un’informazione che in un dato momento non è rilevante, ma può diventarlo in seguito, magari per dimostrare che ha inventato un alibi". L’altro nodo, naturalmente, riguarda la pubblicazione delle intercettazioni da parte dei media, quando ne entrino in possesso. Una circostanza ormai riconosciuta da diverse sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, hanno ricordato Spataro e Felice Casson (Pd), in nome del diritto dei cittadini ad essere informati e del dovere del cronista a informare l’opinione pubblica. Un dettaglio, infine, aiuta a comprendere il clima in cui il governo si appresta a mettere mano al dossier intercettazioni. Proprio mentre i procuratori intervenivano a Palazzo Madama, al Csm Antonello Ardituro e Francesco Cananzi si mettevano al lavoro per tradurre le quattro circolari in un’unica ordinanza destinata a tutti i magistrati d’Italia. Non serve denigrare la magistratura, è necessario riformarla di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 29 aprile 2016 Dopo le polemiche seguite all’intervista del presidente dell’Associazione nazionale magistrati al Corriere della Sera, è opportuno una riflessione costruttiva. Il messaggio di Davigo è quello del rappresentante di un potere che si pone al disopra degli altri poteri: ritenendo di giudicare il resto del mondo. I singoli magistrati sono "pessimi politici", "perché non hanno una rappresentazione completa della "rappresentanza"", ma l’Associazione rappresenta questo potere alternativo. Già agli inizi degli anni 90 la magistratura si poneva come l’istituzione capace di assumere in sé il ruolo di garanzia della legalità, di riscatto dal male della politica per affermare il bene; e oggi siccome ha vinto di nuovo il male hanno vinto le "mosche" come precisa Davigo, cioè i corrotti e i cattivi, c’è bisogno di un rilancio dell’azione invasiva della magistratura per far vincere di nuovo il bene. La corruzione dei politici è il male vero della società, non ha più limiti e la politica mostra tutta la sua debolezza. "Non c’è spazio per le persone oneste" e quindi, è necessario riprendere la lotta al "sistema". È la esplicita raffigurazione del giudice "etico": un giudizio così drastico e così duro non è stato dato neppure negli anni 90 con Tangentopoli ed era inevitabile a parere ancora di Davigo, dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio. Il discorso di Matteo Renzi apparentemente garantista, ha allarmato la magistratura che ha richiamato alle armi il generale più prestigioso e sottilmente battagliere, per regolare i conti con una classe dirigente che in verità ripete pedissequamente le generiche minacce senza conoscere i problemi reali, allo stesso modo di Craxi e di Berlusconi. La cosiddetta sinistra di oggi che in verità all’epoca di Tangentopoli era viva e consistente, sa di non avere più la solidarietà o l’omertà almeno di una parte della magistratura e reagisce allo stesso modo in maniera dispettosa e confusa. Il problema della giustizia e del suo rapporto con la politica è stato ignorato da tutti, in questi lunghi anni dal dopoguerra e viene in evidenza solo quando si teme di essere sfiorati da indagini. Negli anni 90 tutti i partiti, di qualunque tipo, furono oggetto di feroci indagini e tutti scoprirono un problema che non conoscevano e reagirono male contestando anziché proponendo soluzioni nello stesso interesse della magistratura. Per tutti i partiti furono trovate le prove!? continua ancora Davigo, e questi furono drasticamente ridimensionati, solo per il Pci "non si riuscì a trovare le prove". In verità, non fa onore a Davigo ripetere una frase che Di Pietro disse venti anni fa! e al tempo stesso, dimenticare che il 72% dei processi di Tangentopoli finirono con l’assoluzione degli imputati! Questo dunque, il teorema che ci sta davanti e proviamo a spiegare a Davigo e a Renzi qual è il problema della magistratura e della giustizia in che consiste. Il ruolo del giudice nella società moderna è profondamente diverso da quello degli anni nei quali fu approvata la Costituzione repubblicana e dunque la funzione "nuova" della giustizia che ne deriva non può avere un riferimento normativo e sistematico nell’"ordine autonomo", previsto all’art. 104. Il magistrato-giudice è andato acquisendo in Italia e non solo, un potere che non appartiene alla tradizione dello Stato di diritto perché la evoluzione del diritto e il significato nuovo della giurisdizione hanno di fatto superato il dettato costituzionale che indicava la magistratura come "ordine" neutro, "bocca della legge". Il rapporto istituzionale si è rotto perché il potere politico, il potere legislativo non è stato in grado di prendere atto di queste profonde modifiche e di intervenire per "regolare" quel potere. Ogni potere non può non essere riconosciuto e appunto "regolato", mentre la magistratura ha continuato ad essere organismo corporativo, pur esercitando un "potere" per la assoluta preminenza che ha assunto la giurisdizione: una contraddizione che determina disguidi e contrasti. Il Pubblico Ministero non è chiamato a fare le indagini dalla notizia criminis ma è diventato il ricercatore delle notizie di reato per indagini a tutto campo tutelato dalla obbligatorietà dell’azione penale che naturalmente gli lascia il massimo della discrezionalità nella valutazione delle priorità e i giudici come custodi della Costituzione si sono posti come arbitri per dirimere le controversie sociali e sostituirsi al legislatore come è avvenuto, per fare l’ultimo esempio, per le unioni civili. Questo ruolo è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore: il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per assegnare un ruolo di supplenza alla magistratura, ma la quale non si sente più sottoposta alla legge, ma sta "di fronte alla legge", per ripetere una splendida espressione di un vecchio un giurista come Mastursi. Quando il Parlamento prevede il reato di "traffico di influenze illecite", costruito sul nulla e dà al magistrato il massimo di discrezionalità per definirlo a suo piacere, siamo alla follia legislativa che determina inevitabilmente conflittualità e rapporti cattivi tra le Istituzioni. Quando i costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto alle passioni politiche. La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. È questa la questione della giustizia in Italia. Se il presidente del Consiglio avesse approfondito questi problemi anziché sconvolgere la Costituzione prendendo proditoriamente di mira il Senato! avrebbe proposto di modificare la Costituzione negli articoli che interessano la magistratura per cambiare davvero "verso" all’Italia! Sostengo questo, in verità, da oltre trenta anni. È doveroso non denigrare la magistratura ma prendere atto del nuovo ruolo che esercita, e anziché demonizzarla, disciplinarla per realizzare un nuovo equilibrio tra i poteri e quindi, un rinnovamento reale dello Stato. In questo caso Davigo non avrebbe potuto fare l’intervista di cui ci occupiamo: purtroppo la magistratura sa che la Costituzione non sarà modificata, che il Csm resta com’è, che la responsabilità civile ha come unica conseguenza "la spese di trenta euro in più per l’assicurazione", stipulata contro i rischi, come precisa lo stesso Davigo; forse sarà modificato inutilmente l’uso delle intercettazioni ma la "riforma" che ha dato impulso alla "lotta" alla corruzione è consistita nell’aumento delle pene! Tutte cose inutili, marginali, come ogni modesto giurista sa, che assegnano deleghe in più alla magistratura per realizzare la loro supplenza! Mattarella: "Patto anticorruzione". Ma la lite continua di Alfredo Barbato Il Dubbio, 29 aprile 2016 Appello del Quirinale mentre svanisce l’intesa sulla prescrizione. Il presidente della Repubblica indica un pilastro. E lo definisce con parole semplici: una "grande alleanza" tra le istituzioni e le forze sane del Paese, unica strada per battere "corruzione e malaffare". Lo dice in una di quelle occasioni in cui i Capi dello Stato fanno il punto sulle condizioni della giustizia, l’inaugurazione dei corsi alla Scuola superiore della magistratura. L’intervento è pacato come nello stile di questa presidenza, il che non impedisce a Mattarella di fare un passaggio anche sul tema caldo del momento, la riforma delle intercettazioni: "Il tempo dei processi non è una variabile indipendente per l’esercizio della giurisdizione e il riconoscimento dei diritti", dice il Capo dello Stato. Certo è che se la grande alleanza evocata a Fiesole, dove ha sede la Scuola dei giudici, dovesse misurarsi sulle intese maturate in queste ultime ore attorno alla riforma della giustizia, l’auspicio del presidente parrebbe caduto nel vuoto. E in effetti, mentre interviene Mattarella si consumano frizioni non marginali tra Pd e Ncd proprio sul tema della prescrizione. I dem intendono andare avanti sul testo approvato un anno fa alla Camera, il capogruppo degli alfaniani, Renato Schifani, ribadisce la "coerenza" del suo partito sulle "battaglie di principio" in materia di giustizia, compresa quella sui tempi del processo penale. Non senza una punta polemica nei confronti del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che aveva ribadito il proprio ottimismo sul raggiungimento dell’intesa anche in virtù di "difformità di giudizio" nell’Ncd. "Sono certo che il guardasigilli non si riferisca al sottoscritto", replica Schifani, "visto che parlo in qualità di capogruppo, consapevole di essere supportato dalla condivisione di tutti i nostri senatori sulle posizioni assunte". Nei fatti, ieri i relatori dei provvedimenti in materia penale all’esame della commissione Giustizia di Palazzo Madama, Felice Casson e Giuseppe Cucca, hanno ottenuto l’accorpamento delle 8 proposte di legge sulla prescrizione (compresa quella approvata a Montecitorio) all’interno del ddl complessivo sulla riforma penale. Il solo accordo concluso è questo, di carattere meramente procedurale. I due relatori presenteranno martedì il testo base. Ma nel merito, le posizioni tra Pd e Ncd restano distanti. Il nodo è il solito: l’ulteriore aumento dei tempi di prescrizione che il Pd intende mantenere per tre fattispecie della corruzione. con l’Ncd contrario e intenzionato a tornare alla legge nella versione precedente all’emendamento Ferranti. Adesso a supporto degli alfaniani arrivano anche i verdiniani, con il senatore Ciro Falanga che fa sentire la propria voce. Niente di definito, dunque. Nonostante Orlando conservi una certa imperturbabile sicurezza: "Vedo un avvicinamento di posizioni e credo ci siano tutte le condizioni per affrontare complessivamente tutti i dossier che erano sul tavolo della commissione", si sbilancia il guardasigilli, "la decisione di abbinare il tema della prescrizione" al ddl sulla riforma del processo penale "è già un passo in quella direzione". Il conflitto che è in corso nella maggioranza si consuma su uno sfondo particolare: quello del peso che l’Anm ha assunto da quando Davigo ne è diventato presidente. Ma a proposito delle prime settimane trascorse dall’ex pm di Mani pulite al vertice del sindacato delle toghe, c’è un nuovo affilato intervento di Raffaele Cantone. Secondo il presidente dell’Anac, le affermazioni di Davigo sulla corruzione "non possono essere di per sé contestate, ma il rischio insito in quelle affermazioni è la generalizzazione, e poi dire che i politici non si vergognano più non mi interessa, a me interessa che non rubino". Cantone segna la distanza con il presidente dell’Anm: "Non mi piace l’idea di contrapposizioni nette, preferisco, come dice Nello Rossi, un confronto sui problemi veri. Da sola una politica repressiva, come quella di Mani pulite, non ha funzionato: il sistema giustizia non è in grado da solo di affrontare il tema corruzione". Prescrizione, meglio tempi più brevi, ma con paletti e indennizzi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 aprile 2016 La ricetta all’orizzonte per cambiare l’istituto giuridico, in dosi che dipenderanno dalle alchimie partitiche, sembra la stessa fallimentare degli ultimi tre lustri. Ma vale davvero la pena di impiccarsi a una battaglia campale per "questa" riforma della prescrizione? Se dovesse diventare legge il testo votato dalla Camera nel marzo 2015, i processi per corruzione potrebbero ad esempio durare 18 anni, in alcuni casi - calcolano i promotori - quasi 22. Alé, si fa festa? A occhio, non tanto. Specie se ci si mette al posto di parti lese o di imputati. Eppure in tre lustri già tutto lo scibile in materia è stato arato dai progetti di riforma Kessler 2001, Grevi 2002, Giunta e Micheletti 2003, Fassone 2004, Commissione Nordio 2005, Giostra 2006, Commissione Pisapia 2006, Commissione Riccio 2006, ddl Mastella 2007, Silvani 2009, Ubertis 2010, ddl processo breve 2010, Mazza 2011, Viganò 2012, Fiorella 2013, e da ultimo il ddl governativo 2014 approvato in prima lettura alla Camera nel 2015. Così come acquisite sono le coordinate statistiche. In 10 anni 1 milione e 550mila prescrizioni, più del 70% nelle indagini preliminari perché è qui che si estingue la marea di reati contravvenzionali che (diversamente dai delitti) hanno solo 4 anni di tetto-base. Per il resto nei dieci anni sono andati in fumo 209.500 processi in Tribunale, quasi 132.000 in Appello, 3.300 in Cassazione e 9.500 davanti ai Giudici di pace: ma se si osserva la tendenza, è per lo più il secondo grado a restare con il "cerino acceso". Il numero di prescrizioni è sceso dal record di 213.500 nel 2004 alle 119.500 del 2011, poi però è ripreso a risalire sino alle 132.000 dell’anno scorso. Numeri da leggere peraltro nel malsano federalismo giudiziario per cui quattro distretti di Corte d’Appello (22% Napoli, 12% Roma, e 7,5% l’uno Torino e Venezia) da soli fanno quasi metà di tutte le prescrizioni d’Italia, ma 70 Tribunali su 135 hanno tassi di prescrizione inferiori al 3%. Se infine è statistica che alte prescrizioni non necessariamente corrispondono a carenze di cancellieri, le due facce della medaglia di Torino (sotto la guida dello stesso magistrato ex dirigente poi peraltro ingaggiato come super-organizzatore proprio dal Ministero) mostrano però che riforme a costo zero non esistono in una coperta corta ovunque la si tiri: al punto che far diventare un "gioiellino" a livello europeo la giustizia civile a Torino è stato pagato a caro prezzo nel penale con il record negativo nazionale a quota 22mila processi pendenti nel distretto d’Appello. Ora la ricetta all’orizzonte, in dosi che dipenderanno dalle alchimie partitiche, sembra però la stessa fallimentare degli ultimi tempi: ancora aumenti delle pene massime dei reati come leva per allungare la prescrizione (così sfasciando la coerenza del sistema), raddoppio della prescrizione su altri singoli reati, 2 anni in più dopo la sentenza di primo grado e 1 dopo il secondo grado. Il risultato, appunto prescrizioni da 15/20 anni, servirà magari a fare titoli e voce grossa di politici-magistrati-avvocati, ma è difficile accontenti vittime desiderose di sentenze in tempi accettabili, e imputati immeritevoli di restare schiacciati a vita dalla pendenza di un processo. Quattro differenti ingredienti, legati tra loro, potrebbero invece suggerire almeno la riflessione su un’altra possibile ricetta. Intanto, far partire il calcolo della prescrizione non da quando viene commesso un reato, come oggi, ma da quando qualcuno viene indagato (in Francia sta avvenendo in via giurisprudenziale a colpi di decisioni dell’Assemblea generale della Cassazione, meglio invece lo fissi la legge). Fissare, però, termini massimi non troppo lunghi, in media attorno ai 6/7 anni. E prevedere che smettano per sempre di decorrere dopo la sentenza di primo grado. Ma in compenso, per scongiurare che una persona resti in indefinita attesa di un verdetto d’Appello o Cassazione per colpa di eventuali lentezze patologiche della macchina giudiziaria, prevedere nel contempo due rimedi compensativi (soprattutto i professori Mazza e Viganò vi hanno riflettuto sulla scorta di quanto avviene in Germania e Spagna), da commisurare caso per caso come indica la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. E cioè, nel caso di sentenza finale di condanna, uno "sconto" di pena proporzionale alla quota di accertata irragionevole durata del processo; e nel caso di assoluzione finale, un "indennizzo" all’imputato a ristoro della pena in sé già subìta con la durata irragionevole del processo (sul modello del rimedio compensativo riconosciuto ad esempio ai detenuti rinchiusi in passato in meno di 3 mq.). Una simile disciplina - meglio se accompagnata da una rivisitazione delle notifiche (la prima all’imputato per essere certi della consapevolezza del processo, ma tutte le successive al suo avvocato), e dalla cancellazione dell’attuale comoda certezza di non poter incorrere in un verdetto più sfavorevole una volta che si sia proposto appello - avrebbe anche un effetto incentivante: quello di distinguere i "tempi vivi" del processo (termini di legge per i vari adempimenti, istruttoria, rogatorie, perizie complicate) dai "tempi morti" (fascicoli dormienti in Procura, Appelli non fissati, udienze rinviate per errori di notifica, sforamento del deposito delle sentenze, tempi biblici di trasmissione del fascicolo da un grado all’altro). E potrebbe far tornare l’istituto della prescrizione, per usare un’antica metafora del professor Pulitanò, alla sua funzione di "estintore": cioè di bombola di protezione da alcuni rischi di "incendio" processuale, ma che il buon funzionamento del sistema dovrebbe lasciare il più inattiva possibile. Ilaria Cucchi lancia la petizione: "Col reato di tortura Italia più forte su Regeni" di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 aprile 2016 Diritti umani. Renzi ribadisce l’impegno del governo. In Friuli Primo Maggio dedicato al ricercatore ucciso al Cairo. "L’unica risposta sul caso #Giulio Regeni che arriva dall’Egitto è l’arresto di chi se ne occupa. Cosa faremo noi?". "Cosa sta aspettando il governo italiano per continuare a premere sulle autorità egiziane al fine di ottenere la verità? E perché l’Italia non chiede agli altri Stati europei di fare lo stesso?". Nasconde a malapena la reticenza, Matteo Renzi, quando nel corso del consueto filo diretto con i cittadini sui social network risponde alle domande sull’omicidio del ricercatore friulano con un solo tweet: "Lo stiamo già facendo e continueremo a farlo". La verità però ormai purtroppo è sotto gli occhi di tutti, comprovata ed esibita dall’ultima brutale ondata di arresti al Cairo tra i quali, oltre al consulente della famiglia Regeni, Ahmed Abdallah, anche quello di una giornalista egiziana che non aveva creduto alla versione del regime sull’uccisione dei rapinatori accusati del rapimento di Giulio. Per questo in molti, dal senatore Luigi Manconi a Ilaria Cucchi che ha lanciato una petizione su Change.org, chiedono che dopo il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore ora il governo muova altri passi senza ulteriori indugi. Per il presidente della commissione Diritti umani del Senato non rimane che dichiarare l’Egitto paese non sicuro, e così la pensano anche molti europarlamentari italiani del gruppo socialista che già da settimane premono in tal senso sulle istituzioni europee. Ieri invece Ilaria Cucchi ha lanciato una petizione al governo italiano per ricordare ciò che accomuna le vicende di "Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini" e di suo fratello Stefano, "morto tra sofferenze disumane quando era nelle mani dello Stato e, soprattutto, per mano dello Stato". "Stiamo chiedendo all’Egitto verità per Regeni. Dobbiamo farlo. Ma ricordiamoci che lo facciano dall’alto del fatto di essere l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato - scrive Ilaria Cucchi chiedendo di firmare su Change.org - La Corte di Strasburgo ha già condannato l’Italia per gli orrori del G8 di Genova nel 2001. E ci ha imposto l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale. Che aspettiamo?". Anche le manifestazioni del Primo Maggio organizzate da Cgil, Cisl e Uil in alcune città italiane ricorderanno Regeni. In particolare, al ricercatore friulano sarà dedicato il tradizionale corteo di Cervignano, così come nel suo nome si sfilerà anche da Trieste a Gradisca d’Isonzo fino a Pordenone. "Da questa terra di lavoro un soffio di libertà", è lo slogan scelto dai sindacati della provincia di Udine che mette insieme la richiesta di "verità e giustizia per Giulio" con i diritti dei lavoratori (sui quali si concentravano gli studi di Regeni), ma anche con il tema di un’Europa "incapace di esprimere una politica comune di accoglienza di fronte a un’emergenza profughi". Un modo per ricordare che i diritti umani sono universali, oppure non sono. Fatture false, concorso per il professionista di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 17418/2016. Risponde di concorso nel reato di emissione di fatture false il professionista che suggerisce a propri clienti di utilizzare tali documenti per abbattere il carico fiscale. A confermare tale principio è la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 17418 depositata ieri. Un professionista incaricato di curare la contabilità di varie aziende, era stato accusato di concorso nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, per aver prospettato a due dei propri clienti la possibilità di inserire dei costi al fine di ridurre il carico fiscale. La Corte di appello, riformando parzialmente la decisione del Tribunale, lo aveva condannato alla pena di un anno e 7 mesi di reclusione. L’imputato aveva proposto così ricorso per Cassazione, lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione e il travisamento del fatto e della prova. In particolare, aveva rilevato che il giudice territoriale aveva fondato la propria decisione sul ritrovamento presso il suo studio sia delle fatture false, sia degli assegni emessi in favore del fornitore. La Corte di appello aveva però trascurato che la ragione di tale ritrovamento era legata all’incarico per la tenuta della contabilità, ricevuto dal soggetto che aveva emesso le fatture. La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza, poiché la sentenza risultava adeguatamente motivata. Infatti, il giudice di appello aveva evidenziato che gli assegni rinvenuti erano numerosi e tutti intestati a "me medesimo", così da escludere che il professionista, nonostante fosse il "prenditore formale dei titoli", risultasse come intermediario. Inoltre, era stato dato rilievo anche alla consapevolezza dell’imputato, in quanto tenutario delle scritture contabili, della circostanza che nonostante il soggetto emittente le fatture false fosse un imprenditore edile, i documenti si riferivano a operazioni commerciali di argento. Secondo la Suprema Corte, quindi, il collegio territoriale aveva puntualmente disatteso le difese e confermato la tesi accusatoria. I giudici di legittimità hanno poi richiamato il principio secondo cui vi è concorso nel reato di frode fiscale di coloro che, pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società emittente le fatture per operazioni inesistenti, abbiano in qualsivoglia modo partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito alle utilizzatrici dei documenti il risparmio di imposta. Peraltro non rileva la prova dell’effettivo inserimento in dichiarazione delle fatture, poiché il delitto di cui all’articolo 8 del Dlgs 74/2000, è di pericolo e punisce la sola emissione o rilascio. Differentemente, invece, l’articolo 2 dello stesso decreto (dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti) richiede non solo l’esistenza di tali documenti, ma anche il loro inserimento in una delle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte dirette o l’Iva. La decisione conferma così l’orientamento della Suprema Corte in tema di concorso del professionista nella frode perpetrata dai propri clienti. Con la sentenza n. 1684/2013 era stato affermato infatti che ai fini del concorso nel reato di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 74/2000, il possesso di fatture false e del timbro dell’emittente presso lo studio costituisce prova inequivocabile della partecipazione alle condotte criminose contestate. Sul fronte dei costi, invece, è stato precisato (sentenza n. 39873/2013) che risponde di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs n. 74/2000) il commercialista che contabilizza nelle dichiarazioni del cliente fatture che sapeva essere false. Nella specie, la prova era stata ravvisata nella circostanza che il ruolo di mere "cartiere" delle società emittenti le fatture era noto al professionista, poiché la sede sociale coincideva in un caso con il proprio ufficio e, in altro, con l’indirizzo di un amministratore nel frattempo deceduto. La Corte di Cassazione ha così precisato anche che un professionista appena avveduto avrebbe dovuto quanto meno sospettare del carattere fittizio delle fatture in ragione della generica descrizione fornita rispetto a importi considerevoli. Scafisti, giurisdizione nazionale anche per l’intervento in acque internazionali di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2016 Corte cassazione - Sezione I penale - Sentenza 28 aprile 2016 n. 17625. Giurisdizione nazionale contro gli scafisti anche se il fermo dell’imbarcazione ed il soccorso dei migranti è avvenuto in acque internazionali. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 28 aprile 2016 n. 17625, rigettando il ricorso di un uomo contro l’ordinanza del Tribunale del riesame di Palermo che aveva confermato la misura cautelare della custodia in carcere per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravato dal numero e dall’aver esposto i migranti al pericolo di vita. Nella motivazione il tribunale afferma che un reato è perseguibile dal Giudice nazionale (art. 6 del c.p.) "purché nel territorio italiano sia avvenuto anche solo un frammento della condotta" e che "una qualsivoglia attività diretta a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni contenute nel Dlgs n. 286/98 rende perseguibile il fatto in Italia". E così era avvenuto nel caso affrontato considerato che "il motopeschereccio trasportante 356 migranti era stato soccorso in acque internazionali, su delega della Marina Militare italiana, su rotta diretta in Italia e il suo equipaggio era stato fatto sbarcare nel porto più vicino, quello di Trapani". Lo sbarco in Italia dunque "risultava callidamente programmato e realizzato inducendo una situazione di grave pericolo per la vita dei migranti, abbandonati in alto mare su un’imbarcazione di dimensioni e struttura inadeguate per proseguire la navigazione, che imponeva un immediato intervento di soccorso del Paese costiero più vicino, per l’appunto l’Italia". Giudizio condiviso dalla Suprema corte secondo cui non può esservi alcun dubbio neppure sulla obbligatorietà dell’intervento di soccorso alla luce della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (Ricorso 27765/09) e della Risoluzione 1821 (2011) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che si è espressa in termini di "obbligo sia morale che giuridico di soccorrere le persone in pericolo in mare senza il minimo indugio", e della necessità che tale obbligo sia "rispettato in occasione dell’esecuzione del controllo delle frontiere". Per cui, prosegue la sentenza, sussiste la giurisdizione dello Stato italiano quando "almeno parti delle azioni che costituiscono il reato contestato risultano commesse in Italia, sia direttamente sia per interposizione dei soggetti chiamati a prestare soccorso e ricovero immediato, in Italia, ai migranti posti in deliberata situazione di pericolo". Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: "In tema di immigrazione clandestina, la giurisdizione nazionale è configurabile anche nel caso in cui il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione dell’articolo 12 del Dlgs n. 286 del 1998 a bordo di una imbarcazione (nella specie, un gommone con oltre cento persone a bordo) priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato, secondo la previsione dell’articolo 110 della Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sia stato accertato in acque extraterritoriali ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si siano verificati quale evento del reato l’ingresso e Io sbarco dei cittadini extracomunitari per l’intervento dei soccorritori, quale esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell’eccessivo carico e delle condizioni del mare". L’equazione tra danno erariale e abuso d’ufficio è un errore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 28 aprile 2016 n. 17676. L’illegittimo affidamento di incarichi esterni non determina automaticamente la sussistenza del reato di abuso d’ufficio. E il conseguente aggravio della spesa pubblica, dovuto al pagamento dei compensi, non è di per sé sufficiente a inquadrare l’elemento dell’ingiusto vantaggio economico. Questi, in sintesi, i principi in base ai quali la Corte di cassazione con la sentenza n. 17676/16, depositata ieri ha escluso la sussistenza del reato previsto dall’articolo 323 del Codice penale. La condanna - Il ricorrente in Cassazione era direttore generale di una Asl condannato in appello per abuso d’ufficio con l’aggravante della continuazione per il rinnovo di contratti di consulenza esterni. La condanna era stata fondata sulla base della reiterazione degli incarichi a titolo oneroso. Ma soprattutto sull’assenza di adeguata documentazione comprovante tanto la necessità di svolgimento di tali incarichi a vantaggio del buon andamento dell’amministrazione quanto l’assenza di figure professionali interne all’ente cui si potevano affidare i medesimi compiti. Infatti, il direttore della Asl accusato del reato aveva con proprio atto asserito apoditticamente la necessità di tali affidamenti esterni e l’assenza di figure interne atte a svolgere gli incarichi in questione. La Cassazione - I rilievi su cui ha fondato la propria decisione la Corte di appello se rappresentano il sintomo dell’illegittimità dei provvedimenti amministrativi adottati non costituiscono però la prova della commissione del reato e della volontà di favorire altri soggetti con l’ottenimento di un vantaggio contrario alla legge. Ciò che ha determinato la cassazione della decisione di appello senza rinvio "perché il fatto non sussiste" è stata di fatto la stessa apoditticità della sentenza di condanna per assenza di indagini. Infatti, la decisione cassata aveva fatto discendere l’ingiusto vantaggio patrimoniale richiesto dalla fattispecie del reato continuato di abuso dal rinnovo degli incarichi e dalla spesa sopportata dall’amministrazione. Ma l’equazione danno erariale uguale abuso d’ufficio è proprio il presupposto argomentativo dei giudici di appello bocciato dalla Corte di legittimità. Da tale presupposto errato la Corte d’appello ha fatto discendere la volontà di procurare l’illegittimo vantaggio venendo meno al proprio dovere di indagare se i presupposti degli affidamenti esterni seppure non specificatamente documentati dal direttore Asl fossero in realtà sussistenti. L’incarico illegittimo non è sempre "abuso d’ufficio" di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2016 Corte di cassazione penale n. 17676/16. L’illegittimo affidamento di incarichi esterni non determina automaticamente la sussistenza del reato di abuso d’ufficio. E il conseguente aggravio della spesa pubblica, dovuto al pagamento dei compensi, non è di per sé sufficiente a inquadrare l’elemento dell’ingiusto vantaggio economico. Questi, in sintesi, i principi in base ai quali la Corte di cassazione con la sentenza n. 17676/16, depositata ieriha escluso la sussistenza del reato previsto dall’articolo 323 del Codice penale. La condanna - Il ricorrente in Cassazione era direttore generale di una Asl condannato in appello per abuso d’ufficio con l’aggravante della continuazione per il rinnovo di contratti di consulenza esterni. La condanna era stata fondata sulla base della reiterazione degli incarichi a titolo oneroso. Ma soprattutto sull’assenza di adeguata documentazione comprovante tanto la necessità di svolgimento di tali incarichi a vantaggio del buon andamento dell’amministrazione quanto l’assenza di figure professionali interne all’ente cui si potevano affidare i medesimi compiti. Infatti, il direttore della Asl accusato del reato aveva con proprio atto asserito apoditticamente la necessità di tali affidamenti esterni e l’assenza di figure interne atte a svolgere gli incarichi in questione. La cassazione - I rilievi su cui ha fondato la propria decisione la Corte di appello se rappresentano il sintomo dell’illegittimità dei provvedimenti amministrativi adottati non costituiscono però la prova della commissione del reato e della volontà di favorire altri soggetti con l’ottenimento di un vantaggio contrario alla legge. Ciò che ha determinato la cassazione della decisione di appello senza rinvio "perché il fatto non sussiste" è stata di fatto la stessa apoditticità della sentenza di condanna per assenza di indagini. Infatti, la decisione cassata aveva fatto discendere l’ingiusto vantaggio patrimoniale richiesto dalla fattispecie del reato continuato di abuso dal rinnovo degli incarichi e dalla spesa sopportata dall’amministrazione. Ma l’equazione danno erariale uguale abuso d’ufficio è proprio il presupposto argomentativo dei giudici di appello bocciato dalla Corte di legittimità. Da tale presupposto errato la Corte d’appello ha fatto discendere la volontà di procurare l’illegittimo vantaggio venendo meno al proprio dovere di indagare se i presupposti degli affidamenti esterni seppure non specificatamente documentati dal direttore Asl fossero in realtà sussistenti. Campania: Garante dei detenuti, presentazione del report sullo stato delle carceri Il Velino, 29 aprile 2016 Lunedì al carcere di Secondigliano con la Tocco e il sottosegretario giustizia Gennaro Migliore. Lunedì 2 maggio alle ore 11 presso la Casa circondariale di Secondigliano (Via Roma verso Scampia n. 350 - Napoli) sarà presentata alla stampa la relazione annuale (2015-2016) del Garante dei Detenuti della Regione Campania. L’incontro vedrà la presenza della Garante dei detenuti, Adriana Tocco, del provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria (Prap), Tommaso Contestabile, della presidente del Consiglio regionale della Campania, Rosa D’Amelio e del sottosegretario di Stato alla Giustizia, l’on. Gennaro Migliore. Una relazione incentrata sull’attività svolta dalla garante e sulla situazione penitenziaria, nazionale e regionale, accompagnata da un dettagliato report sullo stato delle carceri campane. Il sottosegretario Gennaro Migliore, che nel corso della mattinata effettuerà anche una visita all’interno della struttura penitenziaria. Piemonte: il Garante; undici carcerati monitorati per controlli anti terrorismo di Bernardo Basilici Menini nuovasocieta.it, 29 aprile 2016 Secondo la relazione annuale di Bruno Mellano, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, negli ultimi mesi nelle carceri piemontesi ci sono stati ben nove detenuti monitorati per reati connessi al terrorismo internazionali o di proselitismo e reclutamento. Il tutto nell’ambito di un’operazione di monitoraggio sul fenomeno della radicalizzazione religiosa in carcere. Ma non solo: il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha diffuso dati che indicano come nelle carceri regionali ci siano anche undici persone tenute sotto particolare attenzione per comportamenti che "rivelano la vicinanza all’ideologia jihadista". Inoltre, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Piemonte "come la maggior parte delle regioni settentrionali è esposto al rischio radicalizzazione per un alto tasso di detenuti extracomunitari". Oristano: super-carcere di Massana, la protesta rumorosa dell’Alcatraz sarda di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2016 Rivolta nel super carcere di Massana, una piccola Alcatraz sarda dove sono esiliati molti detenuti condannati per reati legati alla mafia. Nell’ultimo periodo sono stati trasferiti una quarantina di esponenti di spicco della criminalità organizzata. Il carcere si trova in aperta campagna e il silenzio è interrotto da voci incomprensibili e rumori fortissimi che arrivano dalle celle. Sbattono pentolini e altri oggetti in ferro contro le grate delle finestre e sulle sbarre che si affacciano su una distesa sterminata di campi con pochissime abitazioni intorno. La protesta era iniziata il mese scorso, tanto che per evitare che la situazione esplodesse il funzionario ministeriale ha avviato una mediazione per cercare di riportare la calma dentro il carcere. All’inizio del mese vi è giunto a far visita anche Mauro Palma, il garante nazionale dei detenuti e ha promesso che solleverà il problema a chi di competenza. Nel frattempo anche l’Unione della camere penali si è interessata del caso e ha annunciato un sopralluogo nell’istituto al fine di verificare le reali condizioni dei detenuti. Ma ad oggi nessuna risposta è giunta da parte del ministero della Giustizia e i detenuti hanno ripreso la battitura delle sbarre e non escludono altre forme di protesta come lo sciopero del vitto, del lavoro e tutto quanto è loro consentito per far sentire la propria voce. I detenuti denunciano di essere ristretti in condizioni che violano le norme di legge e i regolamenti di esecuzione. In particolare lamentano il sovraffollamento delle celle, che riduce lo spazio disponibile al di sotto dei parametri legali, una regolamentazione dei colloqui con i familiari che penalizza i detenuti provenienti dalle altre regioni, la mancata fruizione di attività ricreative, rieducative e culturali e la totale assenza di contatti con il magistrato di sorveglianza e le associazioni del volontariato. Un carcere completamente abbandonato e privo di funzione riabilitativa. I numeri messi a disposizione dal Dap però non tornano. Secondo i dati reperibili sul sito del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 marzo, i detenuti risultano 293 su una capienza regolamentare di 260 posti. Quindi ci sarebbero "solamente" 33 ristretti in più. Ma visionando la scheda completa del carcere di Oristano - sempre reperibile sul sito del ministero ? risulta che il numero esatto delle stanze di detenzione che possono ospitare un massimo di due persone, sono 123. Quindi sono 47 persone in più. Ma la cifra cresce ancora di più se prendiamo in considerazione gli ergastolani che per legge hanno il diritto - non rispettato nel carcere - a una cella singola. Ecco spiegato perché - come denunciano i detenuti - in una cella adibita a solo due posti letti, è stata aggiunta una terza branda. Se i dati venissero confermati, la piccola Alcatraz assomiglia sempre di più ad una Guantánamo. Le proteste, nel frattempo continuano, sperando che arrivi presto una soluzione. Un appello contro l’isolamento Le richieste dei reclusi del carcere di Massama per condizioni di vita migliori. Blocco del flusso dei detenuti in arrivo - La capienza totale del carcere di Massama è di 246 posti letto. Ogni sezione è composta di 21 celle detentive di cui una è adibita per detenuto disabile ed un’altra è stata convertita in saletta hobby. Ogni cella detentiva può ospitare al massimo due persone detenute secondo i parametri progettuali e rispondenti alle normative della Cedu. La Direzione in modo fraudolento ed illecito ha posto una terza branda per ospitarvi il terzo detenuto. Continuità di trattamento - Viene escluso il trattamento delle carceri di provenienza perché il Direttore ha una visione restrittiva e punitiva ancorata ad una mentalità ottocentesca, quando ancora non esisteva l’art. 27 della Costituzione. Inoltre si verifica che quando si riunisce il G. O. T. il Direttore (senza conoscere e mai visto il detenuto) ed il Commissario, a prescindere dall’equipe trattamentale, esprimono sempre parere negativo. Colloqui familiari - gli orari dei colloqui visivi con i familiari sono regolamentati in alcuni giorni dalle ore 8.15 alle ore 13.15 e in altri dalle ore 13.15 alle ore 17.15. In questo modo viene impedito di poter consumare sei ore di colloquio visivo con i familiari in un’unica soluzione e nella stessa giornata. Per garantire la fruizione delle sei ore di colloquio continuato, sarebbe opportuno integrare in alcuni giorni della settimana l’orario dalle ore 8.00 alle ore 16.00 senza interruzione. Questo perché il 90% dei detenuti ivi ristretti provengono dalle regioni Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, oltre ad un’esigua percentuale di stranieri. È da tenere presente che la frequenza dei colloqui visivi hanno cadenza molto dilatata nel tempo, ogni tre mesi i più fortunati. I familiari per organizzare il viaggio del colloquio devono sostenere un esborso economico non indifferente, ecco perché è opportuno offrire la possibilità di consumare le sei ore di colloquio visivo con i familiari nella stessa giornata, evitando il pernottamento per il giorno seguente, con ulteriore aggravio di spesa economica a carico dei familiari. Un altro aspetto che riguarda il colloquio visivo con i familiari è attinente l’ingresso della quarta persona-familiare. Cioè, nel caso in cui si presentano quattro familiari all’ingresso, possono entrare soltanto tre e non è permesso lo scambio durante il colloquio facendo entrare il quarto familiare. Telefonate familiari - Anche in questo caso si registra una regressione trattamentale, in quanto chi proviene da altri istituti ed usufruiva di una telefonata settimanale, qui si è ritrovato con quattro mensili e chi ne aveva quattro mensili si è ritrovato con due mensili. Per recuperare la quinta telefonata mensile e chi le due telefonate mensili si è obbligati ad inoltrare apposita richiesta con modalità straordinaria alla discrezionalità del Direttore, che a volte concede ed altre no, anche in questo caso si subisce una regressione del diritto acquisito. Stampante e computer - I detenuti autorizzati all’uso e alla detenzione del pc in cella, qualora hanno necessità di stampare i file e le ricerche prodotte nei loro pc devono rivolgersi ad un ispettore della Polizia Penitenziaria preposto alle operazioni di stampa, il quale non è sempre disponibile, a causa dell’eccessivo carico di lavoro, in tempi accettabili. Teniamo conto che a volte per una stampa trascorre anche una settimana, nelle migliori delle ipotesi, al fine di evitare questo disservizio che provoca inevitabilmente nervosismo e ritardo nei lavori che prepara e produce il detenuto, si è proposto più volte alla Direzione e all’Ufficio Comando di sistemare in un apposito locale della sezione detentiva una stampante messa a disposizione dall’Amministrazione Penitenziaria o in alternativa di autorizzare l’uso della stampante personale di cui il detenuto è già in possesso e depositata in magazzino. Per di più vi è un altro particolare che incide pesantemente sulle spese economiche del detenuto ossia: ogni foglio stampato dall’Amministrazione ci costa 0, 26 centesimi, quindi mille fogli costano 260,00 euro, mentre con la stampante personale la stampa di mille fogli verrebbe a costare circa 60.00, è evidente il risparmio non trascurabile a favore del detenuto oltre all’abbattimento dei tempi di attesa per la stampa documentale. Viene anche impedita la facoltà del detenuto di effettuare fotocopie di documenti, ordinanze e sentenze di carattere generale e nazionale, utili come giurisprudenza e a sostegno della propria difesa. Addirittura subiamo un’indebita forma di censura illegale da parte della Direzione violando il diritto alla difesa perché sono documenti e atti in libera circolazione e quindi di dominio pubblico. Comunicazione domandine - Quando inoltriamo richieste attraverso il mod. 393 Amm. Pen. (la classica domandina) o istanze rivolte alla Direzione, non riceviamo nessuna comunicazione sia nel senso positivo che in quello negativo. Nel caso in cui chiediamo copia della motivazione del rigetto delle domandine o delle istanze non ci vengono prodotte. La risposta la si ottiene solo ed esclusivamente tramite l’agente di sezione su nostra esplicita richiesta e dopo aver insistito per più volte e più giorni. Inoltre molte domandine che si avanzano si disperdono. Colloqui con le nuove tecnologie - Ai sensi della Circolare Ministeriale del 2 novembre 2015 n. 0366755, concernente i colloqui tramite internet e via Skype, si sollecita la Direzione di approntare le postazioni telematiche facilitando così l’effettuazione dei colloqui con i familiari per tutti coloro che sono lontani dal luogo di residenza dei familiari. Ricezione pacchi - Si sollecita l’intervento per garantire la consegna dei pacchi postali inviati dai familiari che, nonostante siano spediti con il servizio celere 1 e celere 3, ci vengono consegnati anche dopo 15 giorni e non si comprendono le ragioni di tali ritardi. Fruizione palestra - Attivazione della sala palestra del carcere in modo da consentire ai detenuti di accedervi e svolgere normalmente le attività fisiche. Si chiede di autorizzare l’accesso in Istituto delle associazioni di volontariato per iniziative sociali, teatrali e scolastiche. Mancanza di visite ispettive del Magistrato di Sorveglianza - Il Magistrato di Sorveglianza non concede udienze ai detenuti e nemmeno opera le periodiche visite ispettive nel carcere per tutelare le garanzie del detenuto. Non viene consegnata regolarmente la posta in arrivo, ma ogni due o tre giorni e quella destinata ai familiari parte in ritardo e spesso non arriva a destinazione. Poiché siamo lontani dai familiari, l’unico contatto affettivo è rappresentato dalla corrispondenza, per questo è importante prestare più attenzione e cura su questo punto. Pesaro: il Garante regionale; riduzione del sovraffollamento in Casa circondariale primapaginanews.it, 29 aprile 2016 L’indice di sovraffollamento della casa circondariale di Pesaro, evidenziato dal Garante regionale dei detenuti delle Marche Andrea Nobili, al termine delle visite compiute negli istituti della regione Marche lo scorso mese di marzo, è stato rapidamente ridotto grazie agli interventi messi in atto con interventi congiunti del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e della Direzione generale detenuti e trattamento del Dap, su input del Capo del Dipartimento Santi Consolo. L’indice di sovraffollamento è pertanto sceso dal 166,67% (alla data dell’8 marzo) all’attuale 156,21%, con la prospettiva di un’ulteriore riduzione al 119,10% in linea con la media regionale, dato statistico inferiore a quello di altre aree territoriali. I provvedimenti adottati si inseriscono nel complessivo quadro di perequazione degli indici di sovraffollamento degli istituti marchigiani, trasferendo in altri istituti della regione o in istituti di regioni limitrofe i detenuti senza vincolo di territorialità. La situazione è costantemente monitorata al fine di programmare successivi provvedimenti necessari a raggiungere e mantenere uno standard di presenze regolamentari. Il carcere di Pesaro, il più grande della regione, ha una capienza di 153 posti detentivi, distribuiti in varie sezioni. Tra queste quelle riservate alle donne, all’alta sicurezza, ai sex offenders e ai protetti non possono essere utilizzate per assorbire il sovraffollamento delle sezioni circondariali comuni. Il tasso di sovraffollamento è stato determinato da un aumento di ingressi pari al 5% da gennaio a oggi. Alla data odierna i detenuti presenti nelle carceri delle Marche sono 887, di cui 21 donne, su una capienza regolamentare di 832 posti detentivi. Il Capo del Dipartimento ha inviato una missiva al Garante Andrea Nobili in riscontro alle problematiche evidenziate, nella quale ha espresso apprezzamento per l’impegno costruttivo e collaborativo finalizzato al costante miglioramento delle condizioni detentive. Rovigo: nuovo carcere nel caos, interviene il ministero della Giustizia Corriere Veneto, 29 aprile 2016 Incontri e visite a Roma e in città con due sottosegretari. La Munerato (Fare!) interroga, Amidei (Fi) andrà nel penitenziario. "Quali sono le motivazioni che hanno giustificato un’accelerazione nel trasferimento dei detenuti dal vecchio carcere alla nuova struttura non ancora pienamente operativa?". La situazione del carcere di Rovigo finisce al centro del dibattito parlamentare con un’interrogazione a risposta scritta, presentata dalla senatrice tosiana Emanuela Munerato (Fare!) che punta il dito anche sulla permanenza degli uffici nel vecchio penitenziario, prossimo alla dismissione. "Il mantenimento della funzionalità della struttura di via Verdi e l’apertura del nuovo non rappresentano una duplicazione di costi?" si chiede ancora Munerato. In attesa delle risposte ufficiali in aula, doppio incontro con i sottosegretari alla Giustizia sui problemi del nuovo penitenziario. Il 9 maggio la Cgil di settore andrà a Roma da Gennaro Migliore (Pd), numero due del ministro Orlando. Il 20 maggio arriverà a Rovigo il sottosegretario, sempre alla Giustizia, Cosimo Ferri. Entrambi gli appuntamenti sollecitati dal deputato Diego Crivellari (Pd), dopo le proteste dei sindacati di polizia penitenziaria. Spiega Crivellari: "I problemi segnalati dai lavoratori sono reali. Sono in costante contatto col ministero dove stanno lavorando per contenere i disagi, inevitabili in una fase di passaggio. Si tratta di dare risposte, partendo dal presupposto che la situazione per i detenuti era peggiore nel vecchio carcere". Ferri dovrebbe visitare il penitenziario a ridosso della Tangenziale Est, per la cui costruzione sono stati necessari 29 milioni di euro di investimenti e nove anni di cantieri, avviati nel 2007 dall’allora Guardasigilli Mastella. Intanto chiederà accesso alla struttura il senatore Bartolomeo Amidei (Fi). "Voglio verificare la situazione - spiega - non per polemica, ma credo che non fosse difficile prevedere problemi se si inaugura una struttura incompleta. Credo sia doveroso cercare di mettere velocemente in condizioni adeguate detenuti e lavoratori di polizia penitenziaria". Condizioni inaccettabili secondo Marco Gallo. "Solo grazie ai grandi sforzi dei lavoratori - sottolinea il segretario provinciale Uil Penitenziari - si reggono ritmi insostenibili. La politica lascia in abbandono il carcere". Cuneo: il Provveditore Pagano "al Cerialdo non ci saranno più detenuti al 41bis" Il Dubbio, 29 aprile 2016 Il carcere di Cuneo non ospiterà più detenuti sottoposti al regime del carcere duro previsto dal 41 bis. Ad annunciarlo stamattina a Torino, durante la presentazione del XII Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, realizzato dall’associazione Antigone, è stato Luigi Pagano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. "Una notizia molto positiva - commenta Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti - che arriva dopo due anni di denunce. A Cuneo c’era un problema strutturale, che rendeva illegale la detenzione. Poca luce naturale, assenza di aree dedicate alla socialità e spazi angusti per i colloqui". Due anni fa i detenuti a Cuneo sottoposti al carcere duro erano 90, tutti trasferiti in altri penitenziari. Milano: carcere di Opera i detenuti produrranno apparecchi led per le smart cities di Massimiliano Saggese Il Giorno, 29 aprile 2016 Presentato il progetto "Luce per il futuro" per la realizzazione di apparecchi di illuminazione a led realizzati da detenuti. Cresce il numero di carcerati impegnati in attività lavorative e c’è anche chi auspica un marchio Doc per i prodotti realizzati dietro le sbarre. Ieri nella casa di reclusione di Opera si è tenuta la conferenza di presentazione di questa nuova "industria sociale" che vedrà impegnata una decina di detenuti e che vede la collaborazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e di Invictor Led, Banca Prossima (Intesa Sanpaolo) e fondazione Fits. Si tratta di una risposta concreta per il reinserimento sociale e lavorativo: i detenuti produrranno apparecchi led per le smart cities. La linea di assemblaggio ha una capacità produttiva annua variabile da 6.000 a 8.000 apparecchi a led per esterni. Attraverso il progetto "Luce per il futuro" Invictor Led realizza una linea produttiva di assemblaggio all’interno della Casa di Reclusione di Opera, offrendo ai detenuti coinvolti un lavoro e una formazione tecnica utile anche dopo la fine della pena. L’attività che viene svolta rende visibile tutto il processo produttivo, dall’arrivo dei componenti fino al prodotto confezionato, con pieno protagonismo dei lavoratori. La loro qualifica, dopo il periodo formativo, sarà quella di operaio specializzato. Inoltre, l’assunzione con contratto a tempo indeterminato significa integrazione nella società con una buona e stabile base economica e quindi con minore possibilità di recidiva. Invictor Led è un’azienda innovativa di San Giuliano Milanese, che sviluppa e produce dispositivi di illuminazione di nuova generazione a tecnologia led. L’incontro ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dei rappresentanti delle amministrazioni regionali, dell’Anci e di alcune fra le maggiori utility della Lombardia, aprendo la prospettiva di una espansione del modello ad altri territori. "I prodotti realizzati dai detenuti sono di qualità - ha detto Marco Morganti, Amministratore Delegato Banca Prossima - e sarebbe auspicabile creare un marchio di provenienza così come si fa con i prodotti Dop e Doc". I numeri di detenuti che lavorano "dietro le sbarre" sono in crescita e questo vuol dire maggiori possibilità di reinserimento nella società a fine pena. Attualmente a Opera sono impegnati in attività lavorative, che vanno dal forno del pane alla carpenteria, 481 detenuti di cui 101 in lavorazioni di ditte esterne. Salerno: detenuti dell’Icatt di Eboli, c’è l’intesa con Comune e Coldiretti di Angelica Tafuri La Città di Salerno, 29 aprile 2016 Indirizzare i detenuti verso l’attività agricola: la Coldiretti ha sottoscritto un accordo con l’Icatt di Eboli per avviare un percorso di inclusione sociale, ma soprattutto lavorativa per i reclusi. L’Istituto di custodia attenuata, diretto dalla dottoressa Rita Romano, ospita ex tossicodipendenti che si trovano in carcere per reati connessi alla loro dipendenza. La Coldiretti ha quindi deciso di mettere in campo una partnership per far diventare l’agricoltura in un’opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro. Nei prossimi mesi sarà creata una coop sociale di detenuti ed ex detenuti che consentirà di avviare dei tirocini lavorativi nelle aziende agricole: "L’obiettivo - spiega il direttore di Coldiretti, Enzo Tropiano - è di formare e avviare al lavoro detenuti ed ex tossicodipendenti, nel settore agricolo e florovivaistico, per un loro reinserimento sociale e lavorativo. Questi progetti rappresentano la punta più avanzata della multifunzionalità in agricoltura, che stiamo sostenendo per conciliare lo sviluppo economico con la sostenibilità ambientale e sociale". Un progetto pilota che oltre alla formazione prevede anche l’inserimento diretto nel lavoro: "è importante avviare, già in carcere, un percorso di recupero dei detenuti - spiega Antonella Dell’Orto, delegata Coldiretti Donne Impresa - è un progetto che nasce dalla volontà di essere vicini alle situazioni di disagio creando i presupposti per un recupero reale degli ex detenuti che conduca ad un reinserimento concreto nel mondo del lavoro". Intanto ieri mattina a Palazzo di città è stato sottoscritto il protocollo di intesa tra il Comune di Eboli e l’Icatt col quale rilanciare i percorsi di riabilitazione e reinserimento dei detenuti attraverso i fondi del Piano di Zona. Il progetto prevede quattro borse di studio da mille euro che serviranno per garantire la partecipazione alle attività di pubblica utilità contenute nel programma. Trapani: Figuccia (Fi) visita il carcere di Erice "un mondo di cui non si parla" livesicilia.it, 29 aprile 2016 "Ho avviato oggi l’esperienza che mi porterà a visitare tutte le carceri siciliane per verificare da vicino le condizioni di chi sta scontando la propria pena. Stamani, accolto dal direttore Renato Persico, ho visitato il carcere San Giuliano di Erice (Trapani). È stata un’esperienza forte che mi ha messo in contatto con tanti detenuti, divisi in diversi reparti. È emerso che Erice, come del resto la quasi totalità delle case circondariali, accoglie più ospiti rispetto agli standard dei luoghi di pena. Nelle carceri italiane, su 40 mila posti disponibili nelle celle, sono attualmente detenute oltre 70 mila persone. La Sicilia non è esente da questo sovraffollamento che certamente non contribuisce ad avviare percorsi di consapevolezza e riabilitazione da parte di chi si trova nella condizione di privazione della libertà", così l’onorevole Vincenzo Figuccia, vice capogruppo di Forza Italia all’Ars. "Accompagnato dal direttore Persico e dal comandante della Polizia penitenziaria ho potuto vedere da vicino in che modo i detenuti partecipano ai corsi per il completamento della scuola dell’obbligo - prosegue l’esponente azzurro - ed ho compreso come ad esempio il "sopravvitto", cioè la possibilità di acquistare piccoli beni alimentari e di consumo all’interno del carcere, sia in realtà qualcosa che invita a riflettere sulle privazioni che subisce chi sconta una pena. Entrando nel carcere ti accorgi dell’esistenza di un mondo di cui non parla nessuno, di un mondo che vive nel cuore delle città come corpo estraneo alle stesse. Una comunità di cui nessuno vuol sentire gli umori e gli odori. Un nucleo di persone, i detenuti, che spesso vivono in condizioni di angoscia e solitudine. Con l’iniziativa odierna, voglio far emergere ad esempio che il carcere non è ancora dotato dell’area per gli incontri tra i detenuti e i figli, nonostante sia prevista. Ma al contempo intendo dare voce ai tanti operatori che prestano servizio dentro la casa circondariale che lamentano i continui tagli nei servizi che si trovano a gestire. D’altra parte quando il clima è pesante non è buono per nessuno. Nei prossimi giorni continuerò questo tour visitando un altro carcere siciliano". Pozzuoli (Na): dal carcere alla passerella, le detenute diventano modelle di Elisabetta Froncillo Il Mattino, 29 aprile 2016 Non soltanto moda al carcere femminile di Pozzuoli, per ritornare alla vita sfilando a testa alta, dopo aver scontato la pena. Ma anche spettacolo e musica. L’appuntamento è per il pomeriggio del 5 maggio presso la casa circondariale femminile, dove venticinque detenute scenderanno in passerella, indossando abiti di haute couture. Con loro il cantante Gigi Finizio, che arricchirà la terza edizione della kermesse di moda dallo sfondo sociale, esibendosi per le recluse e i loro ospiti in un inedito mini concerto. Tra tessuti preziosi e scintillanti le ospiti del penitenziario solcheranno il corridoio della grande moda, che dietro quelle sbarre assume un valore del tutto particolare e simbolico: ripercorrerlo, come la strada della detenzione, per ritornare nella società, fuori da quelle mura, splendenti. L’evento è organizzato dalla P&P Academy, in collaborazione con l’assessorato alle Politiche sociali, la commissione Pari opportunità del Comune di Pozzuoli e l’associazione Anteas. Una mano amica. Le detenute si alterneranno in passerella con sei modelle dell’Accademia della Moda di Anna Paparone. Tutte sfileranno con gli abiti della collezione 2016 del marchio Impero Couture di Luigi Auletta, degli stilisti Salviòs e Veronica Guerra. Per l’occasione le detenute non saranno delle semplici indossatrici improvvisate: hanno seguito infatti, all’interno dello stesso carcere, un corso di portamento e di bon ton. Saranno pettinate da Bed Head Studios di Ciro Paciolla e truccate da Art Studio e Giusy Aleandro. A presentare l’evento, con l’organizzatrice Anna Paparone, ci sarà Gaetano Gautiero. Tra gli ospiti anche il cantante Felice Romano e il comico di Made in Sud, Pasquale Palma. Nel parterre la direttrice della casa circondariale Stella Scialpi, il sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia, la Garante delle detenute Adriana Tocco. La sfilata, che ha esclusivamente finalità sociali, si propone da un lato di offrire alle detenute un momento di aggregazione e dall’altro di avvicinarle al mondo della moda. Negli anni sono diverse le ospiti della casa circondariale che hanno trovato la propria dimensione una volta scontata la pena: alcune di loro, infatti, sono entrate a far parte ufficialmente del gruppo di modelle della P&P Accademy in diverse manifestazioni, facendone di un’attività di svago un’opportunità di lavoro. Siena: i detenuti di Santo Spirito donano quadri per i piccoli pazienti dell’ospedale ilcittadinoonline.it, 29 aprile 2016 Donati dipinti raffiguranti le Contrade di Siena, realizzati all’interno del Laboratorio di Pittura del carcere, col sostegno della Croce Rossa Italiana. Nuovo gesto di sensibilità e altruismo da parte dei detenuti della Casa Circondariale di Siena per i piccoli pazienti del policlinico Santa Maria alle Scotte. Sono stati infatti donati dipinti raffiguranti le Contrade di Siena, realizzati all’interno del Laboratorio di Pittura del carcere, grazie al sostegno della Croce Rossa Italiana, che adorneranno l’area degli ambulatori pediatrici al piano 5 del IV lotto. "Ringraziamo di cuore i detenuti - ha detto il professor Salvatore Grosso, responsabile della Pediatria dell’AOU Senese - con un grande apprezzamento per il loro lavoro artistico e il supporto della Casa Circondariale e della Croce Rossa Italiana, tutti sempre sensibili alle esigenze dei piccoli pazienti". Radio Uno. Faranda: ho il dubbio di non aver fatto abbastanza per salvare Moro di Valeria Palumbo Corriere della Sera, 29 aprile 2016 L’ex brigatista rossa parla degli anni di piombo a Radio Uno: "La violenza va tenuta fuori da qualsiasi forma di conflitto". E aggiunge: "Avrei dovuto forse uscire immediatamente dalle Br". Adriana Faranda, 65 anni, la "postina" delle Br, tra i responsabili del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte dei terroristi rossi che, il 16 marzo 1978 uccisero anche i cinque uomini della scorta, ribadisce di aver fatto di tutto per convincere i compagni a non uccidere il politico. Lo dice a Carla Manzocchi di Radio Uno: Moro "era ormai una persona diversa, indifesa e lasciata sola dai compagni di partito". "Il bilancio è estremamente amaro" - L’ex terrorista, arrestata nel 1979, si è dissociata negli anni Ottanta e ha goduto delle progressive riduzioni di pena: nel 1994 è uscita dal carcere. A Radio Uno ha detto: "Io credo che l’odio irrisolto e la violenza non possano partorire un mondo più giusto, un mondo migliore. Il bilancio è estremamente amaro". La Faranda parla soprattutto dell’incontro con i familiari dello statista ucciso dalle Br: "sono momenti difficili, sai che è impossibile mettere rimedio a ciò che è stato fatto". In particolare l’ex brigatista ha incontrato Agnese Moro, la figlia di Aldo: insieme, nell’ottobre 2015, hanno affrontato il palco di Bookcity per la presentazione de Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto (ilSaggiatore). "Sei davanti a una persona che sai di aver ferito in maniera irrimediabile" - Faranda ribadisce: "Rispetto il dolore dei familiari di chi è stato ucciso in quegli anni terribili" ha precisato. E ha spiegato che l’incontro con Agnese Moro, figlia dello statista dc, è stato "emozionante e difficile dal punto vista emotivo. Sono momenti intensi in cui c’è timore, perché sei davanti a una persona che sai di aver ferito in maniera irrimediabile". Agnese Moro, a sua volta, aveva detto di "aspirare a essere una ex vittima. Io amerò per sempre mio padre, ma voglio andare avanti". "Avrei dovuto forse uscire immediatamente dalle Br" - "Ho sempre il dubbio- ha aggiunto Adriana Faranda - di non aver fatto abbastanza per evitare la condanna a morte di Moro. Avrei dovuto forse uscire immediatamente dalle Br. Credo di aver usato tutti gli argomenti possibili per fare una battaglia politica all’interno: per esempio dicendo che Moro era indifeso, che non era più l’uomo politico che avevamo sequestrato perché era ormai una persona lasciata sola dai suoi compagni di partito che si rivelava in tutta la sua umanità". Quando all’aspetto storico e giudiziario, Faranda ha sostenuto a Radio Uno: "Oggi posso affermare di aver detto tutto ciò che sapevo del delitto Moro, non ho altro da aggiungere". E, in particolare, rispetto alle ipotesi che le Br fossero "eterodirette", che ci fossero degli infiltrati: "di questo non ho avuto alcuna percezione. Le ipotesi lasciano il tempo che trovano". Migranti. Alfano e Sobotka dicono cose diverse ma fingono di essere d’accordo di Leo Lancari Il Manifesto, 29 aprile 2016 Brennero. Vertice al Viminale con il ministro austriaco. Per il momento lo scontro con Vienna è rimandato. "Abbiamo evitato fino ad ora una crisi e la chiusura del Brennero", annuncia il ministro degli Interni Angelino Alfano al termine dell’incontro avuto con il collega austriaco Wolfang Sobotka. Che conferma quanto detto dal titolare del Viminale, stando però bene attento a sottolineare i passaggi che interessano di più Vienna: l’Austria non costruirà nessuna barriera finché non ce ne sarà bisogno, spiega, altrimenti la recinzione al confine verrà fatta anche se, dice, "servirà solo a incanalare il traffico per i controlli". Sobotka risponde poi anche al premier Matteo Renzi che due giorni fa ha accusato Vienna di violare le norme europee. "L’Austria non fa nulla contro il diritto europeo - assicura. Rispetta la convenzione di Ginevra e ha appena varato una legge sull’asilo. Ci muoviamo sempre in base al diritto europeo e ci auguriamo che lo stesso facciano tutti". Di sicuro ieri non si è firmata nessuna pace, al massimo una tregua e anche abbastanza fragile. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’impressione è che Roma e Vienna continuino a perseguire obiettivi diversi e che la convergenza di intenti mostrata dai due ministri serva solo a rassicurare le rispettive opinioni pubbliche. Del resto non sarebbe la prima volta. Dopo il primo annuncio austriaco di voler chiudere il valico del Brennero, esattamente venti giorni fa Alfano ha incontrato al Viminale il predecessore di Sobotka, l’allora ministra Johanna Mikl-Leitner, assicurando anche quella volta massima comunione di intenti tra i due Paesi. Durò tre giorni, poi l’Austria confermò l’intenzione di andare avanti con il progetto. Ora si rischia di rivedere la stessa scena. Per ora, però, sembra prevalere l’ottimismo. Alfano ha annunciato che il governo austriaco ha accettato il piano predisposto dall’Italia per evitare flussi di migranti verso il confine. Piano che consiste nell’identificazione di quanti sbarcano sulle nostre coste (cosa che già avviene oggi), ma anche predisporre hotspot sulle navi impegnate nel canale di Sicilia per identificare e smistare i migranti. Idea che sembra però essere più che altro uno spot elettorale, visto che l’esame delle richieste di asilo prevede la possibilità di fare ricorso in caso di respingimento e che comunque senza un accordo dell’Europa, i migranti verrebbero portati sempre in Italia. Per quanto riguarda poi la richiesta austriaca di poter controllare direttamente chi viaggia sui treni diretti al Brennero, i due ministri affermano cose diametralmente diverse: per Alfano l’Italia avrebbe respinto con un secco "no" la richiesta di Vienna, ma il rifiuto deve essere sfuggito al ministro austriaco, che invece nel corso di una conferenza stampa in serata all’ambasciata del suo paese, si è detto "molto lieto" del fatto che presto pattuglie miste italo-austriache controlleranno insieme i convogli ferroviari. Le ultime mosse di Vienna preoccupano comunque l’Unione europea, anche perché rischiano di rappresentare la spallata definitiva la trattato di Schengen. La possibile chiusura del Brennero sarà quindi oggetto dell’incontro fissato per il 9 maggio tra Renzi e il presidente della Commissione Ue Jean Claude Junker, mentre il segretario dell’Onu Ban Ki-moon si è detto "allarmato per il rigurgito di xenofobia" che si è manifestato in Austria. Egitto: dieci capi d’imputazione per il consulente dei Regeni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 aprile 2016 Dieci capi di accusa pesano sulla testa di Ahmed Abdallah, avvocato egiziano difensore dei diritti umani, responsabile della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà (Ecrf) e consulente della famiglia Regeni da due mesi. Tra i reati che Abdallah avrebbe commesso - secondo le autorità egiziane - ci sono l’incitamento all’uso della forza per rovesciare il governo e cambiare la costituzione, l’incitamento ad attaccare stazioni di polizia con fini terroristici e a usare la violenza per impedire al presidente di esercitare i propri poteri e - ultimo ma non per importanza - l’appartenenza ad un gruppo terroristico. Quale gruppo, non è dato saperlo. Secondo la polizia, di questa fantomatica cellula farebbero parte 47 persone (di cui 21 già agli arresti) e sarebbe collegato alla Fratellanza Musulmana. Il rischio è enorme: la pena di morte. Su questo si basa l’ordine che ha allungato da quattro giorni a due settimane la detenzione dell’avvocato, noto per l’attenzione posta sulle sparizioni forzate di cittadini egiziani, di cui Giulio Regeni è stato vittima. E se ieri la procura egiziana negava con vigore che l’arresto di Abdallah fosse legato al caso del giovane ricercatore (in commissariato è finito, dicono, "per partecipazione a manifestazioni non autorizzate"), ieri si è fatta strada una versione ben diversa: secondo l’avvocato Anas Sayed di Ecrf, la procura di Heliopolis, distretto est del Cairo, ha chiesto ad Abdallah dei propri legami con la famiglia Regeni. Una richiesta "informale" durante un colloquio "informale", ovvero apparentemente slegato da reati di cui è ufficialmente accusato: "So che gli è stato chiesto dei suoi rapporti con i Regeni in un colloquio informale - ha detto Sayed all’Agenzia Nova - a prescindere dalle indagini sulle presunte violazioni della legge anti-terrorismo". Dietro le sbarre è finito all’alba del 25 aprile, prima della manifestazione anti-governativa annunciata nei giorni precedenti. È uno dei quasi 400 egiziani arrestati preventivamente dalle forze di sicurezza chiamate a impedire una protesta che lascia nudo il presidente-golpista al-Sisi. I numeri li dà Human Rights Watch: la polizia egiziana ha arrestato almeno 382 persone durante le proteste di massa contro il governo e la decisione di cedere le isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. "La politica della tolleranza zero in Egitto contro le proteste lascia la gente senza mezzi per esprimere pacificamente le proprie lamentele - ha detto Nadim Houry, vice direttore di Hrw in Medio Oriente - Manifestare può significare passare anni in prigione". A poco, però, sembra essere servita la campagna di detenzioni: ieri Il Cairo ha fatto da palcoscenico ad un’altra manifestazione. Decine di persone hanno marciato dalla sede del Sindacato della Stampa egiziana verso l’ufficio della procura della capitale per denunciare un reato: l’arresto e gli abusi compiuti contro i reporter lunedì 25 aprile e l’attacco alla sede del sindacato, lo stesso giorno. Nelle sei pagine di denuncia mossa contro il ministero degli Interni e il dipartimento della sicurezza interna della capitale ci sono le testimonianze dirette dei giornalisti aggrediti o detenuti dalle forze di sicurezza. Dei 33 arrestati sono ancora sei - riporta Khaled al-Meery, membro della segreteria del sindacato - i reporter ancora in prigione, senza accuse formali contro di loro. La denuncia va a colpire due figure centrali del regime militare del presidente al-Sisi, i suoi uomini di fiducia: il ministro degli Interni Ghaffar e Khaled Abdel Aal, capo della sicurezza interna al Cairo. Regeni, il pressing di Gentiloni sull’Egitto: "Adesso serve una collaborazione seria" La Stampa, 29 aprile 2016 Il ritorno alla normalità delle relazioni con l’Egitto "dipende da una collaborazione seria" sul caso Regeni. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, incalza le autorità del Cairo e torna a chiedere di fare luce sulla vicenda del ricercatore italiano ucciso. La procura di Roma ha inviato una nuova rogatoria in Egitto. Il titolare della Farnesina, nel corso di un’intervista su Radio Rai, spiega che "ci sono nuovi contatti, vedremo se produrranno risultati". "Purtroppo - aggiunge Gentiloni - la situazione è ancora questa, la nostra ricerca della verità ha avuto risultati poco soddisfacenti e la collaborazione promessa dall’Egitto per far luce sull’omicidio è stata finora assolutamente inadeguata. Abbiamo richiamato il nostro ambasciatore e questo in diplomazia è un gesto molto forte". Ieri Matteo Renzi, rispondendo via Twiter ai cittadini, aveva confermato che l’Italia sta continuando a premere per ottenere la verità sull’omicidio e a chiedere agli altri Stati europei di fare lo stesso. Oltre al braccio di ferro diplomatico, un’altra notizia dal Cairo ha contribuito ad accrescere la tensione sulla vicenda. Due giorni fa la procura egiziana ha deciso di estendere per altri 15 giorni il fermo del consulente della famiglia Regeni, ma si è affrettata a sottolineare che il provvedimento contro Ahmed Abdallah non aveva nulla a che vedere con l’omicidio del ricercatore italiano. Amministratore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’attivista è stato arrestato - questa la versione delle autorità giudiziarie - per aver "manifestato senza autorizzazione" contro l’accordo di limitazione delle frontiere tra Egitto e Arabia Saudita (che prevede la cessione a quest’ultima di due isole del Mar Rosso, Tiran e Sanafir). L’ingegnere è inoltre accusato dalla procura del Cairo di aver pubblicato notizie false, di essere "ricorso alla violenza e di aver minacciato la pace sociale, l’ordine e l’interesse pubblico". Per Amnesty International, su Abdallah peserebbe anche un’accusa di adesione a un gruppo "terroristico e promozione del "terrorismo". Martedì era è stata proprio la famiglia Regeni a denunciarne l’arresto esprimendo angoscia e preoccupazione per il recente giro di vite del regime egiziano ai danni di attivisti, giornalisti e avvocati, che in qualche modo stanno indagando attorno all’omicidio di Giulio. Abdallah stava infatti offrendo una consulenza ai legali della famiglia nel tentativo di raccogliere elementi utili sul caso del ricercatore. Ma la procura nega categoricamente che tra il brutale omicidio di Regeni e l’arresto del consulente della sua famiglia ci sia un legame. Il caso, sottolineano fonti giudiziarie, non ha "nulla a che fare con la famiglia dello studente italiano". Il fermo dell’attivista continua a suscitare reazioni politiche in Italia. Il comportamento dell’Egitto è "spudorato" per il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani che ha lanciato, insieme con oltre 90 eurodeputati di paesi e partiti diversi, "una petizione ai giovani ricercatori italiani a non andare in Egitto". Libia: niente truppe, solo incursori di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 29 aprile 2016 Il titolare della Farnesina: Non ci sono le condizioni, né la richiesta del governo Serraj né il mandato Onu. Con un ritardo di 119 giorni, arriva oggi in Consiglio dei ministri il decreto missioni. Quella in Libia non ci sarà, dice Paolo Gentiloni. O sarà avvolta nella nebbia. La missione militare in Libia può attendere, è questo che si deduce dalle risposte del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla question time di ieri e dai tweet, piuttosto drastici, del premier Renzi. A interrogare il ministro era il gruppo di Sinistra italiana, che ha chiesto conto al governo della girandola di annunci e numeri di contingenti miliari pronti a partire apparsi nelle ultime settimane sulla stampa. La ministra della Difesa in una intervista aveva parlato di 5 mila uomini da inviare il Libia. Più recentemente le indiscrezioni riducevano il numero a 900 soldati e poi, per altri giornali, a 250. Matteo Renzi ieri chattando su Twitter ha risposto con un secco "No" a questa ipotesi. Ed è toccato a Gentiloni spiegare meglio che "il governo non ha nessuna intenzione di inviare forze militari in Libia al di fuori del contesto di cui abbiamo parlato in queste settimane che è un contesto che non si è realizzato". Due erano le condizioni che al momento non si sono realizzate: un mandato delle Nazioni unite e una richiesta d’intervento del governo unitario di Fayez al-Serraj. La richiesta non è arrivata "neanche per la protezione dei pozzi", ha specificato il titolare della Farnesina. Sinistra italiana, nella sua interrogazione orale, ha chiesto anche che fine avesse fatto il decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero, scaduto ormai dal 31 dicembre e quindi in ritardo di 118 giorni. Gentiloni ha risposto che il decreto missioni arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri giusto oggi, il 119° giorno. "In questo modo però - spiega Erasmo Palazzotto, deputato di Sel e vice presidente della commissione Esteri della Camera - visto che il decreto è quadrimestrale, il Parlamento sarà chiamato a una mera ratifica della spesa e delle decisioni già prese dal governo, senza poter minimamente fare una valutazione sulla visione strategica della politica estera né sulle singole missioni". Una cortina fumogena sembra essere calata sul ruolo dell’Italia in Libia e negli altri teatri di conflitto. In questa nebbia di ritardi e false partenze, annunci e smentite, armati pronti a partire ma non partiti, si sono perse del tutto le tracce della legge quadro sulle missioni militari all’estero. La legge avrebbe riformato l’intero approccio: il Parlamento non sarebbe più stato chiamato a ratificare periodicamente un unico elenco di capitoli di spesa per missioni con scopi e mandati anche assai diversi, ma avrebbe potuto prendere in esame i singoli interventi militare uno per uno, ognuno con un proprio procedimento deliberativo e relativa discussione parlamentare per l’autorizzazione di spesa. La legge quadro era già a buon punto perché, passata al vaglio della Camera, stava tornando a Montecitorio dal Senato. Ma ad un tratto, quando era prossima al traguardo, dice Palazzotto, "è sparita". Nel frattempo è stato introdotto un meccanismo autorizzativo sull’impiego delle forze speciali che sembra proprio un Cavallo di Troia per estromettere il Parlamento dal controllo sulla materia "guerra & affini". Con un decreto di pochi, succinti, articoli del 10 febbraio scorso, come ha confermato il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore, oggi vicepresidente dell’Istituto Affari internazionali, si danno "garanzie funzionali" pari a quelle degli 007, cioè dei funzionari Aise - il Servizio d’intelligence estero dell’Italia - anche a unità dell’esercito. O meglio a unità delle "forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa". In sostanza il presidente del Consiglio potrebbe aver inviato o inviare una cinquantina di incursori del Col Moschin per collaborare alla sicurezza del governo Serraj a Tripoli. E questo senza passare dal Parlamento ma inviando solo una informativa al Copasir, il Comitato parlamentare sui Servizi segreti. "In questo modo stravolgendo il principio per cui i corpi speciali dell’esercito non possono essere utilizzati in scenari di conflitto se non previa autorizzazione parlamentare", spiega Erasmo Palazzotto. Da notare che il Copasir è anch’esso sottomesso a doveri di segretezza. Quando Gentiloni afferma, come ieri alla question time, che in Libia l’Italia mira a un processo di stabilizzazione che sarà "lungo, graduale e faticoso", aggiunge che l’embargo delle armi alla Libia deve essere "modificato per azioni antiterrorismo in un quadro bilaterale e multilaterale". Armi e forze speciali, dunque, non truppe. E navi d’appoggio. Siria: strage di civili ad Aleppo, colpito l’ospedale di Msf di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 aprile 2016 Siria. Oltre 30 i morti, tra i quali 14 pazienti e tre medici, nel raid aereo attribuito all’aviazione governativa. Damasco nega e denuncia le cannonate dei ribelli che, sempre ad Aleppo, hanno ucciso una decina di civili. Sfumato il cessate il fuoco, negoziati più lontani. L’escalation di questi ultimi giorni è sfociata ieri ad Aleppo una delle pagine più insanguinate della guerra civile siriana. Nel giro di poche ore 40 civili sono stati uccisi da bombardamenti governativi e tiri delle forze ribelli. Almeno 30 sono morti in violento raid aereo, attribuito da più parti all’aviazione governativa, che ha colpito un ospedale da campo gestito da Medici Senza Frontiere e dalla Croce Rossa Internazionale. Poco dopo altri 10 civili sono caduti sotto il fuoco delle formazioni ribelli che combattono contro Damasco. Tutte vittime innocenti del fallimento del cessate il fuoco cominciato a fine febbraio e che ha regalato alla popolazione siriana un breve periodo di calma relativa. La ripresa, negli ultimi giorni, dei combattimenti è stata spiegata in modo superficiale, come risultato del rafforzamento del presidente Bashar Assad che, grazie ai successi ottenuti dal suo esercito, avrebbe scelto la forza e non il negoziato con le opposizioni. Il quadro è più complesso. Anche ribelli e jihadisti hanno violato la tregua più volte per consolidare le loro posizioni sul terreno e rispondere all’accerchiamento da parte dell’esercito che ora controlla buona parte dell’area intorno ad Aleppo. Le immagini messe in rete da giornalisti e attivisti locali e mandate in onda dalle tv di tutto il mondo, mostravano ieri scene di rovine, di soccorritori avvolti da una polvere densa che estraevano dalle macerie i corpi delle vittime, tra le urla di disperazione di parenti e sopravvissuti. Tanti i feriti portati via con mezzi di fortuna. Le bombe hanno colpito in particolare l’ospedale al Quds e alcune abitazioni vicine, nel quartiere di Sukkari che si trova nella parte di Aleppo sotto il controllo delle milizie ribelli e jihadiste. Tra i morti ci sono 14 medici e pazienti, tra i quali l’ultimo pediatra rimasto in quella parte della città, il dottor Wassim Maaz. Medici senza Frontiere ha condannato l’attacco che ha distrutto un ospedale che era anche il principale centro pediatrico dell’area. "Dov’è l’indignazione di chi ha il potere e il dovere di fermare questo massacro?… A rafforzare questa tragedia si aggiunge la dedizione e l’impegno dello staff dell’ospedale, che lavorava in condizioni inimmaginabili, senza mai vacillare, dall’inizio di questo sanguinoso conflitto", ha detto Muskilda Zancada, capomissione di Msf in Siria. L’ospedale al Quds, dotato di 34 posti letto, forniva servizi di pronto soccorso, cure ostetriche, terapia intensiva; aveva una sala operatoria, un ambulatorio e un reparto di degenza e vi lavoravano a tempo pieno 8 medici e 28 infermieri. Forte la condanna della Croce Rossa Internazionale (Cicr): "L’attacco contro l’ospedale Quds è inaccettabile e purtroppo non è la prima volta che servizi medici salvavita sono colpiti", ha commentato con amarezza Marianne Gasser, capo della missione del Cicr in Siria, "esortiamo tutte le parti a risparmiare i civili, a non colpire gli ospedali…Nel caso contrario, Aleppo sarà spinta sull’orlo del disastro umanitario". L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), vicino all’opposizione anti Bashar Assad, sostiene che 139 civili sarebbero morti sotto le bombe sganciate da elicotteri e caccia governativi negli ultimi sei giorni. E tra i morti si conterebbero 23 tra bambini e adolescenti e 15 donne. Per Anas al-Abdeh, capo della Coalizione Nazionale dell’opposizione siriana, parte di questi morti sarebbero stati causati da raid dell’aviazione russa che, a suo dire, ha colpito Aleppo assieme ai caccia governativi. Una versione smentita con forza dal ministero della difesa russo che ha chiamato in causa le forze aeree della Coalizione anti-Isis guidata dagli Usa. "Secondo i dati in nostro possesso - ha comunicato il ministero russo - la sera del 27 aprile nello spazio aereo di Aleppo per la prima volta dopo un lungo intervallo ha operato un aereo di uno dei paesi della cosiddetta coalizione anti-Isis". Anche Damasco respinge le accuse e nega di aver bombardato l’ospedale al Quds. "Queste notizie - ha scritto l’agenzia statale Sana - intendono coprire i crimini commessi dai terroristi contro la popolazione" mentre "almeno nove civili sono stati uccisi e decine feriti da bombardamenti dei terroristi con razzi e da spari di cecchini" contro la parte di Aleppo che è sotto il controllo governativo. Damasco ha anche denunciato l’ingresso nel nord del Paese di 150 soldati americani, prima parte di un contingente di 250 militari che Barack Obama aveva detto di voler inviare in Siria. "È un chiaro atto di aggressione" ha protestato il ministero degli esteri. La strada della guerra totale è di nuovo aperta e poco potrà fare l’inviato speciale dell’Onu, Staffan de Mistura, che la prossima settimana incontrerà a Mosca il capo della diplomazia russa Serghiei Lavrov per discutere di negoziati in cui nessun siriano pro o anti Assad crede. E crescono le pressioni sul presidente siriano, che a maggio dovrebbe nominare un nuovo governo, al quale Londra, Parigi, Washington e altre capitali occidentali chiedono di nuovo di farsi da parte. Stati Uniti: carcerati del Texas in agitazione contro il lavoro forzato Contropiano.org, 29 aprile 2016 I detenuti di cinque carceri del Texas si sono impegnati a rifiutare di lasciare le loro celle. È uno sciopero contro il lavoro forzato nelle carceri. I motivi dello sciopero sono ben spiegati in un volantino di 5 pagine scritto dai detenuti che hanno utilizzato la capacità di organizzarsi senza essere individuati, nonostante il rigido controllo del sistema penitenziario degli Usa. Così inizia il volantino: "A partire dal 4 aprile 2016, tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas". Le richieste dei detenuti vanno dalla riforma del sistema della libertà condizionale, a quelle per rendere più umane le condizioni di detenzione, per ridurre e abolire la pratica dell’isolamento. Si chiede inoltre un credito di "buona condotta" per la riduzione della pena, per migliorare il sistema sanitario e per metter fine al contributo medico di $ 100; in conclusione per un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato. In Texas, i prigionieri hanno tradizionalmente lavorato in aziende agricole, nell’allevamento di maiali e nella raccolta del cotone, in particolare nel Texas orientale, dove molte carceri occupano ex piantagioni. La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare, e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un’analista di politica penale, ha detto a Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all’ora". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l’amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto". Erica Gammill, direttore di Justice League, un’organizzazione che lavora con i detenuti in 109 carceri del Texas. "Vengono pagati nulla, zero. È essenzialmente lavoro forzato. Non vogliono pagare i lavoratori del carcere, dicendo che il denaro serve per vitto, alloggio e per compensare il costo della loro detenzione". La maggior parte dei prigionieri lavorano per le carceri stesse, prendendo ben al di sotto del salario minimo in alcuni stati, e non più di 17 centesimi all’ora in strutture gestite da privati. In Texas e pochi altri stati, soprattutto nel Sud, i prigionieri non vengono pagati affatto. Nonostante le difficoltà di comunicazioni tra detenuti di diverse carceri, la mobilitazione si sta diffondendo in tutte le carceri: Dal 1° aprile, un gruppo di prigionieri di Ohio, Alabama, Virginia, e Mississippi ha organizzato uno "sciopero di prigionieri coordinato a livello nazionale contro la schiavitù in carcere" che si terrà il 9 settembre, nel 45° anniversario della rivolta nella prigione Attica. "Chiediamo non solo la fine della schiavitù in carcere, smetteremo di essere schiavi noi stessi". "Non possono mandare avanti queste strutture senza di noi". Le proteste e gli scioperi nelle carceri Usa hanno visto una rinascita negli ultimi anni dopo un rallentamento dovuto al maggiore uso dell’isolamento nei confronti dei detenuti politicamente attivi. Nel 2010, migliaia di detenuti provenienti da almeno sei carceri della Georgia, organizzati attraverso una rete di telefoni cellulari di contrabbando, si sono rifiutati di lasciare le loro celle per andare a lavorare, chiedendo migliori condizioni di vita e un compenso per il loro lavoro. Sono seguite proteste carcerarie in Illinois, Virginia, North Carolina, e Washington. Nel 2013, i prigionieri della California si sono coordinati in uno sciopero della fame per protestare contro l’uso dell’isolamento. Il primo giorno di quella protesta, 30.000 prigionieri in tutto lo Stato hanno rifiutato il pasto. A marzo, sono scoppiate proteste a Holman Correctional Facility, un carcere di massima sicurezza in Alabama: almeno 100 prigionieri hanno preso il controllo di una parte della prigione e accoltellato una guardia e il guardiano. "Dobbiamo lottare contro l’economia del sistema di giustizia penale, perché se non lo facciamo, non possiamo costringerli a ridimensionarsi" ha detto un attivista. "Appiccando incendi e cose del genere che si ottiene l’attenzione dei media. Ma io voglio organizzare qualcosa che non sia violento. Se ci rifiutiamo di lavorare gratis, costringeremo l’istituzione a prendere delle decisioni". "La schiavitù è sempre stata un istituto giuridico", ha aggiunto. "E non è mai finita. Esiste ancora oggi attraverso il sistema di giustizia penale". Gran Bretagna: il miglior studente di Cambridge in criminologia? È un detenuto di Paola De Carolis Corriere della Sera, 29 aprile 2016 Gareth, 28 anni, ha seguito i corsi da dietro le sbarre. Quando uscirà, la prestigiosa università inglese gli ha offerto la possibilità di frequentare un master in filosofia. Così potrà "tornare dentro" per riabilitare i suoi ex compagni di cella. Di Gareth, "studente modello" di Cambridge che sta scontando la sua pena in un carcere del Buckinghamshire, il ministero della Giustizia non ha reso noto né il cognome né il reato. È cominciato come esperimento: un corso di otto settimane organizzato dell’università di Cambridge e aperto agli studenti dell’antico ateneo così come ai detenuti di un carcere nel Buckinghamshire. La materia? Un tema caro ad entrambi i gruppi. Criminologia. Sorprendente è stato l’esito. Il candidato che ha ottenuto i voti più alti è un carcerato. Si chiama Gareth, ha 28anni, cinque dei quali già trascorsi dietro le sbarre. Il ministero della giustizia non ha reso noto né il cognome, né il reato commesso, si sa però che per Gareth il corso ha rappresentato l’opportunità di voltare pagina. La nuova vita del detenuto Gareth - La sua vita, ha fatto sapere, prenderà adesso una direzione diversa. Una volta scontata la pena si trasferirà al Pembroke College di Cambridge, dove, grazie ai risultati del corso, gli è stato offerto un posto per un master in filosofia (indirizzo, criminologia). Dopo il master spera di tornare dentro, non come detenuto, bensì per migliorare le condizioni delle carceri e la riabilitazione dei loro occupanti. Prima di essere contattato da Cambridge, Gareth stava già studiando per la laurea con la Open University, un’organizzazione che permette agli studenti di completare gli studi a distanza (posta, email e Skype). Se all’inizio lo preoccupava l’idea di diventare una cavia, un elemento da studiare piuttosto che uno studente vero e proprio, è rimasto piacevolmente sorpreso. Cosa hanno imparato gli studenti di Cambridge dai carcerati - Il corso ha reso possibile lo scambio di idee tra studenti e detenuti e non sono solo gli allievi di Cambridge ad averne tratto beneficio. "Parlare con loro è diverso - ha raccontato Gareth. Il carcere vuol dire essere isolato, non solo fisicamente, ma anche emotivamente. Abbiamo scoperto di avere molto in comune". Il corso, Learning together (imparare insieme), è stato organizzato da due professoresse di Cambridge, Amy Ludlow e Ruth Armstrong, che sono rimaste molto soddisfatte dall’esito e ripeteranno l’esperimento. "Gareth ha dimostrato di avere abilità sorprendenti: una notevole finezza di pensiero completata da facilità espressive".