Storie di infermiere e di mostri innocenti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 27 aprile 2016 Sarebbe bello se i magistrati, che somministrano custodie cautelari con una certa disinvoltura, e il giornalismo giudiziario, incline a far sue le ragioni dell’accusa, si sottoponessero a un esercizio di empatia, di immedesimazione con chi viene messo in galera e additato al pubblico ludibrio come un mostro prima che la colpevolezza sia accertata. Enzo Biagi ruppe l’unanimità forcaiola della stampa italiana su Enzo Tortora e scrisse un articolo intitolato: "E se fosse innocente?". Ecco, provassero loro a domandarsi con sincerità, senza l’accanimento feroce di chi si sente della parte della ragione senza accogliere obiezioni, dubbi, riserve, con spirito di identificazione emotiva per chi potrebbe risultare innocente ma che viene trattato come un assassino sbattuto in galera, indicato come un essere ripugnante, maciullato nei suoi affetti profondi, professionalmente mortificato, con la reputazione devastata, provassero, come usa dire, a mettersi per pochi minuti nei suoi panni. Giusto per sentire l’orrore del linciaggio e fare più attenzione. Giusto per capire come può sentirsi l’infermiera di Piombino, accusata di aver fatto strage di 13 anziani, ma scarcerata perché gli indizi non erano sufficienti per tenerla in carcere. Si eviterebbero inchieste clamorose per rendere famosi magistrati altrimenti condannati al grigiore dell’anonimato di chi, semplicemente, deve applicare la legge, e non, come sta facendo in questi giorni il capo del loro sindacato, sentenziare grossolanamente sulla moralità dei connazionali. Si eviterebbero trasmissioni televisive cucite ad hoc per mettere nelle fauci insaziabili dell’opinione pubblica la vita di un’infermiera mostrificata senza potersi difendere, senza poter dire al mondo che gli inquirenti si sono pure confusi sulle intercettazioni. Si eviterebbe di demolire per l’ennesima volta lo spirito dello Stato di diritto, e il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Si eviterebbe di comminare con superficialità il carcere a chi non è stato ancora riconosciuto colpevole da una sentenza, nemmeno solo di primo grado, come vorrebbe la vulgata manettara del giustizialismo. Si eviterebbe di parlare della giustizia solo quando c’è di mezzo la politica perché tante persone comuni sono stritolate da una giustizia ingiusta e onnipotente. Empatia solo per cinque minuti: niente all’enormità dei danni inflitti agli innocenti. Magistrati e politica, le urla e i silenzi di Livio Pepino Il Manifesto, 27 aprile 2016 Si riparla di "conflitto" tra magistratura e politica. "I politici rubano più di prima, semplicemente hanno perso anche il senso della vergogna" dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati. "I giudici imparino a parlare solo con le sentenze e ricordino che le informazioni di garanzia fasulle e le indagini a orologeria hanno distrutto la vita di tante persone per bene" replica il presidente del Consiglio. E al gioco di chi ha ragione e chi torto si allineano acriticamente, con poche eccezioni, politici e magistrati. Ma, a ben guardare, i problemi sono più seri e complicati. Primo. Che il sistema politico si regga su un malcostume intollerabile e senza precedenti è, al di là delle responsabilità individuali, un fatto acclarato. Non c’è bisogno delle parole di Davigo per vedere quel che è sotto gli occhi di tutti: il crollo dell’etica pubblica, la corruzione sistemica, la strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, la mercificazione finanche della funzione legislativa, la prevaricazione mafiosa, l’evasione fiscale come metodo, la regola dei condoni, la pretesa di impunità per chi ha potere. Ciò - la cosa è altrettanto evidente - provoca danni economici e morali ben maggiori di tutta la criminalità comune messa insieme. Non sono necessarie le parole e le indagini dei magistrati. Basta guardarsi intorno, leggere o sentire i (pochi) servizi del giornalismo d’inchiesta, misurare la percezione dei cittadini. E ciò investe a pieno titolo anche il governo in carica, come dimostra quel che si agita intorno a ministri ed ex ministri di primo piano. Prendersela - come fa il presidente del Consiglio - con chi lo denuncia o con le inchieste di questa o quella procura è solo un diversivo furbesco e un comodo alibi per distrarre dalla realtà. Secondo. La questione, negata o elusa da Renzi e dai suoi supporter (politici e giudiziari), è tutta politica. Come affermava, già nel luglio 1981, Enrico Berlinguer: "La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano". Questo è il punto. Non sono le indagini e le informazioni di garanzia che devono provocare dimissioni e condizionamenti della politica. Sono i fatti. Il problema non è (solo) la commissione di reati da parte di questo o quell’esponente politico ma (anche) il suo contesto di riferimento, i favori elargiti, i conflitti di interesse realizzati, i vantaggi economici conseguiti e via elencando, a prescindere dalla loro rilevanza penale. A meno di non ricorrere a paradossi come quello di Bettino Craxi nell’intervento alla Camera del 3 luglio 1992: "Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale"… Il "nuovo" di Renzi sa molto d’antico! Terzo. "Noi siamo garantisti", continua il presidente del Consiglio. Anche quest’affermazione, peraltro, sa d’antico. Non certo per ragioni di principio, ma perché il garantismo (come ci ricorda Dario Ippolito nel recente Lo spirito del garantismo, Donzelli, 2016) è tutt’altra cosa da un sistema che gradua le regole a seconda dello status degli imputati (con conseguente coesistenza di due codici reali, uno per il "briganti" e uno per i "galantuomini") e che, parallelamente, proclama l’onnipotenza della maggioranza, l’incontrollabilità della politica, l’assenza di limiti per il mercato. Questo garantismo selettivo, che si arricchisce ogni giorno di nuove pagine (basti pensare, da ultimo, alla mancata depenalizzazione del reato di "immigrazione clandestina" e all’aumento a dismisura delle pene per l’omicidio colposo stradale) non ha nulla a che vedere con il modello garantista che, tra l’altro, nasce - è bene non dimenticarlo - più che a tutela di chi detiene il potere a garanzia della libertà personale dai possibili abusi dei titolari di quel potere. Quarto. C’è, dunque, molto di vero nelle parole di Davigo. E tuttavia il suo intervento non convince e sa, anch’esso, d’antico. Non perché a parlare sia un magistrato, ché giudici e pubblici ministeri hanno il pieno diritto di esprimersi (salvo, ovviamente, sottoporsi a loro volta ai giudizi e alle critiche della politica e della pubblica opinione). Ma per il suo essere monco, carente di una parte fondamentale. Alla crisi del sistema in atto concorrono, infatti, anche pubblici ministeri e giudici: per diffuse prassi antigarantiste, per un frequente uso eccessivo e strumentale della custodia cautelare (frutto di una impropria "cultura delle manette"), per interventi a piedi giunti sulle manifestazioni del conflitto sociale, per interpretazioni formalistiche e illiberali e via elencando. In questo quadro, accusare (giustamente) la politica non basta se non si accompagna a un’autocritica di ciò che non funziona nella giustizia, anche per colpe dei magistrati. Tacere sul punto e indulgere a un manicheismo un po’ surreale toglie forza e credibilità alla denuncia e non favorisce un’uscita in avanti dalla crisi. Purtroppo, peraltro, quel silenzio non appartiene, nella magistratura, solo a Davigo. Non è adulto un Paese ancora diviso sulla giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 aprile 2016 Com’era prevedibile, e anche auspicabile, le celebrazioni del 25 Aprile si sono concluse senza incidenti e senza laceranti controversie. A parte alcune intemperanze di pochi agitati agitatori, i dissidi sono stati contenuti nell’ambito della disputa verbale tra chi vuole cambiare la Costituzione e chi vuole che resti com’è. Su questo, ormai, decideranno gli elettori. Ma avendo ripetutamente assistito, negli anni passati, alle reazioni violente e scomposte di chi, prendendo a pretesto la lotta antifascista, saccheggiava edifici e piazze per protesta contro il governo, consideriamo questo pacifico epilogo una buona notizia. Se poi esso dipenda dal tramonto delle ideologie, dalla diffusa stanchezza di controversie sterili, dalla preoccupazione per emergenze più urgenti, o dall’indifferenza degli italiani verso il nostro passato, questa è altra questione. Ma intanto godiamoci la ritrovata tranquillità. Purtroppo questo faticoso cammino verso un Paese più adulto e una condivisione, se non di idee, almeno di atteggiamenti, è stato vulnerato da un’ennesima polemica sul tema della giustizia. Complice l’infelicissima sortita del presidente dell’associazione magistrati, ancora una volta giustizialisti e garantisti si sono scontrati. Con la novità che stavolta il rimescolamento delle carte è trasversale e, se possibile, ancora più confuso: molte toghe "di sinistra" hanno criticato le parole di Davigo, mentre politici "di destra" hanno applaudito. Il premier, saggiamente, ha ignorato. A questa scelta di solenne distacco vorremmo attribuire un connotato: quello di sovrana indifferenza verso una critica ingiustificata e impropria alla classe politica, rivolta dal rappresentante di un’associazione che, in parte, se ne è dissociata. Tuttavia questa interpretazione rischia di essere smentita da due circostanze. La prima, che si profila una gestione unitaria della disciplina della prescrizione e delle intercettazioni, con un compromesso che sarebbe fatale a un indirizzo realmente riformatore. Il compromesso consisterebbe nell’allungamento dei termini della prescrizione a fronte di una più rigorosa limitazione delle interferenze telefoniche. Se infatti l’intenzione è quella di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, o addirittura dopo l’esercizio dell’azione penale, assisteremmo alla catastrofica dilatazione dei tempi dei processi a discrezione, o meglio ad arbitrio dei giudici. Una volta iniziato il giudizio, infatti, esso potrebbe durare, nei vari gradi di impugnazione, virtualmente all’infinito, alla faccia dell’art 111 della Costituzione che ne impone la conclusione in tempi ragionevoli. Se questo fosse il prezzo da pagare al giro di vite sulle intercettazioni, meglio lasciar perdere. Per conto nostro, abbiamo già detto che la soluzione più equilibrata sarebbe mantenere i tempi di prescrizione attuali, facendoli però decorrere non dalla commissione del reato ma dall’iscrizione nel registro degli indagati, da quando cioè il cittadino inizia il suo calvario giudiziario, che deve concludersi, appunto, in tempi ragionevoli. Ma evidentemente la voce di molte toghe ha ancora, ci si scusi il bisticcio, voce in capitolo. La seconda è che, proprio riguardo alle intercettazioni, il ministro della giustizia ha detto che intende perseguire gli obiettivi indicati da alcune procure. A parte il disagio che l’elettore può provare davanti a una subalternità quantomeno culturale del governo davanti alle proposte del cosiddetto terzo potere, va detto che questi obiettivi sono, a parole, condivisi da tutti. Si tratta cioè di evitare che le conversazioni intime e irrilevanti finiscano in pasto al pubblico. Il problema che forse sfugge al ministro non è l’accordo sugli obiettivi, ma quello sullo strumento che ne consente quotidianamente l’elusione. Questo strumento è rappresentato dall’insindacabile giudizio del Pm su ciò che è rilevante e ciò che non lo è. Ed è proprio questo funesto principio che si intende mantenere. Cosicché se il magistrato riterrà rilevanti i sospiri o le recriminazioni di due innamorati, tutto finirà, legittimamente, prima nel fascicolo e subito dopo sui giornali. E tutto resterà esattamente come prima. Nello Rossi: "no all’urlo fazioso, l’Anm recuperi una visione unitaria" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 "Mi auguro davvero che cominci subito una fase due. Nella quale, dopo aver gettato un po’ di sassi nello stagno della giustizia, Davigo cominci a comportarsi, come si è impegnato a fare nel suo discorso di investitura, da presidente di tutti. Altrimenti saranno dolori". Nello Rossi, Avvocato generale presso la Procura generale della Cassazione, ha alle spalle una lunga storia associativa, come leader di Md e segretario dell’Anm negli anni del secondo governo Prodi. Procuratore, in che senso parla di "dolori"? Lo stesso Davigo, a chiusura dell’intervista sul Corriere della sera ha detto che spesso i magistrati sono dei pessimi politici perché sono abituati a seguire il criterio di competenza e non quello di rappresentanza. Nelle sue prime uscite lui non ha seguito il criterio di rappresentanza, di cui invece deve tener conto se vuol essere il rappresentante istituzionale di tutta la magistratura. Inoltre, a voler essere troppo fulminei nelle battute su temi di diritto si rischia anche di violare il criterio di competenza. Cominciamo dalla rappresentanza. Davigo è efficace mediaticamente e ha una storia di autorevolezza professionale alle spalle. Non basta? No, Davigo è un uomo di qualità e di grandi meriti ma non può pensare di rappresentare una realtà complessa come la magistratura, le sue idee, le sue proposte, la sua storia, snocciolando un campionario di frasi ad effetto. Tramontato Berlusconi, la magistratura sembra stare insieme con lo sputo: crisi di identità, sfiducia dei cittadini, questione morale trovano risposte diverse nelle diverse anime dell’Anm. Non c’è il rischio che la sintesi diventi una risposta corporativa? Dopo più di otto anni abbiamo di nuovo una Giunta unitaria ed è un fatto prezioso. Proprio questa voglia di unità ha portato ad assegnare il primo turno di presidenza dell’Anm al leader del gruppo che ha avuto meno voti; un dato di cui Davigo dovrebbe tener conto. Questo non è il momento più difficile attraversato dalla magistratura, ma certamente è assai insidioso. Finita l’epoca dei continui assalti di Berlusconi e del pregiudiziale sostegno alla magistratura di un’ampia parte di cittadini, non c’è più la compattezza interna delle fasi di antagonismo e sono emersi due dati: il disagio per le condizioni di lavoro difficili e insoddisfacenti e il disvelamento di una nuova questione morale. E l’approccio obiettivamente irritante del presidente del Consiglio Renzi alle questioni di giustizia provoca la reattività della magistratura. La reattività è comprensibile ma, ripeto, non vede un rischio di scivolamento nella difesa corporativa? Certo, c’è il rischio che, inseguendo Renzi sul suo terreno, la magistratura perda di visione e che al suo interno emergano e prevalgano tensioni e spinte corporative. Quando lei era segretario dell’Anm, qualcuno disse che l’Anm era "amica del governo di centrosinistra"... Quando non c’è più lo scontro frontale, tutto diventa più complicato. Anche allora c’era bisogno di esercitare l’arte della distinzione. In ballo c’era l’entrata in vigore della legge Castelli sull’ordinamento giudiziario che il governo Prodi ha modificato, almeno sulla giustizia disciplinare liberticida e sulla progressione in carriera attraverso continui concorsi. Così oggi bisogna imparare a muoversi in un contesto diverso, cogliendo ad esempio le differenze tra l’approccio superficiale e sloganistico di Renzi e alcune buone iniziative del ministero della Giustizia. Davigo sembra aver scelto il corpo a corpo, sia pure come reazione a Renzi... La stampa ama i duellanti perché i duelli sono inesauribili e avvincenti mentre i problemi, soprattutto se irrisolti e incancreniti come quelli della giustizia, diventano noiosi. Ma un attore riflessivo della scena istituzionale come la magistratura deve continuare a martellare sui fatti e sul merito delle questioni aperte senza attardarsi a guardare l’opera dei pupi sulla giustizia che, ieri Berlusconi, oggi Renzi, hanno tutto l’interesse a inscenare. Le cose dette da Davigo sui problemi non la convincono? Alcune sono vere, incisive e sacrosante, come quando rifiuta responsabilità dei magistrati per la lentezza dei processi, denuncia l’enorme spreco di attività e di intelligenza che nasce dall’attuale regime della prescrizione e delle impugnazioni o reclama rispetto per il lavoro della magistratura. Altre sono approssimative e discutibili, come quelle riservate alla situazione delle carceri o al trattamento, nel nostro Paese, dei migranti che commettono reati. Qualcuna, infine, è al limite del nonsense. Penso all’affermazione, stupefacente, che il problema della indebita divulgazione di intercettazioni che non servono ai processi ma ledono la dignità degli intercettati, è già risolto dalle norme sulla diffamazione. Qualunque giudice sa che non è affatto così e che, su questo terreno, l’impegno di self restraint dei procuratori di Roma, Torino, Napoli, con le loro circolari, non è un esercizio vuoto e inconcludente ma un servizio al Paese e alla stessa magistratura. Qual è, allora, la visione unitaria "possibile"? Certamente la visione di una magistratura capace di essere intransigente sui princìpi ma in grado di ricercare alleanze sociali e professionali, capace di valorizzare al massimo l’impegno sul processo civile, decisivo per la vita dei cittadini e delle imprese, e in grado di riconoscere che fenomeni gravi e complessi come la criminalità economica, politica e amministrativa si affrontano su più piani e mobilitando tutte le forze in campo, dalla buona politica alle professioni, all’economia sana. Proporsi come unici paladini della legalità può far riscuotere consenso popolare (anche se i sondaggi dicono che il consenso è in calo). Ma la cultura della legalità può essere confinata nella repressione penale e nel panpenalismo? Intanto, se rimanessimo soli saremmo destinati alla sconfitta, così come se dessimo l’idea di essere interessati solo alla repressione. C’è tutto un tessuto di legalità da valorizzare fatto di tutela dei diritti e di rispetto delle garanzie. Un tessuto da curare e rammendare perché dà la cifra della civiltà di un paese. Condivide chi dice che i magistrati, e persino il presidente dell’Anm, dovrebbero parlare solo con le sentenze? Assolutamente no. Ma l’Anm non ha bisogno di un presidente che emuli i politici sul terreno delle generalizzazioni, fidando nel fatto che la "gente", distratta dai suoi molti impegni privati, non ha tempo di controllare. Non c’è alcun limite al diritto di parola di un magistrato, che può parlare di tutto. Il punto è "come" parla. Il cittadino ha diritto di attendersi che un magistrato, che magari domani sarà il suo accusatore o il suo giudice, sia sempre un interlocutore razionale, capace di ascolto, che rifiuta l’urlo fazioso e sceglie di spiegare e di spiegarsi. Per intonare "In questo mondo di ladri", basta Antonello Venditti...". Ecco la riforma della prescrizione, a Davigo non piacerà di Errico Novi Il Dubbio, 27 aprile 2016 Dalla tempesta mediatica di Davigo qualcosa potrebbe venire. Di buono per la riforma della giustizia, s’intende: già oggi potrebbero ripartire i tre convogli del processo penale, ovvero il riordino generale della materia, intercettazioni e prescrizione. Nella commissione Giustizia del Senato il relatore Felice Casson presenterà il sospirato testo base. Con dentro due deleghe, appunto: una sulle intercettazioni, dai contenuti meglio definiti rispetto allo scarno testo della Camera, e l’altra sulla prescrizione. In quest’ultimo caso però le novità rischiano di riaprire le polemiche. Perché la scelta del Pd è quella di recepire sì la griglia proposta da Montecitorio, ma con un’importante modifica: sparisce l’aumento del 50 per cento previsto per i termini dei processi ai corrotti. C’è dunque un punto di equilibrio che raccoglie le forti perplessità dell’Ncd e dell’avvocatura penale. Ma si rischia di scatenare una nuova, durissima presa di posizione da parte del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. Si tratta di deleghe, certo, non di norme fatte e finite. Quelle dovrà scriverle il governo. Visto che il testo contenitore abbraccia tutta la materia del processo penale, ed è molto ampio, difficilmente ce la si caverà per l’estate, come pure il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha pronosticato ieri su Repubblica. È anche vero che a questo punto l’ostacolo maggiore non è tanto nel confronto parlamentare ma nelle reazioni che susciterà la linea tracciata dal Pd d’intesa col guardasigilli. E il rischio di un’accoglienza poco cordiale c’è tutto. Nella griglia preparata da Casson infatti viene meno proprio lo specifico allungamento di tempi previsto per i reati contro la pubblica amministrazione. Che poi è il tema sollevato con più forza da Davigo. Resta invece il principio base introdotto alla Camera: la decorrenza della prescrizione si interrompe per due anni dopo la condanna in primo grado e per un anno dopo l’eventuale condanna in appello. C’è una logica, dietro la rinuncia ad allungare della metà i tempi per la corruzione: l’aumento c’è già stato grazie al ddl anticorruzione di un anno fa, che ha alzato le pene massime, su cui si calcolano le scadenze. Ncd ricorda proprio questo. E fa notare pure che per evitare di allungare i processi andrebbero indicate delle durate massime per i tre gradi di giudizio. I famosi tempi di fase, graditi anche a Renzi, che invoca sentenze rapide. Un altro passaggio che invece fa arrabbiare i magistrati, e che difficilmente comparirà nel testo Casson. Gli alfaniani d’altronde sono pronti a controbattere alle perplessità della magistratura con la riapertiura del dossier sulla separazione della carriere. Ieri Cicchitto ha messo la questione sul tavolo. Tra le toghe c’è chi vorrebbe superare anche "l’obbligatorietà dell’azione penale", come auspicato ieri da Carlo Nordio in diretta su Sky. Sulle intercettazioni invece grande spazio all’esempio dei tre procuratori che hanno firmato le circolari interne: Spataro, Pignatone e Colangelo. Oggi i senatori della commissione Giustizia li sentiranno in audizione. Prenderanno appunti per poi dare precise istruzioni al governo. Cosa cambia con la riforma targata Pd, di Giulia Merlo Approvato alla Camera con la zavorra di 121 astenuti e parcheggiato alla Commissione Giustizia del Senato da oltre un anno, il disegno di legge sulla prescrizione è tornato al centro del dibattito politico. Il ddl ha l’obiettivo di modificare la legge "ex Cirielli", approvata nel 2005 dal governo Berlusconi, che ha sostanzialmente dimezzato i tempi per la prescrizione. In dieci anni, la "ex Cirielli" ha portato alla prescrizione di quasi un milione e mezzo di fascicoli. Nel 2014 (ultimo dato disponibile), le prescrizioni sono state circa 132mila, di cui 80mila fascicoli - pari al 70% del totale - chiusi nella fase delle indagini preliminari. Nel nostro ordinamento, la prescrizione è una causa di estinzione del reato e stabilisce il termine temporale, calcolato dal momento in cui il reato viene commesso, entro il quale lo Stato può perseguire un determinato delitto. L’istituto risponde al principio del bilanciamento tra due beni giuridici costituzionalmente tutelati: da una parte l’obbligatorietà dell’azione penale e dunque il diritto ad avere giustizia, dall’altra la ragionevole durata del processo e quindi la garanzia per il cittadino dinnanzi alla pretesa punitiva dello Stato. La "ex Cirielli" prevede termini di prescrizione uguali al massimo della pena edittale per il reato; di 4 anni per le contravvenzioni e di 6 anni per i delitti con pena inferiore ai sei anni. La riforma targata Renzi non modifica i termini prescrittivi ma introduce una sospensione del decorso dei termini, per due anni dopo il giudizio di primo grado e per un anno dopo la sentenza di appello. Solo, però, nel caso di condanna dell’imputato. Se la vittima è un minore, poi, la prescrizione inizia a decorrere dalla maggiore età della vittima, salvo che l’azione penale non inizi prima. Infine, il ddl segue il principio dell’irretroattività delle norme penali, dunque si applicherà solo pro futuro per i reati commessi dopo la sua entrata in vigore. Il punto più controverso, che ha provocato l’impaludamento al Senato, è il cosiddetto "emendamento Ferranti", che allunga la prescrizione per la corruzione. L’emendamento stabilisce che, per i reati di corruzione propria (pena da 1 a 6 anni), impropria (pena da 6 a 10 anni) e in atti giudiziari (pene che variano a seconda del comma, da 6 a 20 anni), i termini della prescrizione corrispondano alla pena edittale aumentata 50%. Nel caso, per esempio, della corruzione propria, la prescrizione sarà di 6 anni più altri 3. Tale previsione risponde alle richieste dell’Ocse - che ha richiamato l’Italia perché i termini di prescrizione non permetto il contrasto adeguato della corruzione - e a una sentenza della Corte di Giustizia europea. La giustizia Ue, infatti, ha imposto ai giudici italiani di "disapplicare" la legge "ex Cirielli" nei casi in cui "leda gli interessi finanziari della Ue", ovvero nel caso di prescrizione per i processi sulle frodi all’Iva, che hanno un impatto sul bilancio europeo. Eppure, proprio l’"emendamento Ferranti" è lo scoglio da superare per approvare il ddl al Senato e - pur di incassare il sì di Ncd - il Pd potrebbe espungerlo dal testo. Intercettazioni, pronta la stretta ispirata ai pm di Sara Menafra Il Messaggero, 27 aprile 2016 Sulla giustizia il governo vuole intervenire e risolvere i problemi spinosi in tempi rapidi. Evitando, però il più possibile le contrapposizioni. Per questo sui due nodi più delicati, intercettazioni e prescrizioni, molto peserà la mediazione affidata a Felice Casson, relatore del disegno di legge delega sulla riforma del processo penale che sta lavorando ad alcune modifiche alla delega da far approvare in settimana in commissione. Le intercettazioni - È soprattutto sugli ascolti che ora si punta a mediare. Per evitare le accuse di un nuovo bavaglio pronto per i giornali odi possibili limiti alle indagini che sarebbero osteggiate anche dalle colombe della magistratura, l’idea sarebbe di riformulare la delega richiamando esplicitamente le circolari interne con le quali le procure di Torino, Roma e Napoli hanno già provveduto ad eliminare dagli atti depositati il materiale irrilevante per le indagini o sensibile dal punto di vista personale. L’audizione prevista proprio per domani davanti alla stessa commissione giustizia del Senato che dovrà licenziare il nuovo testo, di Armando Spataro, Giuseppe Pignatone e Giovanni Colangelo, servirà appunto per confrontarsi con i tre "autori". Poi però sarà buttato giù il testo di una nuova delega. "Dobbiamo definire meglio il come, ma la nuova proposta sarà più puntuale - anticipa Casson - credo sia importante riflettere anche sulla recente giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo". Il riferimento è al fatto che negli ultimi anni in più di un’occasione, i giudici europei hanno condannato gli stati, in particolare Francia e Grecia, che avevano condannato giornalisti per violazione del segreto istruttorio, ribadendo il diritto dei cronisti a raccontare fatti rilevanti e dei cittadini ad essere informati: "Dobbiamo evitare di correre rischi analoghi", sottolinea l’ex magistrato. La prescrizione - Già definito l’intervento sulla data di scadenza dei processi. L’idea del relatore Pd Casson, anche se la discussione sul punto si concluderà in questi giorni, è riassorbire all’interno della delega anche il testo sulla prescrizione approvato dalla Camera un anno fa e poi rimasto bloccato al Senato per lanetta contrarietà di Ncd. Nel merito, il contenuto dovrebbe essere lo stesso del 2015 (sospensione per due anni dopo la sentenza di condanna in primo grado e per un anno dopo la condanna in appello, escludendo le assoluzioni) e quindi evitare la mediazione con Area popolare. L’accorpamento però dovrebbe permettere più facilmente una forzatura sull’intero testo. Le polemiche - A riaccendere la discussione sui rapporti tra magistrati e politica, è stato lo stesso Matteo Renzi con un’intervista a Repubblica: "Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. E finito il tempo della subalternità.", ha detto. Immediata la risposta di Pier Luigi Bersani: bisogna "abbassare il tono delle parole e alzare quello dei fatti". E Pietro Grasso definisce "utile" il dibattito aperto da Davigo per accendere i riflettori sulle leggi ferme. Critico soprattutto con l’intervento del presidente dell’Anm, il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Beniamino Migliucci: "Il dottor Davigo dice all’opinione pubblica che i politici sono corrotti. Ma così si mette all’angolo uno dei poteri dello Stato che deve usufruire delle sue prerogative costituzionali". Sborsati 630 milioni per ingiusta detenzione negli ultimi 25 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2016 Reso noto dal ministero della Giustizia il costo dei risarcimenti negli ultimi venticinque anni. Seicento trenta milioni di euro sborsati dal ministero del Tesoro per ingiusta detenzione negli ultimi 25 anni, una media di 7000 persone che ogni anno vengono incarcerate e dopo risultano innocenti. Nello stesso periodo più di 36 milioni di euro sono stati sborsati per gli errori giudiziari riconosciuti. Questi sono i dati aggiornati al 31 marzo messi a disposizione dal sito del ministero della Giustizia. Ma non solo. A questi numeri che riguardano la patologia del sistema giudiziario vanno aggiunti quelli del sistema penitenziario. Ci ha pensato Antigone - storica associazione "per i diritti e le garanzie nel sistema penale" - nel suo ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione. Solo l’anno scorso, 44 sono le persone morte in carcere. I tentati suicidi invece sono stati 933 e gli atti di autolesionismo sono oltre 7.000. Ad oggi risultano 53.500 persone negli istituti penitenziari del Paese, una cifra inferiore rispetto agli altri anni, ma dal dicembre 2015 sembra sia avvenuta un’inversione nel trend: 1.331 detenuti in più in soli tre mesi. Altissima la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio: sono il 34,6% del totale, contro il 20,4% della Ue. Un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è di origine straniera e di questi il 70% ha una pena residue inferiore ai tre anni che potrebbero scontare anche all’esterno delle strutture carcerarie, se la magistratura di sorveglianza accordasse loro il permesso. Spesso negato anche per mancanza di un idoneo domicilio. Tra gli italiani, la maggior parte dei detenuti proviene dalle regioni del sud, con Campania, Sicilia e Puglia alle prime posizioni. I reati commessi dai detenuti sono contro il patrimonio (8.129 casi), contro la persona (6.599), violazioni della legge sull’immigrazione (1.372) e sulla droga (6.266). Secondo l’associazione Antigone la popolazione detenuta potrebbe ridursi di circa un terzo con la de-criminalizzazione delle sostanze stupefacenti: lo stato potrebbe in questo modo risparmiare quasi un miliardo di euro ogni anno, soldi che potrebbero essere reinvestiti in misure comunitarie, attività socialmente utili o in sostegno socio-sanitario. Sono 29.000 invece le persone che stanno scontando la loro pena detentiva fuori dal carcere: circa diecimila sono in detenzione domiciliare, 12.000 sono in affidamento al servizio sociale, 6.000 si occupano di lavori di pubblica utilità (e sono quasi tutti condannati per aver violato le norme del codice della strada) e 724 sono in regime di semilibertà, utilizzato sempre meno frequentemente. In merito a queste misure alternative viene sottolineato un dato positivo, ovvero la bassa percentuale dei casi di recidiva del reato: durante la misura alternativa solo lo 0,79% commette un reato. Altro problema riguarda le detenute che rappresentano il 4,3% del totale di quanti vivono dietro le sbarre: in questo caso spicca la totale insufficienza di istituti a custodia attenuata (Icam) che consentano loro di svolgere il ruolo di mamme, aggravando la situazione già drammatica dei loro figli. Poi c’è il costo esorbitante del sistema penitenziario: ogni anno costa quasi 3 miliardi. Quindi carceri extralusso? No, sono fatiscenti e con un servizio sanitario carente. Eppure secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, siamo il Paese europeo che spende di più, ma male: l’82,9% delle "uscite" servono a pagare gli stipendi del personale mentre solo 11,5 euro vengono usati ogni giorno per il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Se il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, come asseriva Fedor Dostoevskij, l’Italia ne esce malissimo. Il melting pot delle mafie italiane di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 I delitti associativi ascritti a cittadini stranieri in un anno sono stati complessivamente 3.593. La sala ascolto della Procura di Reggio Calabria pochi giorni prima del Natale 2009 capta in macchina questo dialogo tra ‘ndranghetisti che si vantano della prova di forza condotta nei giorni precedenti con la mala albanese: "Ammazzatemi a me a questa sera, no, visto che sono qua, quale problema c’è, gli ho detto, se siete uomini fatelo, no?". Nel racconto intercettato, ricostruisce la Dda, c’è il sapore della sfida da presunti "uomini duri", come nella più classica rappresentazione hollywoodiana della vecchia mafia siciliana lanciata da una cosca di Isola Capo Rizzuto (Crotone) alla criminalità organizzata albanese, che si sentiva tradita nel commercio di una partita di droga. La prova di forza, alla quale era però seguita una saggia e al tempo stesso obbligata mediazione, a qualcosa era servita: evitare una guerra che avrebbe lasciato cadaveri lungo la strada. Da una parte e dall’altra. Albanesi e nigeriani fanno paura Altro scenario, questa volta siciliano. Marzo 2016, siamo a Palermo, dove si svolge il processo contro quattro nigeriani, accusati di tentato omicidio, estorsione e spaccio di droga, con l’aggravante della modalità mafiosa. I nigeriani sono in affari con Cosa nostra e assoggettati alle sue regole ma con moti di ribellione "indipendentista" sempre più evidenti, forti come sono di risorse finanziarie e di una cultura di violenza e omertà che non sono inferiori a nessuno. Guadagnano dunque strada gli affiliati alla "Black Axe" (l’Ascia nera) o alla "Eiye", tutti gruppi criminali comunque riconducibili ai cosiddetti "secret cults" (culti segreti), tanto che i mafiosi palermitani richiamano l’un con l’altro la necessità di stare in guardia dai "turchi". Così li chiamano i nigeriani, che nella notte del 19 gennaio 2014 non si fecero scrupolo di massacrare per le strade del popolare quartiere Ballarò, davanti a centinaia di testimoni, un connazionale a colpi di machete. Le organizzazioni mafiose autoctone e i gruppi criminali stranieri non si muovono su piani necessariamente contrapposti si legge nella relazione della Dia ma manifestano sempre più frequentemente convergenze in cui questi ultimi diventano strumentali a strategie criminose di più ampia portata. È il caso dell’indagine "Aemilia", condotta dalle Dda di Bologna e Brescia contro la cosca Grande Aracri di Cutro (Catanzaro). Le investigazioni hanno svelato il ruolo di un uomo e di una donna di origini tunisine pienamente inseriti nelle attività criminose e parti attive nelle operazioni di reimpiego dei proventi illeciti. Parallelamente, due prestanome cinesi erano preposti alla gestione di un locale notturno, mentre un albanese concorreva nelle attività estorsive. "Ne emerge uno spaccato significativo di una compenetrazione criminale multietnica che vede i criminali stranieri superare, a volte si legge nella relazione la posizione di meri gregari nell’ambito dell’organizzazione". Quanto ai cinesi i più restii alla contaminazione con le mafie indigene delle quali fungono ancora da spalla, a partire dalla camorra la Dia il 14 maggio 2015 ha confiscato, su decreto del Tribunale di Brescia del 10 marzo, sei immobili, quote societarie e disponibilità finanziarie a soggetti condannati per lo sfruttamento della prostituzione, per un valore di 1,82 milioni. Non è il primo da culture criminali e tipologie delinquenziali proprie di altri contesti etnico-sociali. L’analisi della Dnaa Di questa miscellanea criminale sono ben consci (e preoccupati) i magistrati. Per tutti a parlare anzi, a mettere le cose nero su bianco ci ha pensato la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) nella relazione presentata dal capo della Procura Franco Roberti il 3 marzo. "Sulla scorta delle concrete emergenze investigative e delle conseguenti valutazioni giudiziarie scrive il sostituto procuratore Giovanni Russo sembra confermata la tendenza che vede i criminali stranieri affrancarsi dal ruolo subordinato di manovalanza al servizio delle organizzazioni endogene e tradizionalmente mafiose, per attingere livelli sempre più elevati di partecipazione qualificata ai sodalizi nostrani, ovvero per acquisire capacità di gestione semi-autonoma di specifiche attività illegali". Le valutazioni della Dia A furia di sentirci raccontare chela lotta alle mafie fa passi in avanti si perde di vista la realtà che "procede" (le dinamiche) e che "precede" (le analisi e le strategie repressive). La conferma arriva dalla relazione della Dia (la Direzione investigativa antimafia) guidata dal generale Nunzio Antonio Ferla, relativa al 1° semestre 2015, presentata il 27 gennaio al Parlamento. Non solo infatti le mafie italiane continuano a imperversare ma da un po’ di tempo a questa parte anche le mafie straniere si aggiungono allo scenario criminale, non più con un ruolo dimero sostegno a Cosa nostra, ‘ndrangheta, casalesi e Sacra corona unita ma di vero e proprio protagonismo criminale. Le organizzazioni mafiose autoctone e i gruppi criminali stranieri non si muovono su piani necessariamente contrapposti si legge nella relazione della Dia ma manifestano sempre più frequentemente convergenze in cui questi ultimi diventano strumentali a strategie criminose di più ampia portata. E il caso dell’indagine "Aemilia", condotta dalle Dda di Bologna e Brescia contro la cosca Grande Aracri di Cutro (Catanzaro). Le investigazioni hanno svelato il ruolo di un uomo e di una donna di origini tunisine pienamente inseriti nelle attività criminose e parti attive nelle operazioni di reimpiego dei proventi illeciti. Parallelamente, due prestanome cinesi erano preposti alla gestione di un locale notturno, mentre un albanese concorreva nelle attività estorsive. "Ne emerge uno spaccato significativo di una compenetrazione criminale multietnica che vede i criminali stranieri superare, a volte si legge nella relazione la posizione di meri gregari nell’ambito dell’organizzazione". Quanto ai cinesi i più restii alla contaminazione con le mafie indigene delle quali fungono ancora da spalla, a partire dalla camorra la Dia il14 maggio 2015 ha confiscato, su decreto del Tribunale di Brescia del io marzo, sei immobili, quote societarie e disponibilità finanziarie a soggetti condannati per lo sfruttamento della prostituzione, per un valore di 1,82 milioni. Non è il primo provvedimento e non sarà l’ultimo. Ê nel paragrafo sui profili evolutivi che deve accentrarsi l’attenzione dell’opinione pubblica. La criminalità straniera, secondo gli analisti della Dia, ha abbandonato il ruolo di manovalanza subordinata che ne aveva caratterizzato la prima fase, andando ad integrare e talvolta a sostituire i sodalizi autoctoni nella gestione di alcuni mercati illeciti. Emblematica di questo più evoluto potenziale criminogeno è l’operazione "Vrima", che ha consentito agli investigatori dellaDia di Bari di scoprire una raffineria di eroina, allestita e gestita sul suolo italiano da criminali albanesi. Doppio riscontro: reati e detenzioni La teoria si sposa con la pratica. Nel periodo luglio 2014/giugno 2015 i delitti di mafia ascritti a cittadini stranieri sono stati complessivamente 3.593, di cui 207 per associazione mafiosa e ben 1.424 per narcotraffico. La parte più consistente è nigeriana. "Se in passato soggetti di nazionalità africana tendevano ad inserirsi in contesti criminali già esistenti, alimentando gli organici di gruppi italiani o multietnici scrive ancora il pm Russo nella recente attualità sembra che le consorterie criminali abbiano assunto la sembianza divere e proprie associazioni per delinquere, utilizzando modus operandi tipici delle mafie nostrane". Se si cambia prospettiva e si entra negli istituti di detenzione e pena, si scopre che gli stranieri rappresentano il 32,6% del totale dei condannati, il 36,7% dei detenuti presenti e il 45% del totale degli entrati in carcere. I dati raccolti nel dossier Idos (Dossier Statistico Immigrazione) mostrano che nel 2012, su un totale di 933.895 denunce, 642.992 erano a carico di cittadini italiani e 290.903 di stranieri. Nel 2013 (ultimo dato analitico disponibile per un raffronto), 657.443 erano nei confronti di cittadini italiani, mentre 239.701 nei confronti di stranieri. La criminalità di "importazione" raggiunge, in sostanza, una quota tra il 26% e il 31% e il del totale. Le prime 10 comunità: Albania, Marocco, Romania, Nigeria, Tunisia, Cina, Bangladesh, Egitto, Germania e Pakistan rappresentano il 67,29% del totale degli imputati stranieri e le prime tre nazionalità (Albania, Marocco e Romania) ne rappresentano il 38,9%. In altre parole: in una società multietnica, la criminalità non può fare eccezione. Liberazione anticipata speciale a maglie larghe di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 17143/2016. Maglie larghe per la liberazione anticipata speciale quando la condanna è in continuazione. La Prima penale della Corte di Cassazione (sentenza 17143/16, depositata ieri) neutralizza la portata del reato ostativo quando la pena in fase esecutiva è "complessa", cioè frutto di un cumulo giuridico in cui compaiono appunto i reati cosiddetti ostativi - previsti tassativamente dalla legge penitenziaria - insieme a reati "comuni". La Suprema Corte, decidendo sul ricorso di un detenuto per fatti di droga (traffico), ha stabilito che i calcoli - e quindi gli eventuali benefici - devono far riferimento alla pena irrogata in concreto, e non invece alla pena edittale dei singoli reati. I fatti di causa riguardano la decisione del Tribunale di sorveglianza di Palermo che lo scorso maggio aveva negato, confermando la scelta del magistrato di sorveglianza, la liberazione anticipata speciale a un condannato con pena "complessa" e in continuazione. I giudici di merito avevano puntato sull’effetto ostativo "in sè" del reato del catalogo penitenziario (legge 354/1975, articolo 4-bis, nel caso specifico traffico di stupefacenti), di cui peraltro il detenuto aveva scontato la quota "rappresentativa" dentro la sentenza. I magistrati dell’esecuzione sostenevano una sorta di "effetto espansivo" del delitto più pericoloso per il quale era stata inflitta la condanna, effetto che impedirebbe la concessione degli ulteriori 45 giorni di sconto ogni sei mesi previsti dalla recente legge 10/2014. A giudizio del difensore, la sentenza di Palermo sarebbe viziata da un’errata interpretazione della legge e si discosterebbe anche dalle Sezioni Unite sul tema, del tutto analogo, della scindibilità della condanna in materia di revoca dell’indulto (21501/2009). Accolto questo punto - e cioè l’an della frazionabilità della pena - la Prima sezione ripercorre poi la genesi e la natura del reato continuato, articolate in sostanza sul principio del favor rei rispetto alla severità del cumulo materiale tout-court delle pene. In questo contesto, resta da valutare la portata del reato ostativo quando questo sia "satellite" rispetto al dispositivo, vale a dire più grave solo nominalmente ma in concreto più lieve rispetto ai reati comuni computati nella sommatoria della condanna inflitta. Secondo la Cassazione fare espandere in fase esecutiva il delitto ostativo "meno grave" - rispetto agli altri caricati al condannato - è scorretto e non tiene conto della evoluzione giurisprudenziale più recente. Con la "scissione del reato continuato - scrive la Corte - i singoli reati riacquistano la loro autonomia" ma non per questo la loro valutazione deve fare riferimento a canoni astratti, cioè ai valori edittali. Ciò che conta, invece, è l’operazione del giudice di merito nel momento in cui "costruisce" il reato continuato e talvolta - come nel caso di specie - considera meno grave il reato ostativo rispetto agli altri illeciti puniti con la stessa sentenza. Questa valutazione, aggiunge la Prima penale, segna il regime della continuazione "che si comunica anche alla fase d’esecuzione della pena relativa" e che in sostanza si definisce la "pena legale" (in accordo con la Corte Costituzionale, sentenza 312/1998). Ciò, chiosa la Corte, non permette di "recuperare, ai fini della determinazione della pena in esecuzione, quella astrattamente prevista nella cornice edittale per ciascuna fattispecie criminosa". Da qui l’annullamento del provvedimento impugnato e il rinvio al Tribunale di sorveglianza per un nuovo esame. Omesso versamento con pena pecuniaria di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 17103/2016. Il giudice non può negare la sostituzione della pena detentiva breve con quella pecuniaria, al legale rappresentante di una società condannato per omesso versamento delle ritenute, considerandolo non "solvente" proprio in virtù del reato commesso. Nell’esercitare il suo potere discrezionale, infatti, il giudice deve tenere conto dei criteri indicati dall’articolo 133 del codice penale relativi alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato: senza alcun cenno alle sue condizioni economiche. La Corte di cassazione, con la sentenza 17103 depositata ieri, accoglie il ricorso del legale rappresentate di una ditta, che era stato condannato ad un mese di reclusione più 80 euro di multa, per non aver pagato le ritenute assistenziali e previdenziali. L’omesso versamento, per un totale di quasi 15 mila euro, lo tagliava fuori dalla depenalizzazione (Dlgs 8/2016, articolo 3 comma 6) che fissa la soglia in 10 mila euro. Non potendo usufruire della nuova norma, che prevede ancora la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 1.032 euro per le ipotesi non depenalizzate, il ricorrente puntava alla trasformazione della pena detentiva breve in quella corrispondente pecuniaria. Un’opportunità negata dalla Corte d’Appello sulla base di una considerazione ritenuta prevalente su tutto: mancava la prova della solvibilità del condannato. Per i giudici di merito l’omesso versamento delle ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori era sintomatica di un’incapacità patrimoniale. Per la Cassazione però si tratta di una premessa sbagliata. La Suprema corte ricorda che la sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice che deve essere guidato da quanto indicato nell’articolo 133 del codice penale, prendendo in esame, tra l’altro, le modalità del fatto e la personalità del reo. La conversione è comunque consentita anche quando la condanna viene inflitta ad una persona in condizioni economiche disagiate. La prognosi di inadempimento, ostativa alla sostituzione (articolo 58 secondo comma della legge 1981/689) si riferisce, infatti, soltanto alle "pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione e alla libertà controllata". Per la Cassazione il "cambio" di pena va dunque garantito anche a chi è economicamente in difficoltà, purché il giudice ritenga che sia in qualche modo in condizioni di adempiere, facendo salva ovviamente l’ipotesi di conversione nel caso sia accertata in seguito l’impossibilità di far fronte al pagamento che può essere anche rateizzato, come previsto dall’articolo 660 del codice di rito. Nel caso esaminato, come sottolineato dalla stessa difesa, la sanzione pecuniaria poteva essere stabilita nella misura di 38 euro al giorno, il totale sarebbe stato di 1.140 euro. Un pagamento del quale era difficile affermare l’insostenibilità. Guida in stato di ebbrezza, non confiscabile il veicolo in leasing di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 Tribunale di Aosta - Sezione civile - Sentenza 20 gennaio 2016 n. 16. In tema di guida in stato di ebbrezza, vale la regola per la quale non è confiscabile il veicolo concesso in leasing all’utilizzatore se il concedente, da ritenersi proprietario del mezzo, risulti estraneo al reato. In tal caso, si applica la previsione dell’articolo 186 comma 2 del Codice della Strada che impone il raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, appartenendo il veicolo a persona estranea al reato. Questo è quanto affermato dalla sentenza 16/2016 del Tribunale di Aosta. La vicenda - Il caso prende le mosse da un verbale di contestazione emesso dalla Polizia locale del Comune valdostano per violazione dell’articolo 186 comma 2 lettera c) del Codice della Strada (tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l), con conseguente verbale di fermo e sequestro amministrativo del veicolo, ai sensi dell’articolo 186 comma 2-bis. Il conducente del veicolo aveva impugnato tale provvedimento facendo notare che il veicolo con il quale era stata commessa l’infrazione era stato a lui concesso in leasing e, in quanto tale, non poteva essere sottoposto a fermo amministrativo, perché appartenente a terzo estraneo all’accaduto. La decisione - Il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso ritenendo che il conducente fosse un utilizzatore non meramente occasionale del veicolo. Il Tribunale, invece, in veste di giudice d’appello, accoglie le ragioni del conducente e dispone la revoca del fermo e del sequestro amministrativo del veicolo. Per il giudice, essendo certa nella fattispecie l’esistenza di un contratto di leasing, si pone la necessità di "esaminare il rapporto esistente tra il trasgressore ed il veicolo ed il tipo di sanzione irrogabile", dovendosi concludere per l’applicazione dell’altra previsione dell’articolo 186 comma 2 del Codice della Strada, ugualmente afflittiva, in base alla quale "appartenendo il veicolo a persona estranea al reato, viene raddoppiata per l’autore della contravvenzione la durata della sospensione della patente di guida". E ciò, da una parte, perché la nozione di appartenenza, "che presenta un significato generico proprio nella pratica comune, assume nella legislazione civile vigente un significato tecnico più specifico - che esclude la - semplice disponibilità giuridica qualificata del godimento del bene, sulla base di una fonte giuridica legittima"; dall’altra, perché il concedente è a tutti gli effetti un soggetto estraneo, cioè che non ha in alcun modo partecipato al reato, né tratto consapevolmente vantaggi e utilità dalla commissione dello stesso. In sostanza, deve ritenersi inapplicabile una sanzione penale, configurante una diminuzione patrimoniale del soggetto, al di fuori di una responsabilità penale e di una specifica previsione legislativa e delle relative condizioni. E nella specie, non è stato dedotto alcun elemento idoneo a far ritenere che la società di leasing avesse partecipato all’illecito o tratto dallo stesso dei vantaggi. Ricorso straordinario per errore concernente la prescrizione del reato Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Errore concernente la prescrizione del reato - Individuabilità del "dies a quo" in applicazione del principio del "favor rei" - Inammissibilità. È inammissibile il ricorso straordinario di cui all’articolo 625-bis cod. proc. pen. riguardante la mancata dichiarazione della prescrizione del reato, ove il dubbio sulla esatta data di consumazione dello stesso debba essere risolto. In applicazione del principio del "favor rei", poiché in tal caso, l’individuazione del "dies a quo" non si risolve nell’apprezzamento di un dato di immediata percezione ed evidenza, ma in una decisione a contenuto valutativo. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 giugno 2015 n. 23964. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Errore concernente la prescrizione del reato - Condizioni di ammissibilità. È ammissibile il ricorso straordinario di cui all’articolo 625-bis cod. proc. pen.per la mancata dichiarazione della prescrizione del reato, a condizione che il rilievo dell’errore di fatto non comporti una decisione con contenuto valutativo. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 23 gennaio 2015 n. 3319. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Errore concernente la prescrizione del reato - Condizioni di ammissibilità. È ammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto sulla prescrizione del reato, a condizione che la statuizione sul punto sia effettivamente l’esclusiva conseguenza di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco, e non anche quando il preteso errore sulla causa estintiva derivi da una qualsiasi valutazione giuridica o di apprezzamento di fatto. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 17 ottobre 2011 n. 37505. Impugnazioni - Ricorso straordinario per errore di fatto - Omessa rilevazione da parte della Corte di Cassazione della prescrizione del reato - Condizioni per la proponibilità. È improponibile il ricorso straordinario per errore di fatto, ex articolo 625 bis cod. proc. pen., per rimediare all’omessa rilevazione da parte della Corte di cassazione della prescrizione del reato qualora essa non sia stata dedotta in giudizio e non sussista alcuna evidenza in ordine al mancato esame di vicende processuali che abbiano inciso sulla determinazione del termine di prescrizione, in quanto, in tal caso, non ricorre un errore percettivo su un fatto processuale che abbia condizionato detta omissione tale da legittimare il ricorso al rimedio di cui all’articolo 625 bis cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 30 marzo 2011 n. 13279. Misure cautelari personali come modificate dalla legge 16 aprile 2015 n. 47 Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2016 Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Motivazione - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari apportate dalla Legge n.47 del 2015 - Potere integrativo del tribunale del riesame - Sussistenza - Limiti - Ipotesi di motivazione mancante o apparente e mancanza di autonoma valutazione delle esigenze cautelari - Operatività del potere integrativo del riesame - Esclusione - Vizio di motivazione del titolo cautelare genetico e non emendabile - Annullamento - Necessità. Il potere integrativo del riesame, previsto dall’articolo 309, comma nono, cod. proc. pen., come novellato dalla Legge 16 aprile 2015, n. 47, non opera per le ipotesi di motivazione mancante o apparente, ovvero priva dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa, poiché in tali casi il legislatore ha individuato un vizio di motivazione del titolo cautelare genetico e non emendabile, al quale deve seguire necessariamente l’annullamento del provvedimento impositivo della misura. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 11 febbraio 2016 n. 5787. Misure cautelari personali - Applicabilità del principio tempus regit actum - Ordinanza del giudice - Motivazione - Portata delle modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari apportate dalla Legge n.47 del 2015 - Carattere innovativo - Esclusione. Nella materia processuale vige il principio dell’applicabilità della legge del tempo dell’emissione dell’atto, né per la normativa in questione risulta alcuna deroga. Quindi, la nuova regola in tema di contenuto minimo della motivazione ex articolo 292 cod. proc. pen. non è applicabile all’ordinanza di custodia emessa nella vigenza della "vecchia" regola. Tali nuove disposizioni hanno un contenuto "interpretativo" e ricognitivo di giurisprudenza preesistente, per cui si limitano a rendere cogenti regole già applicate prima della Legge n. 47. Anche la prescrizione di specifici contenuti della motivazione della ordinanza di custodia, con il corollario del limite ai poteri del Tribunale del Riesame che può "integrare" ma non "supplire", non è un’innovazione rispetto alla precedente normativa ma, a fronte di varie linee interpretative sui limiti al potere di integrazione della ordinanza di custodia da parte del tribunale del riesame, la legge ha reso cogente l’interpretazione secondo la quale il tribunale del riesame non può mai, nonostante i propri poteri di integrazione della motivazione del provvedimento impugnato, completare quell’ordinanza di custodia la cui motivazione non abbia un contenuto dimostrativo dell’effettivo esercizio di una attività di "autonoma valutazione". Quindi, non si è in presenza di una innovazione bensì dell’interpretazione "corretta" ed autentica della precedente normativa, così diventando quella indicata l’unica interpretazione conforme agli attuali testi di cui agli articoli 292e 309 cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 4 novembre 2015 n. 44607. Misure cautelari personali - ordinanza del giudice - Motivazione - Portata delle modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari apportate dalla Legge n.47 del 2015 - Carattere innovativo - Esclusione. In tema di motivazione dell’ordinanza cautelare, le modifiche introdotte negli articoli 292e 309 cod. proc. pen. dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, non hanno carattere innovativo, essendo stata solo esplicitata la necessità che l’ordinanza abbia comunque un chiaro contenuto indicativo della concreta valutazione della vicenda da parte del giudicante; ne consegue che deve ritenersi nulla, ai sensi dell’articolo 292 cod. proc. pen., l’ordinanza priva di motivazione o con motivazione meramente apparente e non indicativa di uno specifico apprezzamento del materiale indiziario. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 4 novembre 2015 n. 44606. I morti e gli uomini ombra: la realtà del sistema carcerario italiano di Eleonora Favaroni radicali.it, 27 aprile 2016 "Urgono provvedimenti reali per migliorare la condizione delle carceri italiane perché sono in gioco il nostro onore e prestigio"; queste le parole dell’ ex presidente della Repubblica Napolitano, qualche anno fa. Ma ancora tante tantissime le voci di protesta ed esasperazione, i casi di violenza e di abuso irrisolti, di cui l’Italia presenta una lunga lista. Di questi giorni la riaccesa vicenda di Giuseppe Uva e accanto a lui e al dolore ancora vivo dei familiari si sono unite i parenti delle altre vittime di Stato: Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, i più noti. Ricordiamo sempre anche la difficile situazione delle carceri umbre di cui tempo fa si è fatto portavoce il garante dei detenuti di Perugia. La Corte europea per i diritti umani ha incluso il nostro Paese tra quelli più arretrati e degradati da questo punto di vista che illustra la drammatica situazione dei carcerati, i cosiddetti uomini ombra, un’esistenza che si scandisce e si consuma lenta spogliata nella ripetitività angusta di un tempo e uno spazio sospesi chiusi e segnati spesso dalla violenza e l’abuso di potere. Michel Foucault ha scritto che "In questa nostra società disciplinare controllante ciò che bisogna denunciare innanzitutto è il funzionamento sociale della prigione e tutte le illegalità che essa produce: l’esercizio del potere e dei poteri. Lo spazio carcerario è un luogo di violenza morale, privazione e violenza che alimenta altra violenza. Ciò che c’è di più pericoloso nella violenza è la razionalità. La violenza trova ancoraggio profondo nella forma di razionalità che utilizziamo. La violenza trova nella razionalità la sua forma compatibile". E laddove si esercita il potere e la licenza legittimata della violenza, si legittima l’omicidio. Sparisce ogni diritto umano, la dignità viene lesa, la dignità, il diritto più sacrosanto e inviolabile, quello che fa sentire di essere ancora uomini tra gli uomini e non ombre. Sardegna: Garante dei detenuti, se ne aspetta la nomina... da cinque anni di Laura Arconti (Militante Radicale) Il Dubbio, 27 aprile 2016 Nella Regione autonoma della Sardegna la legge del 7 febbraio 2011 n. 7 (pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Sardegna n. 5 del 18 febbraio 2011) istituiva il "Sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". L’omnicomprensivo capo primo della legge elenca gli obblighi, a carico della regione, in ordine ai diritti delle persone sottoposte ad atti giudiziari, all’indirizzo e coordinamento delle politiche di inclusione e di reinserimento sociale a favore dei detenuti, delle persone soggette a misure alternative alla detenzione e degli ex detenuti, sostegno alle donne detenute e tutela dei minori, nonché a favore degli stranieri, con particolare riguardo ai servizi di mediazione culturale, e infine promozione ed educazione alla salute, ed interventi per l’avviamento al lavoro di detenuti ed ex detenuti attraverso progetti sperimentali diretti a incentivare nuove professionalità e nuove forme imprenditoriali anche mediante la creazione di cooperative. La parte seconda della legge istituisce il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il Garante è nominato dal Consiglio regionale con votazione a scrutinio segreto e a maggioranza dei due terzi; se nelle prime tre votazioni non viene raggiunto il quorum dei due terzi il Garante è eletto a maggioranza assoluta dei componenti. Il Garante dura in carica sei anni e non è immediatamente rieleggibile. Dopo la scadenza del mandato, le funzioni del Garante sono prorogate per non più di quarantacinque giorni decorrenti dal giorno del termine. La legge è entrata in vigore il giorno della pubblicazione ne Bollettino Ufficiale della Regione Sardegna, e quindi il 18 febbraio 2011: in cinque anni, nessuno si è mai occupato della nomina del garante. Un anno fa, il 14 febbraio 2015, nel sito sardegnalive.net, si leggeva: "Dire che ci troviamo in un Paese in cui ci sono troppe leggi rimaste lettera morta, non fa ormai più notizia. È il caso stavolta di una legge regionale della Sardegna, quella del 7 febbraio 2011, n. 7" Non è possibile che in Sardegna non si trovi una persona dotata di diploma di laurea magistrale o diploma di laurea del vecchio ordinamento, prescritte dall’art. 2 della legge, con adeguata competenza e provata esperienza giuridico-amministrativa nel settore delle discipline di tutela dei diritti umani ed anche in materia minorile, che sia disposta a lavorare nella sede della Regione contro retribuzione del 50% dell’indennità prevista per i Consiglieri regionali. Dunque la legge giace da cinque anni per precisa volontà politica. Cui prodest? L’elenco del Ministero dichiara candidamente: "Garante in attesa di nomina"., Napoli: trans colombiana di 50 anni si suicida in cella a Poggioreale di Liliana Stella Metropolis, 27 aprile 2016 Aveva aggredito un mese fa un anziano ultra ottantenne, che si era risposato con una sua ex. Ieri in cella ha deciso di togliersi la vita. È finita così l’esistenza di una trans colombiana, all’anagrafe Martin Jesus Di Soto Mejia. A denunciare la morte è il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Secondo l’accusa, nel quartiere di San Giovanni Teduccio, la trans ridusse in fin di vita un uomo di 87 anni, colpendolo al collo e al volto con un coltello. Il responsabile, una transessuale di nazionalità colombiana di 50 anni, si è tolto la vita ieri mattina nel carcere di Poggioreale. "La vittima, ristretta in una cella singola nella sezione protetta del Padiglione Roma, si è tolta la vita infilando la testa in una busta di plastica e sigillandola poi con un calzino", informa Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Negli ultimi 20 anni - ricorda ancora Capece - le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi e impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze, Purtroppo a Poggioreale il pur tempestivo intervento del poliziotto di servizio non ha potuto impedire il decesso del detenutò". Il Sappe ricorda inoltre che, nel 2015, sono stati complessivamente 39 i detenuti che sono tolti la vita nelle carceri italiane. Solo a Poggioreale - riferisce Emilio Fattarello, segretario regionale del sindacato - l’anno scorso sono stati 207 i detenuti che hanno compiuto atti di autolesionismo "ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli, 22 quelli che hanno tentato il suicidio, di cui uno morto e 4 quelli deceduti per cause naturali". E ancora: "243 sono state le colluttazioni e 2 i ferimenti". Da qui la richiesta: "devono essere presi provvedimenti concreti". Il suicidio punta i riflettori, oltre che sulla situazione dei detenuti nella carceri della Campania, anche sulla tutela dei diritti delle persone transessuali. Poco più di un mese fa un’altra trans, nota nell’ambiente come Piccola Ketty, era stata trucidata in auto a Fuorigrotta da un giovane con problemi psichici poco più che trentenne. Da qui erano scese in piazza le associazioni della comunità Lgbt, guidate da Loredana Rossi e da Daniela Lourdes Falanga, rispettivamente in rappresentanza dell’Associazione Trans Napoli e di Arcigay. Al centro della protesta i diritti non tutelati delle persone transessuali, ancora oggi spesso vittime. Cagliari: Caligaris (Sdr); terzo ricovero per la donna 83enne detenuta nel carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2016 "Sono passati circa dieci giorni dall’ultimo ricovero in Ospedale di Stefanina Malu, ma la donna è nuovamente in un Nosocomio cittadino. L’anziana detenuta, che si è sentita male mentre si trovava nel bagno della cella della sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, è stata subito soccorsa dalle Agenti della Polizia Penitenziaria e dai Sanitari. Il nuovo ricovero precauzionale è stato considerato indifferibile". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che aveva sollecitato "un atto umanitario per consentire alla donna di poter essere assegnata ai domiciliari nella casa di una figlia in grado di accudirla con continuità". "L’andirivieni Ospedale-Istituto Penitenziario, che si ripete ormai da qualche tempo, sembra - afferma - un documento inequivocabile sulle condizioni di salute di una donna con diverse patologie, con una depressione e ormai incapace di reggersi sulle gambe. L’incompatibilità con il carcere è nelle cose. Sicuramente un ricovero in una Residenza Sanitaria Assistenziale sarebbe l’ideale per avere maggiori garanzie terapeutiche ma, a parte i costi, c’è la storia personale di Malu. Questa anziana donna, che ha perso già due figli, l’ultimo recentemente, vuole solo stare con i parenti più stretti. Non chiede che si spendano dei soldi per lei, vorrebbe poter essere accudita da una delle figlie piuttosto che da una pur generosa e discreta compagna di cella o da una altrettanto solerte e affettuosa infermiera". "Non si tratta di buonismo - conclude la presidente di Sdr - ma di una scelta razionale di campo. Lo Stato non può tenere dietro le sbarre persone che hanno superato ottant’anni facendole accudire dai compagni di cella. A Cagliati-Uta sono tre. Due maschi e Stefanina Malu che in occasione di un colloquio ha detto, tra l’altro, "Non voglio morire qui". E dopo questo terzo ricovero forse occorre mettere da parte perizie e indice di Karnofsky e assumere una decisione, la migliore possibile". Bologna: "Semi di libertà", i detenuti-agricoltori coltivano la terra in carcere La Repubblica, 27 aprile 2016 Il progetto alla Dozza: grazie a un progetto pubblico-privato nascerà un’impresa per la produzione agricola di piante, che saranno anche vendute. Detenuti agricoltori, per lavorare la terra, vendere i prodotti e sentirsi più liberi. Succede al carcere Dozza di Bologna grazie al progetto "Semi di libertà", firmato nei giorni scorsi. L’iniziativa prevede un corso di formazione professionale sull’agricoltura biologica e urbana rivolta ai detenuti, in collaborazione con alcuni docenti della Scuola di Agraria, grazie al recupero della serra del carcere. E poi, l’avvio di una vera e propria attività. Con la collaborazione della cooperativa Pintor, infatti, è previsto l’avvio di un’impresa per la produzione agricola di piante tradizionali e aromatiche, destinata al consumo interno del carcere e alla vendita sul mercato. Tutte le coltivazioni avranno certificazione biologica e verrà inoltre costruito un impianto fotovoltaico per garantire la massima autonomia dal punto di vista energetico dell’ambiente destinato a vivaio. La convenzione quadro per il progetto Semi di libertà è stata siglata tra Comune, Casa Circondariale Dozza, Università di Bologna, associazione Il Poggeschi per il carcere, Cefal, cooperativa sociale Pictor e associazione Streccapogn. Si tratta di un percorso innovativo che terminerà nel dicembre 2018, che vede una collaborazione in rete tra pubblico e privato: c’è infatti anche il fondamentale contributo della Fondazione Del Monte. Per l’assessore alla Legalità, Nadia Monti, "il risultato raggiunto rappresenta un significativo cambiamento nel sistema sanzionatorio - ha spiegato - L’attività di lavoro volontario e gratuito resa all’interno di enti pubblici o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, come abbiamo già potuto sperimentare grazie ai Lavori di pubblica utilità e alla cosiddetta "Messa alla prova", permette di promuovere un risarcimento sia concreto che di carattere simbolico verso la società ed inoltre di favorire i necessari percorsi di risocializzazione". Ferrara: in scena al Teatro Comunale lo spettacolo degli attori-detenuti estense.com, 27 aprile 2016 Incontro al Ridotto il 27 aprile di "Me che libero nacqui al carcer danno", in scena al Teatro Comunale il 28 aprile. Nell’ambito del progetto curato dal Coordinamento Teatro Carcere della regione Emilia Romagna sulla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso - che ha visto protagonisti i detenuti degli istituti di pena di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Parma, Reggio Emilia - a Ferrara sarà presentato, giovedì 28 aprile ore 21 al Teatro Comunale Abbado, lo spettacolo "Me che libero nacqui al carcer danno" realizzato dagli attori-detenuti del carcere circondariale di Ferrara con la regia di Horacio Czertok. Il lavoro sarà presentato in un incontro aperto a tutto il pubblico mercoledì 27 aprile alle 17, al Ridotto del Teatro. Sarà l’occasione anche per illustrare il complesso dell’attività svolta in questo settore alla presenza della docente dell’Università di Bologna Cristina Valenti, che presenterà il terzo numero della rivista Quaderni del Teatro Carcere dedicato alla "Gerusalemme liberata nelle carceri della Regione". Seguirà la proiezione del film di Stefano Orro Gerusalemme liberata in carcere sulle messe in scena del poema del Tasso nelle carceri di Ferrara, Bologna, Castelfranco Emilia, Reggio Emilia, Parma, Forlì. Il pomeriggio si concluderà con la proiezione del film Epica carceraria di Marinella Rescigno e Davide Pastorello, dedicato al lavoro di interpretazione scenica del poema nel carcere di Ferrara. I biglietti per la rappresentazione del 28 aprile sono in vendita alla biglietteria del Teatro Comunale di Ferrara: tel. 0532 202675, biglietteria.teatro@comune.fe.it e sul sito teatrocomunaleferrara.it. Prezzi: intero € 10; dai 65 anni €8; sino ai 30 anni €5 Radio Carcere: misure alternative? viaggio in un ufficio per l’esecuzione penale esterna Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2016 Registrazione dell’ultima puntata del programma condotto da Riccardo Arena. Viaggio in un ufficio per l’esecuzione penale esterna. "Io educatore seguo più di 200 persone e applicare una misura alternativa al carcere resta difficile!". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/473113/radio-carcere-le-misure-alternative-viaggio-in-un-ufficio-per-lesecuzione-penale Libri. "La giustizia capovolta", di Francesco Occhetta intervista a cura di Stefano De Martis agensir.it, 27 aprile 2016 La giustizia "capovolta" è quella "riparativa". Rispetta la vittima e offre un’occasione ai colpevoli per capire il dolore inflitto. Il gesuita padre Francesco Occhetta, redattore de La Civiltà Cattolica è autore del libro "La giustizia capovolta", nel quale propone un radicale cambio di prospettiva in cui anche il tema della pena viene visto in un una luce nuova. Solo rimettendo al centro il dolore della vittima e dei suoi familiari è possibile un percorso di autentica riabilitazione del detenuto. "Le condizioni pre-giuridiche che anticipano l’intervento dello Stato sono almeno tre: le vittime devono essere disposte a tematizzare il loro dolore davanti ai colpevoli; la società deve superare l’idea di carcere come discarica sociale e di pena come lo strumento che ripaga col male il male fatto e accollarsi la responsabilità attiva del recupero, della riparazione di ciò che si è rotto a livello relazionale e patrimoniale; il reo deve arrivare a prendere coscienza del male per rendersi conto di cosa ha fatto e ammettere la propria responsabilità". Quando si parla di rieducazione del condannato e di umanizzazione della pena, ci si sente quasi sempre obiettare che si dedica troppa attenzione a chi ha commesso dei reati invece che alle vittime. La "giustizia riparativa" di cui parla nel suo ultimo libro ("La giustizia capovolta", Edizioni Paoline) il gesuita padre Francesco Occhetta, redattore de La Civiltà Cattolica, parte invece proprio dalle vittime, che definisce le "grandi assenti" di un sistema che spesso si accontenta soltanto di erogare una pena a chi trasgredisce. Riparativa perché mette in primo piano l’esigenza di riparare al danno che le vittime e la stessa società hanno subìto. Un radicale cambio di prospettiva in cui anche il tema della pena viene visto in un una luce nuova. Solo rimettendo al centro il dolore della vittima e dei suoi familiari è possibile un percorso di autentica riabilitazione del detenuto. Soltanto se si restituisce dignità alla vittima, anche il detenuto può ritrovare la sua dignità. Padre Occhetta, che nelle carceri ha operato e non solo in Italia, riferisce le parole illuminanti di un detenuto di San Vittore, a Milano, dopo l’incontro con la sua vittima: "Ora posso scontare la mia pena con responsabilità perché l’incontro con chi ho offeso mi ha restituito la dignità di uomo che il carcere mi negava". Il libro, con la prefazione di don Luigi Ciotti e la postfazione di Giovanni Maria Flick, presenta nella seconda parte il dialogo con alcuni protagonisti (Francesco Cananzi, Daniela Marcone, Guido Chiaretti e don Virgilio Balducchi) che contribuiscono a leggere la situazione italiana nell’ottica della "giustizia capovolta". Carceri colabrodo o troppo comode; misure alternative alla detenzione erogate con superficialità e che diventano occasione per commettere altri reati; pene non scontate o ridotte al limite dell’irrilevanza. Inutile nascondersi dietro a un dito: nell’opinione pubblica è forte, forse prevalente, una corrente emotiva - alimentata anche da certa politica e da certa informazione - che sul pianeta carceri, e sulla giustizia penale in genere, proietta una serie implacabile di luoghi comuni. Ma qual è effettivamente la situazione? "L’opinione pubblica si divide in giustizialista e permissivista e grida. La situazione cambia quando le persone vengono toccate nella carne perché in carcere c’è un amico, un famigliare o sei indagato. Allora improvvisamente l’idea di giustizia e di pena cambiano. Nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%). Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. Senza voler criticare gli operatori penitenziari, che lavorano spesso in situazioni eroiche, va sottolineato che lo Stato spende solamente 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Per il mondo della giustizia rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Ristabilire la giustizia non significa intimidire e intimorire attraverso pene esemplari per ottenere una sicurezza maggiore. Lavorare al recupero non è un elitarismo ma è porre al centro dell’ordinamento la prevenzione generale. L’intimidazione, lo sosteneva già il Beccaria, funziona quando il controllo sociale è alto come negli Stati totalitari; nelle democrazie invece è la riabilitazione l’obiettivo della giustizia, ma quest’ultima dipende dal consenso sociale". Che bisogno c’è di "capovolgere" il senso stesso del nostro sistema di giustizia e detenzione? Non basterebbe rendere questo sistema più efficiente? "C’è bisogno di capovolgere il senso antropologico della giustizia e ricollocare al centro dell’ordinamento il dolore delle vittime e la dignità dei detenuti che rimangono persone anche quando sono prive di libertà. Quando gli Usa negli anni Novanta buttarono via le chiavi delle loro carceri, i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni". Come funziona - se si può dire così - la "giustizia riparativa"? Quali percorsi e quali condizioni richiede per diventare prassi concreta? "Le condizioni pre-giuridiche che anticipano l’intervento dello Stato sono almeno tre: le vittime devono essere disposte a tematizzare il loro dolore davanti ai colpevoli; la società deve superare l’idea di carcere come discarica sociale e di pena come lo strumento che ripaga col male il male fatto e accollarsi la responsabilità attiva del recupero, della riparazione di ciò che si è rotto a livello relazionale e patrimoniale; il reo deve arrivare a prendere coscienza del male per rendersi conto di cosa ha fatto e ammettere la propria responsabilità. Un processo che può durare anche molti anni che deve essere guidato da esperti mediatori e che in alcune parti del mondo sta dando buoni risultati". Infatti nel libro non mancano i riferimenti alla diffusione del modello della "giustizia riparativa" in altri Paesi, soprattutto in quelli di cultura giuridica anglosassone. E in Italia? Siamo pronti per questo passaggio? Che cosa servirebbe per favorirlo? E che cosa si fa attualmente? "Manca una volontà culturale di cambiamento che la politica sta bloccando. Inoltre l’ordinamento penitenziario è restio a introdurre l’elemento spirituale (non religioso) per la riabilitazione del detenuto. Lo prova la riforma di Kiran Bedi, che alla metà degli anni Novanta, nel carcere di Tihar a New Delhi - un carcere che conteneva circa 10mila detenuti - ha ridotto la recidiva dal 70% al 10% attraverso la pratica della meditazione profonda". Il modello della "giustizia riparativa" è in grado di reggere la sfida anche nelle situazioni di elevata pericolosità sociale, come nel caso della criminalità organizzata? "No. Occorre che la società in cui la criminalità organizzata si radica e vive scelga di stare non sotto il più prepotente ma sotto la legge come ci hanno insegnato gli antichi: sub lege libertas". In che maniera il discorso sulla "giustizia riparativa" intercetta la visione biblica della giustizia? Le assonanze con la predicazione di papa Francesco sono fortissime… "Per la Bibbia nel male che si compie c’è già la propria condanna. La concezione della pena da parte di Dio trasforma la colpa in responsabilità. La Bibbia insegna a non giudicare ma a rieducare il colpevole. Caino viene cacciato da Dio ma non distrutto: deve ricominciare un cammino dal punto in cui nasce il sole. L’espiazione è legata alla riabilitazione. Dalle prime pagine della Genesi emerge la responsabilità di coltivare una terra macchiata dal sangue del fratello ucciso perché esso non permette alla terra di dare frutto. Allora va coltivata e bonificata, e questo deve accadere a livello sociale. Qui siamo davanti ad una scelta: la scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. La politica ha una responsabilità particolare, quella della prevenzione primaria che ridurrebbe i reati, per esempio perseguire i paradisi fiscali, regolare gli appalti, contrastare le coltivazioni della droga, rinforzare l’etica della sessualità per contrastare gli abusi ecc.". Televisione. Il docu-reality "I miei 60 giorni all’inferno", sette innocenti in prigione spettacolinews.it, 27 aprile 2016 Dal 27 aprile alle 22:00 su Crime+Investigation. Una finestra autentica e brutale sulla vita all’interno le carceri americane. Arriva in Italia il docu-reality I miei 60 giorni all’inferno da mercoledì 27 aprile alle 22.00 solo su Crime+Investigation (in esclusiva su Sky al canale 118). Sette persone innocenti, sette cittadini modello, decidono di vivere per sessanta giorni nel carcere di massima sicurezza di Clark (Indiana, Usa) a stretto contatto con guardie e pericolosi criminali, tenuti assolutamente all’oscuro dell’iniziativa: stessi orari, stesso cibo e stesse regole. Ideato dallo sceriffo Jamey Noel, che ha anche selezionato le sette persone, si tratta di esperimento sociale e televisivo assolutamente inedito. Attraverso momenti di grande tensione, il programma cerca di fare luce sulle lacune del sistema carcerario americano e sulla corruzione presente nel penitenziario di Clark nonché punta a mostrare le dinamiche più oscure e cruente della vita dei detenuti. Sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, le telecamere di Crime+Investigation seguiranno da vicino e senza censura l’esperienza dietro le sbarre dei sette partecipanti, tra cui un’insegnante, un ex marine, una poliziotta e una mamma casalinga, ognuno con le sue motivazioni e aspettative. L’unica protagonista a dover cambiare nome è Maryum Ali, figlia del campione di pugilato Muhammad Ali. Migranti. Londra lascia soli i bambini di Leonardo Clausi Il Manifesto, 27 aprile 2016 Niente accoglienza per 3mila minori siriani non accompagnati sparsi nei campi profughi in Europa. La camera dei Comuni boccia per un pugno di voti l’emendamento che era stato proposto e approvato dalla camera dei Lord. Pressing dei capigruppo tory sui deputati. Dopo la votazione, un coro di "vergogna" dai banchi dell’opposizione. Il ministro ombra per l’immigrazione: "La lotta continua". Presso la stazione ferroviaria di Liverpool Street, nell’East End londinese, da qualche anno sorge un piccolo memoriale in bronzo dell’artista Frank Meisler: cinque figure di bimbi con rispettivi bagagli, appena scesi dal treno e in attesa di qualcuno che li accolga. Sono i bambini del Kindertransport, il programma di evacuazione nel Regno Unito dei figli di famiglie ebree vittime della Shoah provenienti dal Reich organizzato da Sir Nicholas Swinton, lo Schindler britannico. Tra loro vi era un piccolo cecoslovacco di 6 anni, Alfred Dubs. Che oggi è un Lord laburista responsabile delle politiche d’immigrazione e che si è fatto promotore di un emendamento all’Immigration bill discusso ai Comuni lunedì. L’emendamento, bipartisan e votato dalla camera alta, avrebbe costretto il governo a farsi carico di 3000 bambini siriani non accompagnati sparsi per i campi profughi d’Europa. Ma è stato sconfitto per un pugno di voti, 294 a 276, dopo una giornata di forti pressioni disciplinari esercitate dai capigruppo tory per sedare fastidiosi sussulti d’umanità nei deputati le cui coscienze rifiutavano di ammutolire in nome della realpolitik: in molti, piuttosto che votare contro il proprio partito, si sono astenuti. La giustificazione del governo e dal ministro dell’interno Theresa May, è ormai ben nota ed è la medesima addotta per accelerare l’abbandono dell’operazione di soccorso nel Mediterraneo Mare Nostrum: entrambe avrebbero incoraggiato il cosiddetto "fattore di attrazione" (pull factor) alle percentuali di persone che scelgono di intraprendere il proprio viaggio verso una vita più umana. Ma arriva dopo una serie di contorsioni sull’argomento, tra cui l’annuncio, la scorsa settimana, che il governo avrebbe accolto 3000 bambini provenienti da campi profughi in Medio Oriente e non in Europa, nel tentativo, evidentemente poi riuscito, di dare un contentino alle coscienze più lacerate tra le sue file. James Brokenshire, ministro per la sicurezza e l’immigrazione, ha detto che ogni risposta alla crisi "deve fare attenzione a non creare inavvertitamente una situazione in cui le famiglie trovino vantaggioso mandare avanti i bambini da soli o nelle mani di trafficanti, mettendo le loro vite a repentaglio tentando rischiose traversate via mare verso l’Europa". Alla fine solo 5 deputati conservatori hanno votato a favore, tra cui Geoffrey Cox, Tania Mathias e Stephen Philips. Per far passare il diniego, il governo ha fatto ricorso a quella che i detrattori hanno definito una "tattica disperata", la norma detta del financial privilege, che consente alla camera dei comuni di "disobbedire" alle prescrizioni dei Lords qualora un emendamento venga ritenuto economicamente oneroso per il cittadino. Dunque più di settant’anni dopo aver dato una luminosa lezione al mondo in accoglienza e umanità, e di fronte alla crisi umanitaria più grave proprio dalla seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna decide di fare il contrario: sbatte la porta in faccia a 3.000 di quei 10.000 bambini identificati dall’Europol come dispersi nel vecchio continente durante la fuga dagli orrori della guerra in casa propria e che già sono (o rischiano di diventare) vittime di abuso di sostanze, lavoro minorile e violenze sessuali. E per farlo, imbocca senza imbarazzo un pertugio costituzionale abbastanza meschino. Immediata e sdegnata la reazione delle Ong e di alcuni deputati Labour e Libdem propugnatori dell’emendamento: l’esito della votazione è stato accolto con una gragnuola di "vergogna" dai banchi dell’opposizione. Per Kirsty McNeill, di Save the Children, il voto è stato "profondamente deludente", il ministro-ombra per l’immigrazione, il laburista Keir Starmer, ha promesso battaglia: "Non possiamo voltare le spalle a questi vulnerabili bambini in Europa: la storia ci giudicherà per questo. La lotta continua" ha detto ai microfoni di Bbc Radio 4. Se al posto del governo che nel 1939 decise di dare asilo ai bambini in fuga dalla delirante violenza del terzo Reich ci fosse stato quello guidato da David Cameron, Lord Dubs non sarebbe fra noi. Forte anche di questa consapevolezza il peer laburista ha riproposto ieri l’emendamento alla camera dei Lords - dove il governo è in minoranza - in una versione più soft, senza specificare la soglia dei 3000. Il secondo tentativo è stato approvato con una maggioranza schiacciante di 107, e alcuni deputati Tory potrebbero ora approvarlo nel prossimo passaggio ai Comuni. Migranti. La grande vulnerabilità dei minorenni di Calais di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 27 aprile 2016 In centinaia sopravvivono nei campi. Eppure in Francia dal 2013 è in vigore una circolare che dovrebbe proteggerli. Qualche giorno fa, il 21 aprile, dopo la presentazione del rapporto Europol, Jacques Toubon, ex ministro ora con la carica di Difensore dei Diritti, ha lanciato l’allarme sulla "situazione di grande vulnerabilità" in cui sono costretti a vivere i minorenni isolati nei campi profughi improvvisati che esistono in Francia. A Calais, con un censimento approssimativo realizzato il 31 marzo, è stato calcolato che ce ne sono 310, un quarto con meno di 15 anni, il più giovane ha 7 anni. Toubon ha sottolineato che "vivono in condizioni estremamente miserabili", sono potenziali vittime degli adulti. A marzo, l’associazione britannica Help Refugees ha affermato che a Calais 129 minorenni sono scomparsi. Passati clandestinamente in Gran Bretagna? L’intenzione è questa, anche per i minorenni, che hanno dei parenti oltre-Manica. Toubon ha rilevato che i dispositivi messi in opera per i rifugiati, già più che carenti, molto spesso non raggiungono i minorenni: "Il dispositivo attuale non tiene conto della specificità dei minorenni, del loro percorso, della volontà tenace di raggiungere la Gran Bretagna, passano attraverso il sistema, senza che sia prevista una stabilizzazione". Eppure, sulla carta in Francia è in vigore la circolare Taubira (dal nome dell’ex ministra della Giustizia), del maggio 2013, che prevede un percorso specifico per i minorenni, che dovrebbero venire diretti verso i centri Ema (Valutazione, messa al riparo). Una volta stabilito che la persona ha meno di 18 anni, dovrebbe avere accesso al Diritto sociale all’infanzia, che prevede un tetto, il vitto, la scuola. Ma questo circolare non è applicata, o solo raramente. La Cimade, una delle organizzazioni che si occupano di rifugiati, ha sospeso per protesta gli interventi al Cra (Centro di ritenzione amministrativa) di Rennes (dal 18 al 20 aprile) per denunciare la situazione. Anche nei Cra vengono rinchiusi minorenni isolati, cosa assolutamente illegale. La Cimade ha spiegato che dopo lo smantellamento forzato della parte sud del campo di Calais "il problema si riforma altrove". Ormai ci sono campi lungo tutta la costa della Manica, a Ouistreham, Cherbourg, Roscoff, Saint-Malo, Le Havre, Dieppe e anche a Parigi si sono ricostituiti, come sotto la metropolitana aereo a Stalingrad. Solo alla Grande-Synthe, un comune di 22mila abitanti, il sindaco Damien Carême con Msf, forzando la mano al governo, ha aperto il 7 marzo scorso il primo campo di rifugiati francese che rispetta le norme internazionali, nella zona de La Linière, "Non lontano dall’autostrada - spiega Carême - che è il loro cordone ombelicale", che mantiene viva la speranza di andare in Gran Bretagna. Il campo, costato 4 milioni di euro, offre 389 shelters, organizzati in 6 zone, ai circa 1300 rifugiati, tra cui 171 minorenni, in maggioranza provenienti dal kurdistan iracheno. È stata aperta una scuola (ce n’è una anche a Calais, tra le poche costruzioni precarie a non essere stata distrutta dallo smantellamento). Alla Grande-Synthe c’è una ex direttrice di scuola in pensione e degli insegnanti volontari (c’è il problema non trascurabile della lingua, i ragazzini vogliono imparare l’inglese). Una cinquantina di bambini la frequentano regolarmente. Qui c’è anche un sostegno giuridico. Degli avvocati volontari, presenti anche in altri campi, aiutano i minorenni a ottenere il ricongiungimento famigliare. Alla Grande-Synthe, 165 bambini rientrano nei criteri per poterlo ottenere. "La procedura esiste - spiega l’avvocata Orsane Broisin - ma in pratica è una battaglia, non ci sono garanzie, i tempi non sono chiari, per alcuni si procede in fretta, per altri i tempi sono molto lunghi". Migranti. Hofer: "Il blocco sul Brennero? Bisogna fermare l’onda dei migranti" di Elena Tebano Corriere della Sera, 27 aprile 2016 Austria, il vincitore di destra spalleggiato dal leader Strache: Roma non agisce, tocca a noi. "Non sono certo felice del blocco sul Brennero: ma finché le frontiere esterne della zona Schengen non funzionano, dobbiamo mettere in sicurezza i nostri confini nazionali. Spero che sia solo una misura temporanea e di poter arrivare in fretta ad una situazione in cui l’area di Schengen sia sicura". Nella prima uscita pubblica dopo il voto che domenica con oltre il 35% delle preferenze gli ha assicurato il vantaggio nella corsa per le presidenziali austriache, il candidato del Partito della libertà (Fpö) Norbert Hofer, 45 anni, ripete come un mantra la parola chiave della sua politica estera: sicurezza. L’uomo che con il ballottaggio del 22 maggio potrebbe diventare il nuovo presidente dell’Austria (lo sfidante, il verde Alexander Van der Bellen, è solo al 21%) usa i toni calmi e pacati che lo contraddistinguono. Ci pensa il leader del suo partito, Heinz-Christian Strache, 46enne dagli occhi chiarissimi seduto accanto a lui nella sede della Fpö di Vienna, ad alzarli per un solo momento: "Dipende da Roma e dai politici italiani rispettare i propri doveri legali e mettere in sicurezza i propri confini esterni - dice. Sta a loro non commettere l’errore della Grecia che non rispetta le proprie leggi. È responsabilità di Roma: se non se la assume, noi siamo costretti ad agire", aggiunge. Hofer annuisce, poi risponde alle domande del Corriere. Herr Hofer, lei dice che l’Italia deve rendere impermeabili i propri confini: ma si affaccia sul Mediterraneo e ci saranno sempre migranti che proveranno a entrare illegalmente. "Sono consapevole che non sia facile: quando ero un giovane soldato sono stato di guardia al confine esterno di Schengen - e per noi era anche più facile, perché non avevamo coste. Se l’Italia non ce la fa da sola, dobbiamo rafforzare Frontex, le devono essere dati gli uomini necessari. Ma senza questa messa in sicurezza diventa impossibile aprire i confini interni all’Europa. La promessa dell’intesa europea d’altronde era: facciamo funzionare le frontiere esterne, così non abbiamo più bisogno di quelle interne". Vale anche per l’accordo di Dublino? "Sì, deve essere applicato così com’è: i rifugiati devono rimanere nel primo territorio sicuro in cui arrivano. Quello in cui sono davvero arrivati, però". Significa che i Paesi al confine dell’Ue devono farsi carico di più profughi? "L’accordo di Dublino lo abbiamo firmato tutti. E tutti sapevano cosa c’era scritto: gli italiani avrebbero potuto rifiutarsi. Ma se si sottoscrive, va mantenuto. Spero che in pochi anni arriveremo a una situazione in cui non ci saranno più così tante persone che premono per arrivare qui. Ma adesso è così". Cosa pensa del sistema delle quote per dividere i rifugiati tra i vari Stati membri? "Penso che non funzionerà, perché i profughi cercheranno sempre di andare dove c’è più assistenza sociale. Finché ci sono queste enormi differenze, nella Ue, con Paesi come Germania, Austria, Svezia, non sarà possibile fermare la corrente. E non si può compensare un errore con un altro errore. La questione è sempre: possiamo chiudere i confini? Possiamo davvero decidere al confine chi è un profugo e chi no?" Dopo l’annuncio della barriera sul Brennero i rapporti tra Austria e Italia sono diventati più difficili: questo non la preoccupa? "È un peccato, perché l’Austria ha sempre avuto un ottimo rapporto con l’Italia e gli austriaci sono sempre venuti in vacanza in Italia: conoscono gli italiani, e viceversa. Io mi impegnerò per far sì che rimanga buono, ma l’Austria non ha alternative: bisogna fermare la corrente. Altrimenti saranno gli altri Paesi che rimprovereranno a noi di farla passare". La libertà di movimento è uno dei principi della Ue: se chiudete le frontiere, non c’è il rischio di distruggerla? "Non le chiudiamo, le controlliamo. Questa è la differenza. Dobbiamo controllare se chi è entra lo fa illegalmente". Quindi l’Unione non è in pericolo? "Non se collaboriamo amichevolmente e siamo consapevoli del fatto che dobbiamo lavorare ancora insieme a un’Europa comune e a un’Europa sussidiaria. Questo è il mio obiettivo: un’Europa sussidiaria che non sia uno stato centrale. Ma se pensiamo di costruire uno stato centrale in cui i Paesi membri hanno poco da dire allora è difficile". I partito di governo hanno subito una pesante sconfitta. Se diventerà presidente, quando il cancelliere Feyman verrà a offrirle le dimissioni, le accetterà? "Se vedo che le cose in Austria continuano a peggiorare e che non sono prese le misure necessarie per il Paese, sarò pronto a fare un passo". Ambiente. L’ardua strada della giustizia climatica di Francesco Martone Il Manifesto, 27 aprile 2016 Alla Cop21 riconosciuta solo ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani. Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21 del dicembre scorso. Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe - attraverso una visione "decolonizzata" non certo "catastrofista" - di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita. Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage), "escamotage" per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra. Un’incompatibilità che caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi, e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole. Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa "pressione all’esborso" è stata foriera di grandi disastri e di un altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di carbonio. Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo - progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la produzione di gas e petrolio di scisto. È questo il lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno. Droghe. A New York archiviata la "war on drugs" di Grazia Zuffa Il Manifesto, 27 aprile 2016 Per Ungass 2016, appena conclusa a New York, è tempo di non facili bilanci. Se ripercorriamo gli obiettivi e le aspettative del movimento internazionale delle Ong, è comprensibile un certo amaro in bocca. Il documento finale ripercorre in gran parte il modello declamatorio ideologico delle passate Assemblee Generali, senza passi avanti: ad esempio, si riconferma la fedeltà alle Convenzioni, senza prendere in considerazione alternative; nessun termine alla pena di morte per reati di droga e neppure richiesta di moratoria delle esecuzioni; nessuna indicazione per la decriminalizzazione del consumo personale, né per la riduzione del danno. Per di più, a sancire la volontà di chiudere subito i giochi, il documento è stato approvato addirittura prima dell’inizio del dibattito generale. Eppure, appena finito il voto, è emersa a sorpresa la vera novità: un dibattito diretto e acceso su questioni chiave, con fronti contrapposti ben definiti, senza l’usuale linguaggio felpato della diplomazia. I paesi latino- americani promotori di questa Assemblea straordinaria (Colombia, Messico e Guatemala) hanno ripercorso le ragioni dell’insostenibilità (economica, politica, democratica) della "war on drugs", ribadendo la necessità di un cambio di passo che allinei il controllo globale della droga al rispetto dei diritti umani. Ed è apparso chiaro dalle loro parole che la ricerca è a tutto campo, verso soluzioni anche al di fuori dei limiti delle Convenzioni ("ci sono altri strumenti in campo, la regolazione dei mercati della cannabis o della foglia di coca in Bolivia ne sono esempi" - ha detto Milton Romani, responsabile politiche antidroga dell’Uruguay - Siamo solo all’inizio di un percorso"). Dall’altro versante, il fronte dei "duri" ha argomentato in posizione nettamente difensiva. Così è stato per la pena di morte, rivendicata dall’Indonesia (a nome di altri paesi asiatici, africani, medio orientali) in quanto "scelta nazionale di politiche di giustizia". Ancora più chiaro il cambio di registro sulla riduzione del danno. Un tempo ignorata o dismessa come "eresia antiproibizionista", a New York la riduzione del danno è stata rappresentata dai "duri" come "l’approccio dei paesi occidentali, alternativo alla riduzione della domanda" (la riduzione della domanda è la nostra strategia, fatta di prevenzione e di risposta penale, non forzateci a scegliere la riduzione del danno- si è raccomandato il rappresentante di Singapore a nome dei paesi asiatici). L’approdo politico di Ungass 2016 l’ha riassunto il Segretario di Stato statunitense, William Brownfield: riformare le politiche all’interno della "flessibilità" delle Convenzioni, ridimensionare l’approccio penale, puntando sui reati violenti di traffico e tralasciando i reati minori non violenti e il consumo, cui si addice l’intervento sanitario, non la risposta carceraria (subito dopo Milton Romani ha convenuto, sposando il "riequilibrio" a favore dell’approccio di sanità pubblica). Cambiare corso lasciando intatte le Convenzioni: è un compromesso accettabile? Per il momento, la "flessibilità" sembra l’unico strumento per tenere insieme i due fronti e lo stesso sistema di controllo Onu. Il rischio è di una divaricazione crescente fra i paesi, in seguito al "rimpatrio" delle politiche. Col vantaggio però di veder "deperire" le Convenzioni, nel loro (discutibile) carattere di prescrizione penale. Forse, solo il declino delle Convenzioni può aprire la strada alla loro possibile riforma, verso un impianto alternativo di promozione civile e umana. Per noi italiani c’è anche altro di cui prendere nota: il discorso del ministro Orlando, prudente ma deciso sulla via del rinnovamento. Un cambio di passo rispetto al sentiero di Giovanardi e Serpelloni. C’è poca democrazia in questa Europa di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 27 aprile 2016 Il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori è troppo marginale nella complessa struttura di governo Ue. Il rischio è esaltare il carattere funzionariale-burocratico di istituzioni contro cui è facile che crescano i populismi. "L’Europa è mortale?" Così un giornale non sospettabile di antieuropeismo come Le Monde ha intitolato un lungo articolo sulla situazione attuale dell’Unione europea. Per sottolineare il rischio di fine imminente che la minaccia e insieme l’inconsapevolezza che di ciò sembriamo avere, l’autore dell’articolo, Arnaud Leparmentier, ha paragonato la nostra condizione a quella che Stefan Zweig, nel Mondo di ieri, attribuiva all’impero asburgico alla vigilia del fatidico giugno 1914: "Tutto nella nostra quasi millenaria monarchia austriaca sembrava duraturo e lo Stato stesso appariva il sommo garante di questa ininterrotta solidità". Le cose, come è universalmente noto, avrebbero preso tutt’altra direzione. Non è la prima volta che vengono formulati paragoni del genere: tre anni fa un centro studi americano, il Pew Research, definì la Ue come "il malato d’Europa", riprendendo l’espressione che un tempo si usava per l’impero ottomano (e anche in questo caso è ben noto come andò a finire). Eppure la nostra discussione pubblica sembra non prendere troppo sul serio questi segnali di allarme e predilige temi e toni legati alla quotidianità: la polemica Merkel-Draghi, la guardia di frontiera europea, l’ultima dichiarazione di Juncker sulla richiesta italiana di flessibilità e così via. Tutte cose rilevanti, non c’è alcun dubbio, e tuttavia che danno vita a dibattiti e analisi non adeguati alla crisi di fondo che l’Unione europea sta attraversando. Una crisi che, a partire dal 2008, è esplosa proprio sul terreno che più costituiva il legittimo vanto degli europei: l’economia. Ma anche una crisi che in questi ultimi anni si è andata allargando ad altri terreni: dall’incapacità di dar corpo a una politica estera europea alla indisponibilità di molti Paesi dell’Ue ad applicare gli accordi sul ricollocamento dei richiedenti asilo. Il modo prevalente in cui la maggioranza dei media, dei politici, degli esperti di vario genere affronta ciascuno dei terreni di crisi è caratterizzato da forme verbali esortative: di fronte a Stati che ripristinano i controlli alle frontiere si dichiara che non ci devono essere muri; di fronte alle migrazioni di massa si afferma che si deve realizzare la redistribuzione dei migranti; che si deve attuare un servizio di sicurezza europeo; anzi, più in generale, una vera unione politica europea. Il discorso europeista, in sostanza, corrisponde sempre più a quella forma verbale esistente in alcune lingue che è l’ottativo: una forma che esprime un desiderio, un auspicio e poco si cura del fatto che la sua realizzazione trovi ostacoli spesso non superabili. Primo fra tutti il fatto che, su ciascuna delle soluzioni appena citate, è ampiamente documentato il disaccordo dell’opinione pubblica di questo o quel Paese. Ma di ciò che pensano i cittadini europei - della loro crescente disaffezione per le istituzioni comunitarie - generalmente poco ci si cura. A volte, anzi, si è teorizzato che non vi si debba prestare troppa attenzione: quei cittadini, e i loro governi, avrebbero la colpa di non riuscire a prescindere dall’orizzonte nazionale, soltanto negando il quale l’Europa può avere un futuro. Sta probabilmente qui, nell’illusione che gli Stati nazionali fossero entrati in una crisi definitiva dopo il 1945 e fossero perciò destinati a una rapida scomparsa uno dei limiti culturali originari dell’europeismo ufficiale. Non solo perché quella previsione non si è realizzata, ma anche perché ad essa si accompagnava la mancata comprensione del nesso tra Stato nazionale e democrazia. Sulla scia di John Lennon possiamo auspicare che in un futuro più o meno lontano non sia più così ("Imagine therès non countries, it isn’t hard to do…"), ma fino a oggi lo Stato nazionale ha rappresentato (e continua a rappresentare) la premessa e l’ambito di esistenza della democrazia. Stigmatizzare il fatto che la cancelliera Merkel sia tornata indietro rispetto al suo iniziale atteggiamento di apertura verso gli immigrati per seguire l’orientamento dell’opinione pubblica tedesca ha poco senso. Cos’altro mai dovrebbe fare il capo del governo in un regime democratico? Ma la democrazia, il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori, è marginale se non assente nella complessa struttura di governo delle istituzioni europee. Secondo alcuni ciò sarebbe addirittura un bene, perché solo il carattere funzionariale-burocratico di quelle istituzioni permetterebbe di fare il superiore interesse europeo contro gli interessi nazionali. Prima o poi bisognerà riconoscere che è una strada pericolosa, che rischia di allontanare ancora di più i cittadini dalle istituzioni europee, lasciando ai vari populismi antieuropeisti - dal partito di Farage ad Alternative für Deutschland - la non disprezzabile risorsa di potersi presentare come i paladini della democrazia. Egitto: ondata di arresti tra i contatti di Giulio Regeni di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 27 aprile 2016 Battono alla porta di casa, poco prima dell’alba e fanno irruzione dentro. Le modalità con cui i servizi di sicurezza egiziani - il Mukhabarat - hanno prelevato decine, centinaia di giornalisti, avvocati, attivisti dei diritti umani è lo stesso di sempre, quello delle dittature. Il copione si è ripetuto per diverse notti e albe tra giovedì e lunedì. Arresti preventivi e non per ostacolare le proteste di massa contro l’omaggio dell’Egitto al nuovo potente alleato: le due isolette Tiran e Sanafir cedute all’Arabia Saudita come pegno dei più stretti legami di cooperazione sigillati a metà aprile dalla visita di re Salman Saud. Molte delle persone finite nelle retate però avevano anche a che fare con la morte di Giulio Regeni. Oppositori, come i ragazzi del Movimento 6 aprile - culla della rivolta di piazza Tahrir - catturati dalla polizia ai tavoli del caffè Casablanca accusati di "destabilizzazione della sicurezza del paese" e diffusione di notizie false sui social network. Ieri la famiglia Regeni si è detta "angosciata" per l’arresto, tra i tanti, di Ahmed Abdallah che oltre ad essere presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, una ong che denuncia in particolare gli arresti arbitrari e le sparizioni forzate, è anche consulente degli avvocati della famiglia Regeni per le indagini sulla morte di Giulio. Ahmed Abdallah non è dunque solo un attivista tra i tanti. La legale Alessandra Ballerini conferma il rapporto di fiducia con Abdallah e il suo arresto nella notte tra domenica e lunedì. Pare sia stato prelevato dal suo appartamento di Heliopolis, sobborgo residenziale del Cairo, dalle forze speciali, così risulta ad Amnesty. Ciò che angoscia di più la famiglia Regeni sono le accuse che gli vengono addebitate - legate alla nuova legge anti terrorismo - in base alle quali Abdallah rischia addirittura la pena di morte. Secondo il sito Aswat Masriya il consulente dei genitori di Giulio è accusato di istigazione alla violenza per rovesciare il governo e la Costituzione, adesione a un gruppo terroristico e partecipazione ad attacchi contro la polizia. Tutte accuse che se venissero confermate in un procedimento penale potrebbero portarlo ad anni e anni di carcere o all’impiccagione. Il presidente della Commissione per i diritti e la libertà non è l’unica voce critica finita nelle maglie del regime in occasione delle manifestazioni contro la dismissione delle isole sul mar Rosso a vantaggio dei nuovi protettori di al Sisi. Le proteste erano state organizzate nel giorno della celebrazione della liberazione del Sinai dalle forze militari israeliane nell’82, domenica scorsa. Venerdì all’alba sarebbe stato prelevato dal suo appartamento a Giza anche Haytham Mohamadeen, avvocato del lavoro, in contatto con i sindacati egiziani, gli stessi su cui si concentravano le ricerche di Giulio Regeni. Secondo quanto ha denunciato l’avvocato e attivista per i diritti umani Malek Adly sabato mattina, il collega sarebbe stato accusato di essere affiliato ai Fratelli musulmani, organizzazione vietata dal 25 dicembre 2013, cioè dal colpo di stato di al Sisi contro l’unico presidente eletto della storia egiziana, il pur contestatissimo Mohamed Morsi. L’avvocato Adly precisava via twitter che Haytham Mohamadeen è piuttosto un uomo di sinistra, socialista, non un fratello musulmano. A Mada Masr, un sito indipendente, Adly faceva sapere che altri 13 attivisti erano stati arrestati nei giorni precedenti al Sinai Liberation Day nella cittadina di Nasr e ora sotto processo alla corte penale di Al-Abbassiya. Poco dopo queste sue dichiarazioni Adly è stato arrestato a sua volta. E anche lui è collegato all’orrenda morte di Giulio. Era stato proprio Adly, infatti, il primo a interessarsi alla scomparsa del giovane ricercatore italiano e a denunciare i molti casi di sparizioni forzate ad opera delle forze di polizia. "Mentire e cercare di discolparsi", aveva detto allora, è il primo approccio degli apparati di al Sisi in questi casi. Alla famiglia Regeni non è sfuggito il filo rosso che lega queste storie, esprime infatti "preoccupazione per la recente ondata di arresti in Egitto ai danni di attivisti dei diritti umani, avvocati, giornalisti anche direttamente coinvolti nella ricerca della verità circa il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio". Anche la famosa giornalista Basma Mostafa, impegnata nelle indagini su Regeni, è stata arrestata il 25 insieme ad altri sette colleghi. Lei è stata rilasciata, così come è stato liberato il corrispondente dell’agenzia Reuters Michael Giorgy, gli altri reporter francesi e della Bbc. Ma il presidente dell’Unione dei cronisti egiziani, Yahya Qalash, ieri ha presentato una denuncia alla procura generale contro il ministro degli Interni Magdy Abdel-Ghaffar per le violazioni della libertà di espressione e l’assalto della polizia, domenica, alla sede dell’Unione giornalisti al Cairo, filmato in un video. Khaled El-Balshy, capo del comitato di libertà del sindacato, ha detto Ahram online che 43 giornalisti sono stati arrestati in questi giorni e sette sono ancora in stato di detenzione. Secondo l’ong Freedom for Brave in tutto sono stati 239 gli arresti fino a lunedì. La deputata cristiano copta Margaret Azer si è impegnata a portare il caso Regeni, le violazioni dei diritti umani e gli arresti di massa per le proteste sulle isole in Parlamento. Ma già il regime sta provvedendo a difendere la propria immagine: il presidente della Commissione parlamentare diritti umani Mohamed Anwar Sadat ha annunciato un suo "tour" che toccherà la sede Onu a Ginevra, il Congresso Usa e il Parlamento italiano. Sempre che Roma lo accolga. Egitto: verità per Giulio, liberate Ahmed di Antonio Marchesi (Presidente di Amnesty Italia) Il Manifesto, 27 aprile 2016 Contro il silenzio e l’impunità. L’inaccettabile arresto del presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, la stessa organizzazione non governativa il cui staff sta offrendo attività di consulenza ai legali della famiglia Regeni. Il 25 aprile, nel giorno in cui in Piazza della Scala a Milano i genitori di Giulio Regeni parlavano agli attivisti di Amnesty International, in Egitto erano in corso decine di arresti di manifestanti, attivisti e giornalisti, soprattutto egiziani ma anche stranieri. Mentre Claudio e Paola Regeni riaffermavano la propria ferma volontà di andare avanti, "per Giulio e per tutti coloro che sono in difficoltà nei paesi del mondo dove i diritti umani non vengono rispettati e riconosciuti", le autorità egiziane stavano facendo arrestare Ahmed Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, la stessa organizzazione non governativa il cui staff sta offrendo attività di consulenza ai legali della famiglia Regeni. Ahmed Abdallah è stato prelevato dalle forze speciali e accusato di istigazione alla violenza per rovesciare il governo, adesione a un gruppo terroristico e promozione del terrorismo. Rischia pene pesantissime, addirittura la pena di morte. Oltre a lui, nello stesso giorno, sono state arrestate almeno 238 persone, in varie città dell’Egitto. E già nei giorni precedenti, tra il 21 e il 24 aprile, almeno altre 90 persone, secondo i dati di Amnesty International, erano state portate in carcere. Questo è l’Egitto di oggi, teatro di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani e questo è il contesto in cui si colloca il caso, sicuramente speciale, ma non isolato del nostro concittadino Giulio Regeni. Nei tre mesi che ci separano dalla sua morte, caratterizzati dal susseguirsi di resoconti ufficiali e semi-ufficiali poco credibili e talvolta grotteschi, e da una collaborazione con gli inquirenti italiani che si è rivelata presto essere solo di facciata, c’è chi ha avanzato delle ipotesi sul perché per lui sia potuta finire in questo modo tragico, prendendo le mosse dall’oggetto delle sue ricerche e dalle persone con cui era entrato in contatto. Quel che ha colpito più di tutto, però, è che chi lo ha torturato a morte non si sia fermato di fronte a un cittadino straniero - per di più uno studioso, non certo una persona pericolosa. Perché non è stato semplicemente espulso? È possibile che non si aspettassero delle reazioni? La risposta è che forse no, non se le aspettavano - come non se le aspetta un potere che non è abituato a rendere conto delle proprie azioni. Un potere per il quale è del tutto normale commettere gravi abusi e non subirne le conseguenze. Un potere cresciuto nella cultura dell’impunità, per cui nessuno viene processato, tantomeno punito. Ed è proprio la cultura dell’impunità che deve essere sconfitta. Ed è anche per questo, oltre che per il sacrosanto diritto dei suoi familiari ad avere quel po’ di giustizia che possono ancora avere, che è importante conoscere la verità su Giulio Regeni. Per conservare intatta la speranza di raggiungere questo obiettivo, ognuno deve fare la sua parte. Noi faremo la nostra, lavorando affinché sulla vicenda non cali il silenzio, e chiedendo ai governi di fare la loro (non solo a quello italiano, a tutti i governi europei, perché solo un fronte europeo compatto può mettere in difficoltà le autorità egiziane e costringerle a collaborare). Nella consapevolezza che la battaglia per la verità su Giulio Regeni non è solo la battaglia per un nostro concittadino che ha subito una sorte terribile all’estero. È prima di tutto e soprattutto la battaglia per una persona, che ha subito la più grave delle violazioni dei suoi diritti di persona, che sono diritti di tutti, senza distinzioni di nazionalità. Una battaglia per i diritti umani, come hanno giustamente detto in piazza della Scala i suoi genitori e come gli arresti di massa degli ultimi giorni purtroppo confermano. La partita libica dell’Italia di Paolo Valentino Corriere della Sera, 27 aprile 2016 Ci sono due soli punti fermi, nell’ennesima, convulsa accelerazione che si registra intorno alla partita libica. Il primo è la richiesta, da parte delle Nazioni Unite, di un contingente internazionale a protezione dell’incolumità dei suoi inviati e della sua operatività a Tripoli: uomini scelti da un numero limitato di Paesi, con l’Italia probabilmente chiamata a fornire il contributo più significativo, dando così una prima sostanza alle sue ambizioni di leadership. Ed è questa la tessera più immediata del grande mosaico che con fatica va componendosi. L’altro punto, più significativo ancorché circondato di levantina ambiguità, è la richiesta del governo Serraj all’Onu, ai Paesi europei e a quelli africani confinanti, "di aiuti per proteggere le risorse petrolifere della Libia". Affidata a un comunicato del Consiglio presidenziale, ancora ieri sera non sembrava essere stata formalizzata in alcun documento ufficiale. Di più, sull’annuncio sembrava pesare anche una contingenza interna: esso è arrivato infatti proprio all’indomani della notizia che il famigerato generale Haftar, l’uomo di Al Sisi che controlla le milizie di Tobruk, ha appena ricevuto dai suoi sponsor un’importante fornitura di armi, munizioni e veicoli, che potrebbe servirgli non solo per un’offensiva contro le postazioni di Daesh a Sirte e Derna, ma anche per riprendere il controllo delle installazioni petrolifere dell’area, oggi difese dalle Guardie di Ibrahim Jadran, che hanno deciso di appoggiare Serraj. Ma anche facendo la tara di una mossa mirata a influenzare gli equilibri interni, la novità rimane: per la prima volta dall’inizio del travagliato processo per la stabilizzazione del Paese, un esecutivo pur fragile chiede l’appoggio della comunità internazionale su una questione esistenziale. Detto altrimenti, dà pienezza alla madre di tutte le condizioni poste per una eventuale azione esterna: una domanda dall’interno. Se questi sono i soli dati certi, il rovello è inevitabile: l’Italia che fa? Offrirà il suo contributo alla protezione di Martin Kobler e del suo staff? Sarà conseguente con le cose ripetute da mesi dai nostri ministri, secondo i quali solo al termine della successione "governo di unità nazionale-insediamento a Tripoli-richiesta alla comunità internazionale" ci sarebbero state le condizioni per imbastire una eventuale missione di stabilizzazione? Ha fatto bene nei mesi scorsi il presidente del Consiglio a mostrare cautela, ogni qual volta, a torto o a ragione, si sia registrata una fuga in avanti. E ha fatto bene a resistere, non ultimo al vertice di Venezia con il presidente francese Francois Hollande, le pulsioni guerresche di Parigi (o Londra) che spingevano a rompere gli indugi e ad agire in un teatro che presenta rischi enormi e letali. Oggi, pur con tutte le ambiguità del caso, siamo di fronte a un salto di qualità. Matteo Renzi ostenta ancora prudenza, anzi fa smentire con forza ogni ipotesi di intervento e ogni cifra in circolazione. Ma i piani contingenti esistono da mesi, è il lavoro di ogni apparato militare serio e preparato. Siano quelli per la protezione dei siti diplomatici o governativi, o quelli per l’addestramento e la formazione delle forze armate e di polizia della nuova Libia. Certo è irrinunciabile che un numero congruo di Paesi risponda alla domanda di protezione dell’Onu. Certo occorrerà verificare fino in fondo che la richiesta di Serraj sia veramente tale e non sia soltanto un ballon d’essai, volto a mettere un freno al bulimico Haftar. Certo sarà indispensabile rispettare tutti i passaggi necessari, quello parlamentare in primo luogo. Ma non c’è dubbio che una decisione sulla Libia non potrà essere procrastinata ancora per molto. Solo una piena assunzione di responsabilità può infatti dar sostanza alla rivendicazione di una leadership, che la Storia, la geografia e il nostro ruolo nel Mediterraneo legittimano. Gran Bretagna: uccide il pedofilo che abusò di lei. Il giudice: "Niente carcere" Il Mattino, 27 aprile 2016 Un giudice si è offerto di pagare di persona le spese processuali per una ragazzina di 15 anni colpevole di aver accoltellato e ucciso il pedofilo che abusò di lei quando era solo una bambina. Inoltre, Jonathan Durham Hall ha anche evitato che l’adolescente finisse in carcere, condannandola a due anni in un centro di riabilitazione per minori: "Sarebbe una disgrazia imperdonabile mandare una sopravvissuta come te in prigione", ha detto l’uomo. A motivare la decisione del giudice, la convinzione che la giustizia inglese fosse stata troppo tenera con il pedofilo che abusò della ragazza quando aveva solo otto anni: dopo essere stato arrestato, l’uomo ha scontato una pena di sei anni ed è tornato in libertà. Stessa convinzione che ha armato la mano della ragazzina: quando ha saputo che l’uomo che le aveva rovinato la vita era tornato in libertà non ha saputo resistere allo sdegno. Inoltre, il suo aguzzino si era anche fatto vivo per farle sapere che era tornato, così lei è andata a casa sua e non appena l’uomo ha aperto la porta gli ha piantato un coltello nella pancia dicendogli "Ho intenzione di ucciderti", poi lo ha finito tagliandogli la gola. Cuba: la Ccdhrn stima a 93 i detenuti politici presenti nelle carceri cubane di Silvia Bertoli tellusfolio.it, 27 aprile 2016 La "dissidente" Commissione cubana dei diritti umani e la riconciliazione nazionale (Ccdhrn) questo lunedì ha stimato a 93 il numero dei detenuti politici presenti sull’isola e ha denunciato che 21 di questi si trovano in carceri di alta sicurezza da periodi compresi tra i 13 ai 24 anni. La commissione, capeggiata dall’oppositore Elizardo Sánchez, ha divulgato lunedì 25 aprile una lista aggiornata di questi prigionieri, a cui si aggiungono 22 nomi che nella precedente stima resa nota a giugno dell’anno scorso dalla stessa Ccdhr non erano presenti, il che è da ritenersi un "ulteriore segnale del peggioramento" della situazione dei diritti civili e politici a Cuba. La Ccdhrn ripartisce questi prigionieri politici in quattro gruppi, in uno dei quali compaiono i nomi di 51 oppositori pacifici condannati o processati per il loro comportamento o per attività di contestazione. In un’altra sezione compaiono 27 condannati in Tribunali di Sicurezza dello Stato che hanno utilizzato armi o qualche forma di forza o di violenza, dei quali, secondo questo gruppo dissidente, sette sono sbarcati armati in tre piccole spedizioni provenienti dal sud della Florida, negli Stati Uniti, con l’intenzione di intraprendere azioni finalizzate a rovesciare il governo castrista. Nella lista compaiono inoltre quattro oppositori condannati per "altri crimini contro lo Stato", tre dei quali vecchi ufficiali dell’intelligence straniera del governo, tra cui Miguel Álvarez, che al momento dell’incarcerazione, secondo quanto messo in evidenza dalla Ccdhrn, era il braccio destro di Ricardo Alarcón, allora presidente del Parlamento Nazionale. La lista diffusa da Elizardo Sánchez include anche gli 11 vecchi detenuti politici scarcerati con un permesso speciale, una norma giuridica che mantiene in vigore fino a 25 anni le loro condanne, inflitte nella Primavera Nera del 2003. Secondo la Ccdhrn, almeno 26 prigionieri politici cubani hanno attualmente diritto ad avere la "libertà condizionale", come stabilisce il vigente codice penale. Il resoconto dichiara che è "molto difficile" elaborare una lista "esauriente" dei prigionieri politici dell’isola, in cui secondo i calcoli di questa commissione, la popolazione carceraria totale oscilla tra i 60.000 e i 70.000 detenuti. Viene anche criticato il fatto che il governo cubano rifiuti la cooperazione della Croce Rossa Internazionale, di altre Ong di difesa dei Diritti Umani e di organismi e specialisti delle Nazioni Unite per sottoporre a ispezione e migliorare le condizioni del proprio sistema carcerario, composto da circa 200 prigioni, di cui una sessantina di alta sicurezza, campi di lavoro e centri di ricovero. "Il governo insiste a dire che a Cuba non ci sono state né esistono detenzioni per motivi o condizionamenti politici, bensì detenuti controrivoluzionari e per normali crimini comuni: ora e allora, tale affermazione è semplicemente dubbia", assicura la Ccdhrn. Il portavoce del gruppo ricorda che la questione sull’esistenza dei prigionieri politici a Cuba è emersa lo scorso marzo in occasione della visita del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, quando, durante la conferenza stampa tenuta insieme a Raúl Castro, un giornalista straniero ha sottoposto l’argomento all’attenzione del governatore cubano. Raúl Castro aveva negato l’esistenza di questo tipo di prigionieri nel paese caraibico sfidando il giornalista a presentargli una lista di detenuti politici. Il Governo cubano considera i dissidenti "mercenari" e "controrivoluzionari".