Garante nazionale dei detenuti, ecco la sfida di Mauro Palma di Errico Novi Il Dubbio, 28 aprile 2016 Gli uffici sono tutt’uno con il carcere, nel senso architettonico dell’espressione. Il Garante nazionale dei detenuti, organismo costituitosi da meno di due mesi, ha sede in un palazzetto addossato a Regina Coeli. "Qui c’era il commissario del piano carceri", spiega il presidente Mauro Palma, "ma i locali erano da risistemare: hanno provveduto direttamente alcuni detenuti di Rebibbia". Stile francescano, missione ai limiti dell’impossibile: cambiare la cultura della pena in Italia. Diversamente dall’Anac di Cantone, l’autorità nominata dal presidente della Repubblica su indicazione del Guardasigilli non è stata accolta da fanfare e fuochi d’artificio. Ieri ha incontrato per la prima volta la stampa, conta su una dotazione di personale di appena 9 unità (a pieno regime saranno 25). Eppure il Garante potrebbe avere un ruolo decisivo nella riforma del sistema penitenziario. Sarà preziosa, per il ministro Orlando, per sollecitare Renzi ad attuare le proposte degli Stati generali e destinare un po’ di risorse in più alle misure alternative. Come? "Il nostro lavoro si svolgerà su due piani paralleli", spiega Palma. "Da una parte il rapporto con le istituzioni: ogni anno presenteremo una relazione al Parlamento, potremo interagire con il Dap come con l’Interno, ad esempio per il rimpatrio degli immigrati irregolari. Opereremo con lo strumento della moral suasion". L’altro piano d’intervento è nell’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica: "È un passaggio successivo ma altrettanto importante", spiega una delle due componenti che affiancano Palma, la penalista Emilia Rossi. "Intervenire sulla consapevolezza sociale del carcere è per noi un obiettivo prioritario", aggiunge il presidente. Le campagne e le denunce dell’organismo partiranno ovviamente dalle ispezioni e dalle verifiche sul rispetto dei diritti. Palma è una figura di primissimo piano, in Italia, dell’impegno per la modernizzazione del sistema penitenziario. Ha presieduto per un lustro il Comitato per la Prevenzione della tortura al Consiglio d’Europa, da ultimo è stato al vertice della commissione ministeriale sui problemi della detenzione. Un’autorità riconosciuta. Emilia Rossi è una penalista molto impegnata negli organismi di categoria, in particolare per la revisione delle asprezze normative più insopportabili, Daniela de Robert è caposervizio Esteri al Tg2 e ha dedicato molte energie al volontariato nelle carceri, oggetto di alcuni suoi libri. Avranno a disposizione un budget piccolo piccolo: 200mila euro, che dovranno bastare sia per i rimborsi che per organizzare le visite nei penitenziari (il personale è in distacco da altre amministrazioni, che continueranno a pagare gli stipendi). Se non altro, il decreto che istituisce l’organismo conferisce poteri almeno ispettivi di un certo rilievo: Palma, Rossi e de Robert potranno effettuare visite nelle carceri senza autorizzazione e, salvo eccezioni dovute a motivi di sicurezza, senza preavviso. Potranno avere colloqui riservati con qualsiasi recluso, anche con chi è al 41 bis. E proprio sul tema del carcere duro Palma promette massima vigilanza "affinché venga applicata la lettera della legge: impedire che il detenuto possa innescare la catena di comando malavitosa, punto. Vanno evitate ulteriori e inutili afflizioni". I tre componenti dell’organismo restano in carica 5 anni, non sono "rieleggibili" ma nemmeno revocabili. La mission rientra nella Convenzione Onu contro la tortura. E, come spiega Palma, ha una sostanza molto precisa: fare in modo che le norme non restino sulla carta. "Noi le chiamiamo stanze di pernottamento, in altri Paesi sono più brutalmente celle, ma spesso restano aperte molto più a lungo che da noi". L’auspicio, dice il Garante, è che tra cinque anni paradossi come questo siano superati. Garante nazionale dei detenuti, visite "a sorpresa" anche ai reparti del 41bis Giornale di Sicilia, 28 aprile 2016 Potere di accesso e visita "a sorpresa", senza autorizzazione e senza preavviso nelle carceri e nei luoghi in cui sono ristrette persone private della libertà personale, comprese le sezioni in cui sono detenuti soggetti in regime di 41bis. Potere di colloquio riservato con qualunque persona privata della libertà personale, anche in questo caso senza autorizzazione, preavviso e testimoni, anche nei confronti di 41 bis. Facoltà di fare proposte e osservazioni in relazione alla legislazione in vigore. Dovere di indipendenza e autonomia. Dovere di riservatezza e non comunicazione, se non agli organi istituzionali. È il profilo del nuovo Garante nazionale dei diritti dei detenuti, presieduto da Mauro Palma a cui si affiancano altre due membri del collegio: Emilia Rossi e Daniela de Robert. Le nomine, proposte dal ministro della Giustizia, vagliate dalle commissione Giustizia di Camera e Senato, e designate dal Presidente della Repubblica, sono state completate il 3 marzo scorso. La struttura - che oggi si è presentata e ha illustrato la propria attività - ha appena iniziato a lavorare, ma in poche settimane ha ricevuto una cinquantina di segnalazioni e ha visitato diverse carceri, tra cui Padova, Venezia, Reggio Calabria, Catanzaro e anche Oristano, ma solo per quel che riguarda la sezione di alta sicurezza. Le segnalazioni di diritti violati da parte dei detenuti saranno una parte dell’attività del Garante, su cui però continueranno a lavorare anche i garanti regionali: l’ufficio coordinato da Palma esaminerà la corrispondenza, risponderà, ma soprattutto ne terrà conto per intervenire non su singoli casi, ma piuttosto su problematiche generali che emergano. Tra i primi filoni di attività ci saranno, ad esempio, "il trattamento dei soggetti in alta sicurezza, con particolare riferimento ai trasferimenti, che spesso interrompono un iter di recupero in atto", ha spiegato Palma; e poi la sanità, in particolare gli aspetti della malattia mentale. I risultati saranno anche di supporto all’attività dei magistrati di sorveglianza - hanno spiegato Rossi e de Robert - che spesso per necessità sono più concentrati sull’applicazione delle misure, comprese quelle alternative al carcere, che sulle verifiche legate alle condizioni di vita detentiva. Il collegio del Garante resta in carica 5 anni e non è rinnovabile. I componenti non possono ricoprire ruoli politici in contemporanea, né far parte della pubblica amministrazione. Ogni anno l’attività svolta sarà oggetto di una relazione al Parlamento. Attualmente lo staff operativo è composto da 9 persone, tutte provenienti dai ranghi della p.a., che quindi, essendo già stipendiate, non gravano sul bilancio; l’intenzione è di aumentare via via le unità fino ad arrivare a una trentina di persone. Il budget è di 200 mila di euro stanziati con la legge di Stabilità e copre i costi per le remunerazioni dei tre componenti il collegio e per l’attività di visite e ispezioni: non è una cifra altissima, ma "un punto di partenza", fanno notare i tre membri. La struttura entrerà a regime con l’autunno. L’impegno del Cpt perché l’ergastolo non sia una pena di morte nascosta di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 28 aprile 2016 Nell’ultimo Rapporto annuale del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) vi è un capitolo dedicato all’ergastolo, pena che riguarda circa 27000 detenuti nello spazio del Consiglio d’Europa (dato del Council of Europe Annual Penal Statistic al 2014) una cifra cresciuta del 66% in dieci anni, come probabile effetto sia della sostituzione della pena di morte con l’ergastolo nei Paesi dell’ex blocco sovietico oltre che del generale inasprimento delle politiche criminali. La situazione è molto diversa tra i 47 Paesi membri poiché vi sono quelli che hanno abolito l’ergastolo, quelli che lo prevedono ma non l’hanno mai comminato, quelli che prevedono la possibilità di accedere alla liberazione condizionale dopo un certo periodo di tempo prestabilito - o a discrezione del magistrato - e quelli che invece questa possibilità la escludono. Papa Francesco ha detto che l’ergastolo è una "pena di morte nascosta" ed è indubbio che, nella storia dell’umanità, queste due punizioni - pena di morte e pena fino alla morte - si siano rincorse nella gara per la maggior sofferenza inflitta verso lo stesso traguardo, quello della morte, senza alcuna speranza di riammissione nel consesso umano e civile. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura è esplicito nel riconoscere al detenuto il diritto alla speranza e che "la detenzione a vita senza una reale possibilità di rilascio è inumana" perché preclude una delle funzioni essenziali del carcere, quello della riabilitazione. "Questo non significa che tutti gli ergastolani prima o poi debbano essere liberati", precisa il Cpt, che chiede che questa pena possa essere "sottoposta ad un riesame serio in un momento certo" e ricorda che la Corte penale internazionale, come i tribunali speciali internazionali, che giudica i fatti più gravi che possano essere commessi, genocidio, crimini contro l’umanità o quelli di guerra, non prevede il fine pena mai. Sulla base dell’esperienza del Cpt "gli ergastolani non sono, ineluttabilmente, più pericolosi di altri detenuti" e al pari degli altri "sono in carcere come punizione, non per ricevere punizioni". Perché la funzione di risocializzazione non sia abdicata, non deve essere loro inflitta una pena la cui sofferenza risulti intollerabile, ragion per cui non possono, ad esempio, essere reclusi per 23 ore al giorno, né può esservi automaticità tra tipo di condanna emessa e regime detentivo. La concezione che secondo me emerge è quella per cui l’individuo è al centro del sistema detentivo tant’è che il Cpt afferma che anche i detenuti più pericolosi possono cambiare non solo e non tanto per effetto del trascorrere del tempo della pena ma anche grazie ad un trattamento umano ed un programma mirato. Bisogna, in altre parole, tener conto della persona reclusa e dei suoi mutamenti. Allora, in questa concezione, il detenuto, ergastolano compreso, oltre ad avere diritto alla speranza è esso stesso speranza per il sistema. Per orientare gli Stati in tal senso si indicano dei punti cardinali: individualizzazione del piano di trattamento volto al reinserimento; normalità del regime detentivo; responsabilizzazione; sicurezza, con una chiara distinzione tra i rischi che un ergastolano pone per la comunità esterna e quella interna al carcere; non segregazione; progressione nel miglioramento del regime detentivo attraverso una partecipazione attiva del detenuto. La stessa Corte europea per i diritti umani sul punto va nel senso di chiedere agli Stati membri di prevedere nei rispettivi ordinamenti un momento certo entro il quale sia possibile riesaminare la pena con la conseguente necessaria previsione di una procedura volta alla riducibilità. Ne consegue che la detenzione deve essere organizzata in modo tale da permettere all’ergastolano di intraprendere un percorso di riabilitazione, vale a dire una certa flessibilità della esecuzione della pena in modo che si possa modellarla sull’evoluzione personale del detenuto. C’è ancora molto lavoro da fare, afferma il CPT. In effetti, permangono nodi che legano ancora molti Paesi alla "pena di morte nascosta" dell’ergastolo, nodi che van sciolti anche nel Paese riconosciuto nel mondo per la campagna per la moratoria universale della pena capitale, dove l’impianto dell’ergastolo ostativo, che riguarda oltre 1000 persone, prevede uno sbarramento normativo automatico, impermeabile ai cambiamenti dell’ergastolano non collaborante - intendiamoci, non collaborante alle indagini, non ai programmi trattamentali. Un tale impianto, a ben vedere, più che ai benefici penitenziari e al diritto alla speranza dei detenuti, osta proprio alla speranza nel diritto e nello Stato di Diritto. *Rappresentante italiana al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti disumani e degradanti Il Comitato prevenzione tortura in l’Italia: visitate carceri, Rems, questure e Opg Ansa, 28 aprile 2016 I reparti di massima sicurezza in cui sono reclusi i detenuti al 41 bis negli istituti penitenziari di Ascoli Piceno e Sassari, Como e Ivrea, ma anche le celle delle questure di Firenze, Genova e Torino, alcune Rems e l’Opg di Montelupo fiorentino: questi alcuni dei luoghi visitati dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa nel corso della sua visita in Italia conclusa il 21 aprile scorso. La sesta visita periodica del Comitato nel nostro Paese. Il Cpt ha valutato, secondo quanto riferisce una nota, le condizioni di detenzione e il trattamento delle persone detenute nelle carceri, in particolare per quanto riguarda le misure recentemente introdotte dalle autorità italiane per contenere il tasso di sovraffollamento. Per la prima volta, la delegazione del Comitato ha valutato la situazione dei pazienti psichiatrici alloggiati nelle residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems) realizzate dopo la chiusura degli Opg. Una visita è stata effettuata anche all’Opg di Montelupo Fiorentino ancora in funzione. Nel corso della visita, la delegazione del Cpt ha incontrato Andrea Orlando, ministro della Giustizia, Gennaro Migliore, Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia, Domenico Manzione, Sottosegretario di Stato del Ministero degli Interni e alti funzionari del Ministero della Salute, così come i rappresentanti dei Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato. La delegazione ha incontrato anche Mauro Palma, recentemente nominato capo dell’autorità nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Al termine della visita, la delegazione ha presentato le sue osservazioni preliminari alle autorità d’Italia. "Lo sguardo preventivo del comitato - commenta Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - è importante per evitare tentazioni di violenze e maltrattamenti, in particolare in luoghi come le Rems e le stazioni delle forze dell’ordine che sono meno soggetti al controllo pubblico". "Quando siamo stati ascoltati dalla delegazione - aggiunge Gonnella - abbiamo sottolineato con forza come in Italia ancora manchi il reato di tortura". Detenuti disabili, tra barriere e vecchi ausili: ecco cosa sta cambiando di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 aprile 2016 Sono 628 secondo l’ultimo censimento del Dap. Hanno difficoltà ad affrontare le comuni azioni della vita quotidiana; alcuni anche vedere, sentire, parlare. La sfida dell’accessibilità: interventi personalizzati, territorialità della pena e formazione dei detenuti caregiver. Quando hanno i requisiti per accedere alle misure alternative non sempre possono uscire dal carcere, perché fuori non ci sono strutture in grado di fornire loro la necessaria assistenza, devono fare i conti quotidianamente con celle ed ambienti non del tutto idonei a garantire una vivibilità accettabile e in qualche caso accedono a fatica alla presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale perché sprovvisti di documenti di residenza e conseguente Asl di riferimento. Nella maggioranza dei casi, al momento della liberazione, non riescono a beneficiare di una continuità terapeutica mentre i caregiver (detenuti incaricati di seguire e prendersi cura dei compagni disabili in carcere) non sempre hanno una formazione specifica. È la condizione dei detenuti con disabilità ristretti nelle carceri italiane. Sono 628, secondo l’ultimo censimento del Dap (agosto 2015): 528 italiani (26 donne) e 100 stranieri (8 donne), distribuiti in 16 regioni. 191 di loro (18 donne) hanno difficoltà ad affrontare le comuni azioni della vita quotidiana: lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, avere cura della persona, sedersi, alzarsi dal letto e dalla sedia. 153 (5 donne) hanno difficoltà nella mobilità corporea (ad esempio a uno degli arti). 232 (11 donne) hanno problemi di locomozione. 52 (1 donna) hanno difficoltà nella comunicazione: vedere, sentire, parlare. I problemi legati alla detenzione di queste persone sono stati al centro di 4 condanne arrivate all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per trattamento inumano e degradante, ma la situazione sta cambiando: una serie di buone prassi avviate nel 2012 in modo sperimentale in alcuni istituti hanno dato ottimi risultati e adesso, con una recente circolare, il Dap sta cercando di riformare e uniformare tutto il sistema penitenziario sulla scorta dei risultati raggiunti. La sfida di un carcere a misura di disabile passa, secondo Paola Montesanti, direttore dell’Ufficio IV "Servizi sanitari", della direzione generale detenuti e trattamento del Dap, attraverso interventi personalizzati, territorialità della pena e la formazione di detenuti in grado di prendersi cura di compagni di cella disabili (caregiver). Tra i primi passi in questa direzione la definizione di sistemi di informazione tempestiva sugli ingressi in carcere e di monitoraggio permanente delle presenze. In Italia sono 7 su 193 le carceri con reparti dedicati ai detenuti disabili; in molti altri sono disponibili celle con "ridotte barriere architettoniche". Ma spesso le "barriere" sono anche fuori dal carcere: difficile ad esempio accedere alle misure alternative anche quando se ne avrebbero i requisiti perché non ci sono strutture adeguate nelle città come denuncia da tempo Emanuele Goddi, della cooperativa Pid (Pronto Intervento Disagio) secondo cui c’è "assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio". Detenuti disabili: interventi personalizzati e caregiver formati nel carcere che verrà di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 aprile 2016 Intervista a Paola Montesanti, direttore dell’Ufficio Sanità del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ndr): "Troppo costoso creare un sistema di rete dei reparti, cerchiamo soluzioni di volta in volta". Si punta sulla formazione di detenuti caregiver". "Quando parliamo di disabili in carcere non parliamo di detenuti con patologie, ma con limitazioni. Non pensiamo alle patologie perché di quelle si occupa il servizio sanitario nazionale, noi lavoriamo per creare le condizioni idonee affinché queste persone possano esercitare i loro diritti, vivere una vita decorosa in istituto, entrare in relazione con Inps e comuni, riuscire a districarsi tra le pratiche richieste per il riconoscimento delle indennità, ad esempio quella per l’accompagnamento. È un passaggio importante perché sposta il piano dalla patologia alla relazione con l’ambiente". Paola Montesanti, direttore dell’Ufficio IV "Servizi sanitari", della direzione generale detenuti e trattamento del Dap, è il dirigente penitenziario che dal 2011 si occupa di carcere e disabilità. Seguendo le indicazioni arrivate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il suo ufficio ha sperimentato con successo la nuova metodologia di lavoro e ha offerto una linea che ora il Dap sta diffondendo in tutti gli istituti. "Nel 2012 abbiamo avviato in alcuni istituti di pena una serie di progetti per raggiungere questo obiettivo - spiega - I risultati sono stati ottimi, abbiamo visto che si può fare. Ora stiamo estendendo questa esperienza al resto d’Italia". Quali sono stati i primi passi? "Visto il successo della sperimentazione, prima di tutto abbiamo chiesto un monitoraggio della situazione nazionale sia per avere i numeri delle presenze che per sapere se queste persone sono collocate adeguatamente in base ai criteri indicati dalla Cedu (ndr. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) che, pur condannando l’Italia, non è stata severa e ci ha dato tempo per trovare soluzioni e intervenire. Una volta avuto il quadro nazionale, abbiamo iniziato a concretizzare le indicazioni europee in alcuni istituti. Poi abbiamo invitato i Provveditori regionali a predisporre sistemi di informazione tempestiva sugli ingressi in carcere e di monitoraggio permanente di queste presenze. In questo modo sarà possibile verificare la condizione detentiva e, se la situazione lo richiede, di modificarla senza ritardo. La Corte europea ritiene che sia un fattore importante da considerare il tempo, durante il quale un individuo è stato detenuto in condizioni inidonee e che la detenzione di una persona con disabilità motoria in un istituto in cui non può spostarsi con propri mezzi, durata a lungo, costituisca un trattamento degradante". Come cambia il sistema? "Non potendo creare un sistema di rete dei reparti per disabili, perché comporterebbe un investimento importante, cerchiamo soluzioni di volta in volta, possibilmente nella regione di residenza per garantire i legami familiari e, soprattutto, una continuità terapeutica attraverso le strutture sanitarie che prenderanno in cura la persona quando sarà libera. In questo senso è importante evitare trasferimenti". Come si struttura l’intervento sul detenuto con disabilità? "L’intervento va personalizzato il più possibile, anche per quanto riguarda il trattamento rieducativo teso a favorire l’occupazione lavorativa e l’accesso alle strutture sociali diurne o residenziali per disabili o agli altri servizi territoriali. Dobbiamo garantire alloggi adeguati e disponibilità di caregiver formati, con corsi organizzati dal servizio sanitario nazionale. Abbiamo già avuto un’esperienza concreta al Policlinico di Bari che ha organizzato il primo modulo per 80 detenuti con 8 step di diversa intensità". Si acquisisce anche una specializzazione spendibile una volta liberi? "Sì. Formando caregiver specializzati centriamo tre obiettivi: garantiamo l’assistenza ai detenuti disabili, diamo lavoro in carcere (retribuito come quello dei piantoni) e consentiamo ai caregiver di acquisire le competenze per diventare operatori socio assistenziali una volta liberi. Attraverso queste lezioni, infatti, i detenuti potranno essere assunti come addetti all’igiene, alla pulizia e all’accompagnamento dei pazienti". La circolare dice che "l’amministrazione penitenziaria ha il compito di garantire ambienti adeguati alle limitazioni funzionali della persona". Avete già individuato gli istituti in cui intervenire? Quanto costerà l’adeguamento? "Gli adeguamenti sono appena stati avviati e dove sono avvenuti i costi sono stati contenuti. Al carcere di Opera, per esempio, con un piccolo intervento di 20 mila euro abbiamo dotato stanze e bagni di maniglioni. Ci sono strutture nuove, ad esempio a Catanzaro e Massa, che non sono partite perché hanno problemi di impiantistica. Nel frattempo, col passaggio delle competenze della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale, il completamento delle opere ha subìto un rallentamento. Ma stiamo lavorando per sbloccare la situazione. Per altri interventi sarà utile l’indicazione degli esperti. Negli istituti in cui sono presenti ad esempio detenuti non vedenti abbiamo suggerito alle direzioni di rivolgersi al strutture specialiste della città per acquisire indicazioni specifiche sui segnali tattili di orientamento. Non è possibile dare una soluzione di carattere generale perché ogni detenuto è diverso dall’altro. C’è chi presenta problemi congeniti, chi disabilità intervenute nel tempo, chi danni fisici da ferite da arma da fuoco. Per ognuno di loro va trovata la soluzione personalizzata. Visto che non sono tantissimi, quando chiedono aiuto cerchiamo al meglio di orientare le soluzioni". Detenuti disabili, a Rebibbia 1 su 3 resta dentro perché mancano strutture di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 aprile 2016 "Barriere" dentro e fuori dal carcere: difficile accedere alle misure alternative. Goddi (cooperativa Pronto Intervento Disagio): assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio. Il problema dei detenuti con disabilità non resta chiuso dietro le sbarre ma riguarda anche "l’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio". Ne è convinto Emanuele Goddi, della cooperativa Pid (Pronto Intervento Disagio) che, in convenzione con l’assessorato Promozione politiche sociale del Comune di Roma, da anni svolge il ruolo di segretariato sociale negli istituti di pena della capitale. "Le strutture territoriali - spiega Goddi - chiedono un tale grado di attivazione da parte dei singoli soggetti da renderle, di fatto, non fruibili da chi, straniero e malato, non è in grado di destreggiarsi in maniera autonoma nel complesso sistema territoriale". A Roma il reparto G11 "Terra B" dell’istituto Rebibbia Nuovo complesso ospita persone con disabilità motoria. È definito a "ridotte barriere architettoniche" ma nella realtà presenta celle e servizi non adeguati per ospitare persone disabili, denuncia Goddi: a oggi risultano ristrette in questa sezione 40 persone. "Anche grazie alla nostra opera di sensibilizzazione e al prezioso interessamento dell’on. Ileana Argentin, sono stati istituiti tavoli di lavoro che hanno coinvolto Dap e Direzione dell’istituto per risolvere questi problemi". Secondo la direzione dell’istituto, i lavori per l’adeguamento strutturale dovrebbero iniziare quanto prima. Mentre sul fronte dell’assistenza alle persone disabili, garantita dai "piantoni" al momento senza alcuna formazione specifica", sono in fase di avvio corsi di specializzazione. "Come ben evidenziato dalla circolare Dap, occorre implementare i servizi sanitari interni e per riuscire nell’intento occorre rimuovere tutte le difficoltà preliminari. - sottolinea Gaddi. Nessuna attività culturale, ricreativa è attivata in favore dei detenuti ristretti in questa sezione, nè sono integrati nelle attività lavorative interne all’istituto. Gli ausili ortopedici e le carrozzine sono vetusti. In base ai nostri dati, il 33% dei disabili ristretti a Rebibbia potrebbe accedere alle misure alternative, ma non ci riesce, perché non esistono sul territorio case famiglia attrezzate con personale sanitario in grado di accogliere queste persone e le strutture sanitarie assistite hanno tempi di attesa, che non coincidono con i tempi della pena". In 7 carceri su 193 reparti dedicati ai detenuti disabili: ecco la mappa. A Busto Arsizio, Modena, Piacenza, Bari, Parma, Massa e Turi (Ba) reparti dedicati per disabilità fisica e motoria. In molti altri istituti celle con "ridotte barriere architettoniche". Mattarella arbitra il "match" tra politici e magistrati di Ugo Magri La Stampa, 28 aprile 2016 Attenzione a ciò che dirà (o non dirà, perché pure i silenzi parlano) questa mattina Mattarella. Il Presidente è atteso a Scandicci, dove ha sede la Scuola superiore della magistratura. E come già lo scorso anno, dirà alle future toghe che cosa l’Italia si aspetta da loro. Sarà insomma l’occasione per mettere un po’ di cose a posto, dopo le scintille volate nei giorni scorsi tra magistratura e politica. Era partito all’attacco Renzi, denunciando una "barbarie giustizialista" da cui certi pm non sarebbero immuni; gli aveva replicato il numero uno dell’Anm Davigo, a sentire il quale i politici "rubano più di prima". Non alcuni politici, si badi, ma la categoria nel suo insieme. L’ago della bilancia - Mattarella è un uomo politico e, al tempo stesso, presiede l’organo di autogoverno dei giudici (Csm). Escluso che possa, o desideri, parteggiare. Da sempre è vicino ai magistrati, specie a quelli in prima linea contro le mafie. Nello stesso tempo crede che l’Italia abbia bisogno di politica, di buona politica. Da una parte gli fa orrore la corruzione e la considera un’emergenza nazionale (affermano di averglielo sentito ripetere espressamente i capigruppo Cinquestelle che sono andati di recente a trovarlo). Dall’altra parte, però, Mattarella è convinto che questo paese abbia bisogno di riforme, e che lo stato della giustizia ne richieda più d’una. Giustizia e non polveroni - Insomma: Mattarella va ascoltato perché è nella condizione di rappresentare, idealmente, tutte le persone di buonsenso, che pretendono pulizia e caccerebbero a pedate i corrotti, però non amano i polveroni. E soprattutto non vogliono una magistratura schierata pro o contro il governo, ossequiosa al premier o impegnata a fargli le scarpe. Sarà importante se dal primo cittadino della Repubblica verranno parole nette al riguardo. L’esigenza di garantire "unità" per ora non consente di andare oltre le "priorità" indicate, anche se ancora restano capitoli da scrivere, come quello sul carcere. Davigo (Anm): "Pronti al dialogo, ma no agli insulti" Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 "Collegialità". È la prima parola chiave della riunione della Giunta esecutiva dell’Anm svoltasi all’indomani delle polemiche sulle esternazioni del neopresidente Piercamillo Davigo. Una riunione in cui non è stata messa in discussione la sua leadership ma nella quale è emersa l’esigenza di un chiarimento e sono stati fissati alcuni punti fermi, di metodo e di merito. E se da un lato si dà atto, positivamente, delle dichiarazioni del ministro della Giustizia Andrea Orlando, dall’altro lato si rivendica il proprio ruolo di interlocutore istituzionale sui temi della giustizia, "rifiutando ogni tentativo di strumentalizzazione" del proprio operato. "Noi siamo sempre disposti al dialogo, che però è una cosa diversa da quando veniamo insultati" chiosa Davigo. Dopo quasi tre ore, tutte la Giunta esecutiva si presenta davanti ai giornalisti e snocciola i principali "contenuti" su cui intende mettere alle strette i suoi interlocutori istituzionali. Tra le riforme "strutturali urgenti", nel civile e nel penale, indica come "priorità" il contrasto alla corruzione, "che sempre più spesso investe settori della Pubblica amministrazione". Di qui la necessità di "interventi organici", tra i quali "l’indifferibile e complessiva" riforma della prescrizione: il testo all’esame del Senato non va bene perché si limita a innalzare i termini per i diversi gradi di giudizio, senza che ciò impedisca di "vanificare l’azione giudiziaria". Dunque, occorre una riforma più efficace. Ma occorrono anche maggiori risorse, soprattutto per far girare la giustizia civile, bloccata da un contenzioso numericamente insostenibile, a causa della carenza del personale e delle disfunzioni connesse all’introduzione del processo civile telematico. In generale, l’Anm intende contribuire ad ogni iniziativa legislativa "che possa migliorare l’esercizio della giurisdizione, la tutela dei diritti, le condizioni di lavoro dei magistrati e, con esse, il servizio ai cittadini, compito esclusivo della magistratura". Sulla "collegialità" mette l’accento il segretario Francesco Minisci (Unicost), ribadendo che l’Anm non intende alimentare scontri ma punta a "contributi fattivi". Sul "dialogo" Davigo non ha dubbi, pur avvertendo che non si accettano "insulti". È lui che dice di considerare "molto incoraggianti" le parole del guardasigilli e più tardi, alla radio, esclude di essere stato redarguito per troppe interviste. "Perché mai? - dice - Il presidente ha la rappresentanza esterna dell’Associazione". Il vicepresidente Luca Poniz (Area) assicura che non c’è stato alcun processo a Davigo ma, semmai, "letture sbagliate e fuorvianti" dei giornali. Tutti segnalano il rischio della strumentalizzazione, come peraltro è avvenuto da parte della Lega e del Movimento 5 Stelle, subito saliti sul carro di Davigo in chiave antigovernativa. Giustizia, accordo per sbloccare la prescrizione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 L’accordo politico per sbloccare la prescrizione è stato raggiunto. Nella maggioranza la parola d’ordine è "accelerazione", anche se la via scelta - abbinare la riforma a quella sul processo penale - di fatto ne allunga i tempi e, soprattutto, ne lega il destino e la portata alle intercettazioni e ad altre misure "divisive" sul processo penale, come quelle sulla durata delle indagini, indigesta ai magistrati. Di "accelerazione" parlavano ieri pomeriggio tutti i partecipanti alla riunione di maggioranza svoltasi a Palazzo Madama (i capigruppo Luigi Zanda, Pd, Renato Schifani, Ap-Ncd,e Karl Zeller delle Autonomie). Idem il presidente della commissione Giustizia Nino D’Ascola nonché i senatori del Pd. Il Dem Giuseppe Lumia suggeriva persino il "titolo" ai giornalisti: "Sulla prescrizione si accelera". E il ministro della Giustizia Andrea Orlando, informato, chiosava: "Siamo ragionevolmente ottimisti. Procediamo nella direzione giusta". L’accordo prevede la "ricongiunzione" di tre ddl in un unico testo: prescrizione (6 articoli), processo penale (35 articoli, tra cui la delega sulle intercettazioni), rito abbreviato (2 articoli). Oggi dovrebbe essere formalizzato in commissione Giustizia, con il voto sulla proposta di abbinamento dei relatori Casson e Cucca (Pd), cui seguirà il deposito del testo base (43 articoli) e la fissazione di un termine per la presentazione degli emendamenti. Secondo governo e maggioranza, l’abbinamento testimonierebbe la volontà politica di "accelerare", appunto, sulla riforma della prescrizione, licenziata dalla Camera il 22 maggio 2015 ma bloccata in commissione Giustizia al Senato subito dopo la presentazione degli emendamenti. Martedì scorso, Orlando ha annunciato che "entro l’estate" sarà approvata. E da qualche giorno si vocifera persino di un possibile voto di fiducia, escluso fino a qualche giorno fa. Ieri il ministro Maria Elena Boschi diceva: "È complicato ma valuteremo". La fiducia coprirebbe, ovviamente, l’intero provvedimento sul processo penale. L’accordo raggiunto ieri non entra nel merito della riforma. È certo, però, che l’approdo finale sarà diverso da quello approvato dalla Camera, che si fa carico, sia pure parzialmente, della specificità dei reati di corruzione, introducendo un ulteriore aumento dei termini per la corruzione propria (18 anni invece di 12) e per la corruzione giudiziaria (22 invece di 15). Anche se si partirà da quel testo (è stato il presidente del Senato Pietro Grasso a mediare, facendo osservare che non lo si poteva ignorare), Ncd e una parte del Pd sono determinati a ripristinare l’impostazione iniziale del governo, che con il suo ddl si limitava a prevedere la sospensione dei termini (per due anni in appello e per un anno in Cassazione), ma soltanto dopo una condanna di primo grado. D’altra parte, lo stesso Orlando ha sempre parlato di un "riequilibrio" dei termini, dopo l’aumento delle pene dei reati di corruzione (e, quindi, della prescrizione), anche se riconosce la "specificità" di questi reati. Ma l’abbinamento è davvero un’accelerazione? O piuttosto un’arma a doppio taglio, un escamotage politico per legare a doppio filo la prescrizione, le intercettazioni (ieri sono stati auditi i procuratori di Torino, Roma, Napoli e Firenze) e le norme sul processo penale più indigeste ai magistrati? Una sorta di abbraccio mortale, insomma. Chi reclama la riforma della prescrizione dovrà ingoiare anche il resto. E viceversa. Magari con il voto di fiducia. In teoria, se fosse matura la volontà politica di sbloccare la riforma della prescrizione, la via maestra dovrebbe essere quella di cominciare a votare gli emendamenti da tempo presentati in commissione per portare subito il provvedimento in Aula e approvarlo entro maggio/giugno, tanto più se con un voto di fiducia. Renzi avrebbe anche potuto confermare la sua linea, annunciata il 17 marzo 2015, quando parlò di "raddoppio della prescrizione". Si è scelta un’altra strada, sebbene il ddl sulla prescrizione sia in una fase più avanzata rispetto a quello sul processo penale e consti di soli 6 articoli a fronte dei 35 dell’altro. La proposta di abbinamento è nata dal Pd e inizialmente Ncd era contraria. Le inchieste più recenti e il rilancio dell’Anm su questo tema hanno costretto governo e maggioranza a mandare un segnale per sbloccare il ddl. Ma l’accordo va visto in controluce. "Abbinare" la prescrizione (peraltro istituto di diritto sostanziale e non processuale) al ddl sul processo penale (35 articoli, che vanno dal carcere alle impugnazioni, dalle intercettazioni all’aumento delle pene per i reati predatori) significa imprimergli un’andatura più lenta, non fosse altro per la delicatezza di alcuni "capitoli", estremamente divisivi, come quello sulle intercettazioni. Salvo, ovviamente, ricorrere al voto di fiducia: una sorta di prendere o lasciare su prescrizione, intercettazioni, indagini. Che potrebbe essere replicato anche nel giro successivo alla Camera. Braccio di ferro Pd-Ncd sul totem della prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 28 aprile 2016 Si tratta al Senato sull’allungamento per i processi ai corrotti. Orlando media. È una trattativa sottile. Da sfinimento. Destinata a durare ancora qualche giorno. Riguarda un aspetto molto tecnico del processo, la prescrizione. Ieri Pd, Nuovo centrodestra e Autonomie si sono confrontati al Senato sulla riforma penale. Si è deciso quanto era già emerso martedì, e cioè che il testo di legge sulla prescrizione sarà assorbito nel più ampio ddl che abbraccia l’intera materia processuale. Ma sull’istituto che regola l’estinzione dei reati non c’è ancora un accordo definitivo. Al responsabile Giustizia dem David Ermini e al capogruppo delle Autonomie Karl Zeller, il presidente dei senatori di Area popolare, Renato Schifani, ha parlato chiaro: "Sulla prescrizione noi alla Camera ci siamo astenuti. Non abbiamo condiviso quel testo, in particolare nella parte relativa all’aumento della prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione". Le scadenze sono state già estese dall’aumento dei massimi di pena, ha ricordato Schifani, "restiamo fermi sull’idea che non si possa andare oltre". Passi che si sospenda la decorrenza dei termini in caso di condanna (due anni dopo la sentenza di primo grado, un anno dopo l’appello). Passi appunto l’allungamento della prescrizione dovuta all’innalzamento delle pene introdotto un anno fa dal ddl anticorruzione. Ma basta così, dicono gli alfaniani. Il Pd non è d’accordo. Ermini insiste sulla necessità di "dare un segnale: sui reati di corruzione deve esserci una differenza rispetto agli altri, spesso si scoprono dopo anni". E soprattutto, lo stesso ministro della Giustizia Orlando non è disposto a un accordo che recepisca alla lettera la posizione di Ncd. Si va verso una mediazione che potrebbe consistere in questo: sì a tempi più lunghi, ma li si aumenterà di un quarto anziché della metà. Il Pd teme che una soluzione troppo misurata scateni gli attacchi da parte della magistratura. Che in effetti già si annusano. Mentre la riunone a Palazzo Madama si scioglueva, uscivano anche le dichiarazioni dei vertici dell’Anm. In particolare del segretario Francesco Minisci, poi scolpite in una nota collegiale. Al pm romano spetteranno funzioni di codecisione con Piercamillo Davigo sul rapporto coi media. Ma Minisci fa capire di non essere necessariamente l’anima moderata dell’Anm: "Una riforma della prescrizione non può passare solo con l’introduzione di norme che semplicemente allungano i termini in relazione ai gradi di giudizio". Toni che suonerebbero un po’ da diktat. Se non fosse che anche le toghe temono soprattutto una cosa: mostrarsi cedevoli. Tutta la complessa trattativa produce intanto un effetto: il rinvio del testo base sulla riforma penale. I due relatori, Felice Casson e Giuseppe Cucca, hanno proposto e ottenuto che oggi alle 13 la commissione Giustizia voti sull’abbinamento, al ddl complessivo, di tutte le proposte di legge sulla prescrizione. Sono otto, il testo già approvato dalla Camera è solo uno tra di questi. È anche un modo per guadagnare tempo in vista dell’intesa. Sembra chiaro comunque che quelle sui tempi del processo saranno norme immediate, nessna delega. Quella resta solo sulle intercettazioni. Ed è stata bocciata dai 3 procuratori sentiti ieri in commissione, Pignatone, Colangelo e Spataro. Che l’ha definita generica. E ha ricordato: "Il giudizio di rilevanza spetta al giudice, nel contraddittorio con pm e avvocati". Peccato che spesso le trascrizioni arrivino in edicola prima che il giudice si pronunci. Prescrizione: tre anni in più per chiudere i processi. Tempi sospesi dopo il primo grado di Liana Milella La Repubblica, 28 aprile 2016 L’intervento punta a ridurre il numero di giudizi decaduti e quindi di reati impuniti a causa dei tempi troppo stretti. In dieci anni ne sono stati prescritti un milione e mezzo. La prescrizione. Un brutto incubo per la magistratura. Adesso una scommessa per la politica. I dati stanno lì, inesorabili. Negli ultimi dieci anni si contano 1.468.220 processi andati al macero. "Morti". Cancellati dalla scadenza dei tempi della prescrizione. L’ultimo dato disponibile sul tavolo del Guardasigilli Andrea Orlando racconta che nel 2014 sono stati falcidiati 132.296 processi. Quando il governo Renzi si insedia e Orlando entra in via Arenula, le statistiche sono già lì, e parlano chiaro. Tant’è che Renzi, il 30 giugno del 2014, quando annuncia i 12 interventi chiave sulla giustizia, cita anche la prescrizione. Il 29 agosto, dopo una consultazione online estiva, il testo della nuova prescrizione è pronto. È contenuto all’interno del corposo ddl sul processo penale, in cui si riscrive la filosofia dei riti, Appello e Cassazione compresi. Dal quel giorno ci vorranno circa tre mesi per veder approdare il ddl penale - d’ora in avanti lo chiameremo così - in Parlamento. Cos’è la prescrizione? È il tempo massimo in cui un reato può essere perseguito dallo Stato. La legge Cirielli del dicembre 2005 ha accorciato questi tempi. Per ogni reato ha stabilito che la prescrizione si misura aggiungendo alla pena massima - 10 anni per la corruzione - un quarto, cioè 2 anni e mezzo. Prima della legge ad personam di Berlusconi la formula era il massimo della pena più la metà, 5 anni per la corruzione. La soluzione di Orlando non cambia gli anni di prescrizione per ciascun reato. Ma modifica il percorso del processo. I termini si fermano quando i giudici pronunciano la sentenza di primo grado. Nella fase del processo di appello le toghe potranno godere di due anni in più rispetto alla naturale scadenza del reato. Un altro anno di bonus ci sarà per la Cassazione. Quindi la prescrizione "guadagna" tre anni. Con questa soluzione il reato di corruzione, da 12 anni e mezzo di prescrizione passa a 15 anni e mezzo. La prescrizione è un "veleno" sordido per i processi? Per questo, all’inizio del 2015, Orlando decide che è opportuna una legge ad hoc solo per questo "veleno". Stralciata dal ddl penale, la nostra prescrizione si incammina alla Camera e qui trova degli amici - la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti - e dei nemici, l’attuale ministro delle Regioni Enrico Costa di Ncd. Ferranti è abile, esperta di lavori parlamentari. Elabora il testo base e giusto al primo articolo ci piazza una bomba. Due righe, quanto basta per scatenare un putiferio. L’ex pm ed ex segretaria del Csm aggiunge un comma all’articolo 157 del codice penale, quello che regola la prescrizione. Scrive che "sono aumentati della metà i termini per gli articoli 318, 319 e 319-ter del codice penale". Andiamo a leggere il codice. 318: corruzione per l’esercizio della funzione, il pubblico ufficiale che incassa la mazzetta, pena da uno a 6 anni. 319: corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, pena da 6 a 10 anni. 319-ter, corruzione in atti giudiziari, pena da 6 a 12 anni, ma fino a 20 anni se dalla corruzione deriva una condanna superiore a 5 anni o all’ergastolo. Con un blitz il testo passa in commissione Giustizia. Ncd fa le barricate. Minaccia in aula. Si scontrano Orlando e Costa, allora suo vice. Quel 23 marzo 2015 Ncd si astiene e fa promettere ad Orlando che cambierà il testo al Senato. Ne nasce un braccio di ferro infinito che dura ancora adesso. Trattano Costa, D’Ascola, Ermini, Ferranti. Ma non se ne esce. la divisione è profonda. Facciamo l’esempio della corruzione. Con la proposta Ferranti, la prescrizione per la corruzione arriva a 21 anni e mezzo. Il massimo della pena, cioè 10 anni, più la metà, cioè 5 anni, più i 3 anni di bonus tra Appello e Cassazione, più altri 3 anni e mezzo (un quarto dei 15 anni della prescrizione complessiva) se nel processo si verificano degli atti interruttivi. Ne stanno discutendo da 404 giorni, ma non riescono ad arrivare a un accordo. Il Pd fa muro sulla proposta Ferranti, vuole un segnale chiaro sulla corruzione. In fondo si tratta solo di tre reati, restano fuori la concussione e la corruzione per induzione, crimini importanti che non dovrebbero prescriversi mai. Ma i centristi non accettano assolutamente, come dicevano ancora ieri Schifani e Lupi, come tante volte ha ripetuto Costa, perché "un processo possa durare così a lungo". Adesso però, al Senato, ce la potrebbero fare. È ottimista David Ermini, il renziano responsabile della Giustizia. "L’aumento per la corruzione resta, ma con qualche piccolo escamotage" diceva ieri sornione. La prescrizione elettorale di Andrea Colombo Il Manifesto, 28 aprile 2016 Renzi punta a accelerare i tempi della riforma per giocare la carta nelle urne. L’Ncd oppone ancora resistenza, ma non troppo: "Modifiche al testo della camera nei limiti del possibile". L’ordine di Renzi è tassativo: "Accelerare i tempi. Varare la riforma della prescrizione prima delle amministrative. Dimostrare che il governo sta dalla parte delle toghe e non dei corrotti". Gli incaricati sono il responsabile Giustizia del Pd Ermini e il capogruppo al Senato Zanda. Si incontrano, si danno da fare, arrivano a un pelo dall’obiettivo. Resta un ostacolo, la resistenza di Alfano e dei suoi centristi, una parte dei quali, però, è pronta a cedere in nome dell’interesse superiore. "Sono ragionevolmente ottimista", chiosa a metà pomeriggio il ministro Orlando. Oggi la commissione Giustizia voterà l’abbinamento delle nuove norme sulla prescrizione alla riforma del processo penale, al quale verrà accorpato anche il ddl intercettazioni. Pacchetto unico, tempi sincronizzati. Il punto di partenza sarà il testo già approvato dalla Camera, quello proposto dalla presidente della commissione giustizia Donatella Ferranti, Pd. A imporlo è stato il presidente del Senato Grasso: "Non si può bypassare la Camera". Ufficialmente non è una scelta definitiva. "È un fatto formalmente dovuto - mette le mani avanti il capogruppo Ncd Schifani - ma ci saranno intese di maggioranza finalizzate a modificarlo nei limiti del possibile". La chiave dell’accordo dovrebbe essere tutta in quella formuletta: "Nei limiti del possibile". Il testo della Camera prevede di aumentare di 3 anni i termini della prescrizione: da 12 a 15. Nel caso di reati contro la Pubblica amministrazione, però, gli anni di innalzamento sono 9. La prescrizione per i processi di corruzione scatterebbe solo dopo 21 anni. Nell’emendamento che la settimana prossima dovrebbe fissare il nuovo accordo di maggioranza qualcosina all’Ncd bisognerà concedere. Ma "i limiti del possibile" sono molto stretti. Prima che si aprano le urne, Renzi ha bisogno di giocare una carta clamorosa sul fronte della giustizia, e su questa decisione ha ora il pieno appoggio anche del guardasigilli Orlando, che pure considerava la formula approvata dai deputati troppo rigida. "Stiamo lavorando per rendere pressoché impossibile che i processi in questa materia possano finire nel nulla". Alla fine l’offerta sarà uno sconticino: per la corruzione i termini saranno aumentati "solo" di 7 o più probabilmente 6 anni. Sulla carta i centristi raccolti in Area popolare otterranno una maggiore elasticità per quanto riguarda gli altri reati, diversificando l’aumento dei termini della prescrizione tra processo di primo grado (un anno) e sentenza definitiva (altri due anni). Otterranno anche che contestualmente si proceda in direzione del processo breve. Sono chiacchiere, o tutt’al più contentini. Quel che Renzi vuole dagli alleati di governo, ma anche dagli alati di Verdini, è una resa quasi incondizionata. È certo di ottenerla perché, se anche dovessero mancare i loro voti, quasi certamente verrebbero rimpiazzati dall’M5S, che dell’aumento dei termini della prescrizione ha fatto uno dei principali cavalli di battaglia. I centristi potranno in compenso sorridere sul fronte delle intercettazioni. Governo e Pd sono infatti decisi ad assumere come propria la circolare inviata mesi fa dal procuratore di Torino Armando Spataro, che ieri è stato ascoltato dalla commissione Giustizia insieme ai procuratori di Roma Pignatone e di Firenze Creazzo. Al termine dell’audizione Spataro ha solo ammesso che, a parere suo e degli altri procuratori, la delega al governo in materia di intercettazioni non dovrebbe essere del tutto in bianco, come al momento è, ma "necessiterebbe di ulteriori specificazioni". L’obiettivo del procuratore di Torino, messo giù nero su bianco nella sua circolare del 14 febbraio scorso approvata in assemblea da una cinquantina di pm, è l’estrapolazione dal fascicolo e la distruzione, al termine delle indagini preliminari, di tutte le intercettazioni "irrilevanti" ai fini dell’inchiesta oppure "contenenti dati sensibili". Più che sulle intercettazioni in sé è un intervento drastico sulla loro pubblicazione: quello a cui mirava il governo dall’inizio. Ma se a proporlo è un magistrato di grido tutto sarà più facile. Se delinque un politico il danno è doppio di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 28 aprile 2016 La corruzione dominante nel nostro paese non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti e tra queste mafia, camorra e ‘ndrangheta, per i capitali e il territorio che controllano. Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Pier Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo. Sono in disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Davigo, nell’intervista ad Andrea Fabozzi (il manifesto, 24 aprile). Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente (interessano a pochi). "Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi", afferma Canepa nell’intervista, usando un motivo retorico per ridurre Davigo al rango del Grande Repressore. Ma come si può attribuire una convinzione del genere non dico a un magistrato dell’intelligenza di Davigo, ma una qualsiasi persona di media cultura? Chi può non essere d’accordo su questo punto? Ma il fatto è che se manca la repressione, il resto (l’amministrazione efficiente, un giustizia più rapida, la cultura della legalità, ecc.) non tiene. Senza la certezza della sanzione, la tendenza a delinquere appare incomprimibile. Soprattutto, per svariatissime ragioni storiche, in Italia. Non dimentichiamo che nel nostro paese sono ancora vive e vegete due forme di criminalità organizzate che risalgono a prima dell’unificazione nazionale, la mafia e la camorra, mentre una terza, meno antica, la ‘ndrangheta, ha un raggio d’azione a scala mondiale. Capisco bene quanto ha dichiarato Raffaele Cantone, in un’intervista sul Corriere della Sera (23 aprile): "Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano". Certamente, non sono bastate e non bastano, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Ai magistrati spettano altri compiti, altrimenti in questo modo, per difendere il governo Renzi capovolgiamo la verità dei fatti e con una capriola retorica gettiamo la croce su Mani Pulite. Un po’ di storia non tanto per Cantone - magistrato prezioso per l’ opera che svolge nel nostro paese - ma soprattutto per il presidente del Consiglio. Le parole polemiche di Davigo sui politici che continuano a rubare, come in passato, ma ora non se ne vergognano - che certo non sono formalmente ineccepibili in chi rappresenta un sindacato - nascono nell’atmosfera tossica creata dalla dichiarazione di Renzi al Senato il 20 di questo mese. In quella occasione ha detto testualmente che negli ultimi 25 anni sono state scritte "pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo". 25 anni? Ora lasciamo da parte Mani Pulite, che di sicuro eccessi ne ha commessi, ma senza i quali non avrebbe scoperchiato un sistema di corruttela così pervasivo e onnipotente. Chi ha governato in Italia dopo quel terremoto giudiziario? Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L’intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l’urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A. Floridia (Il Manifesto, 14 aprile) - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello? Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto un’altra affermazione: "La classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi". Ed è questo il punto, il vero punto da discutere. Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, ‘ndrangheta e camorra, sia per l’imponenza dei capitali che muovono, che per l’ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com’è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione. Più di quanto non si creda essa è legata strettamente alla dissoluzione dei grandi partiti di massa, i quali formavano e selezionavano i quadri politici destinati alle amministrazioni locali, al Parlamento, alla loro stessa gestione in centro e in periferia. Erano questi che operavano i primi filtri e controlli sulla qualità, innanzi tutto morale, dei propri esponenti. Oggi tale lavoro di selezione e filtro non esiste più. I presidi politici della legalità sono stati sciolti. E chi decide di fare politica lo fa per pura ambizione personale, entrando in un agone competitivo interpersonale, anche con i propri compagni e in cui tutto è permesso. Ma la scomparsa dei grandi partiti popolari, nel nostro caso del Pci, e l’emarginazione crescente del sindacato, hanno anche un altro esito rilevantissimo per il dilagare della corruzione. Perché in mancanza di un grande antagonista organizzato, capace di opposizione, vigilanza e controllo, le classi dirigenti italiane, i nostri ceti dominanti e quei politici che li rappresentano, sono da 20 anni impegnati in un’azione predatoria del bene pubblico di un’ampiezza senza precedenti. Un’opera imponente di manomissione che solo il vigore delle leggi riesce in parte a contenere e limitare. Oltre all’azione generosa di pochi movimenti. La predazione, tramite soprattutto le Grandi opere, riguarda il territorio, l’acqua, il patrimonio urbano, i beni artistici, le città, il paesaggio. Anche spesso i nostri diritti. Allora, caro Cantone, è evidente che "le manette non bastano". La legge e la vigilanza dei magistrati servono solo a contenere parte di quella predazione di classe che scivola nell’illegalità, la punta dell’ iceberg. Non il resto. Perciò non solo non è giusto, ma è un grave danno criticare i magistrati intransigenti. Perché oggi, quanto meno, costituiscono l’ insufficiente argine in difesa del bene pubblico. Il Garante della privacy ordina a Facebook di svelare i dati dei profili di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 Il Garante della privacy ha ordinato a Facebook di mettere a disposizione di un utente tutti i dati che lo riguardano. Le informazioni devono essere comunicate in forma intelligibile e devono comprendere tutto ciò (notizie, foto, ecc.) che è presente nei profili aperti sul social a nome dell’interessato, compresi i cosiddetti fake, ovvero gli account falsi. Proprio da un profilo falso prende, infatti, spunto la vicenda portata all’attenzione dell’Autorità guidata da Antonello Soro. Un utente Facebook aveva lamentato di essere stato vittima di minacce, tentativo di estorsione, sostituzione di persona e indebita intrusione nel proprio account da parte di una persona con la quale aveva, dapprima, intrattenuto una corrispondenza online di carattere confidenziale. Successivamente, quei messaggi si erano trasformati in richieste di denaro. Di fronte al rifiuto del ricorrente, l’altra persona aveva inviato a tutti i contatti Facebook dell’interessato foto e video falsi, che attraverso la tecnica del fotomontaggio lo ritraevano in situazioni (per esempio, attività sessuali con minori) gravemente lesive del proprio onore e decoro. La persona lesa aveva, pertanto, chiesto a Facebook Ireland di accedere a tutti i dati relativi al proprio profilo, compresi quelli contenuti nel fake, e di cancellare tutte le informazioni presenti nel falso account. Il social network aveva risposto comunicando per mail le istruzioni per accedere ai dati personali attraverso il servizio "self-service", che però risultavano poco comprensibili, perché "formati" da codici, numeri e sigle. Inoltre, non aveva provveduto a cancellare il falso profilo, ma solo a bloccarlo. Per questo l’interessato ha interpellato il Garante italiano, il quale ha, prima di tutto, dovuto risolvere - trattandosi della prima pronuncia di questo genere - il problema della giurisdizione. Ovvero se al caso si potesse applicare la normativa italiana sulla privacy, essendo Facebook un’azienda statunitense ed essendo la sede operativa europea - quella dove vengono trattati i dati personali dei profili - in Irlanda. L’Authority ha, però, fatto notare che Facebook è presente anche in Italia con un’organizzazione stabile - Facebook Italy - e che le attività di quest’ultima sono "inestricabilmente connesse" con la sede irlandese. Pertanto, anche sulla scorta di sentenze della Corte di giustizia europea su casi analoghi, il Garante ha deciso di esaminare il ricorso e di accoglierlo. In base al Codice della privacy nostrano (Dlgs 196/2003) il ricorrente ha, infatti. diritto a conoscere tutti i dati che lo riguardano contenuti nei profili Facebook aperti a suo nome, compresi gli account falsi. Informazioni che il social network deve comunicare in forma intelligibile. L’Autorità ha, inoltre, chiesto a Facebook di inibire qualsiasi trattamento dei dati "incriminati", ma di non cancellarli, perché potrebbero risultare utili in sede di accertamento di possibili reati. "Io, mafioso a mia insaputa. Ho rischiato 12 anni di carcere" di Mariateresa Conti Il Giornale, 28 aprile 2016 Arrestato come un boss, nel cuore della notte. Detenuto per 22 giorni nel carcere di Parma, lo stesso di Totò Riina. "Mi sono piombati in casa alle 3 e mezza, mi sono ritrovato da un minuto all’altro mafioso a mia insaputa, accusato di concorso esterno e con una richiesta di condanna a 12 anni, anzi in realtà a 18, 12 con lo sconto per il rito abbreviato. Io, che mi sono sempre battuto per la legalità e che, vengo dal Fronte della gioventù, avevo come eroe Paolo Borsellino. Si rende conto?". Giuseppe Pagliani, 42 anni, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia e capogruppo azzurro in Provincia, è stato appena assolto "per non aver commesso il fatto" nel processo Aemilia, il maxi processo che in Emilia Romagna ha portato alla sbarra decine di affiliati alla ndrangheta e qualche politico. Solo del centrodestra. Come l’ex assessore a Parma Giovanni Bernini, ora prosciolto. Una vicenda che definire kafkiana è un eufemismo, quella di Pagliani. Lui, avvocato, arrestato il 28 gennaio del 2015 e scarcerato il 19 febbraio, ce l’ha fatta a tirarsi fuori: "Perché sono avvocato - dice - e ho una formazione penalistica, perché mi hanno difeso principi del foro come gli avvocati Alessandro Silveri e Romano Corsi. Ma il cittadino x riconosce rimane stritolato, schiacciato dalla mole di carte, disorientato da accuse assurde. Io stesso mi rendo conto solo adesso di quanto sia facile restare vittime della malagiustizia. E in futuro sono pronto a difendere gratis innocenti che dovessero trovarsi in simili vicende". Cosa ha fatto mai Pagliani per ritrovarsi in questo caso giudiziario? "In un lampo improvviso di follia - ironizza - qualcuno si è convinto che a Reggio Emilia il concorso potesse essere rappresentato da esponenti dell’opposizione lontani dagli appalti, come me". La sua "colpa", se così si può chiamare, consiste in due incontri con alcuni personaggi di origine calabrese poi finiti inquisiti nel caso Aemilia. "Ma queste persone - sottolinea Pagliani - io nemmeno le conoscevo". E invece per il pm nel primo incontro, il 2 marzo del 2012, viene stipulato il patto mafioso. Nel secondo, una cena in un locale pubblico a cui erano presenti decine di persone, il patto si sarebbe consolidato. "Una follia - dice Pagliani - io a quella cena, di fatto uno sfogatoio di questi che ce l’avevano con le coop rosse, conoscevo solo alcune persone delle quali non avevo motivo di dubitare. E quando qualche giorno dopo un amico avvocato mi disse che c’era qualche personaggio equivoco troncai ogni contatto". Vero, tanto vero che nelle intercettazioni uno degli indagati non ricorda neppure il nome dell’avvocato Pagliani. "Le benedico ogni giorno le intercettazioni - continua - è grazie ai brogliacci che siamo riusciti a ricostruire tutto e a smontare la teoria del pm". Non è stato il solo, Pagliani, a incontrare i calabresi in odor di ‘ndrangheta. L’allora sindaco di Reggio Emilia, ora ministro, Graziano Delrio, è andato anche in visita istituzionale in Calabria, a Cutro. "E li ha pure - aggiunge Pagliani - portati dal prefetto. Io no". Eppure Delrio non è stato nemmeno indagato, è stato solo sentito come testimone. Pagliani invece "non poteva non sapere": quindi è finito in galera. "Eppure - dice il politico azzurro - la decisione del tribunale del Riesame (non appellata dai pm, ndr) che mi ha scarcerato era granitica. A quel punto una procura di media o bassa intelligenza avrebbe dovuto chiedere l’archiviazione. E invece hanno insistito. Nella requisitoria il pm è arrivato a sostenere che io avevo incontrato uno dei coimputati, Brescia. Meno male che ho potuto dimostrare che quell’appuntamento, segnato in agenda, in realtà era un incontro professionale a Brescia, con un avvocato". Perché è accaduto tutto questo? "Me lo sono chiesto - dice Pagliani - mi sono domandato perché io?". E la risposta? "Da consigliere d’opposizione avevo avuto per le mani vicende delicate come Global service. Come oppositore strenuo al sistema locale delle coop rosse davo fastidio". Accanimento contro Forza Italia? "Sì, c’è stato, il Pd invece è stato difeso". Ha temuto di essere schiacciato da una condanna? "Mai, nemmeno per un secondo. Sapevo di essere innocente, c’è stato il sostegno di tanti amici e non, tutti hanno capito che non c’entravo nulla. Tutti tranne il pm". Niente esimente per tenuità del fatto se c’è resistenza a pubblico ufficiale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 27 aprile 2016 n. 17378. Non può invocare l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto il soggetto condannato per resistenza a pubblico ufficiale e per lesioni personali aggravate. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 17378/2016. I fatti - Nel caso concreto la vicenda ha visto protagonista un veicolo che, in piena notte e in un centro abitato, all’alt intimato dalla polizia, invece di accostare ha bruscamente accelerato dando così il via a un inseguimento definito dalla sentenza stessa come "rocambolesco". In pochi istanti, infatti, in virtù anche del terreno bagnato la macchina in fuga è finita contro dei grossi vasi di cemento posti sul marciapiede. Sceso dalla macchina uno degli occupanti si era rifiutato di fornire spiegazioni sull’accaduto e anzi era passato alle vie di fatto colpendo ripetutamente il pubblico ufficiale. Contro tale ricostruzione dei fatti che poi aveva decretato la duplice responsabilità penale nei precedenti gradi di merito, l’appellante ha proposto ricorso nella parte in cui la Corte d’appello aveva omesso di applicare l’esimente, sebbene l’imputato non si trovasse in una situazione di flagranza o quasi-flagranza di reato e nella parte in cui non aveva considerato lo stato soggettivo di buona fede per effetto del quale il convenuto riteneva di essere sottoposto a una richiesta illegittima del poliziotto. La posizione della Corte - La Cassazione ha bocciato seccamente i motivi di appello precisando che in virtù di una ricostruzione dei fatti così precisa il soggetto non poteva non comprendere la rilevanza e la gravità del suo agire. I Supremi giudici in particolare hanno ricordato che integra il reato di resistenza a pubblico ufficio la condotta di colui che, per sottrarsi alle forze di polizia, non si limiti alla fuga in macchina, ma proceda a una serie di manovre finalizzate a impedire l’inseguimento, così ostacolando concretamente l’esercizio della funzione pubblica e ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada. La circostanza, poi, che una volta uscito dal veicolo il fuggitivo abbia anche picchiato l’agente di polizia certo fa sembrare quantomeno bizzarra la richiesta dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex articolo 131-bis del codice penale. La Corte ha respinto la richiesta e confermato la condanna al carcere per l’imputato che aveva già ottenuto il dimezzamento della pena da scontare da 8 a quattro mesi. Nullo il non luogo a procedere se il Gup decide nel merito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 aprile 2016 n. 17385. Il giudice dell’udienza preliminare deve limitarsi a verificare che l’impianto probatorio sia in grado di supportare le accuse in modo serio. Ma non può lasciarsi andare all’interpretazione degli atti fino a dare valutazioni di merito. E proprio sugli errori commessi dal giudice per l’udienza preliminare nell’interpretare il suo ruolo si basano le motivazioni della sentenza 17385 depositata ieri, con cui la Cassazione ha annullato il proscioglimento dell’Eni e dei suoi manager dall’accusa di corruzione internazionale e frode fiscale, nell’ambito dell’inchiesta su presunte tangenti pagate dal 2007 al 2010 dalla controllata Saipem a pubblici ufficiali algerini. Secondo i giudici della Sesta sezione penale, compito del gup era dare atto delle chiamate in correità dei testi a carico, evidenziando l’esistenza o meno degli elementi di riscontro. Senza lasciarsi andare ad un approfondito esame, contenuto in ben 60 cartelle, di ogni elemento fornito dai pm fino a pronunciarsi sull’idoneità o la contraddittorietà, come invece è avvenuto. In definitiva, il gup è arrivato alla conclusione che non esisteva il "minimo probatorio" necessario per l’evoluzione dibattimentale, alla luce di un personale apprezzamento. Per la Suprema le valutazioni a supporto del non luogo a procedere sono l’espressione di una decisione di puro merito, sulla fondatezza delle accuse, riservata al giudice del dibattimento. I giudici ricordano che la sentenza di non luogo a procedere (articolo 425 del Codice di procedura penale) non dipende da una valutazione di non colpevolezza dell’imputato, ma dall’insussistenza degli elementi, acquisiti o suscettibili di essere integrati nel contraddittorio in sede di dibattimento utili a dimostrare la serietà dell’accusa e quindi l’utilità del passaggio a quella fase. Sarà dunque certamente possibile pronunciare una sentenza di non luogo a procedere nel caso in cui l’impianto probatorio sia fondato in via esclusiva sulle dichiarazioni di un chiamante in correità se nel fascicolo non ci sono "riscontri esterni individualizzanti e non si profili all’orizzonte processuale la possibilità di una futura acquisizione di essi, secondo un giudizio prognostico improntato a criteri di ragionevolezza". Nel caso esaminato però il Gup non ha fornito gli elementi per verificare la fondatezza della non perfetta convergenza delle accuse di due chiamanti in correità né ha sufficientemente motivato il suo giudizio di irrilevanza delle rogatorie internazionali. Inoltre il Gup ha preteso che ciascuno degli elementi di riscontro delle dichiarazioni fosse dotato di un’autonoma portata probatoria, senza considerare che l’elemento specifico necessario al riscontro è e rimane pur sempre un indizio. Carenze di motivazione che fanno scattare la nullità del giudizio, con conseguente rinvio al Gup del Tribunale di Milano per una nuova udienza preliminare. All’anagrafe cambio di sesso senza intervento chirurgico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 Tribunale di Savona - Sentenza del 30 marzo 2016 n. 357. La rettificazione del sesso presso l’anagrafe può essere disposta dal giudice anche in assenza di un intervento chirurgico. Lo ha stabilito il Tribunale di Savona, con la sentenza del 30 marzo 2016 n. 357, accogliendo la richiesta di un uomo separato dalla moglie e padre di tre figlie che si era sottoposto unicamente ad una "terapia ormonale femminilizzante". Per il giudice infatti "l’esplicazione della identità risulterebbe ingiustificatamente compressa ove la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali divenisse presupposto indefettibile della rettificazione degli atti anagrafici, considerato che la modificazione chirurgica potrebbe anche essere foriera di un danno alla salute fisica, o psicologica del soggetto, costituzionalmente tutelata ai sensi dell’articolo 32 Costituzione". A sostegno del ricorso l’uomo aveva sostenuto di aver percepito fin dall’infanzia il proprio aspetto esteriore "come un ostacolo al convincimento psichico di essere donna" e di aver manifestato da sempre "atteggiamenti tipici del sesso femminile". Di essersi poi coniugato in omaggio alle convenzioni sociali, arrivando nel primo periodo "ad obliterare la propria vera essenza", finché "tale costrizione non era diventata insopportabile". Ne era scaturita una crisi coniugale e l’inizio del percorso per ottenere l’adeguamento alla propria identità di genere, con la sottoposizione ad un trattamento ormonale, e comunque ritenendo non più procastinabile l’avvio dell’iter chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali. Il Tribunale osserva che dalla lettera della legge emerge chiaramente che "il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso è riconosciuto nei limiti "dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali", requisito che la giurisprudenza maggioritaria ha interpretato come necessità dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso". Tuttavia, prosegue, dal testo "non si ricava immediatamente quali debbano essere i caratteri sessuali da modificare, potendosi ritenere sufficiente anche una modifica dei caratteri sessuali secondari, per la quale è normalmente sufficiente effettuare delle cure ormonali, e non anche una modifica dei caratteri sessuali primari (ossia gli organi genitali), che richiede, invece, una operazione chirurgica particolarmente invasiva". Vi è dunque, prosegue la sentenza, la necessità di una "interpretazione, maggiormente coerente con la realtà attuale del transessualismo, per la quale la rettificazione di sesso prescinde dall’esecuzione di un intervento chirurgico demolitivo ricostruttivo". Nel concetto di identità personale, come affermato dalla Consulta (n. 161/1985), deve poi farsi rientrare anche il concetto di identità sessuale, "ricostruibile non solo sulla base della natura degli organi riproduttivi esterni, bensì anche sulla base di elementi di ordine psicologico e sociale". Del resto la Cassazione, con la sentenza 15138/2015, ha affermato che "per ottenere la rettificazione del cambio di sesso nei registri di stato civile deve ritenersi non obbligatorio l’intervento chirurgico". E la Corte costituzionale (n. 221/2015) ha precisato che "la prevalenza del diritto alla salute sulla corrispondenza tra sesso anatomico e anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico". Né tantomeno hanno rilievo le valutazioni contrarie della famiglia essendo il riconoscimento dell’identità di genere un diritto costituzionalmente tutelato è dunque insuscettibile di contestazione da parte di terzi. Il tribunale ha dunque accordato la rettifica anagrafica, autorizzando anche l’operazione di cambio del sesso, ha invece rigettato, perché inammissibile, la richiesta volta ad ottenere un ordine rivolto a tutte le pubbliche amministrazioni perché adeguino tutte le certificazioni ed abilitazioni fino ad oggi rilasciate al nuovo status. I processi devono essere più brevi? Allora allunghiamoli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 aprile 2016 In Parlamento è aperta la battaglia sulla riforma della prescrizione. L’associazione magistrati chiede da tempo questo provvedimento. Molti procuratori in questi giorni hanno rilasciato decine di interviste ai giornali per sostenere l’assoluta necessità che la prescrizione sia riformata. Come? Su questo c’è una discussione. L’Anm vuole che sia allungata e che sia abolita dopo il rinvio a giudizio, o comunque dopo la sentenza di primo grado. Il Pd propone che dopo la sentenza di primo grado sia allungata di tre anni. Qualunque osservatore di cose italiane sa che il problema fondamentale della giustizia italiana è la sua lentezza. Nessuno discute che il problema sia quello. Colpisce la convergenza tra politici e giudici sulla necessità di affrontare questo problema allungando i tempi della giustizia. È evidente e inoppugnabile il fatto che allungando la prescrizione si allungano i tempi della giustizia (altrimenti non sarebbe utile allungarla). Dunque, se vogliamo riassumere il dibattito, un po’ surreale, che è in corso, le cose stanno così: politici e magistrati sono concordi sul fatto che è urgente accorciare i tempi della giustizia. E sono concordi sul fatto che la cosa da fare subito è allungare i tempi della giustizia. Discutono però su quanto sia necessario allungarli. Poi, a margine di questa discussione, c’è un articoletto della Costituzione, il numero 111. Trascriviamo le prime tre righe di questo articolo: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata". Non ci vuole uno studioso per capire che questo articolo della Costituzione è in netto contrasto con l’allungamento dei tempi della prescrizione e quindi dei processi. Sembrano rockstar, ma sono magistrati di Angela Azzaro Il Dubbio, 28 aprile 2016 In Germania non possono dire nulla. Neanche alla stampa. Neanche sul caso che stanno seguendo loro. Devono indagare o giudicare e quindi devono essere assolutamente imparziali, lontani dai riflettori della cronaca e della politica. In Italia invece sono diventati vere e proprie rockstar. Stiamo parlando dei magistrati, in modo particolare di quelli inquirenti, che da anni hanno conquistato le pagine dei giornali, delle tv e del nostro immaginario. Vasco (Rossi) non è più l’unico idolo nell’Olimpo delle star italiane. Accanto a lui troviamo Davigo, Pignatone, fino ad arrivare a personaggi come Woodcock, il cui nome evoca immediatamente inchieste collegate alla cronaca rosa. Per noi italiani, cosa forse unica al mondo, è diventato normale assistere alle esternazioni di qualche magistrato. È diventata prassi comune che dicano la loro, che intervengano nel dibattito politico, che partecipino a una trasmissione tv. Il nostro Paese in questo è davvero unico. La spettacolarizzazione della politica ha prodotto un numero infinito (anche se oggi in crisi) di talkshow, dibattiti, personaggi che più che nelle aule del Parlamento vivono dentro il piccolo schermo. Questa particolarità ha contagiato anche l’ambito della giustizia, che si contende con la politica il maggior numero di star e di protagonisti del dibattito mediatico. Dopo l’intervista di Piercamillo Davigo al Corriere, è stato tutto un pullulare di interviste ai magistrati. Ieri il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone è intervenuto sulle intercettazioni. Insomma non passa giorno in cui i magistrati non ci dicano cosa pensano, cosa dovrebbe fare la politica, cosa dovrebbe fare il Paese. Ci dicono chi siamo a prescindere dalle cause in corso. Ma non erano chiamati a indagare e giudicare? Toscana: detenuti al lavoro, lo "sportello" che trova le mansioni più adatte Redattore Sociale, 28 aprile 2016 Un centro di orientamento rivolto agli indagati/imputati in messa alla prova e ai soggetti in esecuzione pena i quali, attraverso colloqui individuali, potranno essere indirizzati verso percorsi di risocializzazione più efficaci con attività professionali volontarie. Un centro di orientamento rivolto agli indagati/imputati in messa alla prova e ai soggetti in esecuzione pena i quali, attraverso colloqui individuali, potranno essere indirizzati verso percorsi di risocializzazione più efficaci e che meglio si adattano alle loro professionalità e elle attitudini lavorative, nonché alle necessità della comunità. È il progetto Mef, uno "sportello" per i soggetti indagati/imputati/condannati nell’ambito del quale verrà redatto con il soggetto un bilancio delle competenze al fine di individuare il percorso più adatto in base sia alle competenze individuali che alle esigenze della comunità. Obiettivo del progetto, ideato dalle associazioni Apab e Aleteia, è quello di snellire le procedure di messa alla prova, rendere più efficace il percorso trattamentale e trasformare in reale risorsa per la collettività le attività riparative previste. Il progetto prevede la messa in rete delle associazioni disponibili ad accogliere i soggetti in messa alla prova o in affidamento ai servizi sociali durante i loro percorsi riparativi nonché l’individuazione di nuove realtà che contribuiscano ad arricchire sia il percorso individuale che l’offerta alla comunità. Il percorso prevede anche un attento monitoraggio del percorso individuale e la valutazione della sua efficacia in termini di reinserimento sociale e di diminuzione della recidiva. "Il percorso di mediazione penale associato all’attività riparativa nei confronti della vittima e della collettività, elemento fondante della messa alla prova per gli adulti e valido strumento trattamentale per i minori, sono una reale opportunità non solo per la persona ma per la comunità stessa - hanno spiegato i responsabili del progetto. Il percorso di risocializzazione costruito su elementi che coinvolgono, sebbene indirettamente, anche il contesto sociale, consente infatti alla persona che lo intraprende di acquisire una maggiore consapevolezza del proprio cambiamento con una conseguente riduzione del rischio di recidiva". Il progetto è resto possibile grazie anche alla collaborazione con la Regione Toscana: "Abbiamo già fatto un bando per l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità - ha detto l’assessore al welfare Stefania Saccardi - Il prossimo bando sarà sull’assistenza domiciliare e quello dopo ancora sarà invece sull’inserimento lavorativo e recupero delle persone con fragilità", per cui potrebbe essere un bando che coinvolgerà anche gli imputati e detenuti in messa alla prova. Abruzzo: Rita Bernardini si candida a Garante, ma forse qualcuno ha paura dei Radicali di Laura arconti (Militante Radicale) Il Dubbio, 28 aprile 2016 La Regione Abruzzo si è dotata della Legge n. 35 del 23 agosto 2011 recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", pubblicata nel Bura Speciale n. 54 il 31 agosto 2011 ed entrata in vigore il 1° settembre 2011 - di cui l’art. 6 riguarda l’Istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. La legge considera persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale non soltanto i soggetti presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori o comunque sottoposti a misure restrittive della liberà personale, ma anche le persone ospitate nei centri di prima accoglienza, le persone trattenute nei centri di assistenza temporanea per stranieri, le persone presenti nelle strutture sanitarie in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. Secondo l’art. 6 il Garante è eletto dal Consiglio regionale con la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli, nei novanta giorni successivi all’insediamento del Consiglio stesso, e decade con lo scioglimento del Consiglio regionale. In sede di prima applicazione l’Ufficio del Garante è costituito entro i novanta giorni successivi all’entrata in vigore della legge. Ora, poiché l’entrata in vigore della legge coincide con la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale regionale, l’Ufficio del garante avrebbe dovuto costituirsi e il Garante avrebbe dovuto essere scelto, non oltre tre mesi dal 1° settembre, e cioè il 1° dicembre 2011. Il 29 novembre 2013 il giornale online Abruzzo-24oreTV pubblicava questa informazione: "I detenuti non potevano più attendere che la Regione si decidesse a nominare il Garante e così abbiamo provveduto noi". Con queste parole Alessio Di Carlo, segretario dell’Associazione Radicali Abruzzo, ha annunciato l’istituzione del "Referente dei Detenuti" nella persona di Francesco Lo Piccolo, presidente della Onlus "Voci di dentro". Al di là della fantasiosa invenzione del "referente", che nessuna legge autorizza, resta il fatto che a tutto il 9 aprile 2016 in Abruzzo non c’è un Garante incaricato a termini della legge. In tempi più recenti il Consiglio, riunitosi più volte avendo all’ordine del giorno la nomina del garante, si è trovato di fronte una pletora di pretendenti, fra i quali anche il cosiddetto "referente" Lo Piccolo; la più votata è stata la radicale Rita Bernardini la cui aderenza alle caratteristiche dell’identikit disegnato dalla legge è universalmente ammessa, ma che tuttavia non ha raggiunto la maggioranza qualificata dei due terzi dei voti favorevoli. Nei primi giorni di marzo 2016 la Conferenza dei capigruppo ha stabilito una serie di audizioni dei vari candidati: è stata ascoltata per prima la candidata Bernardini che aveva ottenuto il maggior numero di voti, e poi gli altri. Martedì 5 aprile 2016 il Consiglio si è riunito ancora una volta avendo all’ordine del giorno anche la nomina del Garante, ma con una manovra dialettica fortunosa e molto criticata anche da alcuni consiglieri ha rinviato la votazione ad una riunione successiva del Consiglio. Resta una notazione marginale: la legge che all’art. 6 istituisce il Garante si dichiara "urgente" nel titolo stesso; dunque è legittimo chiedersi se la dilazione di cinque anni e mezzo sia accettabile da parte di uno Stato democratico attento al rispetto delle sue proprie leggi. Siamo alla fine di aprile, e nell’ultima riunione del Consiglio non era neppure all’ordine del giorno la nomina del Garante. Tutto fermo, dunque? Non proprio, e comunque non per i Radicali. Vincenzo di Nanna e Camillo Maffia dell’associazione radicale Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi, il 18 aprile 2016 hanno depositato un esposto alla Procura Regionale per l’Abruzzo presso la Corte dei Conti per i gravi danni arrecati all’erario, prodotti da ritardi e speculazioni nella realizzazione delle strutture, alternative agli Opg, denominate Rems. Nel corso di una conferenza stampa, tenutasi a Teramo il 21 aprile 2016, con la partecipazione di Rita Bernardini (candidata Garante dei detenuti in Abruzzo) l’avvocato Vincenzo di Nanna ha affermato che - se fosse stato eletto il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - la Regione Abruzzo non avrebbe certo subito l’onta del commissariamento per l’omessa attuazione della Legge che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Di Nanna ha concluso: "Chi ha paura di una radicale garante dei detenuti?". Puglia: è allarme per le affiliazioni fra i detenuti comuni. L’Osapp: situazione penosa La Repubblica, 28 aprile 2016 Sovraffollamento, carenza di personale e stato delle infrastrutture sono le principali criticità emerse dal tour effettuato nelle 11 carceri pugliesi da una delegazione del sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Sovraffollamento, carenza di personale e "stato penoso" delle infrastrutture sono le principali criticità emerse dal tour effettuato nelle 11 carceri pugliesi da una delegazione dell’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria. Il segretario generale Leo Beneduci ha rimarcato che "la popolazione detenuta nelle carceri della Puglia è tra è più pericolose in Italia, con il 60 per cento dei detenuti per reati di mafia, legati a organizzazioni criminali regionali ed extraregionali: questo mette a rischio il personale penitenziario. E anche di recente non sono mancate aggressioni e minacce". Il sovraffollamento e la "non differenziazione delle detenzione", poi, secondo il sindacato "favoriscono le affiliazioni da parte dei clan e fanno venir meno la funzione rieducativa del carcere". Sui problemi infrastrutturali l’Osapp denuncia "lo stato pessimo degli impianti anti scavalcamento e di videosorveglianza soprattutto nei penitenziari di Foggia e Taranto". "Per anni - continua Beneduci - la Puglia è stata la regione con il maggior sovraffollamento. Oggi questo dato si è lievemente ridotto, ma su una capienza di 2.350 posti nei penitenziari della regione sono detenute 3.150 persone, a fronte di una carenza di personale del 10 per cento, con 2.184 agenti rispetto ai 2.400 previsti". Parma: è polemica tra Garanti. Cavalieri: "necessario confronto su azioni già intraprese" parmatoday.it, 28 aprile 2016 Il Garante del Comune: "Interventi come quelli che apprendo dalla stampa danno solo spazio a penalizzanti processi autoreferenziali di tutti gli attori che orbitano attorno e dentro il carcere. I diritti dei detenuti si tutelano innanzitutto con la capacità di confronto tra chi, la norma, deputa al loro rispetto". Carcere di Parma. È polemica tra il Garante dei Detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri e la Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Desi Bruno che, in una nota stampa inviata dopo una visita ispettiva effettuata nei giorni scorsi, riportando all’Amministrazione le criticità sollevate dai detenuti. "Apprendo dalle notizie web - dichiara Roberto Cavalieri a Parmatoday.it - l’esito della visita ispettiva che la Garante regionale ha fatto nei giorni scorsi e di cui ero al corrente. Dalla stessa non sono stato interpellato per un confronto sulle lagnanze a lei giunte che necessiterebbero di una declinazione nei singoli casi e non di una penalizzante generalizzazione delle criticità oltre che di una verifica sulle azioni già eventualmente intraprese dal garante locale o dalle autorità. Il carcere di Parma è struttura complessa anche a prescindere da chi lo dirige nelle sue diverse aree organizzative. Resto basito dall’assenza, nel comunicato della Garante regionale che a me non è stato inviato, delle progettualità presentate e condivise tra carcere e importanti soggetti istituzionali e non, quali la Cassa delle Ammende, il Comune di Parma, la Fondazione Cariparma, la Fondazione Teatro Regio e fondamentali soggetti del mondo imprenditoriale come Cna e Upi. Interventi come quelli che apprendo dalla stampa danno solo spazio a penalizzanti processi autoreferenziali di tutti gli attori che orbitano attorno e dentro il carcere. I diritti dei detenuti si tutelano innanzitutto con la capacità di confronto tra chi, la norma, deputa al loro rispetto". Parma: la Garante regionale Desi Bruno; troppe promiscuità tra detenuti malati e sani parmapress24.it, 28 aprile 2016 Detenuti sani costretti a condividere gli spazi di quelli ammalati, celle aperte solo quattro ore al giorno e sempre in concomitanza con gli orari in cui sono concentrate tutte le altre attività, dall’apertura della sala comune a quella addirittura della lavanderia, pressoché totale assenza di attività trattamentali, difficoltà nel recuperare la modulistica per presentare le proprie domande all’amministrazione penitenziaria e una lunga serie di altre questioni detentive che oltretutto "non parrebbero di difficile soluzione". È "un quadro complessivo di particolari rigidità legate all’organizzazione della vita quotidiana, in particolare per i detenuti della sezione dell’Alta sicurezza" quello che è emerso davanti alla Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, dopo la sua visita agli Istituti penitenziari di Parma per effettuare una serie di colloqui con i detenuti, che alla figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa avevano già scritto una lettera collettiva. Il carcere di Parma contava al 31 marzo 562 detenuti, di cui 171 stranieri, con 434 condannati in via definitiva, di cui 111 ergastolani: si contano 208 persone nel padiglione di Alta sicurezza, 71 nei reparti 41bis e 267 negli spazi di Media sicurezza. La Garante ha riportato all’amministrazione tutte le criticità sollevati dai detenuti: si va dal riscaldamento tenuto spento nelle camere di pernottamento alla mancata consegna delle coperte ipoallergeniche anche di fronte a prescrizioni di allergia agli acari, dal divieto di accesso alla biblioteca all’assenza di un frigorifero comune fino alla difficoltà nel praticare semplici attività ricreative come il gioco delle carte (sono ammesse solo quelle napoletane) o degli sacchi (una sola scacchiera, per di più usurata, e il divieto di acquistarne di nuove da utilizzare nelle camere di pernottamento). E ancora: la mancata agevolazione della fruizione delle ore d’aria per le persone anziane, l’assenza di panchine o sedie nei passeggi, l’inagibilità dei campi sportivi per l’invasione dell’erba alta, la mancata individuazione di un detenuto come scrivano e l’assenza di un barbiere, le limitazioni nell’accensione e nella programmazione della televisione. Come scrive la Garante all’amministrazione, l’auspicio è che "laddove possibile, in un congruo contemperamento fra esigenze di sicurezza e tutela dell’equilibrio psico-fisico delle persone, possano essere superate talune rigidità". Milano: l’arresto poi il malore, marocchino di 31 anni muore dopo l’inseguimento di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 28 aprile 2016 Un infarto o un’embolia polmonare. Sono queste le possibili cause della morte di un marocchino di 31 anni fermato ieri pomeriggio durante una rocambolesca caccia all’uomo in viale Famagosta. L’uomo si è sentito male subito dopo essere stato caricato su un’autopattuglia dei carabinieri. I militari lo hanno visto accusare "forti problemi respiratori" e hanno chiamato un’ambulanza. Ma all’arrivo al vicino ospedale San Paolo il suo cuore ha smesso di battere. L’immigrato era sfuggito a un controllo insieme a un complice, poi arrestato dalla polizia. Durante la fuga era stato inseguito e bloccato da un agente della penitenziaria fuori servizio, che dopo averlo fermato lo ha "consegnato" ai carabinieri. Sul caso indagano i detective del Nucleo investigativo coordinati dal pm di turno Maura Ripamonti. Tutto inizia intorno alle 17.20 in viale Famagosta quando una pattuglia della squadra investigativa del commissariato Scalo Romana in borghese ha notato due magrebini sul controviale mentre armeggiavano vicino alla portiera posteriore lato passeggero di una Audi A4 station wagon parcheggiata a spina di pesce. Gli agenti hanno deciso di avvicinarsi per un controllo proprio mentre i due stavano risollevando uno dei sedili. Appena i poliziotti si sono qualificati i due sono fuggiti in direzioni opposte. Il primo, 34 anni, ha attraversato il viale di corsa verso via Santander dove è stato bloccato dagli agenti. Il secondo si è allontanato in via Beldiletto, una traversa che porta in via Ovada. La scena è stata notata da un agente della polizia penitenziaria fuori servizio che si è trovato a passare in viale Famagosta proprio in quel momento. L’uomo ha dato gas alla sua Smart e ha inseguito il fuggitivo. È riuscito a fermarlo a metà di via Beldiletto. Un testimone ha raccontato alla polizia di aver visto l’agente avventarsi sul marocchino, metterlo a terra e bloccarlo con le braccia dietro la schiena: "Una manovra effettuata con professionalità e senza l’uso di violenza", ha messo a verbale il testimone. Pochi secondi dopo è arrivata in via Beldiletto una pattuglia della compagnia dei carabinieri Porta Magenta chiamata da alcuni passanti che avevano telefonato al 112. In un primo momento i militari, senza sapere del precedente intervento della polizia, avevano pensato a una lite. Poi hanno aiutato l’agente penitenziario a immobilizzare il fuggitivo, lo hanno riportato in "posizione eretta" e lo hanno caricato in macchina. Anche questa scena sarebbe supportata dal racconto di alcuni testimoni. Una volta in auto l’immigrato ha "manifestato problemi respiratori gravi" e i carabinieri hanno chiamato un’ambulanza del 118. Interviene anche una infermiera di passaggio. L’uomo è morto appena arrivato in ospedale dove era stato ricoverato in codice rosso. Si tratta di un marocchino con diversi precedenti, avrebbe compiuto 32 anni il prossimo 28 giugno. Abitava nella zona di Rho e nel 2013 era stato fermato dai carabinieri con 45 chili di hashish e 35 mila euro. Anche di recente era stato denunciato dagli uomini dell’Arma di Rho per possesso di 9 mila euro. Il complice è stato arrestato per spaccio di droga. Sulla Audi A4, infatti, è stato trovato un panetto da un chilo di cocaina. È possibile che i due si stessero scambiando la droga proprio nel momento in cui sono stati sorpresi dal controllo casuale: gli agenti del commissariato non avevano in atto nessun servizio antidroga in zona. Le indagini, quindi, hanno preso due strade distinte. La prima, delegata alla polizia, riguarda l’arresto del complice con il chilo di cocaina. La seconda, che riguarda il decesso, è stata affidata ai carabinieri. Il comandante provinciale Giuseppe Canio La Gala ha disposto che ad occuparsene siano gli uomini del Nucleo investigativo. L’auto dell’agente penitenziario è stata sequestrata su ordine del pm. Pisa: i Sindacati "al carcere Don Bosco giornata di violenza: tre poliziotti in ospedale" pisatoday.it, 28 aprile 2016 I tre agenti sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso in seguito allo scontro con detenuti. In un caso un poliziotto è intervenuto per fermare una rissa. I sindacati chiedono condizioni di lavoro migliori. Raffica di aggressioni mercoledì 27 aprile nel carcere di Pisa. A farne le spese ancora una volta i poliziotti penitenziari, tre dei quali sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso. A denunciare l’accaduto le segreterie provinciali di Osapp e Uilpa. La prima aggressione intorno a mezzogiorno quando un agente addetto alla sezione ‘Piano Terra À, nel sedare una rissa tra un detenuto albanese ed uno tunisino (accesa per lamentele sul menù del giorno), ha riportato una contusione alla mano. Un paio di ore dopo un detenuto magrebino ristretto nella sezione adiacente, denominata Piano Terra Isolamento B (già conosciuto agli agenti per le continue provocazioni e schernimenti nei loro confronti), durante l’immissione nel cortile passeggi, preso da un raptus d’ira dovuto alla notifica di numerosi rapporti disciplinari notificati qualche minuto prima, ha aggredito un altro poliziotto, afferrandolo per il collo provocandogli varie contusioni ed escoriazioni. Nel placare la situazione anche un altro agente ha dovuto ricorrere alle cure mediche. "Si tiene a sottolineare - afferma Alessio Vetri, segretario provinciale Osapp - che quest’ultimo detenuto, durante la mattinata aveva già sputato addosso e provato a lanciare del caffè bollente ad un infermiere e allo stesso agente che poi ha sedato la prima rissa, quella tra detenuti". Tutti e tre gli agenti sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso dell’ospedale Cisanello, con lesioni ritenute guaribili rispettivamente in 5, 6 e 15 giorni. Ma la giornata non era ancora finita, perché intorno alle 20 lo stesso detenuto della ‘Sezione Isolamento B’, durante la somministrazione della terapia farmacologica, ha afferrato la mano dell’infermiera cercando di tirarla verso il cancello della camera detentiva. "Da tempo la segreteria provinciale dell’Osapp - afferma il segretario Vetri - sostiene come episodi del genere siano anche, anzi soprattutto, frutto della scarsità di risorse messe a disposizione del settore, chiedendo un intervento deciso a tutela della sicurezza sia di chi in carcere è costretto a viverci e di chi deve lavorarci. Le aggressioni sono sintomatiche del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema di gestione pisana sono costanti. La situazione è diventata insostenibile, ormai un’aggressione ogni settimana colpisce il Reparto di Polizia Penitenziaria, che giunto al collasso, paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici. Siamo stanchi". "Sono stati momenti di alta tensione, gestiti perfettamente dal personale di Polizia Penitenziaria - sottolinea il coordinamento pisano di Uil-Pa - che con grande professionalità ha impedito conseguenze più gravi all’interno della Casa Circondariale di Pisa. I nostri poliziotti penitenziari continuano a essere picchiati e feriti nell’indifferenza delle autorità regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria, e non possiamo più tollerare che il personale subisca simili aggressioni. L’amministrazione deve assumere urgentissime e tangibili iniziative che consentano di arginare gli episodi di violenza". Rovigo: i Sindacati e Fratelli d’Italia segnalano numerosi problemi nel nuovo carcere rovigooggi.it, 28 aprile 2016 "Dopo un’inaugurazione farlocca, organizzata solo per la stampa, ora dobbiamo assistere al secondo atto di una sciagurata gestione da parte del Dipartimento della polizia penitenziaria che, non contento, decide di trasferire, seppur relativamente pochi, quasi 30 detenuti nel nuovo carcere". L’attacco arriva dal circolo di Rovigo di Fratelli d’Italia, che punta il dito contro le tempistiche e le modalità con le quali il progetto è stato gestito. "Fin qui - prosegue la nota - non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che la nuova struttura penitenziaria ancora non è pienamente operativa. Anzi a dire il vero è ancora un cantiere aperto. Mancano l’infermeria, la mensa, alcuni sistemi di video sorveglianza, la lavanderia. E cosa succede quindi? Succede che il personale della polizia penitenziaria, con ulteriore aggravio di lavoro e incremento di rischio, deve fare la spola, anche con i detenuti, tra il carcere nuovo e quello vecchio". Un tema caldo, quello della gestione del nuovo carcere, con anche i sindacati di categoria che non nascondono problemi e apprensione. "Tutti i detenuti della vecchia casa circondariale di Rovigo, sono stati trasferiti nella nuova struttura penitenziaria - spiega Gioacchino Lenaris, segretario regionale di Osapp. Nonostante la volontà ed il buonsenso del Provveditorato regionale di Padova di trasferire i detenuti nella nuova struttura solo a lavori ultimati, quindi nel mese di settembre, hanno prevalso la testardaggine e la presunzione dell’amministrazione penitenziaria di Roma". Numerosi i problemi segnalati nella nuova struttura. "La cucina detenuti non funziona e i detenuti mangiano pasti freddi - dice ancora Lenaris - come non funzionano la lavanderia, le linee telefoniche, le linee dati per gli uffici e i servizi (niente collegamenti con i servizi telematici). Il personale è carente per il 50% della dotazione organica. Per il personale di polizia penitenziaria non funziona la caserma per gli alloggi, non funziona la mensa agenti (i pasti arrivano, quando possibile, dal vecchio carcere). Tutti gli altri servizi, spaccio, sale ricreative, palestra e quant’altro, sono solo utopia al momento". Sulla questione interviene anche il deputato polesano del Pd Diego Crivellari. "Entro l’estate - spiega - si concluderà il passaggio definitivo di tutti i servizi e degli uffici dal vecchio al nuovo carcere. Il prossimo 20 maggio a Rovigo ci sarà il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri con il quale potremmo fare un primo punto sulla situazione". Al centro del faccia a faccia, anche la necessità di decidere cosa fare della vecchia struttura di via Verdi. "Che si verificassero delle criticità - continua Crivellari - nel passaggio tra vecchia e nuova struttura era un’evenienza possibile. L’inizio delle funzione del nuovo carcere è un fatto positivo e prima accade, prima saranno visibili e tangibili gli effetti per guardie e per detenuti. Ciò non toglie che la voce degli operatori di polizia debba essere ascoltata con grande attenzione e deve essere sempre parte attiva soprattutto in un momento così delicato". Salerno: reinserimento sociale dei detenuti, intesa tra Comune di Eboli e Icatt salernonotizie.it, 28 aprile 2016 Sottoscritto nell’aula consiliare, il protocollo di intesa tra il Comune di Eboli e l’Istituto di detenzione a Custodia Attenuata (Icatt). Il sindaco di Eboli, Massimo Cariello, e la dirigente dell’istituto, Rita Romano, hanno firmato l’accordo che rilancia la collaborazione tra il Comune e l’Icatt verso la ripresa dei percorsi di riabilitazione e reinserimento degli ospiti dell’istituto. Un obiettivo raggiunto anche grazie all’impegno dell’assessore alle politiche sociali, Lazzaro Lenza, e della consigliera Filomena Rosamilia, che farà parte del gruppo di lavoro per la realizzazione del progetto. "L’Icatt mette in campo attività fondamentali tese al reinserimento sociale dei detenuti - ha sottolineato l’assessore Lenza. Fortunatamente, mentre altri fanno solo chiacchiere, c’è anche chi lavora concretamente per la possibilità che tutti possano reinserirsi nella società". I fondi a disposizione per il progetto arrivano direttamente dal bilancio del Piano di Zona e si tratta di risorse faticosamente reperite, perché non erano state previste in passato. "Non deve essere un punto di arrivo, ma di partenza - ha precisato la direttrice dell’Icatt, Rita Romano. La collaborazione con il Comune di Eboli è un’esperienza consolidata, ma negli ultimi anni sonnecchiava, con scarsa attenzione. Speravamo che con l’arrivo di Massimo Cariello si potesse rilanciare la collaborazione, perché con lui i contatti sono stati proficui, da molto tempo. D’altra parte, se si vuole dare un senso alla pena, è necessario organizzare le attività di rieducazione e riabilitazione". Il progetto poggerà su quattro borse di studio, che serviranno per garantire la partecipazione alle attività di pubblica utilità contenute nel programma "Questa intesa parte da iniziative dell’Icatt, che ci hanno trovato immediatamente d’accordo e per questo abbiamo moltiplicato gli sforzi per reperire fondi - ha spiegato il sindaco, Massimo Cariello -. Comune ed Icatt sono sulla stessa lunghezza d’onda nel mettere in campo percorsi formativi, anche di conoscenza del territorio, che consentano il reinserimento sociale. L’Icatt è da tempo un modello e la sua direzione è un’eccellenza nel campo e sono certo che, anche grazie alla collaborazione con il Comune, saprà creare ulteriori modelli basati sul recupero". "I miei 60 giorni all’inferno", la Tv dietro le sbarre di Boris Sollazzo Il Dubbio, 28 aprile 2016 Arriva in Italia (canale 118 di Sky) il docu-reality sulle prigioni. L’idea è di quelle tanto semplici quanto geniali: 2 mesi di carcere a chi non ha fatto nulla, sette persone che non sono costrette ma scelgono deliberatamente di entrare in una struttura di coercizione, alle prese con un’esperienza estrema a cui non sono preparati. Se poi si pensa che l’idea non è di un produttore coraggioso, di un attivista politico o di un ex detenuto o guardia penitenziaria, ma di uno sceriffo, Jamey Noel, allora fate bene a sedervi e fare attenzione. I miei 60 giorni all’inferno - il titolo inglese 60 days in (cast), azzeccatissimo, giocando sul significato di una parola che può voler dire scritturato ma anche esiliato (e in senso lato, prigioniero) - sono un format eccezionale, per innovazione e coraggio, e potente nei contenuti e nella forma. Già, perché la forza del progetto televisivo che ha visto la prima puntata andare in onda ieri sera, alle 22, sul canale 118 di Sky (Crime+Investigation), è la sua antiretorica, pur nella sua capacità di entrare all’interno di un microcosmo complesso da penetrare ed estremamente semplice nelle sue regole, valori, ramificazioni. Così tanto, che una telecamera potrebbe fare molta fatica a tradurre l’essenzialità di quel mondo, a restituirla nella sua onestà a chi non la conosce, non la immagina, ne ha un’idea distorta, ma chiara. E non è una contraddizione, perché gli stereotipi del carcere, ben sedimentati nel nostro immaginario dal cinema di genere e dalla cronaca, sono allo stesso tempo verosimili ma romanzati. Qui l’uso massivo delle 300 telecamere di sorveglianza, ma non solo, ci toglie ogni rischio di finzione. E quando piazzi però sette estranei in quel contesto, non puoi più nasconderti. Il docureality che ne esce può essere una bomba. Nel bene e nel male: può esploderti in mano, se non sai trattarla con la giusta cautela, con l’equilibrio narrativo necessario a una televisione "insider", in cui non devi farti scappare di mano l’elemento reality survivor né quello documentario e d’inchiesta; oppure può lacerare gli schemi a cui siamo abituati. Perché la prigione e le sue dinamiche non sono un’Isola dei famosi qualsiasi. Non puoi giocare con la realtà, devi esserle fedele. Non puoi nascondere, ma neanche spettacolizzare. Devi avere rispetto dei piccoli e grandi drammi al suo interno, della paura dei "concorrenti", del mix che si viene a creare e che tu, spettatore, sai essere "modificato", ma di cui gli altri detenuti non sono minimamente a conoscenza. Devi però essere anche essere irriguardosamente onesto, e svelare l’insopportabile. L’esperimento era ed è rischiosissimo: le celle sono forse l’ultima frontiera. La televisione e il cinema ne sono attratti. Pensate a Brubaker - a cui la drammaturgia di I miei 60 giorni all’inferno è chiaramente ispirata - ma anche, qui in Italia, a quel documentario eccezionale di Vincenzo Marra Il gemello, per passare a un lavoro come Il profeta, di Jacques Audiard. E sul piccolo schermo è impossibile non citare Prison Break e il più recente Orange is the new black. Ma qui siamo oltre. Anche ai tanti documentari su questo non luogo pieno di sentimenti repressi e depressi, di rapporti malati, di gerarchie violente, lavori di reportage onesti e diretti che in particolare ha partorito la Msbc. La A&E ha saputo però creare un nuovo genere narrativo, attraverso un lavoro accurato in ogni dettaglio e a una scelta in antitesi con la galera: la libertà. Non ci sono limiti e confini, nella sua struttura a episodi, sebbene il lavoro di scrittura del testo, attraverso il montaggio, non venga nascosto. I sette ? tra loro una ex marine e una poliziotta, ma anche per dire una mamma casalinga e un’insegnante, fino a Maryum Alì, figlia del campione di boxe e unica costretta a cambiare nome e cognome ? sono stati scelti con attenzione. Fisionomia, carattere, capacità di adattamento, emotività, acume e anche difetti sono elementi essenziali al puzzle che creano insieme, separatamente e a contatto con quella struttura sovraffollata, vibrante di emozioni, corrotta. Ma soprattutto sorprendente. In cui i ruoli sono dati dalle divise, ma in cui tutti sono prigionieri. E in cui l’onestà non è certo rintracciabile nei diversi colori di quei vestiti. I miei 60 giorni all’inferno rifiuta la facile retorica e il terreno facile della denuncia, si pone sullo stesso terreno di ambiguità su cui questo esperimento catodico, psicologico, sociale gioca. Quando la mamma e l’insegnante ti dicono che in fondo quel carcere che a te serra la gola e fa mancare l’aria anche già solo con il rumore dei chiavistelli, "è troppo comodo", tu vieni spiazzato. Esci fuori dai tuoi schemi, entri a fare l’ottavo "innocente" (vengono chiamati così, forse persino con ironia, nell’edizione americana come in quella italiana, i concorrenti) che deve fare i conti con un buco nero che c’è in ognuno di noi. Le espressioni facciali cambiano, i corpi diventano tesi, la ragnatela di relazioni non ha censure, né per i concorrenti che tra disagi, difficoltà e adeguamento alla nuova realtà, accettano di scendere a fondo di questi due mesi che cambieranno la loro visione del mondo, e non solo la loro: di quello chiuso in pochi metri densi di corpi umani e dolore ma anche dell’esterno. Si fa fatica a viverne e vederne la normalità, la quotidianità, la capacità di molti di rendere sopportabile, a volte persino rassicurante, l’inferno. È dura per chi guarda abbassare l’asticella della propria indignazione, per l’empatia con innocenti e colpevoli e l’incapacità di separarli oltre che di individuarli, scoprendo che sono due categorie inutili, oltre che fragilissime. Perché gli esterni devono fare i conti con le loro ombre e gli inquilini di medio e lungo corso non necessariamente sono lì a ragione. E nessuno, nessuno di loro merita di vivere in quella sospensione di regole, giustizia, verità. Noel sembra aver ideato il format per sbatterci in faccia ciò che governo, giudici, legislatori, cittadini si ostinano a rinchiudere dentro la loro indifferenza e al loro cinico opportunismo. Ciò che lui stesso non sapeva come combattere, da solo. L’America è ossessionata dal riempirle le prigioni, tra tolleranze zero e richiami elettorali ? lì anche i procuratori vengono eletti - alla sicurezza. Proprio come sta succedendo sempre più qui da noi. Un docu-reality come questo ci dice cosa diventeremmo, anche noi, se fossimo vittime di un Sistema come il carcere. Perché questi magnifici sette ci dicono che siamo tutti colpevoli. O almeno, complici. Migranti. Vienna, l’asilo non è più un diritto di Angela Mayr Il Manifesto, 28 aprile 2016 Con l’aumento dei flussi scatta lo stato d’emergenza che bloccherà gli arrivi e rispedirà i profughi nei Paesi confinanti. Davanti al parlamento austriaco bambole stese per terra, simboleggiano le tante donne, uomini e bambini che la fortezza Europa ogni giorno condanna a morire. Le hanno portate lì insieme a bandiere rosse la Vsstöe e JG, le due maggiori organizzazioni giovanili socialiste furiose col loro partito, ultima di una valanghe di proteste contro il giro di vita del diritto d’asilo. A Salisburgo gli attivisti del coordinamento per i diritti umani diritto si sono stesi sulla riva del fiume Salzach, ciascuno sotto un lenzuolo bianco. "Più si blinda, più morti si producono". Ma la logica del muro e della presunta emergenza immigrati non si ferma. Ieri sera il parlamento austriaco ha approvato il discusso pacchetto di emendamenti del diritto d’asilo. Durante le votazioni dalla galleria sono volati migliaia di volantini degli studenti del Vsstöe: "Non passate sopra i cadaveri, non è questo che vi farà rimanere a galla". La legge è passato con i voti dei partiti della coalizione di governo, socialdemocratici Spoe e popolari (Oevp) e il minuscolo Team Stronach. Verdi, Neos e quattro parlamentari Spoe contrari. La xenofoba Fpoe che queste nuove misure ha sempre volute e propugnate, non contenta ha votato contro. Evidentemente ha già spostato la barra più in avanti. "È una legge placebo che ha solo un nuovo abito, a leggi già esistenti sono state aggiunte modifiche minimali" ha accusato Gernot Darmann del partito di H.C. Strache e della nuova star Norbert Hofer. Già adesso l’Austria sarebbe circondata da paesi terzi sicuri e quindi secondo le regole europee non avrebbe nessun obbligo di trattare domande d’asilo, ha ribadito il deputato di estrema destra. Cosa è cambiato? Intanto la nuova legge introduce l’asilo a tempo, che sarà dunque di tre anni e non più illimitato. Dopo tre anni le condizioni del paese di provenienza verranno verificate per decidere se le ragioni d’asilo sussistono ancora. Può quindi scadere o a questo punto diventare illimitato. Una misura molto criticato dall’AMS, ufficio di collocamento lavoro perché mette una forte ipoteca sui programmi di integrazione e formazione appositamente approntati per il collocamento di rifugiati. Più difficile anche il ricongiungimento familiare, chi ha solo un permesso umanitario deve aspettare addirittura tre anni, e avere condizioni economiche adatte a mantenere la famiglia. Ma la parte più grave del pacchetto è il decreto che autorizza il governo di proclamare lo stato di emergenza per la tutela della sicurezza e l’ordine pubblico, una condizione particolare che permette di aggirare il diritto d’asilo. Così un rifugiato che si presentasse al confine austriaco potrà essere respinto e rimandato indietro. Solo chi ce lo fa a trovarsi dentro il paese potrà chiedere asilo, cosa sempre più difficile visto i muri che crescono dal Brennero fino al confine orientale con la Ungheria. "Bisogna avere una visione complessiva del problema, voi lo riducete alla costruzione dei muri" ha detto Eva Glawischnig capogruppo dei Verdi accusando l’abolizione di fatto del diritto d’asilo e la violazione della costituzione "che non reggerà davanti alla Corte costituzionale". Le forti critiche che hanno accompagnato l’iter della legge "Faymann sei Orban" si è beccato il cancelliere al congresso Spoe di Vienna, hanno costretto il governo di attenuarne alcuni aspetti, soprattutto anche la valenza temporale dell’emergenza, limitata a 6 mesi, prolungabile fino a due anni. Lo stato di emergenza però non c’è lo ha ammesso persino il cancelliere Faymann, si tratta di una misura preventiva, come quella della costruzione dei muri ai confini, nel caso si verificasse un afflusso eccezionale, perché non si ripeta l’esperienza dell’anno scorso quando decine di migliaia di rifugiati passavano i confini, incontrollati. Mesi di grazia. In quell’occasione ha dichiarato Norbert Hofer possibile futuro presidente dell’Austria lui avrebbe dimissionato il governo perché non ha tutelato gli austriaci. Più di cinquanta grandi organizzazioni chiamate ad esaminarla hanno espresso un giudizio negativo sulla legge, dall’Unhcr alla conferenza dei vescovi, alla camera degli avvocati, l’istituto Ludwig Boltzmann per i diritti umani molte regioni e città, intere università oltre alla vasta galassia di associazioni e Ong. Unico giudizio positivo è venuto inaspettatamente dall’Oegb, la centrale sindacale austriaca e dalla camera del lavoro. L’Austria prepara la barriera al Brennero. E vuol fare controlli anche in Italia Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2016 Il neologismo con cui l’Austria sta dando forma e sostanza alla chiusura del Brennero si chiama "management di controllo" di confine, un tecnicismo, una "foglia di fico", che serve da oggi al valico di confine austro-italiano a dare una forma e una "sostanza" alla svolta xenofoba e populista di Vienna. Saranno mobilitati almeno 250 poliziotti austriaci al valico del Brennero, con l’introduzione dei controlli di confine decisi da Vienna. Lo ha chiarito il capo della polizia tirolese Helmut Tomac, secondo il quale "in caso di necessità, saranno inviati anche soldati, ma la decisione spetterà al ministero della Difesa". In realtà la decisione spetta solo al ministro degli Interni che può chiamare a sostegno quello della Difesa ma sotto la sua tutela. L’Austria si prepara così a sigillare la sua frontiera con l’Italia, anche con una rete lunga 370 metri. "Si tratta di una normale rete e non di un filo spinato. Sarà allestita solo se necessario in caso di massiccio arrivo di migranti", ha detto ancora Tomac. La struttura portante, ha spiegato il funzionario di polizia, sarà allestita prossimamente ma la rete vera e propria sarà utilizzata solo in caso di bisogno. "L’Austria non intende isolarsi ma incanalare gli eventuali flussi di migranti", ha spiegato Tomac. In realtà le autorità austriache chiedono di poter effettuare controlli anche sul suolo italiano e sui treni diretti in Austria. A tal proposito il neo ministro degli Interni austriaco Wolfgang Sobotka è atteso domani a Roma, dove incontrerà al Viminale il suo omologo Angelino Alfano per parlare dei controlli di confine al Brennero. Per le ore 17 è prevista una conferenza stampa di Sobotka all’ambasciata austriaca. Si tratta del primo viaggio all’estero di Sobotka, che venerdì è invece atteso a Potsdam in Germania. L’Austria prevede di identificare immediatamente alla frontiera i richiedenti asilo, che saranno portati in appositi centri ad Innsbruck e dintorni, mentre i profughi che non hanno diritto saranno riconsegnati all’Italia "che dovrà farsi carico della loro assistenza", ha aggiunto il capo della polizia tirolese. Vienna ha introdotto, tra l’altro, per il 2016 un tetto di 37.500 richiedenti asilo, per cui oltre questo numero nessun rifugiato potrà più entrare nel Paese. Saranno contemplate eccezioni solo per coloro che hanno parenti stretti residenti in Austria o per coloro che rischiano torture o trattamenti disumani nei Paesi in cui verranno rinviati. Le misure concrete pianificate da Vienna prevedono, al Brennero, quattro corsie - due per i Tir e due per le auto - per svolgere controlli a vista dei mezzi in transito. "Sarà introdotto un limite di velocità di 30 km/h per motivi di sicurezza", ha spiegato Helmut Tomac. "Mezzi sospetti - ha detto - saranno deviati in una apposita zona di controllo, riducendo in questo modo il più possibile rallentamenti alla circolazione". Secondo Tomac, code saranno comunque inevitabili e in quel caso dovrà scattare la collaborazione con la Polizia stradale italiana di Vipiteno. I controlli al Brennero da parte delle autorità austriache prevedono anche uno stop forzato dei treni a Steinach, subito dopo il confine. "Controlleremo tutti i passeggeri su tutti i treni se l’Italia non dovesse consentire ai poliziotti austriaci di iniziare i controlli già da Fortezza. La fermata a Steinach con relativi ritardi saranno inevitabili", ha concluso Tomac. Comprensibilmente numerose, soprattutto da parte italiana, le reazioni all’annuncio austriaco. Per il premier Renzi l’ipotesi di chiudere il Brennero "è sfacciatamente contro le regole europee, oltre che contro la storia, contro la logica e contro il futuro". Stessi toni e stessi concetti da parte del ministro dell’Interno Alfano, mentre per il Commissario europeo per le migrazioni, Avramopoulos, "invece di erigere muri dovremmo costruire dei ponti, e comunque quello che sta avvenendo tra Austria e Italia deve essere spiegato e chiarito da Vienna". "Capiamo che i Paesi hanno difficoltà e subiscono pressioni - ha aggiunto l’esponente della Commissione Ue - ma ciò che ci preoccupa è che si mette in discussione Schengen sulla libera circolazione dei cittadini". "Il Governo non consentirà all’Austria di fare controlli sul territorio italiano" ha affermato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. Migranti: l’Austria ne "esporta" più di quanti ne arrivano dall’Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 aprile 2016 Oggi Alfano in contra il collega Sobotka. L’ipotesi degli "hotspot", centri di identificazione sulle navi. Roma: il problema sono i flussi in entrata, non in uscita. C’è un dato che il governo italiano sta facendo pesare nei colloqui con i rappresentanti dell’Unione Europea per tentare di contrastare l’offensiva austriaca. Riguarda gli arrivi nel nostro Paese attraverso il valico del Brennero, ma anche i passaggi da Tarvisio. E dimostra - questa è la contestazione - che in realtà il problema sono i flussi in entrata più che quelli in uscita. Perché nel 2015 sono state 3.143 le persone che hanno varcato il confine mentre nei primi quattro mesi del 2016, vale a dire da quando è cominciata la "campagna" di Vienna, sono 2.051. E dunque siamo già oltre il 65 per cento rispetto al totale degli ingressi di un anno fa. Nella maggior parte si tratta di pachistani e afghani, dunque nazionalità che non hanno il diritto automatico a vedersi riconosciuto lo status di rifugiati. Oggi pomeriggio il titolare del Viminale Angelino Alfano incontrerà a Roma il neoministro dell’Interno austriaco Wolfgang Sobotka. Al centro dei colloqui ci sarà naturalmente la barriera che si è già iniziato a costruire, ma anche la necessità che tra i due Stati "rimanga aperto il dialogo e la collaborazione, escludendo però la possibilità di alzare muri". E anche a lui - che è stato scelto dieci giorni fa evidentemente proprio per portare avanti la linea dura - Alfano ribadirà che sono i numeri a smentire la necessità di bloccare il confine. Anche tenendo conto che negli ultimi mesi "sono stati intensificati i controlli sia per quanto riguarda i treni, sia per i veicoli in transito. Ma nulla convincerà l’Italia della necessità di chiudere i valichi". Esclusa anche la possibilità che siano i poliziotti austriaci ad effettuare verifiche sui convogli che entrano nel nostro Paese. Del resto è il trattato di Schengen ad impedire questo tipo di attività e l’Italia non intende retrocedere, proprio perché difende quell’intesa e chiede invece la revisione dell’accordo di Dublino affinché si preveda che chi richiede asilo non sia più obbligato a farlo nello Stato di primo ingresso. Una modifica ritenuta indispensabile soprattutto dopo aver analizzato i numeri dei nuovi arrivi dal mare. Secondo i dati aggiornati a ieri mattina sono 27.050 gli stranieri giunti attraverso la rotta del Mediterraneo, dunque partiti dalla Libia o - in minima parte - dall’Egitto. Soltanto nell’ultimo fine settimana ne sono giunti più di 1.000. Gli osservatori sono concordi nel ritenere che il flusso - già altissimo rispetto al 2015 e soprattutto al 2014 che fu anno record per gli sbarchi - potrebbe ulteriormente impennarsi. Per questo il ministro Alfano ha chiesto all’Europa di valutare la possibilità di creare nuovi "hotspot", vale a dire i centri di identificazione e smistamento, direttamente a bordo delle navi che si trovano nel Mediterraneo e soccorrono i migranti. Si tratta infatti in molti casi di imbarcazioni straniere che dopo il salvataggio portano i naufraghi direttamente nei porti italiani. Se la procedura di riconoscimento venisse effettuata a bordo, si avrebbe invece il vantaggio di poter trasferire subito gli stranieri nel Paese di cui la nave batte bandiera o comunque lì dove chiedono di poter ottenere l’accoglienza come profughi. Migranti. Barriera al Brennero. Renzi: "Una sfacciata violazione delle regole Ue" di Paolo Berizzi La Repubblica, 28 aprile 2016 Una rete metallica lunga 250 metri, allungabile fino a 370, che "taglia", in perpendicolare, la carreggiata dell’A22, a est, e quella della strada statale a ovest. L’avvio dei controlli da fine maggio. Le autorità austriache chiedono di effettuare controlli sul territorio italiano. Alfano: "Comportamenti insensati". Boschi: "Non consentiremo controlli sul nostro territorio". Boldrini: "Intervenga Bruxelles". Vienna inasprisce le norme anti-immigrati. "L’ipotesi di chiudere il Brennero è sfacciatamente contro le regole europee, oltre che contro la storia, contro la logica e contro il futuro". Lo scrive il presidente del Consiglio Matteo Renzi nella sua newsletter Enews nel giorno in cui l’Austria ha illustrato nel dettaglio i controlli al confine con il Brennero, controlli che dovrebbero prendere il via alla fine di maggio e che il leader della destra trionfatore del primo turno delle presidenziali ha definito "inevitabili". "Confidiamo che Vienna non prenderà decisioni unilaterali nei prossimi mesi. E che l’Austria continuerà a collaborare strettamente con noi nella crisi dei profughi", ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in un’intervista al quotidiano austriaco Die Presse. Mentre il ministro delle Riforme Boschi avverte: "Il Governo non consentirà all’Austria di fare controlli sul territorio italiano. Noi possiamo - e lo faremo - sollevare in sede europea la violazione". "Nei primi quattro mesi dell’anno il numero dei migranti arrivato in Italia è inferiore a quello del 2014 e sostanzialmente uguale a quello del 2015", ha aggiunto Renzi: "Si tratta di uno sforzo impegnativo per il nostro Paese, che continua a cercare di salvare vite umane in mare, ma con numeri che sono più bassi di quelli che vengono riportati dagli allarmi internazionali. Tutto ciò conferma - ove ce ne fosse il bisogno - che l’ipotesi di chiudere il Brennero è sfacciatamente contro le regole europee, oltre che contro la storia, contro la logica e contro il futuro", ha spiegato ancora il presidente del consiglio. "Il nostro compito è convincere i nostri partner austriaci dell’insensatezza dei loro comportamenti", ha aggiunto il ministro dell’Interno Angelino Alfano confermando che domani alle 16 a Roma incontrerà il suo omologo austriaco Wolfgang Sobotka. Per le 17 è prevista una conferenza stampa di Sobotka all’ambasciata austriaca. Preoccupato anche il commento del presidente della Camera Laura Boldrini: "Non è la strada giusta, perché divide. È la resa dell’Unione europea, vuol dire alzare bandiera bianca e mi auguro che le autorità austriache ci ripensino - ha detto da Montecitorio la terza carica dello Stato che ha poi lanciato un appello alla Ue: "Mi auguro che l’Unione europea metta all’ordine del giorno la questione e si trovino dei meccanismi per far rispettare ai paesi membri gli impegni". Secondo il commissario europeo per la migrazione, Dimitris Avramopoulos "quello che sta avvenendo tra Austria e Italia deve essere spiegato e chiarito da Vienna". Avramopulos ha detto di capire che "i Paesi hanno difficoltà e subiscono pressioni ma ciò che ci preoccupa è che si mette in discussione Schengen sulla libera circolazione dei cittadini", ha concluso. E durante un vertice al Brennero tra i rappresentanti delle forze dell’ordine di Italia, Austria e Germania per discutere gli ormai imminenti controlli di frontiera, le autorità di Vienna hanno fatto sapere che chiederanno di poter effettuare controlli sui treni e sulla strada già sul territorio italiano. Ma intanto da Vienna arriva la notizia che il Parlamento austriaco, dove hanno ancora la maggioranza i socialisti del premier Werner Feymann, per tentare di arginare la crescita dell’estrema destra xenofoba dell’Fpoe (il cui candidato Norbert Hofer è giunto primo alle presidenziali di domenica scorsa) ha approvato con 98 voti a favore e 67 contrari una controversa legge "blocca-profughi". In base al nuovo provvedimento il governo può dichiarare "lo stato d’emergenza" se il numero dei migranti dovesse improvvisamente aumentare, consentendo di respingere la maggioranza dei richiedenti asilo direttamente al confine, inclusi quelli provenienti da Paesi in guerra come la Siria. Ma come sarà la barriera anti-profughi? E come funzionerà? Immaginate una cosa a metà tra un filtro e un imbuto rovesciato. Mobile. Da aprire e chiudere a seconda della necessità e del momento. Una rete metallica lunga 250 metri - allungabile fino a 370 - che si sviluppa in larghezza e "taglia", in perpendicolare, la carreggiata dell’autostrada A22, a est, e quella della strada statale del Brennero, a ovest. Due lingue di asfalto che corrono parallele, separate dalla ferrovia che passa in mezzo. La barriera voluta da Vienna per proteggere il confine del Brennero dal flusso di migranti provenienti dall’Italia è stata presentata ufficialmente alle 13 al valico. Ma già in precedenza erano filtrati i primi particolari. Coerentemente con il lavoro che, tra annunci roboanti e comunicati propagandistici diffusi dal governo centrale, squadre di operai della Asfinag, la società autostradale tirolese, sta comunque portando avanti da due settimane, il "management di controllo" di confine, da oggi, avrà una forma e una "sostanza". I piani della polizia e dell’assessorato alla viabilità del Tirolo - ai quali Vienna, in barba a Schengen, ha affidato la realizzazione e la gestione della barriera con il ripristino dei controlli frontalieri - prevedono un sistema "leggero". Regolabile in base alla situazione. Dei flussi in entrata, prima di tutto. Pochi metri dopo la frontiera con l’Italia, all’altezza dell’area di servizio autostradale Rosenberger, si sta procedendo da giorni a tagliare il guardrail che separa le due carreggiate dell’autostrada A22. Proprio in quel punto sorgerà la lunga barriera che servirà per controllare mezzi e persone e che arriverà, appunto, fino alla strada statale, per uno sviluppo complessivo di 250 metri. I pali che sosterranno la barriera sono accatastati in un angolo del cantiere: verranno posizionati in questi giorni nei punti di "ancoraggio" della rete metallica mobile. "La recinzione? Potrà essere allestita in poco tempo", ha spiegato il ministro degli Interni Wolfgang Sobotka, sottolineando che i controlli veri e propri - anticipati in questi giorni da verifiche a random da parte della gendarmeria austriaca - "inizieranno a partire da giugno". A quanto pare, lungo l’autostrada i controlli saranno effettuati subito dopo la galleria - in territorio italiano - che collega l’Italia con l’Austria. Il traffico sarà fatto rallentare fino ad una velocità massima di 30 chilometri orari e, a sua volta, incanalato su quattro corsie: due per le autovetture e moto, altrettanti per i mezzi pesanti. Eccolo, l’imbuto rovesciato. La polizia austriaca al confine controllerà le persone e, quelle ritenute "sospette", saranno deviate nella vicina area predisposta all’identificazione riducendo in questo modo il più possibile rallentamenti alla circolazione. Secondo il capo della polizia del Tirolo, Helmut Tomac, "code saranno comunque inevitabili e in quel caso scatterà la collaborazione con la Polizia stradale italiana di Vipiteno". Analoga sarà la logistica sulla strada statale (un sistema simile è in atto già da parecchi mesi a Kiefersfelden, al confine tra Germania ed Austria). Il traffico automobilistico sarà convogliato su un’unica corsia. Qui verrà ripristinato il vecchio check point di frontiera all’altezza della rotonda dove sorge il "vecchio fungo", come lo chiamano i brennesi. È l’edificio basso che un tempo, prima di Schengen, ospitava la frontiera del valico. Helmut Tomac ha spiegato che verranno fatti controlli anche sui treni e ha aggiunto: "L’esito dell’incontro tra le tre polizie - austriaca, tedesca e italiana - non è tale da farci rinunciare alle recinzioni". anzi, ha aggiunto, "potremmo costruire 370 metri di rete e recinzioni per evitare arrivi illegali" ma saranno allestiti solo se necessario in caso di massiccio arrivo di migranti", ha detto Tomac. La struttura portante, ha spiegato, sarà allestita prossimamente ma la rete vera e propria sarà "attaccata" solo in caso di bisogno. "L’Austria non intende isolarsi ma incanalare gli eventuali flussi di migranti". Tomac si è detto fiducioso che la rete possa essere evitata. Inoltre, ha spiegato ancora il numero uno della polizia tirolese, "i richiedenti asilo saranno immediatamente portati in centri ad Innsbruck e dintorni, mentre quelli non aventi diritto saranno riconsegnati all’Italia che dovrà farsi carico della loro assistenza". Tomac ha ricordato che l’Austria ha introdotto per il 2016 un tetto di 37.500 richiedenti asilo. Al Brennero, ha detto, i migranti saranno immediatamente identificati e registrati. A questo scopo nelle prossime settimane saranno allestiti container a due piani. I controlli saranno allargati: le autorità austriache chiederanno di poter effettuare verifiche sui treni e sulla strada già sul territorio italiano nel tratto tra Fortezza e Brennero: "L’allestimento di una rete sul confine italo-austriaco al Brennero dipende dall’Italia", ha aggiunto Tomac. "In vista dell’imminente incontro dei ministri Sobotka e Alfano a Roma sono stati rinviati i lavori di allestimento", ha detto, sottolineando che saranno in servizio 250 poliziotti austriaci. "In caso di necessità - ha aggiunto Tomac - saranno inviati al Brennero anche soldati, ma la decisione spetterà al ministero della Difesa". I treni, secondo le autorità austriache, avranno uno uno stop forzato a Steinach, subito dopo il confine. "Controlleremo tutti i passeggeri su tutti i treni se l’Italia non dovesse consentire ai poliziotti austriaci di iniziare i controlli già da Fortezza. La fermata a Steinach con relativi ritardi saranno inevitabili", ha aggiunto Tomac precisando che il nodo dei controlli di agenti austriaci su territorio italiano non è stato ancora sciolto. Anche il vertice oggi con rappresentanti della questura di Bolzano e con il ministero degli interni non ha portato ad un accordo, ha aggiunto. E l’ufficio studi della Cgia lancia un allarme: degli 89 milioni di tonnellate di merci che complessivamente transitano ogni anno lungo i nostri confini alpini su Tir, 29 sono "assorbiti" dal valico del Brennero. Se poi aggiungiamo anche gli 11,7 milioni di tonnellate di merci che viaggiano su ferrovia, la dimensione complessiva delle merci in transito sul Brennero supera i 40 milioni di tonnellate all’anno. È evidente che la decisione di ripristinare i controlli al Brennero colpirà soprattutto l’autotrasporto con ricadute su tutto il sistema produttivo, soprattutto quello legato alle esportazioni. Ennesimo giro di vite dell’Austria sui profughi. Il Parlamento austriaco, dove hanno ancora la maggioranza i socialisti del premier Werner Feymann, per tentare di arginare la crescita dell’estrema destra xenofoba dell’Fpoe (il cui candidato Norbert Hofer è giunto primo alle presidenziali di domenica scorsa) ha approvato con 98 voti a favore e 67 contrari una controversa legge "blocca-profughi". In base al nuovo provvedimento il governo può dichiarare "lo stato d’emergenza" se il numero dei migranti dovesse improvvisamente aumentare, consentendo di respingere la maggioranza dei richiedenti asilo direttamente al confine, inclusi quelli provenienti da Paesi in guerra come la Siria. Europa. Il declino del neoliberisti apre spazi per i populismi di Mauro Magatti Corriere della Sera, 28 aprile 2016 Avanza ovunque, soprattutto nel centro e ad est, una destra che intercetta malumori diffusi anche perché il mondo "liberato" dal mercato è entrato in crisi. Alla fine degli anni 80 la caduta del socialismo, segnata simbolicamente dal crollo del Muro Berlino, decretò la fine delle ideologie, in pochi anni spazzate via dalla vittoria internazionale del neoliberismo. Capace di trasformare le spinte contro-sistemiche di un emergente individualismo in benzina per una nuova stagione di crescita economica. In quel passaggio storico, i vecchi partiti conservatori lasciarono il posto a un nuovo modo di pensare, icasticamente sintetizzato nella celebre formula Thatcheriana "la società non esiste". Nel mercato "liberato", era il singolo individuo l’unico e vero protagonista. A qualche decennio di distanza da quella svolta politica, il combinato disposto di stagnazione economica e pressione migratoria mette in discussione gli equilibri raggiunti dai paesi avanzati, forgiando nuove visioni politiche. Soprattutto a destra è in atto una battaglia che probabilmente deciderà del nostro futuro. infatti ormai chiaro che in Europa la destra avanza un po’ ovunque, con un discorso duro e carico di risentimento che fa della chiusura agli immigrati, associato alla difesa dell’identità nazionale, la leva principale. Un modo per gridare che la politica europea, gestita da un establishment che continua a essere lontanissimo dal sentire diffuso, non è efficace. Si tratta di un processo che va acquistando forma e forza crescenti. E che, arrivati dove siamo, é troppo semplicistico ricondurre ai populismi già da molti anni presenti nelle democrazie europee. In alcuni paesi, partiti che si rifanno a questo schema sono già al governo. Ungheria e Polonia in testa. Ai quali potrebbe ora aggiungersi l’Austria. Senza dimenticare i successi elettorali ottenuti al primo turno delle elezioni amministrative da Marine Le Pen in Francia. È evidente che ci troviamo di fronte a una nuova proposta politica che avanza la pretesa di succedere ai vecchi partiti di marca neoliberista (con echi anche nella candidatura di Trump negli Stati Uniti). Fa eccezione, almeno per il momento, la Germania, dove la Merkel riesce a mantenere stabile il principale paese dell’Unione. Ma viene da chiedersi che cosa verrà dopo la cancelliera, che non può essere eterna. Last but not least, anche nel nostro paese la contrapposizione tra le due destre è ormai evidente nello scontro tra quel che resta di Forza Italia e il tandem Salvini-Meloni. Ci sono molte buone ragioni per ritenere che si debba evitare che questo fronte costituisca il perno di una nuova stagione storico-politica. La questione riguarda tutti i partiti, di destra e di sinistra. E si deve ancora capire da quale fronte una risposta costruttiva possa arrivare. Ma in ogni caso, il primo passo è riconoscere che, a differenza di quanto accadde negli anni 80, il cuore del problema oggi è il legame sociale: dopo decenni di individualismo spinto e di sganciamento tra economia e società, la prolungata stagnazione economica fa si che il livello di insicurezza e incertezza sia ormai socialmente intollerabile. In una recente pubblicazione, il Fondo Monetario Internazionale ha mostrato che, dopo otto anni, solo Stati Uniti e Germania, tra i principali Paesi occidentali, hanno pienamente recuperato il livello di reddito precedente alla crisi. Con una velocità di aggiustamento che, se confrontata con altre grandi crisi finanziarie del passato, risulta particolarmente bassa. Senza tenere conto dei permanenti squilibri esistenti nella distribuzione del reddito. Come possono società altamente individualizzate e impaurite sviluppare non dico un atteggiamento solidaristico, ma almeno razionale nei confronti di un fenomeno che suona così minaccioso come quello di migranti e rifugiati? Specie nei ceti popolari, dove il costo della crisi è stato ed è ancora oggi molto salato, il risentimento sta raggiungendo livelli di guardia. E per evitare che arrivi alle sue conseguenze più velenose, c’è bisogno di una risposta politica chiara e realistica, capace di rielaborare questioni rimosse da tempo. E cioè che tra interessi economici e domande sociali occorre trovare un punto di compromesso reciprocamente sostenibile; che l’idea di un astratto cosmopolitismo può forse attrarre piccole élite sociali, ma non il popolo che ha bisogno di forme culturali e istituzionali definite e condivise, tanto più in un mondo molto turbolento; che in una situazione che si fa sempre più complessa è necessario rinegoziare la relazione tra crescita personale e di sistema. Una domanda molto diversa e per certi versi opposta a quella degli anni 80, quando la questione era quella di liberare le energie compresse da uno statalismo soffocante. Come succede sempre in queste fasi di cambiamento vincerà chi, aggiornando per primo le proprie mappe cognitive, diventerà capace di dare risposte concrete alle mutate sfide storiche. Senza pensare di vivere in un’epoca che non c’è più. Siria: la testimonianza di Firas Fayyad "torturato nelle carceri di Assad" di Monica Mistretta l’indro.it, 28 aprile 2016 "Sono cittadini siriani, il loro lavoro è torturare la gente per conto di Assad". "Mi colpivano con oggetti acuminati: sulla corpo, sulle ferite, sulla testa. Poi mi spegnevano le sigarette sulla pelle, sugli occhi. A volte per torturarmi mi facevano sdraiare su un letto di ferro e mi folgoravano con le scariche elettriche". Firas Fayyad è siriano ed è stato nelle prigioni segrete di Bashar al-Assad a Damasco per due volte nel 2011 dopo lo scoppio della guerra civile siriana. La sua colpa è quella di essere un regista e di aver documentato con il film "On the other side" come gli esiliati siriani percepiscano dall’esterno l’evolversi della situazione nel loro Paese. Contare i morti in Siria è ormai impossibile: l’Onu ha smesso di farlo due anni fa. La prima volta che Firas è stato messo in prigione, la guerra civile siriana era appena iniziata. "Sono stato arrestato due volte. La prima agli inizi di aprile del 2011. Erano gli albori della rivoluzione. Sono rimasto in carcere per tre mesi. La seconda volta nel novembre dello stesso anno, per otto mesi: mi hanno arrestato di nuovo per il mio film ‘On the other sidè dedicato a un poeta siriano in esilio e alle sue riflessioni sugli sviluppi della situazione nel suo Paese". Dove si trovava il carcere? Il primo carcere è stato il Force intelligence service detention center a Damasco, che i siriani chiamano il Centro della morte. La seconda volta che sono stato arrestato ho cambiato diversi centri di detenzione. Prima sono stato detenuto nel reparto Intelligence information, poi sono passato al Domestic intelligence centre, detto anche "Alkhateeb branch" o "branch 251?. Da qui mi hanno trasferito allo State intelligence o General intelligence department, dove sono rimasto per tre mesi. Poi mi hanno portato in un centro di detenzione militare dove addestrano gli ufficiali dell’intelligence : ci sono rimasto per un mese. Poi mi hanno trasferito al carcere civile di Addra, a quello di Homs e, infine, a quello di Aleppo. Chi c’era accanto a te nelle carceri? La maggior parte dei detenuti erano civili provenienti da tutti i quartieri di Damasco. Tutta gente che aveva partecipato alle proteste pacifiche. Poi c’era altra gente che non centrava nulla con le proteste pacifiche e alla quale i civili erano ostili nello stesso modo in cui lo erano nei confronti di Assad. Quali torture hai subito in prigione? Botte indiscriminate con oggetti acuminati sui muscoli, sulle ossa e sulla testa. Mi spegnevano le sigarette sul corpo, sul collo, sul viso, sugli occhi, sulle guance, sulle spalle. Poi mi appendevano: mi legavano i polsi con una corda e mi appendevano al soffitto. Rimanevo con tutto il peso del mio corpo sui polsi. Mi gonfiavo e sentivo dolori atroci. Succedeva tutti i giorni. I miei carcerieri mi lasciavano cosi per ore e per giorni. Tutto dipendeva da quali informazioni loro volevano da me. A volte lo facevano solo perché erano arrabbiati o avevano bevuto. Mi torturavano anche con l’elettricità. Mi legavano a una sedia oppure a un letto di ferro, poi mi folgoravano con le scariche elettriche. Altre volte con un gancio davano scariche elettriche a zone sensibili del mio corpo, come il collo, il petto, le mani o il pene. Poi c’era la ruota: una gomma di un autocarro nella quale mi facevano entrare dopo avermi legato, per bloccare completamente ogni mia possibilità di muovermi e proteggermi. Quando ero dentro, cominciavano a picchiarmi con bastoni, fruste e altri strumenti di tortura sulla schiena, sulle gambe, sulla testa.