Fine pena: quando non è più necessaria di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2016 - Lei non è abbastanza arrendevole, a quanto mi hanno detto. - Chi gliel’ha detto? - chiese K. (…) - Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può. Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo. (Franz Kafka, Il processo) Ho letto un articolo di Ferdinando Camon pubblicato su: "La Nuova Venezia" di mercoledì 13 aprile che mi ha fatto comprendere che sono un ergastolano senza scampo anche quando scrivo. L’autore di questo articolo mi rimprovera: "C’è un ergastolano a vita nel Veneto, Carmelo Musumeci, che scrive email, libri, e tempesta il mondo di messaggi: vuole uscire." Premesso che credo sia normale se un prigioniero cerca di uscire, in tutti i casi io lotto soprattutto per sapere quando finisce la mia pena. E penso di non far nulla di male se invio dalle sbarre della mia cella pensieri, emozioni e sogni. La cosa incredibile è che in questi venticinque anni di carcere in molti mi hanno chiesto di "farmi la galera" e di smettere di scrivere e di ululare alla luna. E me lo hanno chiesto sia le persone perbene sia molti uomini di Stato e anche alcuni mafiosi di spessore che mi hanno fatto sospettare che la pena dell’ergastolo serve anche a loro per non fare uscire dalle loro organizzazioni, fisicamente e culturalmente, i giovani ergastolani (perché lo dovrebbero fare se non hanno più nessun futuro). Gentile Ferdinando Camon, Le confido che alcune sue parole mi hanno profondamente ferito e riportato indietro di molti anni. Mi hanno fatto capire che mi devo rassegnare perché nonostante tutti i miei sforzi per alcuni rimarrò per sempre l’uomo del reato e secondo Lei, se ho capito bene, non potrei scrivere se non iniziando a parlare dei miei reati. A parte che io ho sempre condannato le mie scelte del passato devianti e criminali nei miei libri, nelle mie tesi di laurea e in tutti i mie contributi scritti, ma non credo che quando si parla della "Pena di Morte Viva" (o "mascherata" come la chiama papa Francesco) sia essenziale parlare delle proprie vicende giudiziarie. In tutti i casi la mia storia giudiziaria è semplice, lo dice la motivazione della Corte d’Assise che mi ha condannato alla pena dell’ergastolo, che, nonostante la grande differenza fra verità vera e quella processuale, ha stabilito: "In un regolamento di conti il Musumeci Carmelo è stato colpito da sei pallottole a bruciapelo, salvatosi per miracolo, in seguito si è vendicato". In molti casi come il mio non ci sono né vittime, né carnefici, né innocenti, né colpevoli, perché sia i vivi che i morti si sentivano in guerra. E quando ci si sente in guerra, al processo non ci si difende, si sta zitti e ci si affida alla Dea bendata. Non si maledice la buona o la cattiva sorte, anche se si pensa spesso che i morti sono stati più fortunati dei vivi se i vivi sono stati condannati all’ergastolo. Gentile Ferdinando Camon, Lei mi rimprovera anche di non avere mai collaborato e di non avere usato la giustizia per uscire dal carcere, ma io credo che un detenuto dovrebbe uscire dal carcere perché lo merita e non perché ci metta un altro al posto suo. E in tutti i casi non credo che sia una grave colpa accettare la propria condanna, giusta o sbagliata che sia. Poi dopo venticinque anni di carcere che cosa potrei dire o aggiungere a quello che i giudici hanno già stabilito nelle loro sentenze? Io penso che sia quasi impossibile rieducare una persona senza amarla, perdonarla e senza dirle quando finirà la sua pena. E tenere un uomo vivo dentro quattro mura, anche quando non è più necessario, senza neppure la compassione di ucciderlo è un assassinio peggio di quello per cui alcuni di noi siamo stati condannati. Mi creda l’ergastolo ostativo alla lunga ti mangia l’anima, il cuore e a volte anche l’amore, perché la vita senza una promessa di libertà non è una vita. Ci basterebbe un fine pena e poi potreste pure non farci più uscire perché che senso ha tenere in vita una persona se il suo ritorno alla società è impossibile? E come si fa a cambiare se non hai più futuro? Diciamoci la verità, la pena dell’ergastolo ostativo non è un deterrente, come non lo è la pena di morte negli Stati Uniti. Sono fortemente convinto che non ci sono ergastolani cattivi solo perché non collaborano con la giustizia, e mi creda in molti casi non lo fanno per omertà ma per motivi familiari (tutelare i propri figli) o personali. In tutti i casi penso che la pena dell’ergastolo non potrà mai essere giusta per nessuno, neppure per l’ergastolano che non s’è "convertito" … se persino nella Francia rivoluzionaria l’assemblea Costituente mantenne la pena capitale ma vietò le pene perpetue: fu così che nel codice penale del 28 settembre 1791 la pena più grave dopo la morte fu la pena di ventiquattro anni. Gentile Ferdinando Camon, credo che per non fare il male bisogna conoscere il bene e purtroppo molti di noi hanno conosciuto solo il male. Mi ricordo che da bambino quando la mia povera nonna mi portava nella piazzetta del paese e vedeva un uomo con la divisa, poteva essere anche un vigile, mi sussurrava "Stai attento … quello è l’uomo nero." Come potevo non crederle? Con questo però non cerco attenuanti perché sì, è vero, sotto un certo punto di vista sono nato colpevole, ma poi ho deciso io di diventarlo. Adesso mi auguro solo un giorno di poter avere la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene, perché la vera pena s’inizia a scontare fuori e quando sei cambiato. Sono anche convinto che non c’è migliore "vendetta" per la società che migliorare le persone, perché se si cambia ci si rende conto del male fatto, solo allora viene fuori il senso di colpa. E il senso di colpa è la più terribile delle pene, peggiore del carcere e dell’ergastolo senza scampo, per fortuna (o sfortuna) molti non lo sanno e preferiscono solo tenerci in carcere e buttare via le chiavi. Gentile Ferdinando Camon, le confido che le ho risposto non certo per farle cambiare idea, ma solo con lo scopo di metterle qualche dubbio. Buona vita. Un sorriso fra le sbarre. La voce del 25 aprile ci serve più che mai al di là delle zuffe di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 aprile 2016 È ormai il minuetto del 25 aprile. Una danza stucchevole e inutile, in cui tutti si agitano e restano sempre nello stesso posto, prigionieri dei loro tic ideologici; come un cattivo genio che andando va sempre da dove è venuto. Così il sindaco di Corsico che vieta "Bella Ciao", e i cretini che fischiano la brigata ebraica mettono in scena i soliti riflessi condizionati, ripresi dalla rete e dai social. L’errore di fondo è sempre lo stesso: la Resistenza è considerata solo una "cosa di sinistra": fazzoletti rossi e, appunto, "Bella Ciao". Si continua a ignorare che la Resistenza fu fatta da partigiani di ogni fede politica, oltre che da civili, donne, militari, internati in Germania, carabinieri, sacerdoti, suore, e appunto ebrei. Non è chiaro se dipenda dalla requisizione ideologica della memoria, o dalla gracilità culturale della destra antifascista. Ma di sicuro i veri nemici della Resistenza non sono i sindaci eccentrici o i disturbatori di professione. Sono l’ignoranza e l’oblio. Non tutti gli olandesi sono monarchici; eppure domani tutti scenderanno in strada con la maglietta arancione a festeggiare il compleanno del re. Non tutti i francesi si schierarono contro gli invasori nazisti, anzi; eppure su tutti i municipi di Francia campeggia l’appello del 18 giugno del generale De Gaulle. C’è un elemento di ipocrisia nelle celebrazioni delle varie identità nazionali? È possibile. Ma è meglio dell’arte italica del dividersi anche su ciò che dovrebbe essere ovvio. Hitler ebbe consenso autentico; ma oggi in Germania tracciare una svastica è reato. Lo sarebbe anche esaltare il Duce in Italia; eppure nella capitale il suo faccione e i suoi motti trionfano su ogni muro. Democrazia e libertà non sono mai scontate, né acquisite per sempre; e hanno ora formidabili avversari sia nel fondamentalismo islamico, sia nella crisi economica e morale che attraversa l’Europa e si è manifestata da ultimo in Austria. Anche per questo è importante ascoltare le voci dei resistenti, proprio ora che si vanno spegnendo una a una. Giustizia: Orlando media, misure avanti in Parlamento di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Matteo Renzi torna a ribadire il punto sul rapporto politica-magistratura dopo le ultime esternazioni del neo presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo ("i politici non hanno smesso di rubare, hanno solo smesso di vergognarsi"). E non ci sta a fare di tutta l’erba un fascio, come sembra fare Davigo mettendo tutti i politici o quasi nella categoria dei corrotti. "Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. E voglio vedere le sentenze" è la replica di Renzi. L’occasione per le precisazioni del premier è un’intervista a Repubblica. "Una politica forte non ha paura di una magistratura forte - è il ragionamento del presidente del Consiglio. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano". E ancora: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Questo è il compito dei magistrati - dice. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l’opposto di ciò che serve all’Italia". Un po’ a sorpresa, a dare una mano a Renzi è l’ex leader del Pd Pier Luigi Bersani. Da una parte Bersani ricorda che "la Costituzione impone che le funzioni pubbliche siano esercitate con disciplina e onore" e che "la politica deve essere capace di tenere le funzioni pubbliche al riparo dal disonore, con buone pratiche e buone leggi". Dall’altra però imputa a certa magistratura l’irresistibile "tentazione di "supplenza della politica". "Ciò dovrebbe suggerire a tutti - è la conclusione - di abbassare il tono delle parole e di alzare il tono dei fatti". Cerca di gettare acqua sul fuoco, riportando la discussione ai problemi veri della giustizia, il presidente del Senato Pietro Grasso. Che nella polemica Davigo-governo di questi giorni ravvisa una "dialettica utile perché pone i riflettori sul tema della giustizia". A partire dalla lotta alla corruzione e dall’accelerazione dei tempi della giustizia: "Io stesso ho cercato di sollecitare le forze politiche a fare andare avanti i disegni di legge che sono in Senato", ha aggiunto Grasso. Nei panni della colomba anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Dobbiamo evitare il conflitto con la magistratura e noi faremo di tutto per evitarlo". In settimana, forse già domani, sarà presentato in commissione al Senato il testo base di riforma del processo penale (incluse le intercettazioni), del sistema penitenziario e della prescrizione, che riunifica testi approvati alla Camera e fermi da mesi a Palazzo Madama. L’obiettivo del Pd è votare la legge entro l’estate (perché no, sottolinea qualcuno, entro le amministrative). Ma la strada è tutta in salita. Perché da un lato Ncd annuncia barricate se non verrà ammorbidito il testo, che aumenta la prescrizione in particolare per i reati contro la Pa, corruzione inclusa. Dall’altro i senatori della minoranza Pd fanno sapere che si metteranno di traverso se ci saranno cedimenti. "Va bene allargare la prescrizione, ma dando tempi certi tra una fase processuale e l’altra", è la linea di Renzi. Quanto alle intercettazioni, è Orlando a ricordare la direzione: "Il primo obiettivo è consentire un utilizzo più semplice per i reati contro la pubblica amministrazione, l’altro obiettivo è evitare un uso improprio delle informazioni che non hanno rilevanza penale". Orlando: "Daremo mezzi e risorse per processi più rapidi. Entro luglio la prescrizione" di Liana Milella La Repubblica, 26 aprile 2016 Intervista al ministro della Giustizia: "Davigo? Non c’è nessuna guerra con i magistrati. Sulle intercettazioni seguiremo le linee delle procure". Nuova guerra giudici e politica? "Assolutamente no, anche perché pregiudicherebbe i passi avanti che abbiamo compiuto finora". Davigo? "Un magistrato capace che spero sappia guidare l’Anm in una fase non semplice di cambiamento della magistratura". Il Guardasigilli Andrea Orlando cerca di spegnere i fuochi della polemica e promette "per l’estate la nuova legge sulla prescrizione". Sulle intercettazioni garantisce che "saranno rafforzate quelle per i reati contro la pubblica amministrazione" e che "non saranno limitate come strumento di indagine". Vanta i passi in avanti nella giustizia civile e sulla corruzione cita l’Onu: "Dicono che la nostra legge è buona". Lei era a Washington nello scorso week end, ma qui in Italia è esplosa l’ennesima guerra sulla giustizia. Pensa sia utile litigare sempre sulle stesse cose? "Un’intervista non fa una guerra e sappiamo che parlare male dei politici in un momento di crisi democratica è una tentazione facile in tutt’Europa e che può provocare consenso, non so se utile a individuare soluzioni. Noi vogliamo parlare di come rendere la giustizia più efficiente, la guerra non la vogliamo e faremo di tutto per evitarla ricercando il confronto. Attenderei comunque di vedere qual è l’effettiva posizione dell’Anm e cercherei di capire se ci sono le condizioni per proseguire un confronto che fino a qui è stato positivo, ha portato risultati importanti per il Paese, non per questo o quell’esecutivo, o per questa o quella giunta dell’Anm. Mi è parso che la discussione che ne è seguita mostri una pluralità di posizioni articolate, per cui alla fine conviene a tutti tornare al merito e stare al merito. Come invita a fareil direttore di Repubblica Calabresi e come da ultimo si è impegnato a fare Davigo". Il merito. È fatto di rimproveri reciproci sulle cose non fatte. Renzi chiede "sentenze rapide", i magistrati lamentano che non hanno i mezzi e la prescrizione uccide i processi. Chi ha ragione? "Si può essere tutti d’accordo su tre cose messe in fila. Che vanno cercati più mezzi come stiamo facendo, che vanno introdotti nuovi meccanismi processuali per rendere più rapido il processo e modificare il meccanismo della prescrizione, e che tra i diversi uffici ci sono performance diverse, a parità di leggi e risorse. Indicare cosa non funziona nei diversi uffici non significa negare gli altri tipi di intervento. Sennò non ci sarebbero percentuali così diverse sulla prescrizione, con uffici che ne hanno una prossima allo zero e realtà dove i numeri sono molto più alti". È rimasta negativamente famosa tra le toghe la battuta di Renzi sui "giudici fannulloni". Anche lei quindi dice che ci sono toghe più lente? "Questa discussione può funzionare meglio se stiamo ai numeri. I magistrati italiani, in media, lavorano più dei colleghi europei, ma spesso gli uffici sono organizzati in modo molto diverso. Queste differenze pesano tanto sulle performance del civile, quanto sul penale. Io rivendico il merito di aver costruito la banca dati che consente di misurare le differenze, e quindi di intervenire". Negli Usa le hanno fatto i complimenti perché l’Italia ha scalato 49 posizioni nella classifica di Doing Business. Ma un processo civile che dura 8 anni non è economicamente inaccettabile? "Penso sia abbastanza improbabile che un Paese con processi che duravano quasi 9 anni improvvisamente, nell’arco di un anno o due, abbia i più rapidi d’Europa. Ma se stiamo ai numeri scopriamo che, se proseguirà il trend di miglioramento che si è manifestato tra il 2013 e il 2014, cioè gli ultimi dati consolidati, nell’arco di 4-5 anni potremmo avere processi con tempi in linea con l’Europa e questo è dovuto all’importante lavoro di deflazione che ci ha portato da 6 milioni di cause pendenti a 4,2 e all’informatizzazione dei tre gradi di giudizio, che siamo gli unici ad aver fatto nella Ue". Perché l’impegno messo nel civile non c’è nel penale? Come spiega che la prescrizione, un testo varato a palazzo Chigi il 29 agosto 2014, non sia ancora legge? "Non è così. Questo è stato uno dei temi che più ha diviso la maggioranza, il Parlamento e l’opinione pubblica. I risultati nel civile ci sono stati perché la materia era ed è meno divisiva e perché si è potuto intervenire sotto il profilo organizzativo senza nuove norme, tant’è vero che la riforma organica del processo civile è in coda dietro a quella del processo penale che il Senato discute in questi giorni. Ma alcuni interventi di deflazione del processo penale sono stati realizzati". Sulla prescrizione le toghe vorrebbero uno stop definitivo dopo il rinvio a giudizio. La proposta del governo (blocco dopo il primo grado e 3 anni in più tra Appello e Cassazione) è troppo per Ncd. Come se ne esce? "Tenendo come riferimento ciò che è uscito dal Consiglio dei ministri e verificando quali possano essere le modifiche introdotte dal Parlamento sulle quali c’è il necessario consenso". Perché non avete tenuto conto delle proposte di Gratteri? "Su eco-reati, processo penale e beni confiscati il lavoro di Gratteri è stato tenuto in considerazione ed utilizzato". L’orologio dei tempi parlamentari segna quasi 602 giorni. Lei può fare una previsione di quando si chiuderà? "Sulla prescrizione credo sia ragionevole pensare di chiudere entro l’estate. Capisco la diffidenza, ma è la stessa che faceva scommettere molti sul fatto che falso in bilancio, auto-riciclaggio, estensione della responsabilità all’incaricato di pubblico servizio, sconti di pena per l’imputato che collabora, eco-reati, sarebbero tutti andati a finire in un nulla di fatto". La corruzione. Tema del tutto divisivo. Dice Davigo, i politici inquisiti non si vergognano, ribatte Renzi "faccia i nomi". "Per il lavoro che abbiamo da fare - noi vogliamo sconfiggere la corruzione tanto quanto Davigo - non mi avventurerei in complesse ricostruzioni storico sociologiche. Cercherei di capire se i meccanismi di prevenzione e di repressione funzionano. L’Onu ha certificato che la nostra legge anticorruzione attua le convenzioni internazionali. Ci sono altre cose da fare? Discutiamone, purché le idee e le priorità non cambino ogni sei mesi, altrimenti sarà difficile fare un’analisi obiettiva dell’efficacia degli strumenti e la discussione rischia di spostarsi più su quello che si presume che manchi che su quello che dobbiamo fare per far funzionare bene ciò che già c’è". Intercettazioni. Il premier lamenta una "barbarie giustizialista". Per le toghe gli ascolti sono fondamentali per le inchieste. La sua delega ostacolerà le inchieste e renderà impossibile pubblicare gli ascolti? "La delega rafforza la possibilità di ascolti per i reati contro la pubblica amministrazione e non li limita come strumento di indagine in nessun ambito. Si pone gli stessi obiettivi di diverse e importanti procure che hanno disciplinato l’utilizzo di quelle penalmente non rilevanti. Si tratta di procure che non credo abbiano fatto sconti a nessuno sul fronte della corruzione". Prescrizione lunga, lo scalpo di Renzi per la pace con i giudici di Errico Novi Il Dubbio, 26 aprile 2016 Governo pronto a trattare sulla durata dei processi, che aumenterebbe per i reati di corruzione. Davigo tira bordate "come nel suo stile", scrivono sulle mailing list i suoi più acerrimi avversari, i colleghi di Magistratura Indipendente. Ma tra le correnti dei giudici tutti sanno che l’ex pm di Mani pulite non è solo un fenomeno mediatico, è anche la punta dell’iceberg di un malumore diffuso nella "base" dei magistrati. Il che obbliga a questo punto a smorzare sì le asprezze del nuovo presidente dell’Anm, ma anche a portare dei risultati a casa. E in questo momento il dossier sul quale il mondo togato potrebbe trovare il punto di maggiore convergenza è la riforma della prescrizione. Lo ha fatto capire il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini nella sua intervista di domenica scorsa a In mezz’ora di Lucia Annunziata, su Rai 3: "Non è possibile che, nei processi, anni di lavoro vengano vanificati con il semplice decorso del tempo". È questa la partita politica destinata a sancire un nuovo punto di equilibrio tra il governo e i magistrati, ma non è una partita semplice. Innanzitutto per Renzi: sulla riforma della prescrizione, ferma in Senato dal lontano giugno 2015, c’è il forte dissenso del Nuovo centrodestra. In particolare sulle norme che riguardano i reati di corruzione: nel testo licenziato dalla Camera, per quelle sole fattispecie è previsto l’aumento della metà dei termini processuali. Termini che sono già stati dilatati dalla legge anticorruzione approvata un anno fa, dove si è intervenuti sulle pene massime dei reati - e i "massimi" costituiscono la base su cui si calcolano i tempi di prescrizione. Considerate le sospensioni dopo le condanne di primo e secondo grado, alcuni processi per corruzione durerebbero 4 lustri. Ipotesi considerata inaccettabile dagli alfaniani, che si fanno carico anche del dissenso dell’avvocatura penale. Renzi e il guardasigilli Orlando dovranno però a questo punto trovare un equilibrio tra la magistratura e gli alleati. Sui tempi del processo, la linea Davigo è infatti assai meno isolata, nell’Anm. Ieri Luca Palamara, togato del Csm per Unicost e tra i più perplessi per gli attacchi del presidente Anm, ha sì ribadito il proprio disappunto per "il gioco dell’oca che in questo Paese non finisce mai: si torna sempre al punto di inizio, cioè a Tangentopoli, vicenda cruciale nella storia giudiziaria in cui però i singoli avvisi di garanzia venivano utilizzati per finalità politiche". Ma ha anche aggiunto che, per quanto "determinate idee di Davigo possano non essere condivisibili, è necessario innanzitutto rivedere la disciplina della prescrizione". Che colpisce proprio lì, sui processi in materia di corruzione. Una riforma che avrebbe il formidabile potere di recepire parte delle posizioni di Davigo e di mettere d’accordo le altre correnti. A condizione che Renzi accetti di sacrificare qualcosa all’interno della propria alleanza. L’agenda che divide toghe (ma non tutte) e politici di Giulia Merlo Il Dubbio, 26 aprile 2016 I sei pomi della discordia sulla giustizia da riformare. La giustizia torna ad essere terreno di scontro, non più solo tra politica e magistratura, ma ora anche tra le varie anime interne alle toghe. I fronti caldi possono ridursi a sei: su alcuni, come le intercettazioni, infuriano le dichiarazioni; altri, uno su tutti la prescrizione, sono stati temporaneamente rimandati nell’agenda parlamentare. Tutti, però, minacciano di inasprire il dibattito pubblico. La prescrizione - La prescrizione è una causa di estinzione del reato e stabilisce il termine temporale entro il quale lo Stato più perseguire un determinato delitto. Si calcola a partire da quando il reato è commesso e l’ultima legge di modifica è stata - nel 2005 - la cosiddetta "ex Cirielli", che ha previsto l’estinzione del reato in un numero di anni "pari al massimo della pena edittale", ma mai inferiori a 6. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2014 si sono prescritti circa 123 mila processi. Il 70% delle prescrizioni, tuttavia, si determina nella fase delle indagini preliminari (e dunque non è riconducibile ad eventuale attività dilatoria della difesa). Il Governo Renzi ha proposto un nuovo ddl per allungare i tempi della prescrizione e prevede che il decorso dei termini si sospenda per due anni dopo la sentenza di primo grado e per un anno dopo quella di appello (solo se conforme). Approvato dalla Camera nel marzo 2015, il ddl ora è fermo in Commissione Giustizia al Senato a causa del mancato accordo con Ncd e probabilmente slitterà alla prossima legislatura. Anche le toghe chiedono la riforma dell’istituto, ma in modo più sostanziale: "fermandola al momento del rinvio a giudizio o, almeno, dopo la sentenza di primo grado", ha scritto il Csm nella nota di commento al ddl. "La prescrizione è indispensabile, ma fino al processo. È un’anomalia solo italiana che continui a decorrere anche dopo la condanna di primo grado", ha detto il presidente di Anm Piercamillo Davigo. Separazione delle carriere - La Costituzione prevede all’articolo 104 che la magistratura sia un unico ordine indipendente. Il tema della separazione tra magistratura requirente e magistratura giudicante si è posto dopo la riforma del 1988, quando si è passati da un processo di tipo inquisitorio a uno accusatorio. Il dibattito è stato animato negli anni Novanta dal giudice Giovanni Falcone, che parlava di due figure "strutturalmente differenziate nelle competenze e nelle carriere" e della necessità di una specifica formazione professionale per il pm, diversa da quella del giudice, "figura neutrale e al di sopra delle parti". L’ultimo tentativo di riforma risale al 2011, con il governo Berlusconi, bloccato dal suo stesso esecutivo. Per i contrari, infatti, sottoporre i pubblici ministeri al controllo dell’esecutivo significava minare l’indipendenza della magistratura rispetto al governo. Riforma dell’appello - Strettamente legato al tema della prescrizione, una parte della magistratura chiede di modificare la possibilità di ricorrere in appello. Per ridurre il carico delle Corti d’Appello, "Aboliamo il divieto di reformatio in peius della sentenza di primo grado, anche se l’appello viene proposto dall’imputato" ha proposto Davigo. Il giudice di secondo grado, infatti, non può infliggere una pena maggiore di quella di primo grado e per questo - secondo il presidente di Anm - il ricorso all’appello è così massiccio. Sulla stessa linea sono anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, che hanno addirittura proposto l’eliminazione dell’appello (inutile perché prevalentemente basato sulle carte del primo grado). Proposta, questa, bocciata senza riserva dagli avvocati dell’Unione Camere Penali. Carcerazione preventiva - Nel 2015 lo Stato a pagato 36 milioni di euro per risarcire le vittime di ingiusta detenzione, ogni anno sono 7mila le persone arrestate e poi giudicate innocenti. "La presunzione di innocenza non è un fatto interno al processo, come invece sostiene il giudice Davigo, ma un principio cardine del sistema", ha detto l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione della Camere penali. Per imporre uno stop alle "manette facili", il governo Renzi ha approvato nel 2015 la riforma delle misure cautelari, che rende la carcerazione preventiva extrema ratio e subordinato all’obbligo per il pm di dimostrare l’"attualità" del pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato. Inoltre, l’ordinanza del gip che dispone la misura cautelare deve essere motivata per esteso.. Responsabilità civile dei magistrati - Salutata come riforma epocale da Renzi, nel febbraio 2015 è stata approvata la riforma della vecchia legge Vassalli. Il cittadino che ha patito un danno da "malagiustizia" può esercitare l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato, che poi si rivale nei confronti del magistrato. Le toghe rispondono con lo stipendio netto annuo fino alla metà. Il risarcimento è totale, invece, se c’è stato dolo. La nuova legge ha poi eliminato il filtro sull’ammissibilità della domanda. Ridisegnati anche i confini della colpa grave: non solo per affermazione di fatto inesistente o negazione di fatto esistente, ma anche in caso di travisamento di fatto o prove ed emissione di provvedimento cautelare senza motivazione o fuori dai casi previsti. "L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Preoccupa però la mancanza di un filtro", è il commento di Piercamillo Davigo. La legge è stata definita "punitiva" da parte di Magistratura indipendente e non è piaciuta nemmeno al numero due del Csm, Legnini: "valuteremo che l’indipendenza e la serenità dei magistrati non siano incise". Intercettazioni - È il tema più controverso. Renzi ha prima parlato di riforme e poi fatto marcia indietro, ma al Senato è in esame il testo sulla pubblicabilità delle intercettazioni approvato dalla Camera in settembre. "Bisogna tenere insieme il diritto di effettuare le indagini, il diritto di difendersi, la riservatezza di informazioni non necessarie a fornire il quadro probatorio e il diritto all’informazione", ha detto la ministra Maria Elena Boschi. Il dibattito divide, però, soprattutto le toghe. Da una parte ci sono i procuratori di Torino, Napoli, Milano, Roma e Firenze che hanno emanato delle "linee guida" che vietano alla polizia giudiziaria, che materialmente ascolta le telefonate, di trascrivere le conversazioni non penalmente rilevanti. In questo modo, le informazioni non rilevanti non possono venire allegate dai pm alle richieste di misure cautelari (e dunque finire ai giornali). Dall’altra il fronte più giustizialista guidato da Davigo, che ha liquidato il problema: "Le intercettazioni non vanno toccate. La pubblicazione di quelle non pertinenti è già vietata dalla legge penale, nel caso si inasprisca la pena per la diffamazione". Anm, rivolta contro Davigo. "Correggi o salta tutto" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 aprile 2016 "Magistratura Indipendente" pronta a lasciare la giunta. Mal di pancia anche in Md. È stata una prova di tenuta. Piercamillo Davigo ha spinto oltre ogni previsione il limite della polemica tra magistratura e politica. E adesso all’interno dell’Anm di cui è presidente da poco più di due settimane, l’aria si è fatta molto tesa. Al punto che una delle componenti, quella di Magistratura Indipendente, potrebbe rompere il patto e uscire dalla giunta. È questo l’esito di alcuni giorni vissuti ad alta tensione, culminati con l’intervista rilasciata da Davigo al Corriere della Sera venerdì scorso. I toni hanno creato malumore ai vertici di tutte le correnti. Soprattutto in MI. E lo si vedrà domani, alla prima riunione di giunta dopo le elezioni. I delegati del gruppo considerato "di centrodestra" diranno all’ex pm di Mani pulite che se non cambierà lo stile dato a questi primi giorni di presidenza, si vedranno costretti a ritirarsi dall’organismo. Vorrebbe dire la fine prematura della grande coalizione formatasi al vertice del sindacato delle toghe. In realtà il dissenso si percepisce anche negli altri gruppi che con quello di Davigo, Autonomia e Indipendenza, formano l’inedita alleanza a quattro, ovvero Unicost e Area. In Magistratura Indipendente però il protagonismo del nuovo presidente è ancora più difficile da sopportare: è proprio da lì, infatti, che il gruppo di Davigo si è generato per scissione. Già nel Comitato direttivo centrale da cui Davigo è stato eletto per acclamazione, i delegati di MI si erano battuti fino all’ultimo per una soluzione diversa. Il momento è molto delicato, il Csm sta procedendo spedito nelle nomine dei capi degli uffici giudiziari, a partire dalla scelta del futuro procuratore di Milano. Dopo le dure parole pronunciate da Davigo venerdì scorso è dovuto scendere personalmente in campo il vicepresidente Giovanni Legnini. Ha provato anche lui a dissuadere Davigo dalla sua pesante mediatica. Molto critiche anche le dichiarazioni di Anna Canepa, segretaria di Md, storica componente "di sinistra" riunita con Movimenti nel cartello di "Area", e di Unicost, che si è dissociata per voce del consigliere Csm Luca Palamara. Difficile aderire alla sequenza di interviste rilasciate da Davigo sui suoi argomenti preferiti: prescrizione, politici corrotti, intercettazioni telefoniche. Una campagna a cui è corrisposta una certa delusione da parte dei fautori della Giunta unitaria, concepita per dare piena rappresentanza a tutte le correnti, mediante il sistema della rotazione degli incarichi, che avevano visto in Davigo il miglior presidente delle toghe in questo momento. L’idea dell’unità è naufragata. È emerso lo scontro in atto fra le anime della magistratura: da una parte quella un po’ reazionaria e movimentista, legata a un passato ricco di suggestioni, che si considera dai tempi di Tangentopoli investita di una missione salvifica, la battaglia contro una politica corrotta a prescindere; dall’altra quella silenziosa, la maggioranza, composta da magistrati che lavorano lontano dai riflettori, più attenti alle rivendicazioni sindacali che non alle prime pagine dei giornali. Da alcuni esponenti di MI, dunque, è partita l’idea di chiedere a Davigo un netto cambio di passo. Troppo divisiva la sua figura: ne è dimostrazione anche il significativo numero di magistrati che in questi giorni hanno espresso il desiderio di cancellarsi dall’Anm. Con un problema non da poco: l’iscritto all’Anm che volesse andarsene in dissenso con la linea di Davigo, non potrebbe. Per un motivo molto concreto. La polizza assicurativa per la responsabilità civile. Che è stata stipulata proprio in virtù della convenzione Anm e che perderebbe di validità lasciando il magistrato in balia delle cause risarcitorie. Il dibattito sulla giustizia monopolizzato dalle toghe di Errico Novi Il Dubbio, 26 aprile 2016 Da Maddalena a Roberti, cinque giorni di interviste a raffica rilasciate dai magistrati. Non c’è alcun armistizio. Al massimo si scavano trincee, in attesa di capire se la guerra tra politica e magistratura ci sarà davvero e quanto sarà lunga. Matteo Renzi non risponde a Piercamillo Davigo con la stessa intensità di fuoco, ma traccia la linea oltre la quale le toghe non dovrebbero spingersi. Il premier ha parlato ieri attraverso l’intervista rilasciata a Repubblica. A proposito dei partiti che, secondo l’ex pm di Mani pulite, rubano più di prima, Renzi dichiara: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Questo è il compito dei magistrati, cui auguriamo rispettosamente di cuore buon lavoro. Dire che tutti sono colpevoli significa però dire che nessuno è colpevole. Esattamente l’opposto di ciò che serve all’Italia. Voglio nomi e cognomi. E voglio vedere le sentenze". A Claudio Tito che gli chiede se le parole di Davigo rappresentino un’invasione di campo, il presidente del Consiglio risponde di no e aggiunge: "Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità". Quella di Renzi non sarà l’ultima parola. Può darsi che tra toghe e governo non si consumi un vero conflitto ma il confronto sarà teso. Lo dimostra l’elevato numero di interviste concesse negli ultimi cinque giorni da magistrati di primissimo piano. A inaugurare la serie è stato appunto Piercamillo Davigo. Queste le frasi più dure della suia intervista di venerdì scorso ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Sui politici: "Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi". La corruzione attuale paragonata a quella di Tangentopoli "è peggio", anche se "si ruba in modo meno organizzato: tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei". Ce n’è anche per Cantone: "Scoprire i corrotti attraverso gli agenti provocatori? Lo diceva anche lui, ora ha smesso di dirlo. Lo capisco. Non aggiungo altro". Sui colleghi in Parlamento (o al governo): "Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica: sono scelti secondo il criterio di competenza, e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza". Nei giorni a seguire il dibattito ha continuato a essere egemonizzato dalle toghe. Sabato si comincia con Edmondo Bruti Liberati, su Repubblica: "Non esiste una magistratura buona contro un’Italia cattiva, vederla così è in linea di principio sbagliato". Gli fa eco un altro pm poco entusiasta della linea Davigo, il suo predecessore alla guida dell’Anm Luca Palamara: "È ovvio che siamo contro i ladri e la lotta alla corruzione è la priorità, ma guai a farsi trascinare nuovamente nello scontro tra politica e magistratura". Palamara è presidente di commissione al Csm. Come Piergiorgio Morosini, che prende la parola il giorno dopo, sul Corriere: "Davigo va rispettato anche se non si condivide tutto ciò che dice. Ha voluto porre l’attenzione sulla diffusione del malaffare". Sulle riforme di Renzi: "Alcuni profili andrebbero migliorati. Penso alla riforma della prescrizione e alle risorse". Nicola Gratteri è più netto: "Abbattere i tempi del processo? Forse, per questo tema così delicato, Renzi non ha i numeri in Parlamento", dichiara al Fatto. Sulla stessa linea il pm del processo Stato-mafia Nino Di Matteo (a Repubblica): "Mafia e corruzione sono ormai facce della stessa medaglia, ma mentre i boss sono adeguatamente puniti, i corrotti che vanno a braccetto con i padrini sono garantiti da una sostanziale impunità". I giudici dialoganti lasciano posto a quelli più intransigenti, come Marcello Maddalena, della stessa corrente di Davigo. Lo interpella La Stampa: "Non vorrei vivere in un Paese in cui non possa esservi mai tensione tra potere politico e giudiziario". Chi prende le distanze è Anna Canepa, segretaria di Md: "Ha fatto una campagna elettorale di rottura, ma ora che è presidente non può parlare per proprio conto". E siamo arrivati a ieri, giornata in cui non manca un magistrato a far da contraltare a Renzi: è Franco Roberti, procuratore Antimafia: "Sulla sostanza i magistrati sono quasi tutti con Davigo. A cominciare dalle leggi per far funzionare i processi, che non arrivano". Il dibattito è tutto in toga. E più fuori che dentro al Parlamento. Nello scavare la sua trincea, Renzi dovrebbe tenerne conto. Md: dagli a Davigo e si dimentica Renzi di Rita Sanlorenzo* Il Manifesto, 26 aprile 2016 Raggiunge immediatamente l’effetto voluto Piercamillo Davigo con la raffica di dichiarazioni dei suoi primi giorni da presidente dell’Anm, e costringe tutti a misurarsi ancora sul tema del rapporto tra magistratura e politica, che dopo una fase carsica si mostra sempre pronto a riesplodere in tutta la sua drammatica centralità. Non è stato Davigo però a rompere la pace apparente, gli va dato atto. Sono state le reazioni del capo del governo alle indagini di Potenza e soprattutto la dichiarata intenzione di mettere mano alla disciplina sulle intercettazioni, sulla cui riforma l’esecutivo intende farsi rilasciare una delega quanto più ampia (e pericolosa). Ora, è certo che Davigo in questa sua sovraesposizione mediatica vuole parlare alla politica: sembra anche che un qualche effetto sia da riconoscergli, visto che il premier nelle sue ultime interviste dice che le intercettazioni non sono più nel raggio di intervento del suo governo. È probabile che di qui in avanti il presidente del Consiglio quando parlerà dell’Anm eviterà finalmente il motteggio ed il sarcasmo (quel "brr, che paura…" dovrebbe ancora bruciare sulla pelle di tutta la magistratura associata), speriamo per dedicarsi con più solerzia alle indifferibili riforme del processo penale, scientificamente sabotato nella sua funzionalità dai tanti interventi legislativi che negli anni si sono succeduti. È evidente però che Davigo si sta servendo della potente tribuna di cui dispone per rivolgersi innanzitutto ai magistrati, puntando a rafforzare il successo che le elezioni associative gli hanno attribuito, cavalcando le troppe contraddizioni che hanno contraddistinto l’atteggiamento della magistratura, ed anzi contribuendo a mettere in luce le evidenti mutazioni nel più generale rapportarsi al potere in carica. Non sembra avvertire il pericolo Anna Canepa, segretaria di Magistratura democratica, che nella sua intervista al manifesto (domenica, 24 aprile) più che di dar torto a Davigo sembra preoccuparsi di fornire sostegno al governo. Sia chiaro, sono tutte da sottoscrivere le sue affermazioni a proposito dell’inaccettabilità della concezione panpenalista di Davigo, e della sua fede malriposta nella capacità moralizzatrice del processo. Ma davvero sono sufficienti gli esiti degli stati generali dell’esecuzione penale per promuovere l’azione governativa in tema di carcere e di giustizia penale? Lo scandalo del blocco della riforma della prescrizione si aggiunge alla inerzia nel campo delle misure che necessitano alla giustizia penale per riprendere efficacia e sostanziale equità, mentre sul piano più generale delle scelte di politica repressiva resta, a tacer d’altro, il macigno del mantenimento del reato di immigrazione clandestina, dietro l’alibi della possibile risposta contraria della opinione pubblica. Più in generale, un gruppo associato che si definisce ancora "di sinistra" non può ignorare, nel prendere partito, lo scempio posto in essere da questo governo nel campo dei diritti sociali e del lavoro, precarizzato ed impoverito dal brutale spostamento del baricentro del potere regolatore in favore della parte datoriale, con la ovvia marginalizzazione del ruolo equilibratore del giudice. Anche questo è andato a comporre la politica giudiziaria del governo Renzi, eppure si tende a dimenticarlo. E sempre questo è il governo che ha messo mano alla Costituzione, con una riforma che verrà sottoposta a referendum confermativo su cui anche Md si è schierata per il No. Soprattutto, per contrapporre, giustamente, a Davigo una visione meno corporativa e autoassolutoria di quella che lui difende ed incarna, il punto si tiene non certo assumendo posizioni smaccatamente filogovernative, ma piuttosto riscoprendo la sana critica dall’interno, non solo rispetto alla giurisprudenza, ma anche contro l’evidente riallineamento dietro lo scudo della politica per le scelte "pesanti" nelle nomine dei capi degli uffici. Una discussione urgente dovrebbe iniziarsi ad esempio sull’orientamento dei componenti laici del Csm per il candidato alla procura di Milano che attualmente ricopre un incarico fiduciario quale quello di capo di gabinetto del ministro della giustizia Orlando. Indipendentemente dal valore della persona, che non si discute, una proposta del genere avrebbe provocato in altri tempi reazioni di cui non si vede traccia. Per quel rilancio dell’azione di Md che oggi si auspica, è proprio di Davigo che si deve parlare? *L’autrice è stata segretaria di Magistratura democratica dal 2007 al 2010 La polemica isola Orlando, toghe "di sinistra" in allarme di Errico Novi Il Dubbio, 26 aprile 2016 Non solo le toghe "di centrodestra": anche la corrente storica dei giudici di "sinistra", Magistratura Democratica, ha accolto con sconcerto le scorribande mediatiche del nuovo presidente dell’Anm. La segretaria Anna Canepa si è espressa senza mezzi termini in un’intervista pubblicata due giorni fa dal manifesto: "La sua visione del carcere è lontanissima dalla nostra: è un tema sul quale sono state recepite molte nostre proposte", ha detto per esempio Canepa. Il gruppo da cui provengono i due maggiori candidati alla guida della Procura di Milano, Francesco Greco e Alberto Nobili, ritiene che la visione "pan penalistica" di Davigo "non rappresenti certo un sentire condiviso di tutta la magistratura italiana". Da parte di Md ma anche dei centristi di Unicost c’è stata in questi due anni un’assidua ricerca del dialogo con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Al cartello di "Area", costituito da Md e Movimenti, fa riferimento tra l’altro Giovanni Melillo, capo di gabinetto del guardasigilli. Su Orlando, Md e Unicost puntano per arrivare a cogliere qualche risultato in tema di riforme. In particolare su nodi come la prescrizione e le impugnazioni, ma anche sulle carceri. La strategia di Davigo, improntata alla polemica frontale, rischia di mettere un po’ fuori gioco proprio il ministro della Giustizia, figura che preferisce i toni misurati e il confronto nel merito. L’unico possibile contraltare di una campagna martellante da parte dell’ex pm di Mani pulite resterebbe Matteo Renzi. Non è una prospettiva gradita ai giudici e ai pm di centrosinistra. Sui dossier della giustizia penale, ci sono distanze tra Renzi e Orlando, in particolare sugli interventi in materia di ordinamento penitenziario. Un campo di battaglia arroventato renderebbe impraticabili le misure maturate negli Stati generali e sulle quali il guardasigilli dovrà condurre una faticosa moral suasion con il premier. Con un dibattito esasperato sulla giustizia, quella battaglia sarebbe anzi persa in partenza. E a Md e Unicost la prospettiva non piace affatto. L’illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 aprile 2016 In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni - non tutte necessariamente malvagie - ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta - assai più spesso di quanto si creda - ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato. Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare. Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente. Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario. A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione. Da quanto tempo è in questo modo - attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche - che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta "buona borghesia") apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni - non tutte necessariamente malvagie - ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi. Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi. Renzi dovrebbe partire da Milano per curare il giustizialismo del suo Pd di Maurizio Crippa Il Foglio, 26 aprile 2016 La subalternità ai pm è finita? Il caso di una sinistra pulita ma sottomessa e il candidato di destra ma più renziano. "Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità". Se Matteo Renzi volesse saggiare la tenuta politica di questa sua perentoria e condivisibile affermazione, con cui ha risposto alle intemerate di Piercamillo Davigo, dovrebbe forse trovare il tempo di passare da Milano. Non perché Milano è la città di Davigo, o perché vi stia succedendo chissà cosa. Ma per rendersi conto di dove stia il punto di debolezza della politica rispetto allo schema giustizialista. E accorgersi, magari, che quella debolezza alligna prima di tutto in parte del suo partito e nella sua sponda di sinistra. A Milano ha un buon candidato, Beppe Sala, curiosamente sotto schiaffo para-giustizialista proprio da parte della sinistra che lo bombarda sui conti dell’Expo (niente di minimamente penale: ma basta urlare), e che invece di difendersi politicamente finisce con l’innervosirsi. Però il Pd ha anche un capolista, Pierfrancesco Majorino, che anziché stare con Renzi plaude alle idee di Davigo. E Sala ha un amico e grande sostenitore come Umberto Ambrosoli, capo del Pd in regione, che su Twitter la pensa come Mario Calabresi sulla necessità di lasciar fare le riforme ai giudici. È la paranoia del controllo di legalità. Invece, dall’altra parte, c’è un candidato come Stefano Parisi che, intervistato dall’Huffington Post sulla questione dei candidati "certificati antimafia", risponde: "La questione morale c’è, ma non si risolve certo portando le liste a vidimare da Rosy Bindi. Non se ne parla proprio. Le liste le garantiamo noi, e mettiamo persone che conosciamo e di cui ci fidiamo e che non hanno commesso reati. Quando la politica si presta a questo tipo di atti dimostrativi sulla corruzione abdica al proprio ruolo di garanzia verso i cittadini". A Milano la politica - intesa come responsabilità di decidere e fare - ha pagato negli anni passati un tributo grave agli eccessi giustizialisti. Ma, soprattutto, li ha pagati la sinistra. Ieri, commentando con la Stampa il dato impressionante sulla quantità di persone giudicate innocenti dopo essere state arrestate, Filippo Penati diceva: "Dentro il Pd c’è ancora ambiguità. Per esempio, quando sento Majorino dire che Davigo è stato sopra le righe, ma non bisogna prendersela con lui, basta che non si rubi. Che vuol dire? Che non si vuole dispiacere il populismo giustizialista?". Penati, ex sindaco di Sesto, presidente di provincia e braccio destro del segretario Pier Luigi Bersani, è autorizzato a parlare: ha subìto un’indagine di quattro anni e un processo di tre, si è sentito definire "delinquente abituale" prima di essere assolto "perché il fatto non sussiste". Il fatto inteso come "il sistema Sesto", il consueto schema monstre attraverso cui i pm corroborano le indagini. Dunque, quando sente Davigo dire che i politici "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi" si risente, ma forse anche più quando nota che questo tipo di cultura è ancora dentro al Pd. Il Pd che lo espulse sulla base di un avviso di garanzia. E Bersani? "Non ha potuto arginare l’ipocrisia del Pd". Riuscirà ad arginarla Renzi? La giunta uscente in cui sedeva Majorino ha fatto della legalità un fiore all’occhiello, e ha fatto un percorso quasi netto. Bene, anche se forse l’unico vero obiettivo raggiunto. Ma comunque la si guardi, con quella buona "eredità Pisapia" alle spalle, la prima delle preoccupazioni del Pd non dovrebbe essere quella di dare ragione a Davigo, ma piuttosto quella di rivendicare per sé la regola di farsi giudicare solo dagli elettori. Paradossalmente, Renzi trova in Parisi - che fu ingiustamente lambito da un’altra indagine-monstre, la Fastweb-Telecom Italia-Sparkle - una sponda più attrezzata a capire le sue ragioni. Anche se, in materia, la confusione regna pure nel centrodestra. Ieri Jole Santelli, coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria, ha scritto a Rosy Bindi, chiedendole di vidimare tutti i candidati della sua regione per le prossime elezioni. Con quelle liste di proscrizione preventiva che Parisi invece rifiuta, e in base alle quali Vincenzo De Luca in Campania non avrebbe neppure dovuto candidarsi. Alla domanda "vede in arrivo una nuova stagione di conflitto tra politica e giustizia?", Parisi ha risposto: "Spero proprio di no. E comunque oggi l’epicentro non sarebbe più Milano, ma Roma e la Toscana. Gli epicentri si spostano col mutare dei leader. È strano questo paese". Forse sì. "Botte, ricatti, torture: quelli ti levano la vita". I due pentiti di Ostia fanno tremare il clan di Attilio Bolzoni La Repubblica, 26 aprile 2016 I testimoni Michael e Tamara, marito e moglie, hanno raccontato la città ostaggio dei nuovi mafiosi, la famiglia Spada. Un "inferno in terra" a un passo dalla Capitale. Su una piccola strada di Ostia che chiamano "la vietta" si spalancano le porte dell’inferno in terra. Sono due ragazzi che ce l’hanno fatto conoscere, Michael e Tamara. Marito e moglie, tutti e due pentiti. A meno di trenta chilometri dal Campidoglio, in via Antonio Forni - "la vietta" - c’è un mondo ai confini del mondo dove tiranneggiano gli Spada, miserabile tribù criminale imparentata con i Casamonica e acquartierata fra la famigerata piazza Gasparri e quell’Idroscalo dove nel marzo del ‘75 uccisero Pasolini. Gli Spada, zingari che sono diventati mafiosi in una città nella città soffocata dalla paura. Comincia così, l’11 gennaio del 2016, la confessione di Michael Cardoni, ventisei anni, vedetta e spacciatore per conto di uno dei clan di Ostia: "Per me è giusto quello che sto facendo, perché quelli ti levano la vita, ti levano tutta la vita". Sua moglie Tamara Ianni, ventisette anni, aveva iniziato a parlare tre settimane prima: "Picchiavano sempre mio marito, lui lo volevano morto e io che mi prostituissi per loro, minacciavano di contagiarmi l’Aids, ci stavano portando via la casa". E non solo quella. Michael e Tamara hanno due bimbi, il primogenito porta lo stesso nome di battesimo dello zio di Michael che era Galleoni detto "Baficchio", uno dei discendenti della Banda della Magliana ucciso a Ostia il 22 novembre del 2011. Nelle loro superstizioni zingaresche, gli Spada lo hanno sempre ritenuto la reincarnazione del boss. Per loro era un’ossessione. Prima o poi sarebbe toccata anche al piccolo. L’incubo di Michael e di Tamara inizia proprio con la morte di Galleoni, steso sempre in quella via Forni insieme al suo amico Francesco Antonini "Sorcanera". È l’agguato che in un’Ostia già chiusa dal suo lungomuro che nasconde il mare e prigioniera di un Municipio che poi sarà sciolto per mafia, segna la scalata degli Spada. I capi dei Fasciani sono in carcere, i Triassi messi fuori gioco dalla concorrenza, gli zingari si sentono padroni. E da quel momento per i "Baficchi" e le "Baficchie" - così, maschi e femmine, vengono identificati gli aderenti a quella famiglia - è la fine. Le minacce si trasformano in pestaggi, gli avvertimenti in raid notturni punitivi, gli Spada non si sarebbero più fermati se Michael e Tamara non avessero deciso di collaborare con i carabinieri e con il sostituto procuratore della repubblica Ilaria Calò. I seviziatori sono tutti finiti in carcere una decina di giorni fa per una quarantina di attentati, incendi ai chioschi, danneggiamenti agli stabilimenti balneari con lancio di granate da guerra. Governavano anche il commercio delle case popolari occupate abusivamente nella "vietta": decidevano loro chi ci doveva abitare e chi doveva andarsene. Ottavio Spada detto "Marco", Maria Dora Spada detta "Bella", Enrico Spada detto "Pelè", Silvano Spada detto "Silvio", Nando De Silvio detto "Focanera", Massimo Massimiani detto "Lelli". Ecco cosa hanno raccontato Tamara e Michael. Tamara: "Una notte si sono presentati sotto casa mia venti zingari, alla loro testa c’era Massimiliano Spada e suo suocero Enrico Spada conosciuto come Pelè, il primo aveva una pistola e il secondo un coltello... Ricordo che Pelè, notoriamente sieropositivo, faceva il gesto di sputarmi minacciandomi di infettarmi". Tamara è riuscita a riprendere la scena con un cellulare che ha consegnato ai carabinieri. Gli zingari erano andati là per annunciare che quella casa se la volevano prendere. Michael: "Ottavio Spada e Massimo Massimiani, che ho incontrato al bar Music di Ostia, volevano costringerci ad andare via e mi hanno detto: "Se rifiuti esci fuori da casa tua con le gambe verso la porta", esci da morto capito?". Tamara: "Massimiani mi ha costretto a seguirlo nella spiaggia e mi ha detto che se mi fossi messa al suo servizio mi avrebbe garantito la sua protezione, che avrei dovuto avere rapporti sessuali con lui, che avrei dovuto fare la prostituta e consegnargli i soldi". Dopo mesi di crudeltà Michael non ce la fa più e avverte suo padre Massimo. Tamara: "Mio suocero cercò "Lelli" Massimiani e gli disse che non avrebbe più dovuto prendersela con il figlio...La sera stessa "Lelli" mi diceva che si sarebbe vendicato per l’affronto subito". Il giorno dopo, il 22 ottobre del 2015, Massimo Cardoni viene gambizzato. Micheal e Tamara ormai sono soli. L’ultima "proposta" arriva da Nando De Silvio, il "Focanera". Ricorda Tamara: "Voleva il nostro appartamento in cambio di mezzo etto di coca". Dalle confessioni dei due ragazzi riaffiora un passato da brividi. È sempre la "vietta" il centro delle loro testimonianze. Lì, in un garage insonorizzato con la gomma piuma, c’era una "stanza delle torture". E lì che lo zio di Michael, Galleoni, "interrogava" i suoi nemici. Tamara: "So che una volta portò in quella stanza "Lelli", che fino ad allora era stato un suo alleato ma che era passato con gli Spada. "Lelli" fu ferito da un proiettile però riuscì a fuggire". I tempi erano già cambiati. E non bastava più un solo cenno di Galleoni, evocato ancora oggi dai suoi familiari come "la leggenda", per fermare chi voleva conquistare Ostia. Gli Spada erano già arrivati. Virus-spia nei computer degli indagati, i "paletti" del Pg di Cassazione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Le intercettazioni effettuate mediante Trojan horse possono essere utilizzate pienamente come prova, ma solo nei processi di mafia e terrorismo, non in quelli per reati che non rientrano nella categoria della criminalità organizzata. È questa, in estrema sintesi, la posizione che sosterrà giovedì mattina, davanti alle sezioni unite della Cassazione, la Procura generale della suprema Corte, nell’udienza destinata a stabilire l’utilizzabilità o meno del materiale intercettato tramite virus informatico installato su pc, tablet, smartphone, capace di videoregistrare ogni istante della vita privata e di relazione della persona, ovunque sia. Un "cavallo di Troia" strategico per penetrare nel fortino di una criminalità sempre più tecnologicamente avanzata, ma micidiale per la sua invadenza nella vita privata. Dopo l’autoregolamentazione delle Procure sulle intercettazioni, anche alle sezioni unite toccherà quindi una sorta di autoregolamentazione, nell’ambito della cornice normativa esistente e in attesa di eventuali interventi del legislatore. Peraltro, l’appuntamento (anticipato dal Sole 24 ore del 26 marzo scorso) è importantissimo anche nell’ambito del dibattito sulle intercettazioni e sul bilanciamento tra esigenze delle indagini, tutela della privacy e diritto di informazione. Una settimana fa, nel corso di un’intervista pubblica a La Spezia, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha detto che "il governo aspetta la decisione delle sezioni unite con grande attenzione. Purtroppo - ha aggiunto - ci siamo abituati ad affrontare il tema delle garanzie in modo sbagliato, pensando che riguardi sempre altri, i politici, i terroristi, e mai noi come singoli. In realtà, se guardiamo agli strumenti che la tecnologia offre e alla loro pervasività, scopriamo che non mettere dei limiti al loro utilizzo, non espone solo i politici o i terroristi, ma tutti, perché questi strumenti sono così forti da tenere sotto controllo una dimensione di massa. È un problema che riguarda i poteri dello Stato ma anche i soggetti privati". Il ddl delega sul processo penale, nella parte sulle intercettazioni, non tocca anche questo aspetto ma prevede, ricorda Orlando, una semplificazione della procedura di autorizzazione delle intercettazioni sulla falsariga di quanto previsto per la criminalità organizzata. Lì, quindi, potrebbero essere innestate le norme sul Trojan. L’udienza delle sezioni unite nasce da una richiesta di intervento della VI sezione penale che, con l’ordinanza n. 59 del 10 marzo 2016 (si veda Il Sole 24 ore del 9 aprile), ha preso le distanze da un precedente contrario all’uso come prova delle captazioni effettuate tramite virus informatico. La VI sezione ha sottoposto quindi tre questioni alle sezioni unite: se il decreto che dispone l’intercettazione mediante Trojan debba indicare anche i luoghi della captazione, pena la sua inutilizzabilità; se in mancanza di questa indicazione, l’eventuale inutilizzabilità colpisca soltanto le captazioni avvenute "nei luoghi di privata dimora" in cui non sia in corso un’attività criminosa; e infine, se nei procedimenti di criminalità organizzata l’intercettazione tramite virus informatico possa essere autorizzata a prescindere dall’indicazione dei luoghi. Il processo da cui è nata la richiesta della VI sezione penale riguardava un caso di criminalità organizzata. In quell’occasione la Procura, rappresentata dall’Avvocato generale Nello Rossi, ha escluso che vi siano impedimenti normativi al pieno utilizzo come prova delle conversazioni intercettate tramite Trojan, trattandosi appunto di un processo per mafia. È dunque presumibile che giovedì Rossi confermi questa tesi, peraltro discussa, non senza contrasti, nell’Ufficio guidato da Pasquale Ciccolo e confluita nella requisitoria scritta già depositata. Sì, dunque, al pieno utilizzo del Trojan nei processi di mafia e terrorismo, senza che il giudice debba preventivamebte indicare i luoghi della captazione. E su questo punto, secondo indiscrezioni che circolano al Palazzaccio, potrebbe esserci anche un via libera delle sezioni unite, superando quindi il precedente contrario del 2015 (sentenza n. 27100). Più incerta la situazione per gli altri reati. La Procura - sempre in base all’impostazione di Rossi nell’udienza di marzo e a quel che si vocifera - sarebbe contraria a estendere la stessa regola, sia pure con dei limiti, ad altre categorie di reati, diversi da quelli di criminalità organizzata previsti dagli articoli 407 e 51, terzo comma, del Codice di procedura penale. Ne rimarrebbero fuori, quindi, i reati di corruzione, seppure contestati nella forma dell’associazione semplice. L’occasione servirà alle sezioni unite anche per definire una volta per tutte la nozione di "criminalità organizzata". Ma se la decisione confermasse le conclusioni negative della Procura, soltanto una modifica legislativa potrebbe estendere l’uso del Trojan ad altri reati, tra cui la corruzione. E la sede potrebbe essere, appunto, il ddl delega sulle intercettazioni all’esame del Senato (già approvato dalla Camera). Certo è che questa nuova frontiera delle intercettazioni ripropone ancora di più il problema del bilanciamento con la privacy, e quindi della selezione del materiale non rilevante e dei limiti di pubblicazione. La posizione restrittiva scelta dalla Procura generale è in chiave rigorosamente garantista, cioè di una netta distinzione in funzione dei reati perseguiti. Una sorta di doppio binario, insomma. Sulle sanzioni bancarie no al doppio binario con il penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Corte di cassazione, Seconda sezione civile, sentenza n. 3656 del 2016. Banca d’Italia più soft di Consob nelle sanzioni ai manager. Tanto che non si configura la violazione del principio di ne bis in idem quando il direttore generale di un istituto di credito è sanzionato per "carenze nell’organizzazione e nei controlli interni". Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 3656 della Seconda sezione civile, con la quale è respinto il ricorso del manager (oltre che direttore generale era anche componente del comitato di controllo di una banca) contro la sanzione pecuniaria che gli era stata inflitta nel 2009 per l’infrazione all’articolo 144 del Testo unico bancario. Sentenza a suo modo significativa, oltre che per il suo peso specifico, anche perché testimonia, in assenza di una presa di posizione della Corte costituzionale che qualche settimana fa ha giudicato inammissibile la questione di legittimità presentata per il doppio binario penale-amministrativo nel caso delle violazioni in materia di diritto societario, degli ampi margini di discrezionalità lasciati sul punto all’autorità giudiziaria. La Cassazione, infatti, nel motivare il no all’impugnazione, osserva, dopo avere analizzato le conclusioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella nota sentenza "Grande Stevens" con la quale è stato affermato il carattere sostanzialmente penale delle sanzioni pecuniarie previste dall’articolo 187 ter del Testo unico finanza, che non ne è possibile un’estensione alle misure amministrative inflitte da Banca d’Italia per "carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti il consiglio di amministrazione". Una valutazione negativa, che porta a concludere per la natura solo amministrativa di queste sanzioni "bancarie", e che per la Cassazione rappresenta la conseguenza di due elementi cruciali. Il primo è costituito dal massimo di pena previsto per la misura pecuniaria nei due casi. Così, se per le violazioni all’articolo 187 del Tuf la sanzione può arrivare sino a un massimo di 5 milioni, nel caso dell’articolo 144 del Tub si ferma molto al di sotto, visto che nel massimo può arrivare solo a 129mila euro. Inoltre, a quest’ultimo e assai più ridotto importo non si accompagnano misure interdittive che, invece, nel caso delle infrazioni al Tuf sono previste. Infatti, i rappresentanti delle società coinvolte negli illeciti possono essere colpiti anche dalla perdita temporanea, per un periodo che va da un minimo di 2 mesi a un massimo di 3 anni, dei requisiti di onorabilità e, per gli esponenti aziendali di società quotate, dall’incapacità temporanea di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo. Infine, non è prevista, nel caso delle sanzioni "bancarie", l’obbligatorietà della confisca del profitto o del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo. Spetta il risarcimento ai familiari del militare deceduto per malattia contratta in missione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Tribunale di Firenze - Sezione II civile - Sentenza 60/2016. Il ministero della Difesa è responsabile, ai sensi dell’articolo 2050 del Cc, delle malattie contratte dai militari a seguito della esposizione a fattori di rischio in occasione dello svolgimento di missioni militari in zone di guerra e, pertanto, è tenuto al risarcimento del danno subito dai familiari in conseguenza del decesso del militare provocato dalla malattia. Questo è quanto si afferma nella sentenza 60/2016 del tribunale di Firenze, che ha condannato il Ministero a risarcire moglie e figlia di un Maresciallo paracadutista dell’Arma dei Carabinieri, morto in conseguenza di una patologia neoplastica contratta a seguito di esposizione ad uranio impoverito. La malattia - Il Maresciallo aveva partecipato a diverse missioni internazionali nel corso anni ‘80-’90 (Somalia, Libano, Bosnia Herzegovina e Albania) ed era rientrato in Italia nel 2000, quando era stato ricoverato d’urgenza per una "neoplasia del sigma con metastasi polmonari, epatiche, ossee e peritoneali", a causa della quale moriva nel giro di pochi mesi. In seguito al decesso, i familiari del militare agivano in giudizio nei confronti del Ministero della Difesa chiedendone, ai sensi dell’articolo 2043 o 2050 del Cc, la condanna al risarcimento dei danni subiti iure proprio e iure hereditatis a causa della malattia mortale contratta dal proprio congiunto durante le operazioni militari. Il contatto con l’uranio impoverito - In particolare, i familiari sostenevano che durante le missioni internazionali in Somalia e Bosnia Herzegovina era stato fatto uso massiccio di armi all’uranio impoverito, senza che ai militari operanti fossero fornite informazioni sui pericoli connessi all’utilizzo di tali armamenti o protezioni idonee ad evitare l’inalazione ed il contatto con le polveri tossiche. E dunque, il Maresciallo durante questo periodo era esposto a numerosi fattori di rischio, quali l’inquinamento, le contaminazioni tossiche causate dalla combustione dei metalli pesanti e dalle esplosione delle munizioni ad uranio impoverito, che avevano causato il diffondersi della malattia neoplastica. In sostanza, il Ministero aveva taciuto su tali rischi, pur essendone a conoscenza, e non aveva adottato tutti gli accorgimenti necessari per assicurare l’incolumità dei militari. Dal canto suo, l’Amministrazione statale si difendeva ritenendo che la causa della morte del Maresciallo non era con certezza riconducibile alla neoplasia e che, ad ogni modo, all’epoca era impossibile prevedere e prevenire gli effetti del contatto con armi ad uranio impoverito perché ne era sconosciuta la pericolosità. La giurisdizione - Il Tribunale, dopo aver inquadrato la questione giuridica, sconfessa la tesi del Ministero e lo condanna ad un ingente risarcimento in favore di moglie e figlia del Maresciallo. In primo luogo, il giudice chiarisce che per le domande di risarcimento proposte jure hereditatis, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto "fondata su di una condotta dell’amministrazione che non presenta un nesso meramente occasionale con il rapporto di impiego, ma si pone come diretta conseguenza dell’impegno del militare in quel "teatro operativo" senza fornirgli le necessarie dotazioni di sicurezza"; per le domande di risarcimento proposte jure proprio, invece, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto trattasi di questioni di diritto soggettivo non direttamente riconducibili alle scelte discrezionali della pubblica amministrazione. La responsabilità del Ministero - Ciò posto, quanto al nesso di causalità, è vero che nella specie non si può stabilire con certezza se la morte del militare sia dipesa dall’esposizione all’uranio impoverito; ma ciò pare abbastanza probabile considerato i dati statistici di settore e gli studi scientifici che hanno dimostrato un aumento della percentuale di alcune malattie riscontrate dai militari che hanno agito in quelle zone di intervento in quel periodo. Quanto all’elemento della colpa, il giudice afferma che è improbabile che le Forze armate fossero all’oscuro di una tale situazione di pericolo, "considerato che da diversi anni operavano congiuntamente a forze armate di Paesi, facenti parte del Patto Atlantico, che le impiegavano anche negli scenari bellici di cui era partecipe l’Italia" e che erano a conoscenza della pericolosità dell’esposizione all’uranio impoverito. A ogni modo, il Tribunale risolve il caso inquadrando la fattispecie nell’alveo dell’articolo 2050 del Cc, in quanto non vi è dubbio che "la partecipazione ad operazioni militari in zone di guerra sia attività da qualificare come pericolosa, sia in sé che per i mezzi adoperati". E nell’ambito delle attività pericolose, è chi organizza l’attività pericolosa che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitale il danno. Il Ministero, invece, non ha mai dato spiegazione del fatto che gli appositi reparti delle Forze armate adibiti alla individuazione di aree contaminate non verificarono la presenza di uranio impoverito, prima che fosse confermato da fonti ufficiali. Quando c’è il dolo nel reato di calunnia Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Reato - Calunnia - Dolo - Convincimento della colpevolezza dell’accusato - Valutazioni soggettive del denunciante - Esclusione della colpevolezza - Condizioni. Non sussiste il dolo del reato di calunnia quando la falsa incolpazione consegue a un convincimento dell’agente in ordine a profili essenzialmente valutativi o interpretativi della condotta denunciata, sempre che tale valutazione soggettiva non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 22 dicembre 2015 n. 50254. Reato - Calunnia - Dolo - Consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato - Esclusione. La consapevolezza da parte del denunciante dell’innocenza della persona accusata è esclusa solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 18 luglio 2012 n. 29117. Reato - Calunnia - Dolo - Consapevolezza dell’innocenza del calunniato - Esclusione - Condizioni. Affinché possa escludersi la consapevolezza dell’innocenza del denunciato, occorre accertare che il denunciante abbia agito basandosi su circostanze di fatto non solo veritiere, ma la cui forza rappresentativa sia tale da indurre una persona di normale cultura e capacità di discernimento a ritenere la colpevolezza dell’accusato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 gennaio 2010 n. 3964. Reato - Calunnia - Dolo - Consapevolezza dell’altrui innocenza - Situazione di dubbio o errore ragionevole - Esclusione del dolo. Non ricorre il delitto di calunnia se l’agente versi in situazione di dubbio o errore ragionevole circa l’innocenza dell’incolpato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 7 luglio 2009 n. 27846. Reato - Calunnia - Elemento soggettivo - Dolo - Condizioni per la sussistenza. Affinché sussista il dolo nel reato di calunnia, è necessario che l’accusatore abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato considerato che l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo e momento volitivo. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 maggio 2007 n. 17992. Favoreggiamento personale: assistenza sanitaria prestata al latitante Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Reato - Favoreggiamento personale - Medico - Dovere professionale del sanitario di assicurare la tutela della salute del cittadino - Intervento chirurgico a un latitante - Mancanza di condotta ulteriore positiva di aiuto - Configurabilità del reato - Esclusione. Non integra il reato di favoreggiamento personale la condotta del medico che acconsenta a prestare un intervento chirurgico a un ricercato senza porre in essere condotte "aggiuntive" di altra natura le quali, travalicando il dovere professionale del sanitario di assicurare la tutela della salute del cittadino, contribuiscano a fare eludere la persona assistita alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 31 settembre 2015 n. 38281. Reato - Favoreggiamento personale - Medico - Assistenza prestata al latitante - Diagnosi della malattia e indicazione della terapia - Mancanza di condotta ulteriore positiva di aiuto - Configurabilità - Condizioni. Non configura il reato di favoreggiamento personale la condotta del medico che, chiamato ad assistere un latitante, si limiti a fare la diagnosi della malattia e a indicare la relativa terapia, senza porre in essere condotte "aggiuntive" di altra natura, che travalicando il dovere professionale del sanitario di assicurare la tutela della salute del cittadino, contribuiscano a fare eludere la persona assistita alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 20 luglio 2005 n. 26910. Reato - Favoreggiamento personale - Medico chirurgo - Effettuazione di intervento chirurgico a un latitante - Mancanza di condotta ulteriore positiva di aiuto - Reato - Insussistenza. Non integra il reato di favoreggiamento personale la condotta del medico il quale acconsenta a prestare un intervento chirurgico a un ricercato, quando all’attività professionale non sia seguita un’ ulteriore condotta in favore del latitante per aiutarlo a sottrarsi alle ricerche. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 4 giugno 2002 n. 21624. Reato - Favoreggiamento personale - Medico chirurgo - Adozione di cautele utili a impedire la propria localizzazione in occasione di cure prestate al latitante - Sussistenza del reato. È responsabile di favoreggiamento personale il medico che determinatosi a prestare assistenza sanitaria in favore di persona latitante, assuma a questo scopo cautele utili a preservare gli accorgimenti adottati dall’interessato per sottrarsi alle ricerche delle forze di polizia. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 25 gennaio 2002 n. 2998. Velletri (Rm): Papa Bergoglio ai detenuti "la vera misura del tempo è la speranza" di Milena Castigli interris.it, 26 aprile 2016 Il Pontefice risponde a una lettera scritta dai reclusi del carcere di Velletri. "Vi ringrazio per aver pensato a me in mezzo alle difficoltà delle vostre situazioni di vita attuale". Inizia così, in un modo che non ti aspetti, la lettera di Papa Francesco ai detenuti del carcere di Velletri. Lo scorso 5 marzo il vescovo di Albano, mons. Marcello Semeraro, aveva visitato il carcere e in quell’occasione i detenuti avevano affidato al religioso una lettera indirizzata al Papa. Bergoglio ha risposto scrivendo che pensa spesso alle persone detenute e, "Per questo motivo, nelle mie visite pastorali domando sempre, quando ciò è possibile di poter incontrare" chi vive "una libertà limitata, per portargli l’affetto e la vicinanza". E anche per questo ha voluto che nell’Anno Santo della Misericordia, vi fosse un giubileo dei carcerati. "Carissimi - scrive ancora Francesco - voi vivete un’esperienza nella quale il tempo sembra si sia fermato, sembra non finisca mai. Ma la vera misura del tempo non è quella dell’orologio". "La vera misura del tempo - sottolinea - si chiama speranza! Ed io desidero che ognuno di voi tenga sempre ben accesa la luce della speranza della fede per illuminare la vostra vita". Di qui l’esortazione a pregare il Signore fonte infinita di misericordia. "Siate certi sempre - è l’incoraggiamento del Papa - che Dio vi ama personalmente, per Lui non ha importanza la vostra età o la vostra cultura, non ha importanza nemmeno che cosa siete stati, le cose che avete fatto, i traguardi che avete ottenuto, gli errori che avete commesso, le persone che abbiamo ferito". Per questo, ribadisce, "non lasciatevi rinchiudere nel passato, anzi trasformatelo in cammino di crescita, di fede e di carità. Date a Dio la possibilità di farvi brillare attraverso questa esperienza". Nella storia della Chiesa, ricorda poi il Papa, "tanti Santi sono arrivati alla santità attraverso delle esperienze dure e difficili!". Dunque, conclude la lettera, "aprite la porta del vostro cuore a Cristo, e sarà Cristo a capovolgere la vostra situazione. Con Cristo è possibile tutto ciò". Nuoro: "negato il diritto agli studi", lo Stato risarcirà l’ergastolano Marcello Dell’Anna di Bepi Castellaneta Corriere della Sera, 26 aprile 2016 Un ergastolano si laurea in cella e si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Rifiutato l’avvicinamento alla famiglia e trasferito in Sardegna, firmata la transazione. Per diverse volte non gli è stata concessa la possibilità di avvicinarsi alla famiglia, inoltre è stato trasferito in Sardegna facendogli correre il rischio di interrompere gli studi. E così lui, Marcello Dell’Anna, ex boss della Sacra corona unita, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha giudicato l’istanza "ricevibile". Risultato: lo Stato italiano ha deciso di proporre una transazione e adesso dovrà risarcire il detenuto, condannato all’ergastolo per tre omicidi. La laurea - Lui, l’ex boss della Scu radicata nel territorio di Nardò, in provincia di Lecce, è in carcere da oltre vent’anni ma dietro le sbarre ha cominciato il suo percorso di studi. Che non solo lo ha portato a laurearsi in Giurisprudenza con 110 e lode all’Università di Pisa (tesi sui diritti dei detenuti e il regime del 41 bis), ma lo ha anche traghettato dall’altra parte della cattedra: Dell’Anna ha infatti insegnato Diritto penitenziario applicato agli avvocati nell’ambito del programma della Scuola forense di Nuoro, dove è tuttora detenuto nel carcere di Badu e Carros. Il ricorso - Il caso Dell’Anna è approdato all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013, quando il suo avvocato, Ladislao Massari, ha presentato ricorso per violazione del diritto allo studio e agli affetti familiari. "Più volte - spiega il legale - avevamo chiesto l’avvicinamento in Puglia, dove viveva la famiglia, ma le richieste non sono state prese in considerazione dall’amministrazione penitenziaria". Al contrario, è stato disposto il trasferimento in Sardegna. "Proprio questa decisione - sottolinea l’avvocato Massari - ha rischiato di pregiudicare gli studi di Dell’Anna che, dopo la laurea, si era iscritto a un corso di specializzazione". L’accordo - Fatto sta che nel 2014 Strasburgo dichiara il ricorso "ricevibile". A questo punto lo Stato italiano sceglie la via della transazione proponendo un risarcimento in denaro. "Ormai dopo tanto tempo - precisa il difensore - Dell’Anna non aveva più interesse ad avvicinarsi nel Salento, anche perché nel frattempo la famiglia si è trasferita in Sardegna". Dove adesso l’ex boss, dietro le sbarre, continua a studiare. Terni: nuova infermeria nel carcere, per l’assistenza ai detenuti di Vocabolo Sabbione terninrete.it, 26 aprile 2016 Con dieci dirigenti medici, dieci infermieri, un coordinatore infermieristico, l’Azienda Usl Umbria 2 garantisce ai detenuti un’assistenza sanitaria h 24. Nella struttura carceraria operano inoltre diversi professionisti dell’Asl o dell’Azienda Ospedaliera "Santa Maria" di Terni per fornire le prestazioni specialistiche. È presente un gabinetto dentistico e numerosi esami diagnostici e di laboratorio vengono svolti all’interno dell’istituto. Molto significativa la mole di attività, sono oltre 9.000 le visite di prima assistenza svolte nel 2015 con una grande quantità di esami e visite specialistiche sia interne che esterne. Lo sforzo congiunto dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Azienda Sanitaria è quello di mantenere all’interno della struttura le prestazioni sanitarie, riducendo così il ricorso all’invio dei pazienti detenuti presso gli ambulatori del territorio. Ciò consente di risparmiare le risorse umane ed economiche necessarie per effettuare le traduzioni in luogo esterno di cura. Permette inoltre di conciliare meglio la tutela della salute con le esigenze di sicurezza pubblica, attenuando il rischio di azioni violente connesse a possibili tentativi di evasione, soprattutto per i 27 detenuti sottoposti al c.d. "carcere duro" (art. 41 bis Ordinamento Penitenziario) e i poco meno di 300 detenuti appartenenti al circuito Alta Sicurezza. In quest’ottica vanno ricondotti i locali più ampi della nuova infermeria che permetteranno di ospitare all’interno un maggior numero di prestazioni specialistiche. Infatti il carcere di Terni si è dotato di nuovi e confortevoli locali per fornire i servizi di prima assistenza ai detenuti di Vocabolo Sabbione, garantiti dagli operatori sanitari dell’Azienda Usl Umbria 2. La realizzazione di una nuova infermeria, più ampia della precedente, è nata dalla necessità di corrispondere alle esigenze di tutela della salute di una popolazione detenuta aumentata di 200 unità dopo la costruzione e l’apertura nel 2013 di un nuovo padiglione. I lavori di ristrutturazione dei locali sono stati finanziati e curati dall’Amministrazione Penitenziaria mentre gli arredi e la strumentazione sono stati forniti dall’azienda sanitaria. La nuova infermeria verrà inaugurata mercoledì 27 aprile. Isernia: "L’ultima riga delle favole", laboratorio di lettura per detenuti Quotidiano del Molise, 26 aprile 2016 Prende il nome dal libro di Massimo Gramellini, "L’ultima riga delle favole", il nuovo laboratorio di lettura organizzato dai funzionari giuridico pedagogici con i detenuti della casa circondariale di Isernia. Un laboratorio che resta centrale nel progetto rieducativo di cambiamento personale attivato nell’istituto di pena pentro. "La possibilità di provare e condividere pensieri, sensazioni, emozioni veicolati dai racconti rappresenta" - spiega il funzionario Francesca Capozza - "un momento importante nel percorso evolutivo di un autore di reato in quanto permette di immedesimarsi in personaggi che vivono storie di vita spesso simili alla propria, che affrontano difficoltà e problematiche in cui è facile rispecchiarsi, e che possono fornire l’input personale e co-costruito nel gruppo di trovare speranza, fiducia, ma soprattutto nuovi significati e nuove soluzioni alle proprie difficoltà esistenziali, trovando la chiave di violino e la via d’uscita più efficace per divenire uomini migliori". Un progetto fondamentale, che consente ai detenuti di fare riflessioni profonde sulla loro vita e il loro domani. "L’Ultima riga delle Favole si può scrivere anche in carcere mi dice un detenuto durante la nostra lettura" - racconta ancora Capozza - "sì, perché questo libro parte proprio dalla storia di un giovane sfiduciato e deluso dalla propria vita, convinto di non avere gli strumenti innanzitutto interiori per cambiarla, sensazioni e pensieri spesso diffusi nella popolazione detenuta. Attraverso un percorso introspettivo fatto di prove, errori, scoperte, troverà il proprio talento e l’amore per la vita, la sua e quella degli altri, riuscendo a dare quindi un senso compiuto e concreto alla frase "e vissero tutti felici e contenti" che suggella le fiabe, ma che spesso può sembrare artefatta e surreale". Il carcere si configura quindi come prova. Spesso, per la maggior parte dei ristretti, rappresenta l’unica chance reale per darsi l’opportunità, che altrimenti non avrebbero avuto, di intraprendere un viaggio interiore volto a ritrovare se stessi, spesso per la prima volta, a darsi la possibilità di ricostruirsi, di rinascere. "La condivisione della lettura in gruppo consente di socializzare un approccio critico, aperto ai vari punti di vista (permettendo ai ristretti di condividere e confrontarsi sviluppando così abilità relazionali positive), e costruire insieme significati di fiducia e speranza - conclude Francesca Capozza. È obiettivo dell’Area Educativa, a fine lettura, poter favorire l’incontro tra i detenuti e gli autori dei libri letti". Alessandria: la camomilla dei detenuti "in Italia nessuno ne coltiva più di noi" di Miriam Massone La Stampa, 26 aprile 2016 Il primo raccolto a maggio. Poi gli estratti saranno messi in commercio. L’ex direttrice del carcere "San Michele" aveva dato l’ok alla coltivazione, accettando il progetto della cooperativa sociale Coompany. Mancano soltanto le arance (sarà per scaramanzia) nella casa circondariale. Per il resto, dietro le sbarre del carcere di San Michele, oltre 300 detenuti, ad Alessandria, è appena nata una fattoria ecologica con 350 alberi da frutto, un orto con le verdure e due estesi campi di camomilla: 18 mila metri di terreno in tutto, una lunga striscia che costeggia i bastioni della casa circondariale: qui si coltiva con gli agenti penitenziari nelle torri che dall’alto controllano. Addio rovi - Prima c’erano solo rovi e colonie di gatti selvatici, quest’autunno l’ex direttrice Elena Lombardi Vallauri ha dato l’ok per la bonifica. Ci hanno pensato i ragazzi della Company, una cooperativa sociale che tra i vari scopi aiuta anche i carcerati a reinserirsi nel mondo del lavoro, a trasformare il caos in un’oasi verde che darà prodotti bio e futuri contadini (una volta tornati in libertà). "Abbiamo raccolto l’appello di Altromercato, organizzazione di commercio equo e solidale - dice Renzo Sacco, presidente Coompany - dopo che il fornitore dal Kenya aveva dato forfait per un’importante partita di camomilla". Così, con gli istituti penitenziari di Biella e Trento ne hanno seminata talmente tanta - 2 ettari (di cui uno nel solo carcere di Alessandria) - da diventare i maggiori coltivatori unici di camomilla in Italia: "Sono dati del ministero dell’Agricoltura - precisa l’agronomo Paolo Marin -: ora vorremmo avviare l’autoproduzione con i nostri semi, tutti italiani, e arrivare a produrne 2 ettari qui a San Michele". Il primo raccolto è atteso a maggio: "La camomilla verrà consegnata ad Altromercato, poi messa in commercio, anche da Valverbe, azienda conosciuta per le tisane. Il prossimo inverno a intiepidire una serata uggiosa potrebbe arrivare una bustina di camomilla curata, quand’era ancora in fiore, dai detenuti alessandrini. "Sono qui dal 2012 e ci resterò altri 6 anni - racconta, nella serra, mentre semina le melanzane, David Mohamed, 33 anni, marocchino, che dentro San Michele si è anche diplomato e iscritto all’Università: questo lavoro mi dà una chance: quando uscirò andrò a lavorare nell’agricoltura". Con lui ci sono Abdealì Moaz, 38 anni, e Carmelo Nostro, di 40, appassionati di api: "Abbiamo anche 20 arnie che ci daranno miele di acacia e millefiori" dice Stefania Tavarone, responsabile Company del progetto apicoltura. Sono 1,2 milioni le api del carcere. Il nuovo percorso - "Queste attività hanno una potenzialità enorme - dice il direttore Domenico Arena, d’accordo con frate Beppe Giunti, il francescano di Company, che gli oltre 300 detenuti li conosce quasi tutti per nome, e con Pietro Valentini, responsabile dell’area Educazione: è importante sia l’inizio di un percorso che possa dare senso al tempo della detenzione". Dentro San Michele ci sono anche 9 detenuti-panettieri (con la cooperativa Pausa Cafè il loro pane arriva sui banchi delle Coop di Piemonte, Liguria e Lombardia) e poi 40 carcerati che studiano da falegnami, cuochi e giardinieri. I "contadini" sono stati selezionati in base agli studi e alle attitudini: oltre alla camomilla dovranno curare peperoni, cipolle, insalata, melanzane - 350 quintali di raccolto che resterà, per ora, nel circuito Company, ma è in programma un mercato ad hoc, e i 350 alberi da frutto. L’agronomo Marin, in questo caso, si è sbizzarrito: nasceranno susine, pere, ma anche pesche e mele rarissime e ormai dimenticate: "Abbiamo ripescato il patrimonio genetico". Dal carcere torneranno in vita, ad esempio, le "pesche Limunin", tipiche del Monferrato, quelle che 50 anni fa, prima che sparissero, si mettevano nelle vigne, o le Pum Marcum e le Pum dal Medic, antichissime mele piemontesi. Niente arance? "No, quelle no". Reggio Calabria: con il Garante dei detenuti, un grande lavoro sul tema dei diritti negati strill.it, 26 aprile 2016 Prosegue la campagna di sensibilizzazione sul tema dei diritti negati del gruppo consiliare del Pd in visita presso la casa circondariale di Arghillà con il Capogruppo del Pd Antonino Castorina, il consigliere comunale Rocco Albanese, il segretario provinciale del movimento giovanile del Pd Alex Tripodi e l’avv Giuliana Barberi per vedere da vicino la condizione della struttura penitenziaria e rapportarsi con gli organismi centrali del governo per interventi risolutivi delle criticità che in genere riguardano tutti gli istituti penitenziari di Italia al netto dell’importante lavoro e degli enormi risultati raggiunti dal Ministero della Giustizia. Durante la visita, la seconda nella struttura di Arghillà, per quanto riguarda il gruppo Pd, la delegazione accompagnata dal commissario capo Domenico Paino ha preso visione delle condizioni dell’intero impianto e della buona condizione sanitaria e sociale dei detenuti, considerato che la struttura di Arghillà è comunque moderna ed innovativa su diversi aspetti ed offre importanti opportunità per i detenuti. Con il garante dei diritti dei detenuti Agostino Siviglia - afferma Castorina, capogruppo del Pd si sta svolgendo un grande lavoro nell’interesse di garantire i diritti di tutti e soprattutto la funzione rieducativa della pena con importanti intese e protocolli in fase di realizzazione. Ad Arghillà affermano i consiglieri del Pd Antonino Castorina ed Enzo Marra, la casa circondariale è un presidio di legalità importante che va potenziato con interventi mirati in tutta la zona circostante per trasformare quello che per molti anni è stato definito come un "ghetto" in un polmone verde attrattivo e positivo per l’intera zona Nord di Reggio Calabria. Renzi: "la Nato fermerà i migranti in arrivo dalla Libia" di Carlo Lania Il Manifesto, 26 aprile 2016 E sull’Austria: "Non ci sono motivi per chiudere il Brennero". Si intensificano i controlli nel Mediterraneo centrale per fermare i migranti. "Obama si è detto disponibile a discutere sull’impiego di mezzi Nato per bloccare il traffico di uomini e scafisti", ha detto ieri Matteo Renzi al termine del vertice avuto ad Hannover con Stati uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna. I particolari tecnici della questione verranno probabilmente discussi nei prossimi giorni con il segretario generale dell’Alleanza Jen Stoltenberg, ma l’annuncio del premier italiano lascia intendere che eventuali ostacoli politici siano stati ormai superati. Resta da vedere se la nuova attività della Nato nel Mediterraneo centrale, dove già operano navi dell’Alleanza, rischia o no di incrociarsi con l’intervento militare chiesto ieri dal premier libico Fayez Serraj in difesa dei pozzi di petrolio. Di certo quelle internazionali di fronte alla Libia sono acque sempre più affollate, visto che già la missione europea Eunavfor-Med Sophia vi opera dallo scorso mese di ottobre intercettando i barconi carichi di migranti, in attesa di poter estendere la sua azione direttamente nelle acque territoriali libiche dopo aver ricevuto un’esplicita richiesta in tal senso da parte di Serraj. I nuovi compiti che l’Alleanza atlantica potrebbe svolgere da qui a poco non sono però una novità. Tre navi della Nato, una tedesca, una turca e una canadese, sono infatti già impegnate da febbraio nel mar Egeo in un’operazione di "contrasto agli scafisti". Un intervento fortemente voluto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel che l’ha discusso con il premier turco Ahmet Davutoglu e con quello greco Alexis Tsipras, riuscendo a superare l’iniziale contrarietà dei vertici stessi della Nato, a dir poco sorpresi per l’impegno richiesto. Come fece notare una fonte, infatti, né il controllo dei flussi di migranti né quello dei trafficanti di uomini rientrano tra i compiti dell’Alleanza. Passato però un primo momento di incertezza, l’11 febbraio la missione nel mar Egeo è partita con un grande impiego di mezzi. Oltre a tre navi, aerei-radar Awacs e sistemi elettronici di intelligence e ricognizione. Ora si replica, probabilmente con maggiore dispiegamento di uomini e mezzi, nel Mediterraneo centrale. Quella dimostrata dalla Nato, ha proseguito Renzi, "è una disponibilità che credo vada apprezzata e ovviamente messa in relazione e in sintonia con ciò che sta già facendo l’Ue e ovviamente con il coinvolgimento del governo libico". Quello legato all’immigrazione è uno dei temi affrontati nel vertice di Hannover, dove l’esito del voto austriaco - che ha assegnato la vittoria al primo turno delle presidenziali all’estrema destra anti-immigrati di Norbert Hofer- è stato sicuramente motivi di confronto tra i leader nonostante i toni diplomatici utilizzati da Renzi. "Non c’è stata discussione sul democratico voto di un Paese come l’Austria. Noi rispettiamo il voto del popolo", ha detto. Nelle parole del premier, però, traspare l’irritazione per la decisione austriaca di chiudere il valico del Brennero (ieri Vienna ha annunciato l’intenzione di presentare mercoledì la barriera che intende costruire al confine con l’Italia). "Non c’è alcun elemento che giustifichi la chiusura del Brennero", ha detto Renzi ricordando ancora una volta come no ci sia nessuna invasione di migranti in corso. "I numeri sono inferiori al 2014 e sostanzialmente gli stessi del 2015 - ha sottolineato. La situazione dell’immigrazione va monitorata ma i numeri sono profondamente diversi da quelli allarmistici dei media". Renzi ha infine rimarcato come "se in Libia si consolida il governo potremo mettere fine alla parola emergenza sul dossier migrazione". Migranti e assistenzialismo. Gli errori nell’accoglienza di Federico Fubini Corriere della Sera, 26 aprile 2016 Vitto e alloggio senza lavorare né studiare: è l’assistenzialismo dei centri di accoglienza. L’esatto opposto del modello tedesco. Il Viminale ha scritto ai Sindaci invitandoli a far fare ai richiedenti asilo piccoli lavori per i Comuni. Non è successo quasi nulla. Dice di avere diciannove anni, ma ne dimostra dieci di più. Dice che di solito si sveglia alle nove e trascorre le sue giornate in modo semplice: "Manger, dormir, Facebook, un film". Qualche volta, una partita di calcio. Tiene pulita la sua stanza? No: ci pensa la signora Antonella, la donna delle pulizie. Si prepara da mangiare? "No. Vedo il cibo quando è pronto. Io non cucino". Fofana Samba, che si dichiara cittadino del Mali, conduce precisamente questo stile di vita da quando è sbarcato senza documenti dalla Libia a Vibo Valentia nel giugno di due anni fa. Appena riemerso dal riposo del dopopranzo porge una debole stretta di mano, il tablet sottobraccio, attorno a lui tanti altri ragazzi sub-sahariani assorti nei loro smartphone all’ombra dei pini dell’hotel sul mare che oggi li accoglie. Quasi nessuno di loro viene da guerre o persecuzioni, tutti hanno presentato domanda d’asilo politico - con ricorsi e controricorsi - per guadagnare tempo e intanto restare qui. La lentezza della giustizia italiana è il loro più grande alleato. "Voglio essere un rifugiato" - Fofana sorride con indolenza. "Voglio essere un rifugiato", è la sua posizione. In due anni un piccolo avvocato locale - Vibo Valentia è prossima al record europeo per densità di legali nella popolazione - ha presentato per lui una serie di domande di asilo. Cento euro l’una, pagate con l’argent de poche dell’accoglienza. Tutte respinte fino al ricorso attuale, pendente da mesi, ma Fofana non ha mai fatto lo sforzo di imparare una parola d’italiano. Ha capito anche lui che questo Paese, per inerzia, sta riproducendo con i migranti le peggiori tare dell’assistenzialismo degli anni 70 e 80 del secolo scorso. Forse è la sola risposta che la macchina amministrativa sia in grado di fornire nell’emergenza, se non altro perché è quella che conosce già. Questo è il welfare che dà qualcosa in cambio di niente. È un sistema che distribuisce vitalizi e protezione senza pretendere dai beneficiari lo sforzo di imparare un mestiere, né le leggi o la lingua del Paese ospitante, o anche solo senza chiedere loro una mano a tenere pulita la strada comunale qui fuori. Una perla del Mediterraneo come Briatico ne avrebbe un gran bisogno, ora che ha di nuovo un sindaco accusato di concorso in associazione mafiosa. Non deve per forza finire così, neanche nei Paesi più aperti agli stranieri. Perché il problema non è se accogliere o no, ma come farlo. Il 14 aprile scorso i leader della grande coalizione al governo in Germania sono riemersi da sette ore di negoziati fra loro con un annuncio che, visto dall’Italia, suona lunare: ci sarà una nuova legge sull’integrazione degli stranieri. La cancelliera ha spiegato che l’obiettivo è rendere più facile per chi richiede asilo accedere al mondo del lavoro. Non renderli alienati, passivi e depressi, con un futuro da accattoni o da manovalanza criminale. Il modo per farlo è superare il welfare paternalista e chiedere ai migranti qualcosa in cambio di qualcos’altro. Lo Stato federale tedesco li nutre e alloggia, proprio come lo Stato italiano versa anche una piccola diaria a chi arriva senza documenti chiedendo asilo politico. Al bando non si è presentato nessuno - In contropartita però la Germania pretende dagli stranieri alcuni impegni specifici: obbligo di frequenza a corsi di lingua, cultura e legislazione tedesca, con regolari verifiche dell’apprendimento; per chi non adempie c’è il ritiro progressivo dei benefici. La grande coalizione di Merkel prevede anche ciò di cui avrebbero tanto bisogno Briatico e molte altre municipalità italiane che ospitano i migranti: piccole somme in più, magari un euro l’ora, a chi svolge lavoretti per la comunità locale. Vista dal fondo della Calabria, la Germania è lontana. Qui di recente l’Associazione Monteleone, una delle centinaia che gestiscono l’accoglienza per conto delle Prefetture, si è vista costretta ad andare all’estremo opposto. Nella gara vinta per la gestione dei migranti deve impegnare un bilancio che vale oltre 1.100 euro al mese per ciascuno di essi. Ha investito 85 mila euro in un centro computer nell’hotel dell’accoglienza, ha organizzato corsi di italiano e da elettricista, fabbro, pizzaiolo, cartongesso, guida macchine agricole, salvataggio e primo soccorso in spiaggia, teatro. Non si è presentato quasi nessuno. I 219 richiedenti asilo sono rimasti tutti in camera a sonnecchiare e guardare la tivù, semplicemente perché potevano. Alla fine, spiega la direttrice dell’associazione Lelia Zangara, il solo argomento per stanarne alcuni - pochi - è stato un piccolo zuccherino: 50 euro in cambio della frequenza dei corsi. Le medicine gratis e i mal di testa - Neanche in Italia, dove i migranti in strutture "temporanee" di questo tipo sono oggi ufficialmente 82 mila, deve finire per forza così. Non è scritto nelle leggi che debba continuare a riprodursi con gli stranieri l’assistenzialismo responsabile del debito pubblico. A novembre scorso il prefetto Mario Morcone, capo dipartimento per l’immigrazione al ministero dell’Interno, ha scritto ai sindaci invitandoli a far fare ai richiedenti asilo piccoli lavori per i Comuni. Non è successo quasi nulla. Da settimane esiste poi al ministero della Giustizia una bozza di decreto per velocizzare nei tribunali le pratiche sui ricorsi degli stranieri. Eppure non approda in Consiglio dei ministri. A Vibo Valentia intanto l’associazione Monteleone ha fatto incetta di tic tac. Da quando i migranti hanno scoperto che qui le medicine sono gratis, lamentano ogni giorno mal di testa, mal di pancia e giradito come nell’Italia di prima del ticket. Ma almeno gli stranieri, per ora, non distinguono fra un farmaco e una caramella alla menta. La voce di un’altra Europa oscurata dalle classi dirigenti di Guido Viale Il Manifesto, 26 aprile 2016 Rifugiati. Una svolta politica finché si è in tempo. La prevedibile avanzata della destra nelle elezioni presidenziali austriache, in gran parte ascrivibile a una diffusa e fomentata fobia per i profughi, dovrebbe indurci a una riflessione. Primo, il loro arrivo è inarrestabile e destinato a crescere per decenni. Secondo, spacca la società tra chi vuole respingerli e chi accoglierli lungo una faglia profonda che non coincide con i confini tra partiti, culture politiche e classi sociali, ma le attraversa. Terzo, mette in conflitto tra loro gli Stati membri dell’Unione europea trascinandola verso la dissoluzione. Quarto, taglia la regione che gravita intorno all’Europa tra chi rivendica il più elementare dei diritti umani, quello alla vita, che il paese da cui proviene non garantisce più, e chi glielo sta negando. Di fronte a questi fatti occorrerebbe però farsi due ordini di domande che l’establishment che governa l’Unione europea non sembra porsi. Innanzitutto, chi sono quei profughi, che cosa cercano, da dove vengono, che cosa li ha fatti fuggire dalle loro terre? Che cosa succederà se continuiamo a cercare di respingerli? E che cosa si deve fare se invece vogliamo accoglierli? L’establishment cerca di nascondere l’incapacità di confrontarsi con queste domande dietro alla distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, contando di potersi sbarazzare della maggior parte di loro. Una "selezione" (di cupa memoria) effettuata distinguendo i rispettivi paesi di origine tra Stati insicuri, perché in guerra, e Stati sicuri, da cui non avrebbero il diritto di fuggire. Ma nessuno degli Stati da cui proviene la maggior parte di quei profughi è sicuro: sono tutti attraversati da conflitti armati o preda di feroci dittature. Territori diventati invivibili per le devastazioni prodotte dalla guerra, o dallo sfruttamento inconsulto delle risorse, o da un disastro ambientale, o dai cambiamenti climatici che in Africa e Medio oriente fanno sentire i loro effetti molto più che da noi. Guerre, conflitti armati, dittature e crisi ambientali si intrecciano; sono il deterioramento o il saccheggio delle risorse locali, in larga parte riconducibili all’operato di imprese occidentali o delle economie emergenti, ad aver scatenato quei conflitti, tenuto in piedi quelle dittature, provocato quella fuga. Per questo, in realtà, sono tutti profughi ambientali: una categoria destinata a dominare il panorama geopolitico dei prossimi decenni anche se che le convenzioni internazionali non la contemplano. È ciò di cui non tengono conto i fautori del respingimento, oggi in grande avanzata in tutta Europa, anche perché le forze di governo dell’Unione ne fanno proprie le pretese per cercare di trattenere i loro elettori: l’indecente accordo con la Turchia ne è un esempio; la barriera al Brennero un altro. Dimostrando di non sapere che cosa fare per governare il problema non fanno che alimentare la paura tra gli elettori; il che li spinge ad accrescere le misure liberticide in una spirale senza fine. Ma in che condizione precipiterà l’Europa se continuerà a cercare di respingere verso i paesi di origine o di transito, cioè verso guerre, fame e feroci dittature, chi cerca di varcare i suoi confini? Si renderà responsabile di uno sterminio - in mare, nei deserti o nelle prigioni di quei dittatori - di centinaia di migliaia e - chissà? - milioni di esseri umani. Nessuno potrà più dire "io non sapevo", come al tempo dei nazisti: quelle cose la televisione ce le porta in casa tutti i giorni, anche se non nella dimensione e con la crudeltà con cui vengono perpetrate. I paesi che circondano l’Europa si trasformeranno così in teatri permanenti di guerra in cui per noi europei, in pace o in armi, sarà sempre più difficile andare. Altro che turismo, sviluppo economico, cooperazione internazionale e "aiutiamoli a casa loro"! L’Europa sarà sempre di più una fortezza protetta dal filo spinato, dove si finirà per sparare per difendere i confini: non solo quelli "esterni", ma anche quelli tra Stato e Stato, perché le "infiltrazioni" avverranno comunque; e in massa. Per gestire un regime di guerra continua, non contro un esercito, ma contro un popolo di disperati che cerca solo di salvarsi, i governi europei diventeranno sempre più autoritari e antidemocratici, impediranno con forza ogni contestazione e si metteranno in guerra anche con quella parte della propria popolazione - gli immigrati di prima, seconda e terza generazione - tra le cui fila crescerà il rancore di cui si alimenta il terrorismo. Con una popolazione destinata a invecchiare senza ricambio e senza incontri e scambi fecondi con altre culture, l’Europa si condanna così al declino politico, culturale ed economico: negando a figli e nipoti quel magro "benessere" che oggi pensa di difendere. Certo, anche accogliere non è facile. Non basta la dedizione di decine di migliaia di volontari contro il feroce sfruttamento dei migranti da parte delle tante organizzazioni criminali a cui il governo italiano ha consegnato la loro gestione. Quei volontari sono l’avanguardia senza voce, perché coperta da quella cinica e roboante dei fautori dei respingimenti, di uno schieramento sociale alternativo che può contar già oggi su diversi milioni di sostenitori e migliaia di intellettuali, artisti e operatori cui non è stata ancora offerta la possibilità di tradurre il loro sentire in proposte politiche di ampio respiro. Ma quelle proposte ci sono ed emergono sempre più in documenti che circolano da tempo in Europa: sono il rigetto delle politiche mortifere di austerity, la rivendicazione di un taglio agli artigli della finanza, il progetto di una svolta radicale verso la sostenibilità ambientale: energia, agricoltura, gestione delle risorse, edilizia, mobilità, istruzione. Sono i campi di una conversione ecologica in grado di creare lavoro vero, le cui finalità possano essere condivise liberamente e il cui carico venga redistributivo tra tutti coloro, sia disoccupati e occupati europei che profughi in arrivo, che vogliono contribuire a rendere l’Europa più accogliente e vivibile. È una svolta che richiede di impegnarsi fin d’ora non solo nella sua progettazione, ma anche nella sua articolazione in mille iniziative locali, cominciando a verificarne la fattibilità, mobilitando le risorse offerte sia dal conflitto che dalla partecipazione, e coinvolgendo, possibilmente, i poteri locali. Ed è anche l’unica politica praticabile per promuovere la pacificazione nei paesi di provenienza dei profughi e una loro libera circolazione per renderli protagonisti una vera cooperazione internazionale dal basso. Contro chi fa del respingimento la sua bandiera occorre portare l’accoglienza al centro di uno schieramento sociale e politico alternativo che faccia appello sia alla ragione che al cuore. Non è un problema tra gli altri; è il centro dello scontro in atto. Austria, il campanello d’allarme che dobbiamo ascoltare di Claudio Magris Corriere della Sera, 26 aprile 2016 È impressionante lo straordinario successo dell’estrema destra in un Paese tranquillo, in cui le forze politiche davano tutte le garanzie di pacifica stabilità. La paura dell’immigrazione non è solo razzismo. A. E. I. O. U. Ancona. Empoli. Italia. Otranto. Udine. Diceva ai tempi asburgici un motto imperiale: Austria erit in orbe ultima, l’Austria durerà sino alla fine del mondo, sarà l’ultimo impero a tramontare. Oggi quell’orgoglioso aggettivo sembra cambiare di significato e mettere pure l’Austria col suo aspirante pistolero attualmente vittorioso fra gli ultimi della classe, seduti in fondo con le orecchie d’asino. Certo, si può sperare che il ballottaggio bocci il leader e il partito attualmente in testa, che usurpano e insozzano un glorioso nome della politica, il sostantivo o l’aggettivo "liberale". La Germania che abbiamo amata, diceva il titolo di un libretto in cui Croce, nutrito della grande cultura tedesca, la distingueva, nel suo valore universale, dalla rozza e sanguinaria barbarie del nazismo. Adesso potremmo e dovremmo scrivere un’analoga dichiarazione d’amore, L’Austria che abbiamo amata, e qualcuno l’ha già scritto. Del resto ogni Paese, ogni cultura, è un Giano bifronte, con una faccia di umanità e civiltà e un’altra di ottusa violenza e nessun popolo, nessuna cultura possono dare lezioni agli altri. Indubbiamente c’è stata - e c’è ancora, culturalmente - una grande Austria sovranazionale, crogiolo pure drammatico ma fecondo di genti, di lingue, di culture; culla e interprete di impareggiabile genialità della complessità e delle trasformazioni che hanno mutato il mondo e le visioni del mondo. Un’Austria pluri-nazionale - il cui sale era forse in primo luogo la contraddittoria ma incredibilmente vitale simbiosi culturale ebraico-tedesca - ammirata pure da chi l’ha combattuta, come gli irredentisti triestini; l’Austria il cui imperatore si rivolgeva "ai miei popoli". Anche dopo la dissoluzione dell’impero la piccola Austria è stata straordinariamente ricca e vitale in ogni campo dell’arte e del sapere. Ma c’è stata ed evidentemente c’è un’Austria diametralmente opposta, torva gretta; quella che nel 1938 ha accolto tripudiante "l’invasore" Hitler, che pure la declassava a marca alpina di confine - Andreotti ricordava folle osannanti e alti prelati viennesi inneggianti al Führer in quel marzo 1938 e che ha votato in massa per l’annessione al Terzo Reich e pure fornito alcuni tra i più alacri carnefici. Ma non è il caso di fare il processo all’Austria attuale, bensì di imparare, prima che sia troppo tardi, la lezione che essa oggi ci dà. È impressionante che lo straordinario successo dell’estrema destra abbia avuto luogo in un Paese tranquillo, in cui le forze politiche che lo hanno governato danno tutte le garanzie di pacifica stabilità: il Partito popolare cristiano-sociale è una tipica forza moderata che ha avuto e dovrebbe aver la fiducia dei cittadini giustamente amanti dell’ordine e della sicurezza e il partito socialista è completamente scevro di ogni immaturità barricadiera, di ogni prurito rivoluzionario e di ogni ingenuità sentimentale. Si tratta di due partiti che, da soli o coalizzati offrono l’immagine di una politica concreta, realista, non vagamente emotiva anche nei confronti del tremendo problema dell’immigrazione. Se sono stati sconfitti così clamorosamente, ciò significa che il pericolo di un’Europa barbarica è reale e che questo campanello d’allarme austriaco va ascoltato e non semplicemente e moralisticamente deplorato. L’Europa di oggi sembra assomigliare progressivamente a quella degli ultimi anni Venti, con le crescenti insicurezze d’ogni genere, lo spettro e la realtà della disoccupazione, l’assenza di ogni progetto del futuro, la debolezza delle organizzazioni e istituzioni internazionali, a cominciare dall’Unione Europea. Tanti decenni fa quella crisi ha creato, in molti Paesi d’Europa, regimi terroristici, tirannici e populisti di ogni genere, mentre a Oriente si consolidava il terrore sovietico. All’origine della violenza c’è spesso la paura, come oggi la paura dell’immigrazione che pure, entro precisi ma ampi limiti, è necessaria in un’Europa sempre più vecchia e sempre più povera di figli e dunque pure di forza lavoro. La paura dell’immigrazione nasce certo da stolidi e feroci pregiudizi, che vanno combattuti e sfatati, ma anche da un problema reale, ossia dal numero dei dannati della terra, ognuno dei quali ha il diritto di vivere umanamente e non vale meno di ognuno di noi, ma il cui numero potrebbe diventare materialmente, concretamente, insostenibile, non per idioti odi razzisti ma per impossibilità oggettiva. Conciliare la solidarietà umana e la considerazione realistica del problema sembra la quadratura del circolo. Se non sarà risolta, l’Europa di domani potrà assomigliare a quella orribile degli anni Trenta e la Vienna di queste elezioni sarà nuovamente stata, come diceva di essa tanti decenni fa Karl Kraus, un osservatorio meteorologico della fine del mondo. Non sembra probabile l’altra interpretazione di quell’antico motto latino, che diceva che all’Austria spettava il compito di governare il mondo intero. La Cia vuole raccogliere dati da Twitter e Instagram di marco tonelli La Stampa, 26 aprile 2016 L’agenzia ha acquisito aziende e startup specializzate nell’analisi dei post e delle foto. Dataminr, Geofeedia, Pathar e TransVoyant producono software in grado di estrarre dati da post e foto sui social, o di localizzare il luogo in cui sono inviati messaggi. È questo il core business delle quattro aziende acquistate dalla Cia attraverso il fondo di investimento Q-Tel, come ha rivelato il sito The Intercept. L’obiettivo dell’intelligence americana è di tenere sotto controllo social network come Twitter e Instagram, perché, come ha spiegato il vicedirettore della Cia David Cohen, sono una miniera di informazioni per monitorare l’attività di gruppi terroristici come l’Isis. "Lo Stato Islamico usa i social media in modo sempre più sofisticato, e i suoi post e tweet producono informazioni vitali", aveva spiegato Cohen durante un seminario alla Cornell University nel settembre 2015. Ma sul sito di Geofeedia, una delle quattro aziende acquistate, si possono consultare ricerche riguardanti attivisti di Greenpeace, movimenti come Black Lives Matter, avvocati che si battono per i diritti sindacali dei lavoratori e appartenenti ad associazioni studentesche. Nata a New York, l’azienda sviluppa software per aggregare e visualizzare il flusso dei dati proveniente da Twitter, con l’obiettivo di individuare informazioni e trend di un dato gruppo di account. Nel 2014, Dataminr ha collaborato con le autorità di Boston per tenere sotto controllo il social dell’uccellino durante la maratona cittadina. Ad un anno dall’attentato (15 aprile 2013), i software della compagnia hanno catalogato milioni di tweet per monitorare eventuali minacce o emergenze. Un database che ha creato non poche polemiche, soprattutto per la mancanza di leggi che regolino queste attività. "Dataminr non conserva i tweet analizzati", ha subito risposto il fondatore Ted Bailey. Eventi in tempo reale, cortei e manifestazioni, tutti sotto l’obiettivo di questa azienda che mette in vendita programmi per localizzare i messaggi di manifestanti e attivisti. Oltre che per la Cia, Geofeedia lavora anche per altri organismi governativi, dipartimenti di polizia e aziende. Ma non solo, l’azienda ha sviluppato programmi anche per il mondo dell’informazione, con un solo obiettivo: geolocalizzare le informazioni che arrivano sui social. La prima produce Dunami, un software capace di aggregare dati da Facebook, Twitter e Instagram, utilizzato dall’FBI per monitorare le reti di organizzazioni o movimenti e individuare possibili focolai di radicalizzazione. La seconda, fondata dall’ex vicepresidente della Lockeed Martin Dennis Groseclose, vende servizi di analisi dei tweet per prevenire eventi e situazioni pericolose. Quest’ultima ha lavorato con l’esercito americano in Afghanistan per integrare i dati provenienti da Twitter con le informazioni provenienti da satelliti, radar e droni. Oltre alle acquisizioni, il fondo d’investimento Q Tel sta mettendo in piedi Lab 41: un laboratorio situato nella Silicon Valley per creare programmi che mettono insieme dati e informazioni dai social network. In particolare, vuole creare un database per classificare i tweet in base ai sentimenti espressi: negativi, positivi o neutrali. Senza dimenticare il caso Palantir: uno dei primi investimenti della Cia nel campo dell’analisi delle reti social. Nel 2011, il collettivo di hacker LulzSec era entrato nei database dell’azienda di Palo Alto e aveva portato alla luce come l’azienda stesse analizzando le comunicazioni di sindacalisti e e attivisti critici nei confronti della camera di commercio americana. I tre fantasmi nel castello di Hannover di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2016 Nei castelli proliferano le leggende sui fantasmi. In quello di Herrenhausen, ieri al G5, ne giravano tre: nazionalismo, populismo e xenofobia. Qui, in un castello raso al suolo nella Seconda guerra mondiale e ricostruito di recente, tutti e quattro i leader europei seduti insieme al presidente americano Barack Obama potevano sentire alitare sul collo questi fantasmi contro i quali l’Europa è stata costruita sulle macerie di 71 anni fa. È una minaccia seria perché alcuni di loro rischiano a breve consultazioni elettorali dove le destre radicali o populiste rischiano di fare il botto o di diventare altamente condizionanti. Lo dice il risultato del primo turno delle presidenziali austriache e anche quello delle legislative in Serbia, dove nei Balcani i demoni del nazionalismo sono risorti 25 anni fa per distruggere lo stato più multi-etnico e multi-religioso d’Europa. Dopo l’ubriacatura seguita alla caduta del Muro nell’89, l’Europa si è allargata a Est gonfiando i suoi confini a dismisura e ora scopre sotto la pressione migratoria, del terrorismo e della stagnazione economica che non ha più delle vere frontiere e se le ha non sa come difenderle, se non retrocedendo a passi da gambero nel cortile di casa dell’iper-nazionalismo. Mentre i cinque leader erano riuniti davanti agli spettacolari giardini della Bassa Sassonia, l’Austria chiudeva i confini con l’Ungheria "per prevenire i flussi dei migranti": un antipasto di quello che può avvenire al Brennero e che ieri il presidente del Consiglio Renzi ha cercato in ogni modo di scongiurare citando dati e cifre tranquillizzanti. Ma a quanto pare non sembra che la cancelliera Angela Merkel abbia fatto una piega: il Brennero fa parte del "suo" sistema di sicurezza. Ognuno in questo momento ha le sue preoccupazioni elettorali e fa argine, o si illude di farlo, dove può. Per questo appare ancora più significativo il testamento che Obama ha lasciato agli europei con il suo discorso alla Fiera di Hannover che forse si potrebbe leggere insieme a quello pronunciato ieri sulla resistenza dal presidente della Repubblica Mattarella in quella che fu la repubblica partigiana della Valsesia. Consapevole dei fantasmi che percorrono il continente, il suo è stato un grande appello all’unità dell’Europa: "Assistiamo allo strisciante riemergere di quel tipo di politica che l’Unione europea è stata fondata per respingere. Una mentalità del noi contro di loro, il tentativo di dare la colpa dei nostri problemi agli altri, a qualcuno che non ci somiglia, che non prega come noi. Immigrati, musulmani o chiunque diverso da noi. Vediamo una crescente intolleranza: come diceva Yates, i migliori non hanno convinzioni mentre i peggiori sono pieni di passioni e intensità". Ma cosa può fare ormai Obama per l’Europa, oltre a chiedere la firma di un trattato commerciale per la verità ancora lontano? Anche Obama fa i suoi errori che ovviamente per Washington sono delle priorità: insiste a disegnare una linea di frattura tra l’Europa e la Russia, a mettere l’accento su una frontiera orientale diventata il simbolo della vittoria nella guerra fredda, tanto che la Nato oggi accoglie non solo gli stati ex comunisti ma anche quelli balcanici eredi dell’ex Jugoslavia. Ma questa Europa ha bisogno, dopo l’Ucraina e la Crimea, di altre frizioni con la Russia? C’è da dubitarne. Può fare comunque molto per aiutare gli europei a non farsi travolgere dai loro litigi interni mettendo a disposizione la Nato e le forze americane per frenare la frantumazione mediorientale e della Libia. Gli Stati Uniti hanno una pesante responsabilità sul caos attuale che risale al 2003, anno dell’occupazione e della disgregazione dell’Iraq. Ben sapendo che potrebbe non essere sufficiente: europei e americani hanno responsabilità condivise, sanno perfettamente che devono cambiare politica, evitare avventure militari prive di senso e scegliere meglio i loro alleati. Sappiamo da dove vengono i profughi, come saranno ancora strumentalizzati, sappiamo bene da dove viene il terrorismo e quali ideologie religiose e politiche lo hanno alimentato. È un’Europa debole questa che si fa ricattare da Erdogan e per compiacerlo ignora l’anniversario del massacro degli armeni e molto altro. Così come, animata da forti interessi economici, continua a essere accomodante con i sauditi e il generale Al Sisi. Anche tutto questo però potrebbe non bastare a salvare l’unità sempre più flebile dell’Europa: abbiamo dato da mangiare alla tigre e la tigre sta uscendo dalla gabbia. Renzi: a Tripoli per proteggere le strutture delle Nazioni Unite di Francesco Grignetti e Francesca Schianchi La Stampa, 26 aprile 2016 Da Tripoli, dove il governo Sarraj ancora stenta, si alza un grido di allarme. "Il consiglio presidenziale - afferma una nota - invita le Nazioni Unite e la comunità internazionale ad aiutare la Libia a conservare le sue risorse petrolifere". Sarraj teme i giochi sporchi di Tobruk, ma anche nuovi attacchi terroristici contro i terminal petroliferi e fa appello alle milizie che difendono i pozzi di fare il possibile per respingere la minaccia. Intanto si rivolge ai Paesi arabi vicini e a quelli europei. "Il Consiglio di presidenza invita i Paesi vicini della Libia a intensificare la cooperazione con Tripoli per sventare questi attacchi e fermare il flusso di "foreign fighter" come parte degli sforzi nazionali per combattere l’Isis e l’immigrazione illegale". Da Hannover gli rispondono i Cinque - Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia - con un "sostegno unanime". Niente di più; nessuna operazione militare. Come dirà Matteo Renzi, al temine del summit internazionale, "l’endorsement del G5 nei confronti del governo Sarraj è significativo e pieno. Quando le richieste saranno formalizzate, non solo annunciate, allora esamineremo il problema". Nessuna accelerazione, dunque. Il governo di Tripoli non ha formalizzato le sue richieste al Consiglio di Sicurezza; i piani militari per ora restano nei cassetti. Renzi, che per l’ennesima volta ha ribadito la linea del governo italiano ("Niente avventure"), ha tenuto però a una sottolineatura a scanso di polemiche interne: "Ci sono evidenze di possibili richieste in alcuni settori, non ci riferiamo ai pozzi Eni, ma ad altre strutture". Fuori di gergo, il premier intendeva dire che se mai si andrà in Libia, non sarà per ragioni di bottega. L’obiettivo italiano è di avere una stabilizzazione complessiva della Libia, in riferimento alle emergenze del terrorismo islamista e dell’immigrazione incontrollata. Così come è irrinunciabile un’appropriata road map per arrivare alle decisioni: dapprima una richiesta scritta del governo Sarraj al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, poi una risoluzione del Palazzo di Vetro, infine una decisione europea, in ultima battuta il via libero del nostro Parlamento. Eppure la frase sibillina di Renzi, specie il riferimento alle "possibili richieste", lascia intendere che qualcosa si muove. E di questo hanno parlato i leader ieri ad Hannover, ossia di una richiesta delle Nazioni Unite affinché gli europei si facciano carico della sicurezza della missione diplomatica di Martin Kobler che vorrebbe sbarcare a Tripoli. Al Palazzo di Vetro si sono convinti che non si può guidare il processo politico libico restando fuori dalla Libia. È necessario che i diplomatici delle Nazioni Unite rimettano piede nella capitale e riprendano pieno possesso degli edifici dove ha sede Unsmil, la United Nations Support Mission in Libya. Un passo delicatissimo che seguirebbe all’insediamento di al-Sarraj nel palazzo presidenziale, in modo da rimarcare almeno il trend di un ritorno alla normalità. È di questo passo, dunque, che i Cinque Grandi hanno discusso. Ma come garantire la sicurezza dei diplomatici Onu a Tripoli? Secondo la richiesta delle Nazioni Unite occorrono dai 200 ai 300 soldati, possibilmente di più Paesi europei. L’Italia per prima ha dato la sua disponibilità, pronta a schierare un centinaio di uomini dei reparti speciali e anche uno staff di comando. Palazzo Chigi ha smentito l’ipotesi di un impegno più massiccio di truppe: "Si tratta di una notizia destituita di ogni fondamento - si legge in una nota - come peraltro si poteva facilmente evincere dal punto stampa del Presidente del Consiglio Matteo Renzi al termine della riunione del Quint ieri a Hannover". È ancora presto per dire, però, quanti Paesi parteciperanno, se oltre a noi ci saranno soltanto Francia e Gran Bretagna o anche tedeschi e altri nordici, con quanti e quali reparti, e se davvero il comando di questa piccola missione di sicurezza, limitata al presidio di un compound nel cuore di Tripoli, sarà affidato a un ufficiale italiano. Bombe nucleari per l’Italia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 26 aprile 2016 "Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare": lo scrive su twitter il premier Renzi, dopo aver partecipato al summit di Washington su questo tema in aprile. "La proliferazione e l’uso potenziale di armi nucleari - scrive il presidente Obama nella presentazione del summit - costituiscono la maggiore minaccia alla sicurezza globale. Per questo, sette anni fa a Praga, ho preso l’impegno che gli Stati uniti cessino di diffondere armi nucleari". Proprio mentre dichiara questo, la Federazione degli scienziati americani (Fas) fornisce altre informazioni sulle B61-12, le nuove bombe nucleari statunitensi in fase di sviluppo, destinate a sostituire le attuali B61 installate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Sono in corso test per dotare la B61-12 di capacità anti-bunker, ossia quella di penetrare nel sottosuolo, esplodendo in profondità per distruggere i centri di comando e altre strutture sotterranee in un "first strike" nucleare. Per l’uso di queste nuove bombe nucleari a guida di precisione e potenza variabile, l’Italia fornisce non solo le basi di Aviano e Ghedi-Torre, ma anche piloti che vengono addestrati all’attacco nucleare sotto comando Usa. Lo dimostra, scrive la Fas, la presenza a Ghedi del "704th Munitions Support Squadron", una delle quattro unità della U.S. Air Force dislocate nelle quattro basi europee "dove le armi nucleari Usa sono destinate al lancio da parte di aerei del paese ospite". Lo conferma, sempre dagli Usa, il "Bulletin of Atomic Scientists" (una delle più autorevoli fonti sulle armi nucleari) che, il 2 marzo 2016, scrive: "Alle forze aeree italiane (con aerei Tornado PA-200) sono assegnate missioni di attacco nucleare con armi nucleari Usa, tenute sotto controllo da personale della U.S. Air Force finché il presidente degli Stati uniti non ne autorizzi l’uso". In tal modo l’Italia, ufficialmente paese non-nucleare, viene trasformata in prima linea, e quindi in potenziale bersaglio, nel confronto nucleare tra Usa/Nato e Russia. Confronto che diverrà ancora più pericoloso con lo schieramento in Europa delle nuove bombe nucleari Usa, che abbassano la soglia nucleare: "Armi nucleari di questo tipo, più precise, - avvertono diversi esperti intervistati dal "New York Times" - aumentano la tentazione di usarle, perfino di usarle per primi". Di fronte al crescente pericolo che ci sovrasta, non avvertito dalla stragrande maggioranza a causa del black-out politico-mediatico, non bastano generici appelli al disarmo nucleare, facile terreno di demagogia. Basti pensare che il presidente Obama, dopo aver varato un potenziamento nucleare da 1000 miliardi di dollari, dichiara di voler "realizzare la visione di un mondo senza armi nucleari". Occorre denunciare - come fa il Comitato No Guerra No Nato - il fatto che, ospitando e preparandosi a usare armi nucleari, l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, ratificato nel 1975, il quale stabilisce: "Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente" (articolo 2). L’unico modo concreto che abbiamo in Italia per contribuire a disinnescare l’escalation nucleare e a realizzare la completa eliminazione delle armi nucleari, è quello di esigere che l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione e, in base ad esso, imponga agli Stati uniti di rimuovere qualsiasi arma nucleare dal nostro territorio nazionale e non installarvi le nuove bombe B61-12. C’è qualcuno in Parlamento disposto a chiederlo senza mezzi termini? Il caso Regeni e le responsabilità dell’università di Cambridge di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 26 aprile 2016 La foto di Giulio Regeni sorridente con un gattino in braccio è un pugno allo stomaco. Se, poi, si leggono i particolari delle torture, a cui è stato sottoposto e che sono state ricostruite mediante l’analisi del suo povero corpo martoriato, viene un senso di sgomento e di rabbia. Per chi ha la mia età l’immagine di Giulio Regeni evoca quella di un figlio. Di un figlio di cui essere orgogliosi. Eppure, proprio questa prospettiva mi porta ad una considerazione. Giulio Regeni è stato inviato, secondo quello che ha riferito la stampa, dall’Università di Cambridge, presso la quale stava svolgendo un dottorato di ricerca, in Egitto per compiere una indagine "dal vivo" sui sindacati indipendenti e, come tali, in contrapposizione con il regime di Al Sisi. Quale sia la situazione in Egitto è noto da tempo e le recenti dichiarazioni del generale Al Sisi sulla diversa prospettiva che i diritti umani hanno in quel Paese e in Europa non possono essere considerate con sorpresa. Vi sono paesi nel mondo, nei quali le libertà individuali ed addirittura la vita umana sono a rischio. Si tratta di paesi nei quali è, purtroppo, possibile anche il cosiddetto "omicidio di stato". Di fronte al quale, quindi, diventa difficile, se non addirittura impossibile, cercare "dopo" di avere giustizia. Con riguardo, in particolare, alla situazione dell’Egitto non sono mancati gli inviti ai propri cittadini, da parte di alcuni paesi, ad evitare viaggi in quella area geografica, o, comunque, ad essere prudenti. La stampa riferisce, sempre con riguardo all’Egitto, di numerosi episodi di sparizione di dissidenti, i corpi di alcuni dei quali sono stati successivamente ritrovati senza vita e con evidenti segni di tortura. Una situazione, dunque, di insicurezza e di pericolosità. Sorge, allora, un interrogativo ineludibile. Che non vuole affatto sminuire le responsabilità dell’Egitto in questa triste vicenda, ma che non può neppure essere ignorato, quanto meno per evitare che in futuro si possano ripetere analoghi tragici episodi. È giusto che una istituzione universitaria mandi i propri allievi a svolgere attività di ricerca in una situazione di pericolo, senza protezione e tutela, facendo leva sui loro entusiasmi e sulla loro inesperienza? Faccio un esempio, portato agli estremi proprio per cercare di esprimere compiutamente il senso di questo interrogativo: sarebbe legittimo per una istituzione universitaria inviare i propri allievi a svolgere una indagine sociologica sulle bande di trafficanti di droga messicani, mandandoli a vivere e ad operare in mezzo a loro? D’altra parte, sia pure sotto differenti profili, un problema del genere si era anche posto rispetto a quelle organizzazioni di volontariato, che inviano i propri componenti giovani ed inesperti in aree del mondo in cui non solo è possibile, ma addirittura probabile la loro uccisione o il loro sequestro a fini di riscatto. La risposta, a mio avviso, non può che essere negativa. Una cosa è il rischio assunto personalmente e consapevolmente da una persona adulta e già compiutamente formata ed altra cosa è il rischio al quale un giovane in formazione viene sospinto proprio dalle istituzioni a cui si è rivolto per la propria formazione. Da parte del giovane verso quella istituzione si determina naturalmente un affidamento fortissimo sotto il profilo sia intellettuale e sia psicologico. E quella istituzione, nello stimolare e accettare quell’affidamento, assume delle responsabilità. Responsabilità rese ancora più gravi dalla maggiore consapevolezza che una istituzione del genere ha, o deve avere, delle difficoltà, dei rischi e, in alcuni casi, addirittura del pericolo di vita, che l’allievo è mandato ad affrontare. Ed allora la responsabilità di quella istituzione non può essere nè ignorata né sottovalutata. L’omicidio di Giulio Regeni è una vicenda orribile che, prima o poi, finirà per pesare sulla coscienza dell’Egitto. Ma è una storia brutta, molto brutta, anche per l’ Università di Cambridge. L’Egitto della dignità sfida al Sisi di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 aprile 2016 Oltre cento arresti al Cairo dove il regime ha schierato migliaia di poliziotti per impedire le manifestazioni contro la cessione delle isolette di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita. Fermati giornalisti stranieri. In manette anche Ahmed Abdallah, direttore del consiglio di amministrazione della "Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà". L’Egitto che chiede libertà, diritti, dignità, che si oppone alla svendita del Paese, simboleggiata dalla cessione alla petromonarchia saudita delle isolette di Tiran e Sanafir, l’Egitto che il presidente-dittatore Abdel Fattah al Sisi descrive come la "forza del male", ha sfidato ieri le migliaia di poliziotti e militari schierati dal regime per schiacciare le proteste al Cairo. Quell’Egitto ha vinto, proprio nel giorno, il 25 aprile, del 34esimo anniversario del completamento del ritiro di Israele dalla penisola del Sinai. Poco importa il numero dei partecipanti alle manifestazioni. Conta la rinnovata volontà di tanti egiziani, incuranti delle centinaia di arresti preventivi eseguiti dalla polizia nei giorni scorsi, di rilanciare lo spirito della rivoluzione del 25 gennaio del 2011 contro un altro dittatore, Hosni Mubarak. La rivoluzione di piazza Tahrir che il regime, raccontava tre giorni fa Sudarsan Raghavan sulle pagine del Washington Post, ora vuole cancellare dai libri di scuola, come se non fosse mai avvenuta, così come la carneficina di tre anni fa al Cairo di militanti e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. La cronaca della giornata di ieri è un lungo elenco di manifestazioni, talvolta di poche decine di persone, disperse con la forza, di lanci di candolotti lacrimogeni, di arresti, di raid, in diversi parti della capitale egiziana, anche se gli incidenti principali si sono concentrati nel distretto di Giza e a Dokki dove viveva Giulio Regeni. Arrestata nei pressi di piazza Tahrir, e poi rilasciata, la cronista Basma Mostafa che, per conto del sito d’informazione Dot Masr, aveva intervistato i familiari di alcuni degli egiziani, presunti membri di una banda criminale, uccisi dalla polizia e poi accusati dalle autorità egiziane di essere i responsabili del rapimento e dell’assassinio del giovane ricercatore italiano. Una versione ridicola. Oltre a Basma Mostafa sono stati arrestati altri giornalisti, come Mohamed El Sawi, Hisham Mohammad (al Watan), e i francesi Efa Sheef, Sam Forey, Etienne Bouy e Jenna Le Bras rilasciati nel tardo pomeriggio assieme a un danese e un ungherese. La corrispondente della Bbc, Orla Guerin, ha denunciato sul suo account di Twitter che lei e il suo team sono stati fermati dalla polizia nei pressi di piazza Tahrir. Un numero imprecisato di attivisti sono stati arrestati dopo un’incursione a Dokki nella sede del partito El Karama (nasserista) guidato da Hamdin Sabbahi, candidato della sinistra alle passate presidenziali. La polizia inoltre ha di fatto chiuso per tutto il giorno gli uffici di alcuni ordini professionali e ha presidiato con decine di agenti la sede del sindacato dei giornalisti, storico punto di riferimento per tante manifestazioni, eseguendo fermi ed arresti in tutta la zona. In serata la polizia non ha consentito a un componente del consiglio del sindacato, Khaled al Balshy, di incontrare i giornalisti egiziani detenuti. Da segnalare, sempre al Cairo, l’arresto due giorni fa del socialista Haytham Mohamadein e quello compiuto ieri poco prima dell’alba di Ahmed Abdallah, direttore del consiglio di amministrazione della "Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà", che ha documentato la scomparsa di centinaia di egiziani, detenuti con ogni probabilità nelle carceri del regime. Domenica era stato arrestato anche uno studente dell’American University del Cairo, Ibrahim Tamer, noto per la sua opposizione al regime di al Sisi. La protesta più consistente è avvenuta in piazza Mesaha, nel governatorato di Giza, dove si sono radunate centinaia di persone che hanno scandito slogan contro il regime e la cessione di Tiran e Sanafir all’Arabia saudita e chiesto la scarcerazione di tutti gli egiziani arrestati nel fine settimana. La polizia è intervenuta con violenza quando i manifestanti si sono spostati in via Dokki, lanciando lacrimogeni e sparando proiettili di piccolo calibro. In quei momenti gli elicotteri delle forze di sicurezza sorvolavano il Cairo in segno di ammonimento. Le manifestazioni si sono allargate a Mansoura, Zagazig e altre località. L’attivista Zeyad Salem ha riferito che ieri sono state arrestate almeno 161 persone, in maggioranza a Dokki. Secondo altre fonti il totale sarebbe più alto. Intanto le autorità egiziane confermano di voler portare in giudizio la Reuters che accusano di aver pubblicato "notizie false che disturbano l’ordine pubblico e la reputazione dell’Egitto". L’agenzia britannica il 21 aprile aveva indicato il commissariato di Izbakiya come quello dove sarebbe stato portato Giulio Regeni dopo essere stato arrestato il 25 gennaio. La Reuters ha difeso il lavoro della sua redazione e negato che il capo della sua sede al Cairo, Michael Georgy, abbia lasciato l’Egitto per evitare l’arresto. Nei giorni scorsi una tv vicina al regime, al Hadath al Youm, ha "mandato al diavolo" Giulio Regeni e affermato che il clamore suscitato dall’assassinio del giovane italiano non sarebbe altro che un complotto internazionale contro l’Egitto. Libia, Sarraj: "Aiutateci a difendere i pozzi dall’Is". Sostegno del G5: "Pronti ad agire" di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 26 aprile 2016 Hannover, vertice su migranti e terrore. Obama: "I muri non servono a nulla". Al vertice organizzato da Angela Merkel in tempi strettissimi, che ha riunito attorno al tavolo Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, un tema centrale è stata la Libia. La concordanza su un freno a ipotesi di azioni militari e sulla necessità di sostenere il governo di Al Sarraj è stata assoluta. Una telefonata di ieri mattina tra Matteo Renzi e il premier libico aveva ravvivato ipotesi su un’azione imminente - Al Sarraj aveva chiesto "aiuto a proteggere i pozzi petroliferi dall’Is". Ma fonti diplomatiche hanno escluso si trattasse di una richiesta libica di intervento. Una novità è che big europei hanno incassato la disponibilità di Obama ad allargare il pattugliamento Nato alle coste libiche. L’altra, ha detto Renzi, "è il cambiato atteggiamento" dei partner europei ed americani, rispetto al complicato dossier mediterraneo. Il summit è servito a Merkel a consolidare il G5, un formato sperimentato a margine del G20 ad Antalya. E deve "aiutare a concordare", ha scandito la cancelliera, non solo in Europa, ma "in uno stretto abbraccio transatlantico" le azioni da intraprendere sui fronti caldi internazionali - stavolta Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Ttip, la crisi dei profughi, la lotta al terrorismo Is e i rapporti con la Russia. Alla cancelliera l’incontro è servito anche, con l’appoggio forte della Casa Bianca, per spostare il baricentro dei rapporti transatlantici da Londra a Berlino. E mentre al vertice si è parlato con toni elogiativi, racconta una fonte presente all’incontro, della "stabilità" dell’Italia, l’anello debole è diventato, nell’incombenza di una possibile Brexit, il Regno Unito. In questa cornice, che Merkel ha fermamente intenzione di confermare anche in futuro, il G5 ha anzitutto segnalato l’intenzione, come ha comunicato la cancelliera, "di appoggiare, per quanto fragile, il governo di Al Sarraj". Sull’emergenza degli sbarchi, Renzi ha detto che l’augurio è che si possa replicare un accordo con la Libia sul modello di quello concordato "con la Tunisia o l’Albania" per ridurre gli arrivi. Anche Merkel ha confermato che si è parlato di un pattugliamento delle acque libiche: dopo aver appoggiato la missione delle navi della Nato nell’Egeo, Obama "si è detto pronto anche a prendersi la responsabilità della rotta dei migranti che attraverso la Libia arriva in Italia". E ha aggiunto: "I muri non servono". Anche sulla Siria, i big europei si sono mostrati cauti, sicuramente più prudenti di Washington. Ieri mattina, alla fiera di Hannover, Obama ha detto che "l’Europa e la Nato possono fare ancora di più in Siria e Iraq". Merkel ha riportato che al summit nessuno ha preso impegni su maggiori impegni militari in Siria.