La pena scontata tutta in galera è una sconfitta per la società Il Mattino di Padova, 25 aprile 2016 Per la prima volta nel nostro Paese un ministro della Giustizia ha deciso di rivedere in profondità la complessa questione dell’esecuzione delle pene e ha riunito 200 esperti, che hanno lavorato quasi un anno, a titolo gratuito, con uno scopo tra gli altri, "Fare il possibile per ricordare a tutti che il carcere è parte della società e che sul carcere finiscono quindi con lo scaricarsi, in modo più o meno deformato, le contraddizioni della società stessa". Nei giorni scorsi, alla presenza del Capo dello Stato, nel carcere di Rebibbia si sono chiusi ufficialmente i lavori di quelli che sono stati chiamati "Stati Generali dell’esecuzione penale", che hanno prodotto riflessioni profonde, proposte di legge avanzate e un’idea diversa delle pene e del carcere. Anche perché, se ancora il 70% di chi sconta tutta la pena in carcere torna a commettere reati, vuol dire che il carcere, così come è oggi, ci rende solo meno sicuri. E come ha detto il ministro "è utile allora sottolineare come un carcere che preveda trattamenti individualizzati e l’utilizzo integrato di pene alternative non è un regalo ai delinquenti, come gridano gli imprenditori della paura, né la dimostrazione del lassismo dello Stato. È invece l’intelligente investimento di una società che decide di non consegnare al carcere la funzione di scuola di formazione della criminalità". Quelle che seguono sono le osservazioni di una persona detenuta, che sottolinea come la pena, scontata tutta in galera, sia una sconfitta per la società: le persone cambiano, e anche le pene dovrebbero essere riviste, nel corso della carcerazione, come avviene in molti Paesi dove i politici hanno meno paura di perdere voti. Non voglio essere più un problema dal quale la società debba difendersi Il termine responsabilità e il concetto con questo espresso mi è chiaro ed è sempre presente in ogni mia azione e pensiero. Proprio per questo mai ho contestato la mia pena o giustificato il mio comportamento non conforme alle regole la cui trasgressione mi ha portato a essere condannato e recluso in questo luogo. Ritengo che questa presa di coscienza sia un passaggio necessario per una autocritica coerente delle proprie azioni e la conseguente accettazione (sempre critica) della pena inflitta. Sin qui tutto bene, anche perché questo è il primo e principale passo verso una rinascita finalizzata a un giusto e corretto reinserimento sociale non solo a fine pena ma, gradualmente, anche nel durare della stessa. Io sono conscio di tutto questo, ma il punto è che all’interno dell’istituzione, sembra che tutto ciò che serve a questo scopo (ed è previsto dall’Ordinamento) sia stato non solo spesso dimenticato, ma sia in molti casi andato perso. Sono nella prima sezione di un carcere dove chi arriva entra nel percorso denominato "Ulisse". Già il termine è piuttosto significativo di come è interpretato il percorso di reinserimento interno e sociale, viste le enormi peripezie temporali, fisiche e psicologiche a cui furono sottoposti Ulisse e i suoi compagni nel viaggio di ritorno verso casa. Sulla carta dovrebbe rappresentare un viaggio accompagnato da presa di coscienza e riabilitazione individuale e collettiva, supportato da programmi mirati, incontri, discussioni e progetti impostati e portati avanti da tutte le componenti dell’istituto penitenziario (educatori, volontari, associazioni, direzione, agenti e organi di sorveglianza oltre, ovviamente, a noi detenuti). Ebbene tutto questo sembra essere svanito nella maggior parte dei casi e del tempo. Vedo intorno a me persone che, per la stragrande maggioranza del tempo, giocano a carte, si cimentano in qualche partita a scacchi, nella visione di qualche film (quando qualche volontario ne porta), incontri sporadici con volontari con iniziative individuali senza alcun tipo di coordinamento e un po’ di lettura autonoma. In pratica si è lasciati in balia di se stessi, a parlare quasi sempre di speranza di uscire, di cosa non funziona, dell’attesa del passare delle ore di una giornata, dei giorni di una settimana, delle settimane di un mese, dei mesi di una anno e di anni di anni, vedendo aumentare sempre più rabbia e rassegnazione in una altalena continua di stati d’animo, con il rischio concreto di vedere smarrita la strada dell’assunzione di responsabilità e del ravvedimento a favore di un senso di ingiustizia data dall’abbandono, che rischia di portare in parecchi casi a sentirsi a propria volta vittime di un sistema che ti ha sì giustamente punito per le tue mancanze ma che, a sua volta, si comporta proprio come hai fatto tu, mostrandoti una quasi assoluta indifferenza e abbandonandoti a te stesso, quasi dicendoti: "Aggiustati da solo perché a me poco interessa". Questa sensazione è ancora più forte proprio qui dove uno arriva con speranze e aspettative, è pronto a mettersi in gioco in termini positivi e poi si trova lasciato a vagare dentro se stesso in attesa di essere accompagnato lungo un percorso che mai sembra partire. Non mi piace e non voglio sentirmi vittima di qualcosa, visto che sono stato io il primo a trasgredire e per questo è giusto che paghi, ma è mio diritto chiedere di non essere lasciato in balia del nulla ed è dovere di chi è preposto all’accompagnamento e alla valutazione della presa di coscienza e del conseguente reinserimento della persona detenuta far sì che questo non accada. Altrimenti mi chiedo, legittimamente a mio avviso, come poi sia possibile che un educatore possa valutarmi, che uno psicologo possa definire un mio profilo e formulare giudizi attendibili, se mai si mettono a sedere con me a condividere almeno una parte di questo mio percorso, al mio fianco, in modo continuativo. Il contenitore può essere bello quanto si vuole, ma se dentro non solo non viene sistematicamente riempito, ma viene addirittura svuotato, non porta e non porterà alcunché di positivo sia per me che per la società. Perché è anche questo il punto: siamo qui anche per questo, per far sì che si possa uscire in veste di nuovo valore aggiunto non solo per noi, ma anche e forse in primo luogo proprio per la società. Non più un problema dal quale debba difendersi, ma una nuova risorsa dalla quale attingere e ricevere. Questo è ciò a cui voglio tendere, ma non posso, non possiamo essere lasciati soli in questo viaggio, altrimenti la detenzione sarà servita a poco in molti casi e tanti usciranno non solo delusi da una istituzione che giudica e abbandona facendo proclami solo sulla carta, ma pure con una dose massiccia di rabbia repressa dentro e questo è ciò che meno vuole non solo la società ma, in primo luogo, il sottoscritto. Io più che scriverlo e gridarlo ai quattro venti non posso fare. Continuerò a lavorare su me stesso, però spero e mi aspetto che chi è preposto dallo Stato a far sì che questo accada mi venga incontro e si adoperi in questo senso e quando poi dovrà giudicare sulla mia persona (e su quella degli altri detenuti) faccia ciò che giustamente viene chiesto a me, ponendosi la domanda: "Ho fatto tutto quello che dovevo per far sì che questa persona potesse rinascere?". Questo chiedo, null’altro. Marco L. Renzi: "Basta con la politica subalterna ai magistrati. Ora norme per accelerare i processi" di Claudio Tito La Repubblica, 25 aprile 2016 L’intervista. "Davigo faccia nomi e cognomi" ma dire che "sono tutti colpevoli significa dire che nessuno è colpevole". Matteo Renzi non accetta l’equazione del neo presidente dell’Anm. Difende la "politica" e anzi avverte che è "ormai finito il tempo della subalternità". La stagione apertasi con Tangentopoli, insomma, si è chiusa. Quindi, ripete, non si sta riaprendo un nuovo scontro con la magistratura: "Noi facciamo le leggi, loro i processi". E nel giorno in cui l’Italia festeggia la Liberazione, ricorda quali siano i limiti fissati dalla nostra Costituzione. Il suo valore costitutivo è "l’antifascismo". Per il quale è ancora "giusto tenere alta la guardia". Pochi anni fa il centrodestra proponeva di abolire questa Festa. È una data che rappresenta il nucleo dei valori della Repubblica. Vede in pericolo quei valori? "No. L’antifascismo è elemento costitutivo e irrinunciabile della nostra società. Giusto tenere alta la guardia". La destra populista che a Roma si presenta con il volto della Meloni e della grillina Raggi non sono il segno che il senso più profondo della Liberazione rischia di essere travolto? "No. Fossi romano voterei Giachetti, senza esitazioni. Candidato serio e competitivo. La destra e i cinque stelle sono alternativi al Pd nei progetti. Aggiungo che nei programmi concreti mi sembrano inconsistenti e superficiali. Ma tutti, nessuno escluso, ci riconosciamo nei valori della Costituzione. Sostenere il contrario significa dare spazio alla delegittimazione come arma della politica. Io invece rispetto i miei avversari. Voglio sconfiggerli nelle urne, ma ne rispetto la funzione democratica ". Soprattutto nel suo partito, qualcuno ritiene che la riforma costituzionale sia una mina piazzata proprio sotto gli ideali della Costituzione nata sui principi del 25 aprile. La accusano d’aver avallato una deriva autoritaria. "Ma per favore! Un po’ di serietà. La deriva autoritaria è quella che ha portato il fascismo. Qui non cambiamo nemmeno i poteri del Governo. Si può essere d’accordo o meno con la riforma costituzionale, ma proprio il rispetto per la Guerra di Liberazione dovrebbe imporre di confrontarci nel merito". Anche sul terreno della giustizia. Il presidente dell’Anm Davigo sostiene che tutti o quasi i politici siano dei ladri. "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Questo è il compito dei magistrati, cui auguriamo rispettosamente di cuore buon lavoro. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l’opposto di ciò che serve all’Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. E voglio vedere le sentenze". Quelle parole sono un’invasione di campo? "No. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano". Il pm Di Matteo ieri su Repubblica accusa la classe politica addirittura di andare a braccetto con la mafia. "Vale lo stesso principio. Nomi e cognomi, per favore. E sentenze". Scusi, ma nelle regioni del nostro mezzogiorno, la sensazione di uno Stato poco presente c’è. Ed è la premessa per il proliferare della criminalità organizzata. "Sono reduce da una giornata campana e dalla firma del primo patto per il Sud, dieci miliardi di euro per la Campania di Enzo De Luca, con impegni scritti e tempi certi. Una rivoluzione nel metodo e nel merito. Non ci tiriamo indietro e ci stiamo impegnando senza tregua". Forse c’è bisogno di riformare anche la giustizia. Di dare più risorse. Pensa di intervenire sulle intercettazioni? "Personalmente non sono interessato all’ennesima discussione sulle intercettazioni, che credo riguardi soprattutto la deontologia del giornalista e l’autoregolamentazione del magistrato. Sulle riforme abbiamo aumentato la pena per i corrotti, istituito l’Autorità Nazionale con Cantone, obbligato chi patteggia a restituire tutto il maltolto, inserito il reato ambientale. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia". E quindi che fine fa la legge che allunga i tempi della prescrizione? "Va bene allargare la prescrizione, ma dando tempi certi tra una fase processuale e l’altra. Non è umanamente giusto che si debbano attendere anni, talvolta decenni, per finire un processo". Sembra comunque che riemerga un nuovo scontro tra magistratura e politica. "Non mi pare. Invito tutti a fare il proprio lavoro nel rispetto della carta costituzionale. Noi facciamo le leggi, loro fanno i processi. Buon lavoro a tutti". In questi mesi si è spesso discusso di un taglio delle tasse. È possibile una manovra fiscale prima delle amministrative? "No. Non abbiamo fatto in tempo ancora a festeggiare l’abolizione dell’Imu, studiare gli effetti del super-ammortamento per le aziende al 140%, valutare l’impatto dell’abolizione dell’Irap, ottenere riscontro dall’abolizione delle tasse sull’agricoltura, e dovremmo già fare un’altra manovra? Questo è il Governo che ha ridotto più tasse nella storia repubblicana, sfido chiunque a dire il contrario. La prossima riduzione fiscale sarà con la Stabilità 2017". In quell’occasione si possono abbassare le aliquote Irpef? "Vedremo in Stabilità. Calma e gesso. L’unica cosa di cui i cittadini possono essere tranquilli è che le tasse continueranno a scendere". Ogni obiettivo, però, va misurato con i dati reali. Lei ha previsto una crescita quest’anno dell’1,2%. Molti istituti come l’Fmi hanno stime inferiori. La Germania arriverà all’1,7. Da noi qualcosa non va. "Anche lo scorso anno il Fondo ha sottostimato la nostra crescita allo 0,5 ed è stata di 0,8. Quanto alla differenza con gli altri Paesi europei, non partiamo di rincorsa: avendo avuto tre anni di recessione è più difficile rimetterci in pari. Ma ci stiamo vicini, finalmente". Ed è sicuro che le sue ricette siano compatibili con i parametri europei? Siamo sempre sotto osservazione. "Tutti i Paesi sono sempre sotto osservazione. Ma adesso la musica mi sembra cambiata: non siamo più il problema, non siamo più nell’occhio del ciclone. Anzi, mi faccia fare i complimenti a Padoan per l’ottimo lavoro a livello europeo. E con lui a tutto il team, da Calenda a Gualtieri. Come ha riconosciuto sul suo giornale ieri il fondatore Scalfari siamo passati dalla fase delle sole critiche alle proposte. Ma noi continueremo a insistere per parlare più di crescita che di austerity". A proposito, Draghi ha fatto bene a rispondere alle pressioni tedesche sui tassi? "Assolutamente sì. La maggioranza dei Paesi lo sostiene con vigore, non solo noi". Con l’estate l’Italia torna sotto pressione dal punto di vista delle migrazioni. Che fine fa il Migration Compact che avete proposto a Bruxelles? "I numeri non sono così drammatici come qualcuno vorrebbe far credere: siamo in linea con gli ultimi due anni. Ma diciamo la verità: dopo mesi finalmente si riconosce che la cosa veramente necessaria è cambiare approccio a livello europeo, impostando una diversa relazione con l’Africa. Lo dicevamo solo noi, un anno fa. Adesso lo dicono tutti. La scommessa è passare dalle parole ai fatti: io ci credo". I numeri non saranno drammatici, ma i cittadini europei non la pensano così. Ha visto cosa è successo in Austria? "Certo, è un campanello d’allarme. Rispetto le scelte del popolo austriaco, ma sono convinto che loro rispetteranno le decisioni prese dall’Ue". Veramente stanno per chiudere il Brennero. "Sarebbe un problema per l’Europa. Un passo indietro per i valori del trattato di Schengen. Un danno enorme per gli ideali europei e per l’economia dei nostri due Paesi". La strada per affrontare l’emergenza immigrati passa per la Libia. Un governo adesso si è formato. Interverrete militarmente? "No. Interverremo solo se il Governo Serraj chiederà a noi e al resto della comunità internazionale un sostegno. E solo insieme alla comunità internazionale. Pronti a un ruolo forte, ma niente avventure". Tornando alle vicende domestiche. A giugno si vota nelle cinque città più importanti. Teme un voto contro di lei? Qual è il risultato minimo accettabile per il Pd? "Il voto amministrativo è un voto sui sindaci. Sulle persone. Non è un voto di partito. Impossibile dunque fare previsioni o azzardare risultati minimi: si vota per il primo cittadino, non per il primo ministro". Il referendum costituzionale, però, un voto su di lei lo sarà. "Sono pronto a discutere nel merito con chiunque. Ma questa riforma è un fatto storico. Sarà il popolo a dire sì o no, con buona pace di chi parla di vulnus democratico. Io, da parte mia, farò campagna elettorale in tutte le regioni, nelle piazze e nei teatri, per spiegare le ragioni dell’Italia che dice sì. Dell’Italia che non vuole solo contestare". Un’ultima domanda in qualità di tifoso di calcio. Dai diritti tv alla gestione del sistema di quello sport nel suo insieme, si susseguono scandali. Sta pensando ad una riforma del settore? "Si, ci sta lavorando in modo costante il sottosegretario Lotti. Questione di qualche settimana e presenteremo il nostro progetto ". I rimedi per una guerra fuori dal tempo di Mario Calabresi La Repubblica, 25 aprile 2016 "Il Paese ha bisogno di concretezza, non di guerre. Le critiche al potere sono necessarie ma la generalizzazione e la sfida plateale rischiano di alimentare uno scontro con la politica che perde di vista le necessità dell’Italia". Il confronto scoppiato negli ultimi giorni tra la magistratura e il primo ministro appare datato, fuori tempo e soprattutto inutile. Terminato il ventennio berlusconiano avevamo tutti sperato in una nuova stagione capace di restituire rispetto ed efficienza sia all’azione giudiziaria sia a quella politica, ci ritroviamo invece in duelli verbali sterili e sfinenti. Il nostro Paese è talmente rallentato e in crisi da non potersi permettere il lusso di nuove guerre di religione che finirebbero per rinviare ogni tentativo di migliorare il nostro sistema condannandoci tutti alla retrocessione. Ma voglio partire subito dal fondo, dai possibili rimedi, anziché rifare per l’ennesima volta l’analisi dei problemi e di torti e ragioni delle due parti. Cominciamo da ciò che ci si aspetterebbe dal governo: una serie di misure che dimostrino la volontà di restituire efficienza e dignità al sistema della giustizia. E questo deve essere fatto non tanto perché lo chiede la magistratura, ma perché è quello di cui necessitano i cittadini, che oggi stanno perdendo fiducia nel funzionamento dei tribunali. È quello che chiedono le imprese, per recuperare efficienza negli appalti, è quello che vorrebbero gli investitori internazionali, tanto cari al premier, che ripetono in continuazione di stare lontani dall’Italia per l’insostenibile lunghezza di ogni possibile contenzioso. Bisogna anzitutto che Renzi si impegni a far varare subito le nuove norme sulla prescrizione, che è diventata garanzia di impunità. Lo è per i reati della classe dirigente, che svaniscono prima che si arrivi a pronunciare una sentenza, ma anche per un’infinità di crimini che condizionano la vita degli italiani: dai furti in appartamento alle frodi sempre più diffuse, fino ai guasti provocati da chi ha bruciato i risparmi di migliaia di persone. L’allungamento dei termini di prescrizione è però un palliativo se non si revisiona l’intera macchina della giustizia, penale e civile, per portare i tempi entro quegli standard europei che sono indispensabili a una società moderna. Non è accettabile aspettare otto anni per un verdetto. È un muro che frena la possibilità di crescita economica e di sviluppo sociale ed è un alibi per molte delle inefficienze della magistratura. Per questo il governo deve mantenere le promesse. Stanziare risorse per migliorare il funzionamento dei tribunali, colmare i vuoti negli organici della magistratura e soprattutto delle altre figure professionali, come i cancellieri; investire in dotazioni informatiche e prassi telematiche che snelliscano l’attività. Ma anche varare quelle riforme nella procedura e nell’organizzazione giudiziaria per eliminare gli ostacoli che bloccano il processo. Due anni fa proprio Renzi creò una commissione di studio, chiamando a Palazzo Chigi magistrati di spessore come lo stesso Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri. Che fine hanno fatto le loro proposte? Il premier ha di fronte a sé un’occasione storica per chiudere lo scontro tra magistratura e politica che ha segnato l’ultimo ventennio, ma per farlo deve mostrare di avere a cuore la riforma della giustizia quanto quella della legge elettorale. Con la legge Severino - che necessita di miglioramenti ma rappresenta una svolta epocale nel contrasto del malaffare politico - sono stati introdotti nuovi reati per sanzionare le forme moderne di corruzione. Ma resta un vulnus, un pericoloso buco nero. Perché oggi a dominare il finanziamento della politica non sono più le tesorerie di partito, ma le fondazioni dei singoli esponenti e dei singoli gruppi - ancora più importanti nelle dinamiche parlamentari delle vecchie correnti - e che stando alle inchieste sono anche diventate il canale per le sovvenzioni più sporche. Le fondazioni sono determinanti per la vita democratica ma mancano di qualunque regolamentazione che imponga la trasparenza e punisca i comportamenti illeciti. Anche su questo punto il governo dovrebbe varare subito una legge che cancelli i sospetti, perché in questo ventennio è profondamente cambiato l’atteggiamento dei cittadini verso la politica, un sentimento reso più intransigente dalla crisi economica. Peccati che un tempo apparivano veniali non sono più tollerati, in un’evoluzione sociale che ci sta allineando agli standard di rigore delle democrazie occidentali: le auto blu e gli altri privilegi "di casta" a carico del contribuente, le case in affitto a prezzi irrisori, i doni di lusso (ma anche le raccomandazioni e le assunzioni dei "figli di") adesso appaiono intollerabili. Su questo fronte il Parlamento deve fare ancora di più, per dimostrare che intende essere all’altezza delle aspettative degli elettori. È un passaggio fondamentale per restituire credibilità alla politica che deve cominciare dalla capacità di giudicare autonomamente i comportamenti dei parlamentari e delle figure istituzionali senza attendere il verdetto dei giudici. Negli scorsi mesi due ministri si sono dimessi pur non essendo indagati, ma altri mantengono le loro cariche (un sottosegretario e il comandante di una forza armata, solo per citare i casi più recenti) nonostante non solo siano indagati ma le intercettazioni della magistratura ne abbiano mostrato comportamenti a dir poco spregiudicati. E allora, ricordando la rapidità con la quale Renzi ha chiesto e ottenuto le dimissioni di Federica Guidi, viene da domandarsi: sono comportamenti compatibili con la gestione dei loro incarichi? Lasciarli al loro posto non arreca un danno all’immagine delle istituzioni? Ora torniamo all’inizio: il Paese ha bisogno di concretezza, non di guerre. Le critiche al potere sono necessarie, soprattutto se pronunciate da magistrati autorevoli. Ma la generalizzazione ("i politici rubano più di prima") e la sfida plateale che emerge dalle parole di chi guida un’associazione delicata e importante come quella dei magistrati rischiano di alimentare uno scontro con la politica che perde di vista le necessità dell’Italia. Il Paese è molto cambiato dai tempi di Mani Pulite, anche se Davigo nelle sue interviste sembra un po’ troppo legato a quella chiave di lettura, esacerbando così i toni dello scontro. Oggi anche la corruzione è diversa. Non siamo più a Tangentopoli, non esiste più il sistema dominato dai partiti, che li finanziava imponendo bustarelle su tutte le attività pubbliche, dai comuni ai ministeri. Quel mondo è finito ma il malaffare resta, in forme forse ancora più pericolose per la vita democratica. Tutte le ultime indagini ci svelano una corruzione trasversale, "gelatinosa", gestita da cricche e comitati d’affari in cui il ruolo dei politici spesso è secondario: sono al servizio di figure imprenditoriali o addirittura di boss. È lo scenario di inchieste come Mafia Capitale, Mose e Expo. Ed è il modello verso cui sta convergendo la criminalità organizzata che - come ha denunciato tra l’altro il presidente del Senato Grasso - per espandersi predilige la corruzione alle armi. In questo scenario però non possiamo dimenticare che i cittadini non riescono ad avere giustizia e tendono a diffidare non solo dei politici ma anche dei magistrati, spesso visti come una casta più preoccupata di tutelare i propri interessi che non di amministrare la giustizia. Sicuramente questo è frutto anche di una lunga campagna di delegittimazione portata avanti da alcuni media e parlamentari negli anni del berlusconismo. Ma non si può negare che la magistratura abbia una sua parte di responsabilità nel cattivo funzionamento della macchina giudiziaria. L’incapacità di tutelare le vittime e di punire in modo efficace i colpevoli è sotto gli occhi di tutti: una situazione diventata ormai inaccettabile che ha i suoi esempi più visibili nella lentezza dei processi, nell’inefficienza degli uffici, nella sciatteria con cui migliaia di fascicoli vengono lasciati marcire, nella gestione di grandi casi con sentenze che si smentiscono ben oltre la fisiologia processuale. I magistrati possono e devono fare molto per migliorare la situazione. Hanno un organo di autogoverno che per anni è apparso solo impegnato nella tutela corporativa ma che può diventare il luogo del cambiamento, mettendo al servizio del Paese esperienze e competenze. Il modello è quello che alcuni procuratori di primo piano come Giuseppe Pignatone e Armando Spataro stanno facendo con l’autoregolamentazione delle intercettazioni, uno dei punti di scontro più duri tra parlamentari e toghe dello scorso ventennio. La capacità di correggere errori e derive senza attendere l’azione politica è il modo migliore di fare le riforme e di rispondere alle domande della società. Quanto ci farebbe bene avere mesi di cammino comune anziché l’ennesima stagione di una serie che nessuno ha più voglia di vedere. In bilico tra emergenza e misure di lungo respiro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 Tra riforme di struttura e misure urgenti: il baricentro dell’attività legislativa si muove sempre tra questi due poli. E la giustizia non fa certo eccezione. Anzi, in questa materia più di altre, gli interventi sono costantemente sospesi tra l’ambizione di misure strutturali, destinate a durare nel tempo, e il realismo, spesso malinteso, di norme approvate per fronteggiare l’emergenza del momento. Salvo scoprire, magari dopo poche settimane, che c’è una nuova e più urgente emergenza. Con l’aggravante che su temi assai delicati il segno delle diverse maggioranze di governo si fa sentire in profondità. Soprattutto sul versante della giustizia penale. Un esempio? Basti pensare al falso in bilancio, reato societario per eccellenza, riformato, meglio in larga parte depenalizzato, dai Governi Berlusconi, tra il 2002 e il 2005, e ora radicalmente riscritto, con lo scivolone sulle valutazioni peraltro, da un Governo di segno opposto. Questa legislatura, in linea di massima, conferma la regola. Con coefficiente di difficoltà ancora più elevato per l’estrema eterogeneità della maggioranza che si fa sentire soprattutto al Senato (sarà un caso che è a Palazzo Madama che sono incagliati i provvedimenti di più ampio respiro). Tuttavia alcuni bersagli sono stati centrati - riduzione dell’arretrato civile in primo luogo - là dove è possibile individuare una linea di continuità rispetto al passato, come per esempio sul fronte della giustizia civile e, in particolare, sull’impulso dato alle soluzioni stragiudiziali delle controversie (e presto, con l’esito dei lavori della commissione Alpa, dovremmo assistere a un nuova fase); oppure con la conferma della revisione della geografia giudiziaria, anch’essa a breve probabilmente soggetta a un nuovo aggiustamento sul fronte delle Corti d’appello; o, ancora, sulle carceri. Le difficoltà invece, come ovvio, si fanno più numerose sulle riforme "di struttura". Tanto che è ormai evidente l’effetto "spezzatino", con ampi segmenti qualificanti che vengono tradotti in decreti legge oppure accantonati in attesa di tempi migliori. Casi esemplari le deleghe per rivedere entrambi i codici di procedura, da tempo in discussione al Senato. Quella penale sconta, tra l’altro, l’eterno balletto sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, tema sul quale la vera riforma ormai è stata fatta dalle singole procure che si stanno via via autodisciplinando e mentre lo stesso Csm annuncia linee guida. Quella civile potrebbe tra pochissimi giorni vedere inserite in un decreto legge, che potrebbe imbarcare anche alcuni punti della delega sul Testo unico dell’insolvenza, su banche e recupero crediti alcuni dei contenuti più incisivi. Legnini, altolà a Davigo. "Ma dai politici serve più rispetto per i pm" di Antonio Calitri Il Messaggero, 25 aprile 2016 I magistrati chiedono rispetto e la riforma della prescrizione. A intervenire sul rapporto tra politica e magistratura dopo le polemiche dei giorni scorsi aperte dall’intervista del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo che accusava "i politici di rubare senza vergogna, peggio di Tangentopoli" è intervenuto il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini che, intervistato da Lucia Annunziata a "In mezz’ora", ha messo in guardia l’ex pm di Mani pulite dal "rischio di portare indietro le lancette della storia". Ieri la giornata si era aperta con l’attacco di Angelino Alfano, che intervistato dal Messaggero è tornato sul tema auspicando che "i magistrati contrastino i reati e non i governi e che abbiano sempre chiaro il perimetro che la Costituzione assegna alla loro funzione", e puntualizzando che il governo non vuole "depotenziare le intercettazioni come mezzo di ricerca della prova, ma difendere la privacy". Poi, nel pomeriggio, Legnini ha provato a fare una sintesi dello scontro e a sottoporre le richieste della categoria alla politica, ovvero maggiore rispetto per i magistrati ma soprattutto ha chiesto che sia approvata al più presto la riforma sulla prescrizione perché "gli effetti negativi della ex Cirielli, di quella riforma, chiamiamola così, si stanno dispiegando e non possiamo permettere che le esigenze di giustizia siano vanificate con il semplice decorso del tempo". Per Legnini, "la politica deve rispettare i magistrati", ammonendo poi che "giudici e politici non devono andare a braccetto, ma non è bene neppure la guerra continua. Mi piacerebbe un Paese che osserva di più il principio della separazione dei poteri: non penso che i giudici debbano parlare solo con le sentenze, ma i poteri sono in equilibrio solo se sono tutti forti". Il vicepresidente del Csm ha voluto anche rappresentare l’attuale stato d’animo della categoria dopo i tanti attacchi di questi anni e alcune riforme che hanno interessato la categoria e il suo lavoro: "C’è molta insoddisfazione nella magistratura, bisogna fare in modo che venga superata e che si riconosca il ruolo essenziale della magistratura. Gli attacchi alla magistratura a me non piacciono e non sono mai piaciuti. Le critiche sono legittime" spiegando però che "i toni eccessivi non aiutano la ricerca del confronto" e apprezzando il ridimensionamento delle polemiche della settimana corsa, "mi sembra che lo stesso Matteo Renzi abbia utilizzato ieri toni diversi, così come prendo atto della rettifica che Davigo ha fatto la sera stessa dell’intervento. Credo che il rischio d’incendio possa avviarsi a soluzione". Penati: "Troppi innocenti in carcere. Se il magistrato sbaglia, deve pagare" di Amedeo La Mattina La Stampa, 25 aprile 2016 Parla l’ex presidente della Provincia di Milano, assolto dopo 4 anni e mezzo d’indagine: "Il pm che mi rovinò la vita sta per essere promosso. Nel Pd ambiguità giustizialiste". "Aspetti che sto guidando: in macchina non posso godere troppo per i dati che mi sta dando. Tra mezz’ora scendo dalla macchina e parliamo: ho tante cose da dire". Mezz’ora dopo eccolo che si sfoga Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, nonché braccio destro di Pierluigi Bersani ai vertici del Pd, assolto nel dicembre 2015 da tutte le imputazioni, "perché il fatto non sussiste". Dopo quattro anni e mezzo di indagine e tre di processo (difeso dall’avvocato Matteo Calori) sono crollate le accuse dell’inchiesta della procura di Monza sul "Sistema Sesto". Ora Penati insegna italiano ai migranti minorenni della comunità S. Francesco di Milano. "Tra un anno vado in pensione, resto come volontario". Che ne pensa di questi dati che La Stampa ha pubblicato? "Non li conoscevo, ma non mi stupiscono. Immaginavo che la situazione fosse questa. Ho passato quasi cinque anni dentro un incubo. Tutto è cominciato il 20 luglio del 2011 quando i carabinieri bussano alla mia porta. Vengo a conoscenza delle indagini a mio carico solo in quel momento. Venni definito dalla procura di Monza "delinquente abituale". Quando lo vidi scritto in prima pagina sul Corriere della Sera non potevo crederci. Ma lei lo sa come si può sentire una persona onesta? E sa perché io lo sarei stato?". Ce lo racconti. "Con un grande atto di scorrettezza, la procura mi tese una trappola: aveva mandato l’imprenditore Pasini con un registratore nascosto per incastrami. Io allora ero vicepresidente di minoranza al Consiglio regionale della Lombardia. Avevo fretta di rientrare in aula e ci mettemmo a passeggiare sul marciapiede avanti e indietro velocemente. La registrazione fallì e la procura stabilì che ero "delinquente abituale" perché sarei riuscito a impedire la registrazione. La conclusione è stata che non sono stati trovati i soldi che cercavano nel mio conto corrente e la mia documentazione, come hanno stabilito i giudici, ha smontato la tesi dell’accusa. Io, grazie a questi giudici, oggi posso dire di avere fiducia nella giustizia: il problema sono certi procuratori. Per questo sono favorevole alla separazione della carriere.". Lei però in carcere non c’è stato. "Sì, grazie al gip che ha negato l’arresto alla procura. C’è un eccesso di carcerazione preventiva e una totale deresponsabilizzazione dei magistrati che sbagliano. Perché un chirurgo che sbaglia paga e un magistrato no? In magistratura chi sbaglia non solo non viene punito ma fa carriera. È il caso del mio accusatore, il procuratore aggiunto di Monza Walter Mapelli, che è in procinto di diventare capo della procura di Bergamo". Renzi ha ragione nel dire che abbiamo vissuto una barbarie giustizialista? "Sarei più cauto e lascio a lui la parola barbarie, ma giustizialismo sì. Renzi ha ragione: un’accusa equivale a una condanna. Ma è che la giustizia viene sempre intestata ai pm: sono loro che fanno notizia grazie all’uso dei media e dei giornalisti". E Davigo? "È una persona di spessore e valore, ma quello che mi stupisce non è quello che ha detto, lo ha sempre detto: mi stupisce che sia stato eletto al vertice dell’Anm. Non è più l’illustre magistrato ma il rappresentante di una categoria". È ripartito l’attacco alla politica, come qualcuno sostiene? "C’è una parte della politica che utilizza una certa magistratura contro la maggioranza, come ai tempi di Mani pulite. Oggi sono soprattutto i 5 Stelle a cavalcare le inchieste. La politica è debole. Renzi sta reagendo bene, dicendo che bisogna rispettare l’autonomia della politica. Ma dentro il Pd c’è ancora ambiguità. Per esempio quando sento il capolista a Milano Maiorino dire che Davigo è stato sopra le righe ma non bisogna prendersela con lui, basta che non si rubi. Che vuol dire?...Che non si vuole dispiacere il populismo giustizialista". Come ci sente ad essere definito "delinquente" e poi assolto da tutto? "Quando sei assolto una gioia infinita, ma quando sei dentro al tunnel pensi a cose strane. Guardi io non ho pensato mai al suicidio, ma sono arrivato a capire perfettamente le ragioni di chi si è tolto la vita". Anche il suo Pd lo condannò e allora segretario era Bersani. "Il Pd mi condannò, mi espulse sulla base di un avviso di garanzia e si costituì parte civile. Poi si ritirò dal processo quando cominciò a capire che ero pulito. Bersani era il bersaglio. Il partito non ha retto l’urto mediatico-giudiziario e Pierluigi, che ha sempre creduto nella mia innocenza, non ha potuto arginare l’ipocrisia del Pd. È stata un’amarezza indicibile". Un tempo i politici provavano vergogna e facevano bene di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 25 aprile 2016 In passato anche da noi e e oggi in altri Paesi, c’è chi si dimette per i suoi errori. Dovremmo riscoprire questo sentimento che moralizza senza moralismi. "Se un’ intera nazione sperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto al balzo": lo scriveva Karl Marx in una lettera al filosofo Arnold Ruge, 173 anni fa. L’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica precede dunque di un po’ quelle parole tanto scomode dette da Piercamillo Davigo al nostro Aldo Cazzullo a proposito di certi politici: "Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi". E non è certo una prerogativa del pensiero marxista. La politologa della Columbia University Nadia Urbinati ricordava qualche anno fa su Repubblica come Giacomo Leopardi avesse anticipato il filosofo di Treviri nell’esaltazione del potere rivoluzionario della vergogna, sentimento a cui lo stesso Giambattista Vico aveva attribuito le origini della responsabilità morale della società. Ma forse nessuno come Papa Francesco, e ben prima di Davigo, si era scagliato contro "i corrotti", bollati dal pontefice come coloro "che non hanno vergogna". Accadeva tre anni fa, durante una funzione nella cappella di Santa Marta. E perché il messaggio risuonasse forte e chiaro, ancor più di quanto non avesse già fatto nel 2011 il cardinale Gianfranco Ravasi citando la famosa la battuta dell’Amleto di William Shakespeare ("Vergogna, dov’è il tuo rossore?"), quel concetto l’aveva ripetuto in un libro, Il nome di Dio è Misericordia, scritto con Andrea Tornielli: "Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna". Già, la vergogna. Sulle ragioni per cui quel sentimento sia stato smarrito, si potrebbe dissertare a lungo. Di sicuro c’è stato anche un tempo in cui le cose erano diverse. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise nel 1978 in seguito alla vicenda Loockheed, pur essendone totalmente estraneo. "Le siamo grati per l’esempio", gli scrissero anni dopo in una lettera di scuse i suoi accusatori Marco Pannella ed Emma Bonino. Nel 1993, durante Tangentopoli, i ministri si alzavano dalla poltrona all’apparire dell’avviso di garanzia. Qualcuno anche soltanto all’odore. Lo fecero due ministri delle Finanze, poi riconosciuti immacolati, come Giovanni Goria prima e Franco Reviglio un mese dopo di lui. Il repubblicano Oscar Mammì si dimise addirittura da deputato. Il suo giornale, la Voce repubblicana, scrisse qualche giorno dopo: "Non siamo ipocriti e in queste ore misuriamo sulla nostra pelle la sferzata di vergogna". Frasi che oggi sarebbe impossibile leggere… Antonio Merlo della Pennsylvania university ha appioppato cinque anni fa il termine "mediocracy" alla nostra classe politica, qualificandola come "la più mediocre che l’Italia abbia avuto dal 1948". Ed è francamente difficile non vedere una relazione fra questo degrado, la diffusione del malaffare e il progressivo impoverimento di quel senso di vergogna che in tutte le società avanzate rappresenta un formidabile deterrente contro la corruzione. Ma anche contro comportamenti non etici, sintetizzati così da Davigo: "Dicono cose tipo: "con i nostri soldi facciamo quello che ci pare". Ma non sono soldi loro, sono dei contribuenti". In Germania il ministro della Difesa Karl-Theodor Guttenberg, astro nascente della Cdu, si dimise dopo la scoperta che aveva copiato parte della sua tesi di dottorato, perché "lo scandalo sarebbe ricaduto su tutti i militari". Il ministro inglese dell’Energia Chris Huhne se ne andò "per evitare interferenze con l’incarico pubblico" perché un giornale rivelò che aveva addossato alla moglie una multa per cui avrebbe perso punti della patente. In Gran Bretagna il portavoce del parlamento Michael Martin lasciò l’incarico quando scoppiò la bufera delle note spese gonfiate, pur non avendo responsabilità personali. Non l’ha imitato il presidente di quel consiglio regionale del Lazio travolto dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi consiliari, Mario Abbruzzese: nonostante fosse a capo dell’ufficio che distribuiva i quattrini ai partiti. Si è anzi ricandidato ed è stato rieletto. Ora è presidente di una commissione regionale. Il presidente tedesco Christian Wulff gettò la spugna quando si seppe che aveva avuto da un amico banchiere un prestito a tassi di favore. Le sue parole: "Ho fatto degli errori. C’è bisogno di un presidente che abbia fiducia ampia dei cittadini. Gli sviluppi di questa settimana hanno dimostrato che questa non c’è più". Succedeva all’inizio del 2012, mentre da noi lo scandalo dei rimborsi elettorali usati impropriamente anche per scopi personali della famiglia del leader si abbatteva sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Che liquidava la faccenda con un’alzata di spalle: "Non c’è reato. Dei soldi della Lega, la Lega può fare quello che vuole". Seguì un durissimo scontro interno al partito e Bossi si dovette fare da parte. Un mese fa suo figlio Riccardo è stato condannato in primo grado a un anno e otto mesi per appropriazione indebita aggravata. "Pensava fossero soldi di famiglia", ha detto l’avvocato ai giudici. Un pizzico di vergogna forse l’avrebbe evitato. Prescrizione e intercettazioni, i fronti aperti tra toghe e Renzi di Francesco Grignetti La Stampa, 25 aprile 2016 La proposta del Pd sui tempi non convince i magistrati. Sulle telefonate Davigo spinge l’autoregolamentazione. Sono almeno tre i dossier che dividono la politica dalla giustizia: prescrizione, intercettazioni, commistioni tra carriera giudiziaria e incarichi politici. Sulla prescrizione, i dati dicono che nel 2013 sono stati cancellati 68.107 procedimenti di fronte al gip, 20.685 in primo grado, 21.521 in sede di appello. Approvato alla Camera e all’esame del Senato, c’è un ddl a firma di Donatella Ferranti, Pd, che modificherebbe le regole attuali con una "sospensione" nei conteggi di 2 anni dopo il primo grado e di 1 anno dopo l’appello. Tale meccanismo non convince assolutamente i magistrati, che spingono per una riforma più drastica: sospendere del tutto i conteggi una volta che viene esercitata l’azione penale. E se una parte della magistratura sarebbe propensa a fermare gli orologi a fronte di una condanna di primo grado, Piercamillo Davigo spinge per la versione più radicale, ovvero sospensione della prescrizione al termine dell’udienza preliminare. Sulle intercettazioni, il contrasto tra mondo politico e giudiziario non potrebbe essere più plateale. Il governo Renzi ha messo in cantiere una riforma, dichiarando di voler limitare la pubblicazione delle intercettazioni non essenziali, assolutamente non ridimensionando lo strumento. Al momento c’è una legge-delega in discussione al Senato (approvata nel settembre scorso alla Camera) che darebbe al governo la possibilità di intervenire secondo le seguenti linee guida: vietare la pubblicazione di "comunicazioni non rilevanti a fini di giustizia penale"; tutelare "la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento"; prevedere la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chiunque diffonda intercettazioni fraudolente "al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui", ma la punibilità è esclusa nel caso in cui le registrazioni siano utilizzate "nell’ambito dell’esercizio del diritto di difesa" o rientrino nel diritto di cronaca. Da parte sua, la magistratura sta tentando di prevenire guai maggiori con l’autoregolamentazione. Vi sono circolari delle procure di Torino, Roma, Napoli e Firenze che, con varie forme, dovrebbero impedire il travaso di conversazioni private e irrilevanti negli atti, sapendo che da un certo momento in poi è fisiologico che le intercettazioni diventino di dominio pubblico. Su questa ipotesi dell’autoregolamentazione si sta muovendo anche il Consiglio superiore della magistratura, con la Settima commissione che sta elaborando una super-circolare di rango nazionale. Si segnala qui una posizione molto personale di Piercamillo Davigo che difende lo statu quo. "Ma lo sanno o no - ha detto a Il Fatto quotidiano - che ciò che è irrilevante per il pm o per il giudice può essere rilevantissimo per il difensore?". Infine il nodo delle porte girevoli. Approvato dal Senato, pendente alla Camera, un ddl limiterebbe moltissimo la possibilità per un magistrato che sia entrato in politica, o che abbia comunque rivestito un incarico fiduciario, di rientrare. Nasce dal dialogo tra due ex magistrati quali i senatori Felice Casson e Franco Nitto Palma, uno del Pd e l’altro di Forza Italia, che avrebbero voluto addirittura impedire il ritorno alla toga. Alla fine i paletti non sono così insormontabili. Comunque il testo è maldigerito dai magistrati. E chissà se Piercamillo Davigo pensava proprio ai due quando ha detto, al Corriere della Sera, "secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza, e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici". Riforme della giustizia avanti piano di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 Dal penale al civile, dalla riforma della magistratura onoraria ai fallimenti, il cantiere giustizia in Parlamento è sempre aperto. Ma il cammino delle riforme è tutt’altro che spedito. I disegni di legge avanzano a fatica, spesso ostacolati dalle divisioni all’interno della maggioranza: come è accaduto alla nuova norma sulla legittima difesa, rispedita dall’Aula alla commissione Giustizia della Camera. E anche sulle misure meno controverse i tempi si stanno allungando rispetto alle iniziali previsioni del Governo. Certo, la carne messa al fuoco dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è tanta. Alcuni interventi sono già diventati legge: la negoziazione assistita in ambito civile, la messa alla prova degli imputati nel penale, il decreto legge che ha anticipato la riforma fallimentare. Ma molti dei provvedimenti all’esame delle Camere sono in gestazione da oltre un anno. Anzi, tra le riforme definite prioritarie dal Def (illustrate nelle schede a lato), le nuove norme sulla prescrizione sono in Parlamento da più di due anni, nonostante la necessità di una riforma sia stata più volte segnalata dai magistrati per evitare che un altissimo numero di reati resti impunito. Ma, anche qui, le divisioni nella maggioranza (che si protraggono da mesi e non sono ancora affatto risolte) rendono difficile il rispetto del cronoprogramma indicato dal Governo nel Def, che prevede il varo definitivo entro ottobre. Le procedure concorsuali - Il Ddl che riscrive la normativa sulle procedure concorsuali è invece stato presentato un mese e mezzo fa alla Camera e non ha ancora superato il primo passaggio parlamentare: centrare l’ottimistico traguardo di ottobre 2016 previsto dal Def è quindi arduo. Una parte delle disposizioni contenute nel Ddl delega dovrebbe però confluire nel decreto legge sulle quattro banche salvate dal Governo (Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti) che sarà varato a breve, forse già questa settimana. Il decreto banche dovrebbe inoltre ospitare anche alcune delle norme pensate per rendere più efficiente il processo civile, stralciandole dal Ddl delega già approvato dalla Camera e assegnato lo scorso 17 marzo alla commissione Giustizia del Senato, dove però l’esame non è ancora partito. Nel Dl sulle quattro banche fallite potrebbero trovar posto le misure volte a velocizzare i processi civili di valore meno elevato e a ridurre il numero di controversie che approdano in tribunale. I tempi di prescrizione - Il penale è l’ambito su cui le nubi sono più fitte. Sulla prescrizione le tensioni all’interno della maggioranza erano già emerse al momento del varo della Camera, quando i parlamentari di Area popolare (Ncd-Udc) non votarono contro (si erano astenuti) solo di fronte alla promessa di modifiche fatta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una volta approdato alla commissione Giustizia del Senato, il provvedimento è però rimasto fermo per mesi in attesa di un accordo che ancora non c’è. Il nodo irrisolto è l’aumento dei termini di prescrizione per i reati di corruzione, che, a differenza di quelli ordinari, vengono spesso scoperti molto tempo dopo essere stati commessi, con il forte rischio quindi di rimanere impuniti. Il testo votato dalla Camera prevede l’aumento della metà dei termini di prescrizione per corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e in atti giudiziari. "Siamo disponibili a rimodulare quest’incremento alla luce dell’aumento delle pene edittali - spiega David Ermini, responsabile giustizia del Pd -, ma non a eliminarlo. Il principio va mantenuto, ma al Senato non abbiamo i numeri e quindi un’intesa va trovata". Il processo penale - Gli attriti sulla prescrizione si ripercuoteranno anche sulla riforma del processo penale, in cui il Pd ha deciso, nonostante i dissensi, di farlo confluire. Entro mercoledì i relatori del Ddl, Felice Casson (Pd) e Giuseppe Cucca (Pd), presenteranno un nuovo testo base, che ospiterà anche le norme sulla prescrizione. "Per ora ci atterremo al testo varato dalla Camera - dice Casson -. Dei contenuti si discuterà dopo la presentazione degli emendamenti. Un accordo nella maggioranza, comunque, ancora non c’è". "Sull’inserimento nel Ddl penale non abbiamo raggiunto alcuna intesa - precisa Gabriele Albertini, capogruppo in commissione di Ap -. Il testo uscito dalla Camera va cambiato: non si può arrivare al paradosso di una prescrizione più lunga per la corruzione che per i reati di sangue. Capisco che bisogna tener conto della sensibilità sociale, ma l’aumento va riequilibrato". Rispettare i tempi dettati dal Def - agosto per il processo penale, ottobre per la prescrizione - non pare quindi semplice. La criminalità organizzata - Secondo il Def, poi, dovrebbe arrivare entro fine anno il Ddl sulla criminalità organizzata, che però è fermo in prima lettura da oltre un anno in commissione Giustizia al Senato. La magistratura onoraria - L’unica ad accelerare, per ora, è la delega al Governo per riformare la magistratura onoraria: su richiesta della presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti (Pd), il Ddl approderà in Aula domani, anziché a maggio, e il voto finale è già previsto per giovedì. Nelle intenzioni questo anticipo dovrebbe consentire al Governo di esercitare la delega entro fine maggio, quando scadrà l’ultima proroga per i magistrati onorari. L’amore non va in prigione di Giovanni Bucchi businesspeople.it, 25 aprile 2016 Sono 100mila in Italia i figli dei detenuti che vivono il problema della separazione da un genitore. L’associazione Bambini senza sbarre accompagna questi ragazzi nelle carceri per salvare la relazione affettiva con padri e madri, e per non far sentire i piccoli prigionieri delle colpe degli adulti. Dicono di non essersi inventati niente, di aver soltanto "incrociato un’esigenza", quella della relazione tra detenuto e figli. Fine anni 80, carcere di San Vittore, Milano: la storia di Bambini senza sbarre inizia da qui, da alcuni volontari dell’associazione Mario Cuminetti impegnati nella gestione di biblioteche dentro il carcere. "Frequentando quel luogo, ci siamo resi conto che emergeva un tema cruciale: la separazione di un padre o di una madre, rinchiusi per scontare la pena, dai figli minorenni". Chi parla è Lia Sacerdote, analista biografica a orientamento filosofico, che faceva parte quel gruppo di volontari da cui è nata l’esperienza di Bambini senza sbarre, l’associazione di cui oggi è presidente dopo averla fondata nel 2002 per occuparsi di questo problema che coinvolge 100 mila bambini e adolescenti con un genitore nelle carceri italiane. Nel 1996 viene organizzato il convegno dal titolo Bambini senza sbarre a San Vittore; in seguito Lia Sacerdote e i suoi collaboratori avviano una ricerca sulle genitorialità tra i detenuti. Poi la svolta. "Alla fine degli anni ‘90", racconta la presidente, "abbiamo incontrato i volontari francesi della Federazione dei Relais Enfants-Parents di Parigi, guidata da Alain Bouregba che oggi fa parte del nostro comitato etico: stavano realizzando un’indagine per costruire una rete europea per affrontare il problema dei detenuti con figli e a Milano hanno contattato noi". È il primo passo che porta alla nascita dell’associazione, inserita nella rete europea Children of Prisoners Europe e sostenuta dall’olandese Bernard Van Leer Foundation. "L’incontro con gli amici francesi è stato fondamentale", continua Sacerdote, "perché ci ha permesso di vedere già in atto ciò a cui pensavamo: un’associazione impegnata a favorire le relazioni tra i figli dei detenuti e i loro genitori, partendo dalla consapevolezza che il primo bisogno è quello dei bambini che frequentano il carcere senza avere alcuna colpa. Noi cerchiamo di lavorare sulla relazione affettiva, affinché il figlio continui a sentirsi amato dalla mamma o dal papà detenuti. E i genitori possano continuare a esercitare il proprio ruolo senza essere assimilati al reato commesso che non intacca la relazione affettiva". Le attività di Bambini senza sbarre prendono piede a inizio anni 2000. Si parte da San Vittore e poi vengono coinvolti gli altri istituti milanesi, Bollate e Opera. Al centro ci sono sempre i bambini, cui sono concesse dall’ordinamento penitenziario fino a otto ore mensili di colloquio con i genitori detenuti. Si parte con il progetto sperimentale Atelier degli oggetti relazionali, la realizzazione di manufatti da parte delle madri detenute per i figli. I volontari frequentano quotidianamente gli istituti di pena, pronti ogni mattina ad accogliere i bambini in spazi comuni pensati per loro, dove li seguono nel momento delicato che precede l’incontro col genitore. La presenza costante nelle carceri di Milano, e in seguito di tutta la Lombardia, porta l’associazione a sviluppare competenze e professionalità specifiche. Il nucleo operativo centrale oggi conta una decina di persone, alle quali vanno aggiunti circa trenta volontari che forniscono un servizio a livello psicologico e pedagogico. Si moltiplicano a partire dal 2003 i progetti che hanno fatto conoscere l’associazione nel mondo carcerario: dalla creazione degli "Spazi gialli", i luoghi di accoglienza per i bambini all’interno delle carceri dove non sono previste aree a loro dedicate, insieme al percorso "Trovopapà" attraversato dalle tappe imposte dalle procedure di sicurezza che deve rispettare chi dall’esterno entra in un istituto di pena, fino al progetto "Il poliziotto e il dinosauro", per favorire la relazione tra padre e figlio attraverso il linguaggio artistico. "Negli ultimi tre anni in Lombardia", aggiunge Lia Sacerdote, "abbiamo realizzato un intervento pilota per sensibilizzare il personale penitenziario sull’importanza dell’accoglienza dei bambini, raggiungendo circa 250 operatori. Anche gli agenti di polizia penitenziaria che hanno il compito di accogliere i minori diventano educatori, e nel momento in cui prendono coscienza di questa responsabilità, il loro ruolo si valorizza e il modo di relazionarsi con i bambini cambia". Non c’è però solo l’intervento all’interno nelle carceri a caratterizzare l’attività dell’associazione. Una parte fondamentale è quella del confronto con le istituzioni italiane ed europee, un impegno sfociato due anni fa nella sottoscrizione della "Carta dei figli di genitori detenuti" da parte del ministro alla Giustizia, Andrea Orlando, e dal Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza. Nel futuro di Bambini senza sbarre c’è adesso l’obiettivo di uscire dalla Lombardia e creare una rete di sostegno in tutta Italia. I primi passi sono già stati compiuti con l’avvio di progetti nelle carceri di Secondigliano (Napoli), Firenze, Vercelli e Ivrea. Rientra in quest’ottica anche l’iniziativa "Telefono giallo", destinata agli operatori del sistema carcerario e del territorio per affrontare i problemi legati alla genitorialità dietro le sbarre. Il bisogno emergente rimane però sempre più grande della risposta che è possibile dare. Basti pensare che nelle sole carceri seguite dall’associazione entrano ogni anno circa 8 mila bambini per stare con i propri genitori. "Le sensibilità istituzionale verso questo problema sta crescendo", conclude Sacerdote, "ma il ricorso al carcere dovrebbe essere la soluzione estrema e quando coinvolge un genitore, dovrebbe essere privilegiata la misura alternativa e la messa alla prova che evita la rottura del legame. Ma anche la società esterna al carcere deve essere sensibilizzata a non emarginare questi bambini per il solo fatto di avere un genitore detenuto". L’Italia recepisce reciproco riconoscimento tra gli Stati europei delle sanzioni pecuniarie di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 Per completare il quadro di adeguamento tardivo all’attuazione del diritto Ue in materia di cooperazione giudiziaria penale, l’Italia ha adottato il decreto legislativo n. 37 del 15 febbraio 2016, entrato in vigore il 10 aprile, con il quale è stata recepita la decisione quadro 2005/214/Gai del 24 febbraio 2005 relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (si veda "Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea" L76/16, 22 marzo 2005). Si tratta, giova precisarlo, di sanzioni pecuniarie legate a una condanna penale con l’esclusione, quindi, di decisioni di natura civilistica frutto di un’azione di risarcimento danni. Anche nel caso del recepimento della decisione quadro in esame, al pari del pacchetto di atti in materia di cooperazione giudiziaria penale il cui recepimento è stato previsto nella legge 9 luglio 2015 n. 114 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea" (legge di delegazione europea 2014), l’Italia arriva con un ritardo di quasi 10 anni tenendo conto che il termine ultimo di attuazione era fissato al 22 marzo 2007. L’atto va coordinato con il decreto legislativo n. 31 del 15 febbraio 2016 (si veda "Guida al Diritto" n. 14 del 26 marzo 2016, pagina 68 e seguenti), con il quale è stata recepita la decisione quadro 2009/299/Gai del 26febbraio 2009, che modifica le decisioni quadro 2002/584/Gai, 2005/214/Gai, 2006/783/Gai, 2008/909/Gai e 2008/947/Gai rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo. L’obiettivo dell’atto Ue - La decisione quadro 2005/214/Gai si propone, nel solco del principio del riconoscimento reciproco affermato nel Consiglio europeo di Tampere del 29 novembre 2000, di assicurare la riscossione delle sanzioni pecuniarie comminate a seguito di un reato dalle autorità giudiziarie di uno Stato membro in un altro Paese Ue. In questa direzione, il testo disciplina la procedura attiva e quella passiva che sono a sua volta regolate nel Dlgs n. 37 il quale, in modo analogo a quanto avvenuto per altri atti dell’ex terzo pilastro, individua le autorità nazionali competenti. Sotto il profilo dell’ambito di applicazione, la decisione quadro riguarda tutti i reati punibili con sanzioni pecuniarie incluse, come chiarisce il considerando n. 4 della decisione quadro, quelle comminate per infrazioni al codice della strada. Ciò che conta è che la sanzione sia prevista in una decisione definitiva e che abbia natura pecuniaria. In particolare, in base a quanto disposto dall’articolo 2 dell’atto italiano di attuazione, la sanzione pecuniaria si riferisce all’obbligo di pagare una somma di denaro a titolo di pena irrogata a seguito di una condanna, a titolo di risarcimento delle vittime e liquidata dal giudice con la condanna, una somma di denaro "dovuta per condanna alle spese di procedimenti giudiziari o amministrativi connessi alla decisione" o un importo disposto a favore di un fondo pubblico o di organizzazione di assistenza alle vittime. Non sono invece inclusi, nel rispetto della decisione quadro, gli ordini di confisca degli strumenti o dei proventi di reato. Il modello seguito è analogo a quello già collaudato in altri atti adottati nell’ambito della cooperazione giudiziaria penale che hanno alla base la fiducia reciproca sull’operato delle autorità giudiziarie degli Stati Ue. Come detto, per assicurare il funzionamento del sistema, è indispensabile che gli Stati individuino le autorità competenti. Nel Dlgs n. 37, l’Italia, ai sensi dell’articolo 3, ha indicato il ministero della Giustizia (che in quest’atto ha un ruolo più marginale rispetto ad altri decreti legislativi) e l’autorità giudiziaria che riveste un ruolo centrale nel funzionamento del meccanismo. L’Italia come Stato di emissione - Per quanto riguarda la trasmissione all’estero, l’Italia ha indicato il pubblico ministero (al pari di quanto ha fatto la Francia) presso il tribunale che ha emesso la decisione sulle sanzioni pecuniarie "o nel cui circondario ha sede l’autorità amministrativa che si è pronunciata in merito alla sanzione amministrativa". In questo modo, è stato scelto il dialogo diretto tra autorità giudiziarie al pari di altri Paesi come Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovenia. La decisione sarà trasmessa allo Stato membro in cui la persona condannata dispone di beni o di un reddito o dove risiede o dimora abitualmente o, se si tratta di persona giuridica, dove ha la propria sede. La trasmissione deve avvenire con ogni mezzo che lasci una traccia scritta, accludendo il certificato allegato al decreto nella lingua dello Stato di esecuzione. Anche in questo Dlgs, nel caso di difficoltà nell’individuazione dell’autorità competente di esecuzione, si potrà consultare la rete giudiziaria europea. Ottenuto il via libera al riconoscimento dall’autorità competente dello Stato di esecuzione, l’autorità italiana "non è più tenuta all’adozione dei provvedimenti necessari all’esecuzione", fermo restando il potere di riassunzione se lo Stato di esecuzione comunica di non aver dato attuazione, nonché nei casi in cui alla persona condannata sia stata concessa l’amnistia o la grazia. Il riconoscimento della decisione avviene senza ulteriori formalità. La trasmissione dall’estero - Il capo III del Dlgs n. 37 si occupa della trasmissione dall’estero, affidando la competenza alla Corte di appello nel cui distretto la persona condannata dispone di beni o di un reddito, o dove risiede o dimora abitualmente o, se persona giuridica, dove ha sede legale. Salta, anche in questo caso, la condizione della verifica della doppia punibilità per 38 reati, con la competenza della Corte di appello a verificare la corrispondenza tra la definizione dei reati "per i quali è richiesta la trasmissione secondo la legge dello Stato di emissione e le fattispecie medesime". Va detto che rispetto alla decisione quadro sul mandato di arresto europeo, i reati per i quali è esclusa la doppia incriminazione sono più numerosi, passando da 32 a 38, con l’aggiunta, in particolare, delle infrazioni al codice della strada, il contrabbando di merci, la violazione dei diritti di proprietà intellettuale, le minacce e gli atti di violenza contro le persone anche in occasione di eventi sportivi, il danno penale e il furto. Passando ad analizzare nel dettaglio la procedura passiva, spetta al Procuratore generale presso la Corte di appello competente chiedere il riconoscimento allo stesso organo giurisdizionale, che procede in camera di consiglio secondo le regole fissate dall’articolo 127 del codice di procedura penale. La decisione sull’accoglimento della richiesta deve essere adottata entro 20 giorni dalla data di ricevimento della decisione, con una possibile proroga di 30 giorni, previa comunicazione all’autorità dello Stato di emissione. Via libera al ricorso in Cassazione avverso la decisione della Corte di appello secondo l’iter previsto dall’articolo 22 della legge 69/2005 con la quale è stata recepita la decisione quadro 2002/584 sul mandato di arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri. Nel caso di diniego, l’autorità giudiziaria italiana, anche attraverso il ministero della Giustizia, procede a comunicare l’esito negativo allo Stato di emissione. In ogni caso, prima di decidere sul rifiuto, è richiesta una consultazione con il ministero della giustizia. È opportuno ricordare che rispetto alla decisione quadro sul mandato di arresto europeo che contiene motivi obbligatori e facoltativi di diniego al riconoscimento, la decisione quadro 2005/214/Gai elenca i motivi i quali, però, hanno tutti carattere facoltativo. Questo ha già condotto a molte differenze tra gli Stati membri come risulta dalla relazione della Commissione europea sullo stato di attuazione della decisione quadro in esame adottata il 22 dicembre 2008 (COM(2008)888). Il legislatore italiano - che sembra averli resi tutti facoltativi - li ha riprodotti all’articolo 12 includendo, oltre all’ipotesi di certificato incompleto o manifestamente non corrispondente alla decisione sulle sanzioni pecuniarie, il caso in cui la sanzione pecuniaria sia inferiore ai 70 euro. Così, è escluso il riconoscimento se ciò risulterebbe in contrasto con il principio del ne bis in idem, se, per i reati diversi da quelli di cui all’articolo 10, i fatti oggetto della decisione non sono previsti come reato anche dalla legislazione italiana, se si è già verificata prescrizione secondo quanto disposto dagli articoli da 171 a 174 del codice penale, se sussiste una causa di immunità riconosciuta dall’ordinamento italiano che ne rende impossibile l’esecuzione, se la misura è disposta nei confronti di una persona che alla data della commissione del fatto non era imputabile per l’età secondo la legge italiana, se la decisione si riferisce ad atti compiuti sul territorio italiano. Inoltre, in linea con le esigenze di tutela dei diritti processuali e le garanzie individuali, il no al riconoscimento deve essere opposto se la persona interessata non è stata informata personalmente o tramite un suo difensore del diritto di opporsi al procedimento o se non è comparsa al processo che termina con la decisione della quale si chiede l’attuazione. Gli effetti del riconoscimento - Ottenuto il via libera al riconoscimento, l’esecuzione della misura avverrà secondo la legislazione italiana, che è così la legge applicabile e questo anche con riguardo alla normativa interna in materia di amnistia e grazia. Con alcune limitazioni, però, perché sulle questioni legate alla cessazione dell’esecuzione, l’Autorità italiana è tenuta a disporre l’immediato stop all’attuazione se lo Stato di emissione adotta "un provvedimento che la privi di esecutività ovvero la revochi". L’autorità italiana mantiene un certo margine di discrezionalità nell’individuazione di sanzioni alternative se l’esecuzione della decisione sulle sanzioni pecuniarie è totalmente o parzialmente impossibile. Tuttavia, l’esercizio di tale potere discrezionale è possibile solo se lo Stato di emissione presta il proprio consenso nel certificato allegato al decreto. In questa ipotesi, l’entità della sanzione non può superare, nel rispetto della legislazione italiana che ne disciplina la determinazione, il limite massimo indicato nel certificato. Violenza sessuale: l’attenuante della minore gravità del fatto Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 Reati contro la persona - Violenza sessuale - Configurabilità dell’attenuante del fatto di minore gravità - Rilevanza della condotta di vita della persona offesa - Esclusione. Per la configurabilità dell’attenuante della minore gravità del fatto, è irrilevante la condotta di vita della persona offesa, in quanto il bene della libertà sessuale, afferendo alla sfera personale più intima dell’individuo ed al nucleo intangibile dei sui diritti personalissimi, ha il medesimo valore sia che appartenga a persona che intenda farne un uso misurato, sia che sia riferito a persona che ne disponga con leggerezza ed anche in maniera prezzolata. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 23 dicembre 2015 n. 50435. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Caso di minore gravità - Configurabilità - Condizioni. Per la configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, prevista dall’art. 609-bis, comma terzo, cod. pen., deve farsi riferimento a una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievi i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, così come il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 11 maggio 2015 n. 19336. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Configurabilità dell’attenuante del fatto di minore gravità - Configurabilità - Condizioni. Per la configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità, prevista dall’art. 609-bis, comma terzo, cod. pen., deve farsi riferimento a una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le sue caratteristiche psicologiche in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 6 giugno 2014 n. 23913. Reati contro la persona - Violenza sessuale - Configurabilità dell’attenuante del fatto di minore gravità - Presupposti di applicabilità - Indicazione. La circostanza attenuante prevista dall’art.609 quater cod. pen. per i casi di minore gravità deve considerarsi applicabile in tutte quelle fattispecie in cui considerati i mezzi, le modalità esecutive e le circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 26 aprile 2013 n. 18662. I motivi ostativi a una pronuncia favorevole di estradizione per l’estero Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Estradizione per l’estero - Motivi ostativi - Pericolo di atti persecutori o discriminatori - Divieto di estradizione - Operatività - Ipotesi di allarmante situazione. Il divieto di pronuncia favorevole sancito dall’art. 705, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen. per i casi in cui vi sia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui l’allarmante situazione sia riferibile a una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee a orientamenti istituzionali e rispetto ai quali sia possibile comunque una tutela legale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 8 febbraio 2016 n. 4977 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Estradizione per l’estero - Motivi ostativi - Pericolo di atti persecutori o discriminatori - Operatività del divieto di estradizione. Il divieto di pronuncia favorevole ove si abbia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui ciò sia riferibile a una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee a orientamenti istituzionali, non rilevando quelle situazioni rispetto alle quali sia comunque possibile una tutela legale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 13 novembre 2015 n. 45476 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Estradizione per l’estero - Motivi ostativi - Differente trattamento sanzionatorio previsto dallo Stato richiedente e differenza della disciplina sulla competenza - Irrilevante. Il divieto di pronuncia favorevole alla estradizione previsto dall’art.705, comma secondo lett. a) cod. proc. pen., in relazione alla ipotesi che l’estradando sia stato o possa essere sottoposto a procedimento che non assicura il rispetto dei principi fondamentali ovvero a un trattamento in violazione dei diritti della persona, non ricorre quando sia prospettata la operatività, nello Stato richiedente, di un differente regime processuale in tema di connessione di reati e conseguente competenza del giudice militare, ovvero l’assenza, nella fase della esecuzione, di misure alternative alla detenzione o della possibilità di computo del periodo di privazione della libertà sofferta agli arresti domiciliari. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 settembre 2004 n. 35896 Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Estradizione per l’estero decisione - Condizioni - Sottoposizione nello Stato richiedente a trattamenti incompatibili col rispetto dei diritti fondamentali - Onere di allegazione incombente sull’estradando. Ai fini della decisione sull’estradizione richiesta dall’estero, incombe sull’estradando l’onere di allegare elementi e circostanze idonei a fondare il timore che l’estradizione preluda alla sottoposizione dello stesso, nello Stato richiedente, a un trattamento incompatibile col rispetto dei diritti fondamentali della persona. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 settembre 2004 n. 35896. Reati edilizi: responsabilità del proprietario non committente deve basarsi su gravi indizi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2016 In tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l’inapplicabilità dell’articolo 40, comma 2, del Cp, ma deve essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all’interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato. In particolare, precisa la Cassazione con la sentenza n. 6126 del 2016, questa responsabilità può dedursi da elementi oggettivi di natura indiziaria (la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se congruamente motivata) quali la piena disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale alla realizzazione del fabbricato. I due principi in materia - In materia, risultano pacifici due principi. In primo luogo, quello in forza del quale l’autore materiale del reato edilizio va individuato in colui che, con propria azione, esegue l’opera abusiva, ovvero la commissiona ad altri, anche se difetta della qualifica di proprietario del suolo sul quale si è edificato, mentre il semplice comportamento omissivo dà luogo a responsabilità penale solo se l’agente aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento, obbligo che certamente non sussiste in capo al nudo proprietario dell’area interessata dalla costruzione, non essendo esso sancito da alcuna norma di legge (sezione III, 21 gennaio 2014, G. e altro; nonché sezione III, 10 ottobre 2013, Menditto). In secondo luogo, l’altro principio, ribadito dalla sentenza in rassegna, secondo cui la responsabilità del proprietario dell’immobile, che non risulti formalmente committente, per la realizzazione di una costruzione abusiva non può basarsi solo sul titolo di proprietà, ma può e deve dedursi positivamente da indizi gravi, precisi e concordanti tra i quali assumono rilievo, come elementi indicativi di un contributo soggettivo all’abusiva edificazione, la presenza in loco all’atto dell’accertamento e i rapporti di parentela con il beneficiario dell’opera, l’occupazione o comunque il godimento dell’immobile abusivo, e simili (tra le tante, sezione III, 30 maggio 2012, Zeno e altro; nonché, in precedenza, sezione feriale, 9 settembre 2008, Grimaldi; sezione III, 2 dicembre 2008, Vergati). Cagliari: Centro per migranti con 500 posti nell’ex scuola penitenziaria di Monastir Sardegna Oggi, 25 aprile 2016 La struttura, dismessa, pronta ad ospitare centinaia di immigrati. La Protezione Civile al lavoro. "Già tutto deciso, i costi di gestione saliranno alle stelle". Il caso arriva in Parlamento. Un nuovo centro per migranti sta per essere inaugurato alle porte di Cagliari, sulla Ss 131. Meglio, si tratta di un cambio di destinazione: la scuola penitenziaria di Monastir, dopo un’inattività di qualche anno, sta venendo svuotata dagli uomini della Protezione Civile per far spazio, a breve, a centinaia di migranti. La stima è di circa 500 posti disponibili. Un’ulteriore conferma, a quanto pare, rispetto alle indiscrezioni degli ultimi giorni, che vedono Roma scegliere le carceri sarde per ospitare i cosiddetti "disperati del mare". La denuncia arriva dal deputato e leader sardo di Unidos, Mauro Pili. "Pronto il maxi centro di accoglienza, proprio nella scuola penitenziaria di Monastir, inspiegabilmente dismessa perché costava troppo. Adesso i costi lieviteranno, con 400-500 nuovi profughi. Gli agenti sono costretti a lasciare l’Isola per formarsi, e nella scuola penitenziaria sorgerà molto probabilmente un nuovo ghetto", afferma Pili. " Decisioni senza strategia, senza futuro, se non quella di accatastare uomini e donne, con bambini in spazi vuoti, fregandosene di tutte le possibili conseguenze. Una scelta scellerata e irresponsabile che va fermata prima che sia troppo tardi, in tanti speculano su questi drammi", prosegue il parlamentare sardo, che annuncia di aver già presentato un’interrogazione urgente a Montecitorio. Reggio Calabria: tentato suicidio in carcere, un detenuto di Arghillà salvato in extremis di Danilo Loria strettoweb.com, 25 aprile 2016 Tentato suicidio ad Arghillà: la prontezza dei due poliziotti penitenziaria, il senso umano di altruismo, il senso di responsabilità istituzionale e lo sprezzo al pericolo hanno portato gli Agenti ad intervenire con immediatezza e mettere in salvo da sicuro impiccamento quella persona, quell’uomo che per ovvie motivazioni cercava di mettere fine alla sua vita terrena. Mentre in tutta Italia si avviano i cittadini e le Autorità ai festeggiamenti nel ricordo della resistenza della storia partigiana e nell’unità d’Italia, in una delle tre sezioni c.d. padiglioni della reclusione dove sono ristretti circa 270 detenuti delle varie patologie criminali reggini e calabresi, la Polizia Penitenziaria alle 6 circa di questa prima fase giornaliera in un giro d ispezione ha inteso pericolo per un ristretto che in quel momento cercava con impiccamento legando uno straccio alle sbarre e lasciandosi poi eventualmente cadere nel bagno della propria cella. La prontezza dei due poliziotti penitenziaria, il senso umano di altruismo, il senso di responsabilità istituzionale e lo sprezzo al pericolo hanno portato gli Agenti ad intervenire con immediatezza e mettere in salvo da sicuro impiccamento quella persona, quell’uomo che per ovvie motivazioni cercava di mettere fine alla sua vita terrena. Il detenuto soccorso e trasportato presso la sala sanitaria del carcere è stato poi affidato alle cure mediche e sanitarie oltre ad essere posto a grande sorveglianza. Plauso della segreteria generale del Cosp Mimmi Mastrulli e del segretario regionale Cosp Calabria Luigi Barbera che complimentandosi con gli agenti "eroi" silenziosi hanno cosi commentato" nel ricordo del 25 aprile storico oggi la Polizia penitenziaria ha dimostrato laddove ancora da dimostrare che un gesto eroico lo si fa per liberare l’Italia e gli italiani dal nemico ma lo si fa anche per liberare da morte certa chi nella disperazione detentiva cerca di togliersi la vita auto-sopprimendosi con estremo gesto del suicidio". Nell’ultimo anno sono circa 1500 suicidi sventati dalla polizia penitenziaria nelle prigioni d’Italia. Ad Arghilla su circa 270 detenuti operano silenti e professionali solo circa 100 agenti penitenziari un numero altamente insufficiente a garantire servizi, sicurezza, vigilanza e trattamento. Catanzaro: ergastolano si laurea in legge con 110 e lode e bacio accademico di Chiara Spagnolo La Repubblica, 25 aprile 2016 Claudio Conte sta scontando a Catanzaro l’ergastolo per diversi omicidi commessi durante la guerra di mafia che negli anni Novanta insanguinò il Salento. La tesi sui profili di incostituzionalità del "fine pena mai". Da killer spietato a esperto giurista: la parabola di Claudio Conte comincia in Salento e finisce a Catanzaro. Dalle truppe della Sacra Corona Unita a una cella del carcere calabrese, dove sta scontando l’ergastolo per diversi omicidi commessi durante la guerra di mafia che negli anni Novanta insanguinò la provincia di Lecce. Il 47enne di Copertino si è laureato in giurisprudenza: discussione, proclamazione e festa si sono svolte dietro le sbarre, perché secondo la giustizia italiana i delitti di cui si è macchiato sono talmente gravi da non poter consentire nemmeno il più breve permesso premio. Neppure un’ora per discutere la tesi di laurea all’Università Magna Grecia, dove si è iscritto alcuni anni fa, dopo il trasferimento dall’istituto penitenziario di Perugia. Anche per sostenere gli esami Conte non è mai andato in facoltà: i professori si sono recati in carcere volta per volta. E ogni volta per loro era una sorpresa, quello studente modello che ha inanellato una serie di 30 e lode, fino alla tesi con 110, lode e menzione accademica, proclamata direttamente dal preside della facoltà, Luigi Ventura, che non ha voluto mancare all’appuntamento. È stato lui definire l’esposizione della tesi "una lezione", durata oltre un’ora, con tanto di sentenze citate a memoria, riferimenti ai codici e alla pronunce della Cassazione. L’argomento, del resto, per Conte era appassionante perché autobiografico: ‘Profili costituzionali in tema di ergastolo ostativo e benefici penitenziari’, ovvero la dimostrazione dell’incostituzionalità del regime ostativo applicato ad alcuni detenuti soggetti al ‘fine pena mai’. È questa la formula più restrittiva di ergastolo - che non consente di accedere ad alcun beneficio, come i permessi premio determinati dalla buona condotta oppure la detenzione domiciliare - e fa diventare il carcere un pozzo senza fondo. Un buco nero nel quale a Conte, e a quelli come lui, resta da percorrere solo la via dello studio. Non è un caso che tra gli ergastolani la percentuale di laureati sia più alta rispetto ai detenuti con pene definite. Né che pochi anni fa un altro salentino di Nardò, Marcello Dell’Anna, divenne dottore in giurisprudenza. Anche lui fu uno dei colonnelli della mala leccese, assassino spietato condannato all’ergastolo, e, dopo 23 anni di detenzione, si laureò con la tesi "Compressione dei diritti fondamentali del detenuto, dai circuiti detentivi speciali di sicurezza al regime del 41 bis", proprio nei giorni in cui la Procura di Lecce chiese il ripristino del carcere duro. Il populismo e le risposte che mancano di Alessandro Campi Il Messaggero, 25 aprile 2016 In principio fu Ifirg Haider. Faccia da attore, di famiglia benestante, un parlare forbito ma diretto e spiccio, sorriso affabile e malandrino, spesso in abito tradizionale a testimoniare l’attaccamento alle radici montanare, legami sentimentalmente ambigui con la memoria del Terzo Reich, una passione esibita per le auto sportive, nessun timore reverenziale nei confronti dei vecchi notabili politici. Fu il primo leader populista ad aggirarsi come un fantasma per l’Europa, scatenando gli esorcismi e i timori dell’establishment democratico continentale. Anche se quello da lui incarnato parve più che altro uno scoppio imprevisto di irrazionalità, il rigurgito ideologico del Paese che aveva pur sempre dato i natali a Hitler: sarebbe bastato creargli intorno un cordone sanitario per evitare che trovasse emuli ed estimatori fuori dai confini austriaci. Haider morì nel 2008: tragicamente e dannato, ma il suo precedente ha fatto scuola, segno che era il sintomo di un processo storico di più lunga durata. All’epoca dei suoi primi trionfi alla guida dei nazionalisti liberali dell’Fpii, a partire dagli anni Novanta, non c’era ancora la crisi finanziaria che negli ultimi anni ha impoverito milioni di cittadini europei. E neppure lo spettro del terrorismo metropolitano di marca islamista e l’esodo di massa dei rifugiati in fuga dalle guerre mediorientali che adesso premono alle frontiere degli Stati centroeuropei dopo essere sbarcati per anni sulle coste italiane. C’erano già però il discredito e la perdita di legittimità dei partiti politici tradizionali (socialisti e popolari), accusati di spartirsi il potere a danno del popolo. La diffidenza verso la burocrazia di Bruxelles, giudicata algida e autoreferenziale. E il timore per una globalizzazione che favorendo gli spostamenti di popolazione altera, in nome del profitto di pochi, antichi equilibri sociali e culturali. Haider veniva non a caso dalla Carinzia: natura incontaminata, le solide tradizioni del passato, un tessuto comunitario reso stabile dalla comunanza di lingua, costumi e memorie. Tutti i temi insomma sui quali, negli anni successivi, sono fioriti i partiti e movimenti che oggi compongono la solida famiglia del populismo europeo. Ieri un erede diretto di Haider, Norbert Hofer, ha trionfato al primo turno delle elezioni presidenziali austriache (ha ottenuto un clamoroso 36,7%). Ma nessuno, con i terremoti elettorali che si sono succeduti in Europa nel corso degli ultimi anni (dalla Grecia alla Francia, dalla Polonia alla Spagna, dall’Italia all’Ungheria), parla più di caso o fatalità. Anche se ancora una volta le previsioni della vigilia, più speranze mal riposte che sondaggi scientifici, paventavano sì una buona affermazione della destra anti-immigrati, ma davano solidamente in testa Alexander Van der Bellen, storico esponente dei Verdi. Quest’ultimo è invece arrivato secondo col 20% dei voti. Hofer e Van der Bellen adesso se la vedranno al ballottaggio. Ma un dato politico è già emerso chiaramente: gli elettori preferiscono sempre più gli outsider, magari sopra le righe sul piano del linguaggio e delle proposte, magari con scarsa esperienza di governo, ai candidati tradizionali che si muovono entro i confini del politicamente corretto e che finiscono per dire le stesse cose anche quando appartengono a schieramenti diversi. Il candidato dei popolari, Andreas Kohl, e quello dei socialdemocratici, Rudolf Hundstorfer, insieme hanno raggiunto appena il 22% dei consensi: i due partiti che sono stati il perno istituzionale dell’Austria e che ancora oggi sostengono la coalizione di governo hanno pesantemente pagato la disaffezione dei loro stessi elettori, un eccesso di permanenza al potere e una strategia di contrasto all’immigrazione, a colpi di filo spinato e muri di contenimento, che è stata evidentemente giudicata tardiva e persino esageratamente goffa. Ci si chiede, con questo risultato, quanto potrà resistere la grande coalizione bianco-rossa che già dalle precedenti tornate elettorali, nel 2013 e nel 2015, era uscita profondamente indebolita. Se il populismo non è una soluzione o una ricetta politica praticabile, come sostengono molti analisti, dobbiamo almeno accettare - smettendola con gli accenti demonizzanti - che si tratti del sintomo di un malessere collettivo che si continua evidentemente a sottovalutare. Nei giorni scorsi c’era chi richiamava la Vienna multietnica e poliglotta di Klimt, Canetti e Kraus per stigmatizzare la possibile avanzata della destra e della sua orrenda ideologia basata sulla chiusura dei confini e sull’assenza di umanità. Ma si tratta di una forma di sentimentalismo letterario privo di senso politico, che scambia l’angoscia per il futuro di milioni di cittadini con un ritorno deliberato al razzismo. Invece di dare risposte al malessere degli elettori li si addita, quando votano nel segno della protesta, come reprobi morali, spingendoli così sempre più tra le braccia di chi, magari ne strumentalizza le paure e le ansie, ma almeno dà l’impressione di interessarsi ai loro problemi. Prendere sul serio i fattori d’ordine sociale e culturale che alimentano il populismo - un mix di precarietà esistenziale, paura del domani, impoverimento di massa, frustrazione politica indotta dal convincimento di non aver voce in capitolo nelle decisioni che riguardano la propria vita dovrebbe essere il modo migliore per provare a combatterlo. Invece ci si limita a denunciarlo e a farne la caricatura. Per il ballottaggio in Austria già s’immagina il copione che verrà recitato. Tutti si uniranno - giornali ed establishment politico, destra e sinistra, industriali e sindacati ufficiali - per sbarrare la strada al candidato della destra, come già si è fatto molte volte in Francia. Ma è un amalgama che funziona come diga momentanea e che paradossalmente sta rafforzando sempre di più coloro che traggono la propria forza dall’opporsi a tutto ciò che viene considerato parte del sistema di potere ufficiale. La verità è che il populismo ha rotto la diga della politica ufficiale e si è insediato come un attore stabile all’interno dei sistemi democratici europei. Ma la verità ancora più amara da accettare è che nessuno ha ancora messo a punto una strategia efficace - sul piano delle idee e dei programmi politici - per fermarne l’avanzata sempre più trionfale. Rifugiati, servono permessi di soggiorno umanitari di Luigi Manconi Corriere della Sera, 25 aprile 2016 Nell’autunno del 2013, a poche settimane dal naufragio del 3 ottobre davanti a Lampedusa, insieme al sindaco dell’isola, Giusi Nicolini, presentammo un piano di "ammissione umanitaria" all’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. In sintesi, quel piano prevedeva un programma di resettlement (ovvero di re-insediamento), gestito dall’Unione Europea, di concerto con le organizzazioni umanitarie internazionali. Si prevedeva che le procedure di individuazione dei beneficiari di protezione umanitaria avvenissero nei luoghi di partenza verso l’Europa e fossero attuate attraverso le Delegazioni diplomatiche del Servizio europeo per l’azione esterna e la rete diplomatico-consolare degli Stati membri. Inoltre il piano considerava la realizzazione di presidi internazionali, creando le condizioni necessarie, nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo e nei luoghi di partenza o di transito dei migranti, per l’avvio della procedura di concessione di protezione umanitaria. Da allora, il piano di ammissione umanitaria ha fatto molti passi avanti. È stato condiviso da tanti, elaborato in modalità diverse, e richiamato in documenti ufficiali, programmi istituzionali e accordi internazionali. Ma, drammaticamente, non si è tradotto in fatti concreti e in concrete politiche. C’è di che disperarsi. Ma due fatti nuovi inducono a nutrire ancora qualche fiducia. Il primo è che, dopo l’importante esperienza dei corridoi umanitari promossi dall’Unhcr, alcuni soggetti non pubblici (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità di Sant’Egidio) hanno realizzato un analogo progetto. L’obiettivo è quello di far giungere in Italia in ventiquattro mesi mille persone, principalmente dal Libano, dal Marocco e dall’Etiopia. Una volta in Italia, i richiedenti asilo riceveranno assistenza nella fase del completamento della procedura oltre che la sistemazione in un centro di accoglienza utile ad avviare un percorso di integrazione. Per ora le dimensioni sono modestissime rispetto all’enormità delle esigenze, ma intanto qualcosa è stato concretizzato. E si pensi a quanto di assai più ampio sarebbe realizzabile se a un simile progetto (magari gestito insieme dal pubblico e dal privato) fossero destinate le ingenti risorse ora dissipate in iniziative poco oculate. Ma il secondo fatto che impone di considerare progetti ispirati a quel piano di "ammissione umanitaria", è la catastrofe annunciata ai nostri confini orientali. In Grecia i 40 mila profughi presenti si ritrovano imprigionati dalla chiusura delle frontiere di tutti i Paesi limitrofi: e i campi autogestiti sorti in prossimità del confine con la Macedonia, come quello di Idomeni, saranno svuotati lentamente. Da quando è in vigore il patto tra Ue e Turchia sono state attuate misure per l’applicazione dell’Agenda europea, come il trasferimento dagli insediamenti appena ricordati ai centri hotspot da cui sarà possibile accedere alla procedura di asilo. In ogni caso, da lunedì 4 aprile, sono cominciati i rimpatri in Turchia e già arrivano le prime denunce: quel Paese potrebbe rappresentare solo una tappa del viaggio di ritorno verso la Siria, come è avvenuto qualche mese fa quando già i rimpatri forzati su quella rotta erano stati un centinaio, donne e bambini inclusi. Non stupisce, dal momento che la Turchia non è nota per lo scrupoloso rispetto dei diritti umani. L’obiettivo del patto - limitare l’accesso nei Paesi europei ai soli richiedenti asilo - comincia già a traballare e non è difficile immaginare come la chiusura di una rotta porterà sicuramente all’apertura di un’altra. Che non sarà fuori, a sua volta, dal controllo dei trafficanti. La soluzione migliore, oltre a quelle già elencate, rimane il rilascio di permessi di soggiorno temporanei per ragioni umanitarie, che permettano ai beneficiari di muoversi agevolmente all’interno dell’area Schengen. In questo modo verrebbe superato il meccanismo delle quote e la politica di re-location che finora non ha sortito alcun effetto: dalla sua attivazione, infatti, sono stati distribuiti in Europa appena cinquecento migranti provenienti dalla Grecia e dall’Italia. C’è ancora tutto da fare, ma si può iniziare a fare. "Egitto non sicuro". Appello sul caso Regeni di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 25 aprile 2016 La lettera di 91 deputati Ue all’alto rappresentante Mogherini: "Invitiamo turisti e studenti a non andare". Dichiarare l’Egitto, oggi, "un Paese non sicuro" e invitare turisti, lavoratori, studenti e ricercatori europei "a non recarsi" per alcun motivo all’ombra delle Piramidi. È la lettera- appello che 91 parlamentari europei di 6 gruppi politici (dai socialisti ai popolari ai verdi) e 17 Paesi diversi, hanno inviato venerdì scorso all’Alto Rappresentante della Ue per gli Affari Esteri, la vicepresidente della Commissione europea, Federica Mogherini, sul caso di Giulio Regeni e sul comportamento, fin qui scandaloso, delle autorità egiziane, che da 3 mesi esatti (Giulio sparì il 25 gennaio scorso al Cairo) tengono celata la verità sull’omicidio del giovane ricercatore italiano. Cresce la mobilitazione internazionale e fioriscono le iniziative. Nell’ultimo fine settimana, su tutti i campi di calcio della serie A e della serie B sono comparsi gli striscioni gialli con la scritta "Verità per Giulio Regeni" e la campagna proseguirà anche oggi dove si gioca (Roma, Verona e Carpi). "Il colore giallo sta scorrendo per tutta l’Italia - commentava ieri Paola Regeni, la mamma di Giulio, in piazza a Milano per il flash mob di Amnesty. Tutti, quando vediamo giallo, pensiamo ormai a Giulio e alla verità che vogliamo. Camminando per Milano, con questo bel sole, ho pensato che sembra impossibile che in altri luoghi stiano succedendo cose che fanno male alle persone...". Eppure è così. Specie in Egitto. "Non può essere considerato sicuro - scrivono i parlamentari europei nella lettera alla Mogherini - un Paese in cui centinaia di esseri umani vengono sequestrati, sottoposti a tortura e uccisi. Solo negli ultimi 8 mesi vi sono state 735 sparizioni e di circa 500 di queste persone non si hanno più notizie; mentre dal gennaio 2016 sono già 3 i morti accertati, con evidenti segni di tortura sul corpo". Tra i 91 firmatari ci sono naturalmente molti nostri deputati (tra gli altri Sergio Cofferati di Sinistra italiana e Goffredo Bettini del Pd, Alessandra Mussolini e Stefano Maullu di Forza Italia, i grani Adinolfi, Affronte, Agea). Ma anche l’irlandese Martina Anderson (Sinn Fein), la socialista danese Margrete Auken, lo spagnolo Xabier Benito Ziluaga di Podemos, la socialdemocratica slovena Tanja Fajon. E ancora: la laburista inglese Neena Gill, la francese Sylvie Goulard, la verde finlandese Heidi Hautala, l’olandese Agnes Jongerius, il socialdemocratico tedesco Dietmar Koster, il greco Miltiadis Kyrkos, il portoghese Antonio Marinho e Pinto, il romeno Sorin Moisa, il laburista maltese Alfred Sant, il belga Bart Staes, il bulgaro Sergei Stanishev... Il documento dei 91 riprende l’idea di un mese fa del senatore Luigi Manconi e sollecita, ora, la Mogherini "ad adoperarsi in ogni modo, valutando anche l’opportunità che l’Egitto venga dichiarato Paese non sicuro", almeno "finché le autorità egiziane non abbiano dimostrato la concreta volontà di cooperare per la ricerca della verità su Giulio Regeni e garantito il pieno rispetto dei diritti umani". Perché Giulio era un "giovane contemporaneo", come lo definì un giorno sua madre. E quest’immagine ritorna, forte, ora: "Giulio incarnava il sogno dei padri fondatori dell’Europa - scrivono i parlamentari di Strasburgo - il miglior risultato di quelle politiche di scambio e integrazione su cui abbiamo puntato alcuni decenni fa e che tanto profondamente hanno cambiato le nuove generazioni". Ecco perché "non si può immaginare un sistema di rapporti fra uno Stato europeo e un altro Stato che al suo interno non garantisca i diritti fondamentali - così si conclude la lettera. L’oltraggio di cui è stata oggetto l’Italia da parte egiziana nelle ultime settimane non colpisce solo questo Paese ma l’Europa tutta e l’insieme dei valori irrinunciabili in cui crediamo". Egitto: caso Regeni, la Reuters nel mirino delle autorità egiziane La Repubblica, 25 aprile 2016 Polizia e pubblici ministeri stanno indagando su un articolo pubblicato dall’agenzia di stampa: secondo fonti di polizia e intelligence del Cairo il ricercatore italiano nel giorno della sua scomparsa venne preso in custodia nel commissariato Al-Azbakiya. L’ufficio del Cairo dell’agenzia di stampa Reuters è nel mirino della polizia e di alcuni pubblici ministeri egiziani dopo la pubblicazione di un articolo alcuni giorni fa, su Giulio Regeni, il ricercatore italiano che è stato torturato e ucciso. Secondo fonti di intelligence e di polizia citate nell’articolo, Regeni era stato fermato dalla polizia e poi trasferito in un compound gestito dai servizi di sicurezza il giorno in cui scomparve, cioè il 25 gennaio. Una versione che smentisce quella ufficiale fornita dalle autorità egiziane secondo cui i servizi di sicurezza non avevano arrestato il giovane studioso. Ma tre funzionari dei servizi segreti egiziani e tre fonti di polizia, separatamente gli uni dagli altri, hanno confermato a Reuters che la polizia aveva preso in custodia lo studente prima che morisse. Una versione negata dall’Egitto. Il presidente egiziano, Abdel Fatah al-Sisi, ha già detto che "bugie e accuse" sulla stampa e sui social media stavano mettendo il Paese a rischio. Il capo della stazione di polizia Al-Azbakiya, dove secondo la Reuters Regeni era stato inizialmente portato, aveva presentato una denuncia alla polizia contro l’agenzia di stampa, citando il capo dell’ufficio del Cairo, Michael Georgy e accusando la Reuters di pubblicare "notizie false volte a turbare l’ordine pubblico" e di diffondere voci per "danneggiare la reputazione dell’Egitto". Il ministero dell’Interno egiziano, che gestisce la polizia, ha bollato l’articolo come "infondato", condannando l’uso da parte della Reuters di fonti anonime e ha detto che il ministero "si riserva il diritto di intraprendere azioni legali". Ahmed Hanafy, il capo procuratore della stazione di polizia di Qasr el-Nil nel centro del Cairo, dove è stata presentata la denuncia, ha detto che "finora la Reuters non è accusata di nulla, ma si stanno raccogliendo informazioni sulla base della denuncia presentata". Inoltre "nessuno dell’agenzia "è stato convocato per un interrogatorio. Georgy rischia fino a un anno di prigione e una multa fino duemila euro in caso di condanna". David Crundwell, uno dei vice-presidenti di Reuters, ha appoggiato il lavoro dei suoi giornalisi al Cairo: "La storia non ha precisato chi è responsabile per la morte di regeni, ed è coerente con il nostro impegno per l’informazione accurata e indipendente". La vicenda ha preoccupato ulteriormente quanti osservano il crescente deterioramento della libertà di stampa in Egitto dal 2013. Nell’agosto dello scorso anno tre giornalisti della emittente televisiva del Qatar, Al-Jazeera, erano stati condannati, con l’accusa di aver "diffuso notizie false" e di aver appoggiato l’ex presidente Mohamed Morsi e i Fratelli Musulmani, organizzazione "terroristica" per le autorità egiziane. I tre sono l’egiziano-canadese Mohamed Fahmi, il producer egiziano Baher Mohammed e l’australiano Peter Greste. Successivamente ai tre era stata concessa la grazia dal presidente Al-Sisi. In una recente inchiesta il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), ha rilevato che sulla questione della libertà di stampa nel mondo, l’Egitto è il Paese con più detenuti: sono infatti ben 23 i giornalisti dietro le sbarre. Stati Uniti: i carcerati del Texas in sciopero contro il lavoro forzato theintercept.com, 25 aprile 2016 I detenuti di tutto il paese hanno indetto una serie di scioperi contro il lavoro forzato, chiedendo riforme del sistema della libertà condizionale e delle politiche carcerarie, con condizioni di vita più umane, un uso ridotto dell’isolamento e una migliore assistenza sanitaria. Oggi i detenuti di cinque carceri del Texas si sono impegnati a rifiutare di lasciare le loro celle. Gli organizzatori dello sciopero sono rimasti anonimi, ma sono circolati volantini che elencano una serie di lamentele e richieste, e una lettera dettagliata che spiega le ragioni dello sciopero. Le richieste vanno ad esempio da un credito di "buona condotta" per la riduzione della pena, alla fine del contributo medico di $ 100, a un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato. "I prigionieri di Texas sono gli schiavi di oggi e la schiavitù colpisce la nostra società economicamente, moralmente e politicamente," si legge nella lettera di cinque pagine che annuncia lo sciopero. "A partire dal 4 aprile 2016, tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas." Il Texas Department of Criminal Justice, che sovrintende le prigioni dello stato, "è consapevole della situazione e sta monitorando da vicino", ha scitto il portavoce Robert Hurst in una dichiarazione alla Intercept. Egli non ha fatto commenti sulle lamentele e le richieste dei prigionieri. I difensori dei diritti del Prigioniero hanno detto che almeno un carcere - il French Robertson Unit di Abilene - è stato bloccato oggi, ma Hurst ha negato che alcune prigioni del Texas fossero bloccate a causa di scioperi programmati. Il 13 ° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti vieta la "servitù involontaria" in aggiunta alla schiavitù ", se non come una punizione per il crimine a cui il colpevole deve essere stato debitamente condannato", stabilendo così la base giuridica per quello che oggi - secondo il Prison Policy Initiative, un istituto di ricerca senza scopo di lucro - è un fatturato di 2 miliardi di dollari all’anno per l’industria. La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare, e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un’analista di politica penale, ha detto a Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all’ora". Invece, la maggior parte dei prigionieri lavorano per le carceri stesse, prendendoo ben al di sotto del salario minimo in alcuni stati, e non più di 17 centesimi all’ora in strutture gestite da privati. In Texas e pochi altri stati, soprattutto nel Sud, i prigionieri non vengono pagati affatto, ha detto Erica Gammill, direttore del carcere di Justice League, un’organizzazione che lavora con i detenuti in 109 carceri del Texas. "Vengono pagati nulla, zero. E ‘essenzialmente lavoro forzato ", ha detto a Intercept. "Non vogliono pagare i lavoratori del carcere, dicendo che il denaro serve per vitto, alloggio e per compensare il costo della loro detenzione." In Texas, i prigionieri hanno tradizionalmente lavorato in aziende agricole, nell’allevamento di maiali e nella raccolta del cotone, in particolare nel Texas orientale, dove molte carceri occupano ex piantagioni. "Se hai visto immagini di prigionieri che lavorano nei campi in Texas, è proprio come sembra", ha detto Greene. "E ‘una piantagione. I prigionieri sono tutti vestiti di bianco, controllati dalle guardie a cavallo con i fucili". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l’amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto". Nel 1963, nel tentativo di ridurre il costo delle prigioni, il Texas ha cominciato a impiegare i detenuti per produrre una vasta gamma di prodotti, compresi materassi, scarpe, saponi, detergenti e prodotti tessili, nonché i mobili usati in molti uffici di edifici dello Stato. La Greene ha detto che, a causa delle leggi sul lavoro, che limitano la vendita di beni realizzati dai prigionieri, tali prodotti sono generalmente venduti a enti statali e agenzie governative locali. Anche se costituiscono quasi la metà della popolazione carceraria nazionale - circa 870.000 persone a partire dal 2014 - i lavoratori del carcere non sono conteggiati nelle statistiche ufficiali del lavoro; non ottengono alcun contributo per la disabilità in caso di infortunio, nessuna prestazione di sicurezza sociale, né straordinari. "Continuano ad applicare un alto tasso di condanne a tutti i costi", si legge nella lettera dei priginieri in sciopero, "tutto per il benessere del multimilionario Prison Industrial Complex". Quello del Texas non è un caso isolato. I prigionieri di Alabama e Mississippi, e del più lontano Oregon, sono stati informati dello sciopero del Texas attraverso una rete sotterranea di comunicazione tra le carceri. "Nel lungo termine, probabilmente vedremo più interruzioni del lavoro", ha detto Gammill. "Si pensa che in prigione sia difficile diffondere notizie, ma in realtà si diffondono a macchia d’olio". Il 1° aprile, un gruppo di prigionieri di Ohio, Alabama, Virginia, e Mississippi ha organizzato uno "sciopero di prigionieri coordinato a livello nazionale contro la schiavitù in carcere" che si terrà il 9 settembre, nel 45 ° anniversario della rivolta nella prigione Attica. "Chiediamo non solo la fine della schiavitù in carcere, smetteremo di essere schiavi noi stessi". "Non possono mandare avanti queste strutture senza di noi." Proteste carcerarie e scioperi hanno visto una rinascita negli ultimi anni dopo un rallentamento derivante dal maggiore uso dell’isolamento per isolare i detenuti politicamente attivi. Nel 2010, migliaia di detenuti provenienti da almeno sei carceri della Georgia, organizzati attraverso una rete di telefoni cellulari di contrabbando, si sono rifiutati di lasciare le loro celle per andare a lavorare, chiedendo migliori condizioni di vita e un compenso per il loro lavoro. Tale azione è stata seguita da proteste carcerarie in Illinois, Virginia, North Carolina, e Washington. Nel 2013, i prigionieri della California si sono coordinati in uno sciopero della fame per protestare contro l’uso dell’isolamento. Il primo giorno di quella protesta, 30.000 prigionieri in tutto lo stato hanno rifiutato il pasto. L’anno scorso in Texas, quasi 3.000 detenuti, che chiedevano migliori condizioni di vit,a hanno parzialmente distrutto un centro di detenzione per immigrati. Nel mese di marzo, sono scoppiate proteste a Holman Correctional Facility, un carcere di massima sicurezza in Alabama, dove ci sono stati due tumulti in quattro giorni. Almeno 100 prigionieri hanno preso il controllo di una parte della prigione e accoltellato una guardia e il guardiano. Quelle proteste erano pianificate, ma i prigionieri stanno organizzando azioni coordinate che, dicono, andranno avanti come previsto. "Dobbiamo lottare contro l’economia del sistema di giustizia penale, perché se non lo facciamo, non possiamo costringerli a ridimensionarsi" ha detto un attivista. "È appiccando incendi e cose del genere che si ottiene l’attenzione dei media. "Ma io voglio di organizzare qualcosa che non sia violento. Se ci rifiutiamo di lavorare gratis, costringeremo l’istituzione a prendere delle decisioni". "La schiavitù è sempre stata un istituto giuridico", ha aggiunto. "E non è mai finita. Esiste ancora oggi attraverso il sistema di giustizia penale. Medio Oriente: rilasciata palestinese 12enne, ma cresce il numero dei minori detenuti Ansa, 25 aprile 2016 La polizia israeliana ha rilasciato stamattina dal carcere una ragazzina palestinese di 12 condannata per aver tentato di accoltellare un israeliano. Lo riferiscono i media secondo cui il rilascio della ragazzina - la più giovane detenuta - è avvenuto a due mesi e mezzo di distanza dai fatti. La minore è stata consegnata ad una rappresentativa dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) al checkpoint di Jabara vicino Tul Karm in Cisgiordania e da lì portata in famiglia dai genitori. Secondo un rapporto dell’Autorità penitenziaria israeliana - citato da Haaretz - a seguito dell’ondata di violenze palestinesi cominciato lo scorso ottobre, è aumentato il numero dei minori palestinesi detenuti nelle carceri dello stato ebraico con accuse di aver infranto le leggi di sicurezza: nello scorso settembre erano 170 e sono diventati 438 a fine febbraio. Secondo gli stessi dati, il numero dei detenuti tra 16 e 18 anni è passato da 143 a 324, mentre quello dei minori tra 14 e 16 anni da 27 a 98. Stati Uniti: il giudice che va in cella a consolare il reduce dopo averlo condannato di Matteo Persivale Corriere della Sera, 25 aprile 2016 Succede in North Carolina, il magistrato Lou Olivera condanna a una notte di prigione per guida in stato di ebbrezza Joseph Serna, che per vent’anni ha combattuto nelle forze speciali. Ma poi, quella notte, ha voluto passarla con lui. Il giudice della corte distrettuale della contea di Cumberland, North Carolina, Lou Olivera è il primo a ammettere l’evidenza: "Sono un omone", dice con voce da baritono alzando leggermente le spalle e mettendo ancor più in evidenza il collo taurino. Per questo, e per il suo passato nelle Forze armate americane (ha combattuto nella prima Guerra del Golfo), commuoversi in pubblico lo imbarazzerebbe terribilmente. Ma faticava a non emozionarsi qualche giorno fa raccontando il motivo della decisione che lo ha fatto finire su tutti i media americani, lui che presiede una piccola corte di provincia. In Afghanistan - Perché il giudice Olivera non poteva non condannare al carcere un reduce dall’Afghanistan che, avendo guidato in stato d’ebbrezza, gli aveva poi confessato di non essere rimasto sobrio come d’accordo con la Corte, e di non aver passato l’esame delle urine richiesto dal programma di recupero per veterani delle Forze armate. Olivera sapeva anche che a volte gli imputati meritano il carcere; ma qualche volta, hanno soltanto bisogno d’essere aiutati. Tre volte decorato - Così da buon giudice che non può non seguire la legge ha condannato a passare una notte in cella il sergente Joseph Serna, che ha combattuto per quasi vent’anni nelle forze speciali americane, nei Berretti Verdi, ed è stato ferito (e decorato) per tre volte in Afghanistan. Ma Olivera, sapendo che Serna è tornato dalla guerra insieme con tanti fantasmi, azzannato dallo stress post-traumatico che a volte lo fa bere troppo, ha accompagnato il condannato in carcere con la sua auto. Vedendolo molto scosso, è andato con lui fino alla cella. È entrato. Il secondino ha chiuso la porta, il giudice si è seduto sulla brandina. E così, il giudice e il condannato hanno cominciato a parlare. A turno sulla branda - Di cosa? "È stata una conversazione tra padre e figlio", ha tagliato corto il sergente il giorno dopo con i giornalisti che volevano capire di più, colpiti da una notizia della quale non si ricorda un precedente: il giudice che passa la notte in cella con il condannato. Perché la conversazione è andata avanti, il giudice Olivera ha chiesto ai secondini di lasciarlo dov’era. Lui e il sergente hanno parlato tutta notte, facendo un pisolino a turno sulla branda, con l’altro seduto per terra, come due commilitoni. I segni della guerra - Serna ha portato a casa dalla guerra, oltre a tutti quei fantasmi, tre decorazioni. Ha visto morire tanti compagni. Almeno in un caso, sono morti per salvarlo. Nel 2008, il furgone su cui viaggiava si rovesciò finendo in un canale, e il sergente James Treber lo soccorse: "Sentii che qualcuno mi sganciava la cintura di sicurezza e mi toglieva il giubbetto antiproiettile", spiegò Serna. Era Treber, che annegò subito dopo averlo trascinato fino all’unica piccola tasca d’aria rimasta nel veicolo. Ha spiegato il giudice: "Ci sono ferite visibili sui corpi dei reduci, altre invisibili. Sono persone in difficoltà, nostri fratelli e sorelle che si sono persi per strada. E hanno soltanto bisogno di qualcuno che indichi loro la via".