Ogni anno 7 mila arrestati vengono giudicati innocenti di Andrea Malaguti La Stampa, 24 aprile 2016 Il Garante dei detenuti: ridurre le misure di custodia cautelare. Gli avvocati: separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. "Credevano che fossi il Padrino e non un uomo perbene. Così in attesa dei processi ho fatto 23 giorni di galera e un anno e mezzo ai domiciliari. Dopo di che mi hanno assolto con formula piena in primo grado, in appello e in cassazione. Eppure non è finita". Secondo la Procura di Palermo, Francesco Lena, ottantenne imprenditore di San Giuseppe Jato, titolare dello spettacolare relais Abbazia di Sant’Anastasia nel parco delle Madonie, era un prestanome di Bernardo Provenzano. Così cinque anni e mezzo fa, all’alba, le forze dell’ordine hanno bussato alla sua porta: "Venga con noi". "È per il permesso di soggiorno del ragazzo che sto assumendo?". "No, mafia". La moglie è sbiancata, lui si è sentito mancare e il suo mondo è andato in pezzi. Che cosa è successo da quel momento in avanti? "Mi hanno massacrato, trattandomi come il colletto bianco della cosca dell’Uditore e io l’Uditore non so neanche dove sia". Gogna mediatica e custodia cautelare in attesa di tre gradi di giudizio che avrebbero stabilito la sua innocenza, un destino paradossalmente non insolito. "Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro", spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari "Articolo643". Lo Stato sbaglia, dunque. E sbaglia tanto. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei "25 anni di barbarie giustizialiste" (parla alle procure, ai media, ai suoi colleghi o a tutti e tre?) e la magistratura non sostenesse - coma ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che "la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici" e che "i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più", sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia. Il caso Lena - Ma perché Francesco Lena sostiene che la sua vita è ancora sospesa? L’imprenditore siciliano precipita in fondo al suo pozzo giudiziario perché un gruppo di mafiosi parla di lui al telefono - "Di me e mai "con" me", chiarisce - ma nei suoi confronti non c’è nient’altro, perciò i processi finiscono in nulla. Eppure la sua proprietà viene sequestrata nel 2011 dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo guidata dall’ormai ex presidente Silvana Saguto, accusata oggi di corruzione e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Il sequestro avviene pochi mesi prima che la Cassazione scagioni Lena in via definitiva. A danno si aggiunge danno. "Della magistratura ho una altissima stima. Ci sono persone di grande valore, ma anche uomini e donne capaci di distruggere una comunità o una persona. Io vivo di fianco all’Abbazia e quando vedo come l’hanno trattata mi si crepa il cuore. Su 60 ettari di vigne, 30 sono stati abbandonati. Non l’hanno ancora distrutta, ma d prima era un’altra cosa. Sono vittima dell’antimafia e delle gelosie, però resisto, pensando che a Enzo Tortora è andata peggio di così", spiega Lena e dal fondo della gola gli esce un suono a metà tra il sospiro e il gemito. Il 26 di maggio una sentenza dovrebbe restituirgli ciò che è suo. Nel caso di Lena è possibile dire che le misure cautelari non abbiano inciso sulla sua vita sociale? E allo stesso tempo è possibile non pensare che nelle regioni in cui comanda la criminalità organizzata il lavoro dei magistrati sia più duro e complesso e il rischio di errore più alto? Lo scontro Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, "correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no". Per questo Migliucci, sostenuto dal suo ordine, ha pronta una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare in ottobre. "Bisognerebbe ricordarsi della presunzione di innocenza, che non è un fatto interno al processo come ritiene Davigo e dunque l’associazione nazionale magistrati. Volere sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie". È evidente che siamo alla vigilia di un nuovo scontro frontale. Eppure un punto di equilibrio tra la posizione di Migliucci e quella dell’Anm, che propone operazioni sotto copertura con poliziotti che offrono denaro a politici ed amministratori pubblici per vedere come reagiscono al tentativo di corruzione o l’introduzione di una norma che aumenti automaticamente la pena a chi ricorre in Appello e perde, presumibilmente esiste. Chi va in galera e chi no "La separazione delle carriere, che non mi scandalizzerebbe, di fatto già esiste. Ma ritenere che le mie sentenze possano essere condizionate dal fatto che prendo il caffè con un pm è ridicolo. Io decido solo secondo scienza e coscienza, come ho fatto nel caso della Commissione Grandi Rischi, quando, qui a L’Aquila, ho mandato assolti sei scienziati che in primo grado erano stati condannati per omicidio colposo e lesioni. Sentenza, la mia, confermata dalla Cassazione". Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. "Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno". Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. "Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro". In questi giorni a Francabandera è capitato di indennizzare un uomo arrestato in una discoteca con un sacchetto pieno di palline di ecstasy. Che fosse uno spacciatore era fuori discussione. Eppure, a una analisi successiva, è risultato che le palline non erano ecstasy ma zucchero. Questo perché lo spacciatore era stato truffato. Morale: rispedito a casa e indennizzato per ingiusta detenzione. "Naturalmente gli ho liquidato una cifra bassa, perché con il suo comportamento aveva causato il comportamento degli inquirenti". Il complicato e infinito balletto tra guardie e ladri, che non riguarda solo noi, ma l’Europa. L’Europa Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. "La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro". Anche i numeri sono simili? "Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare". Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? "Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine". Il caso Lattanzi Barbarie magari no, ma incomprensibile accanimento qualche volta sì. È il caso di Antonio Lattanzi, ex assessore di Martinsicuro, in provincia di Teramo, arrestato quattro volte nel giro di quattro mesi con l’accusa di tentata concussione e abuso di ufficio a seguito della chiamata in correità di un architetto che lo stesso Lattanzi aveva denunciato qualche anno prima. La Procura si intestardisce in un dinamismo irritante caratterizzato dall’incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. "Sono stato assolto in ogni grado di giudizio con formula piena. Ma ho fatto 83 giorni di prigione. Non ho capito perché abbiano usato questa durezza nei miei confronti. Dopo il primo arresto i miei avvocati hanno impugnato il provvedimento e sono stato rimandato a casa. Ma passati pochi giorni i carabinieri sono tornati a prendermi. Stavolta davanti ai miei figli. In carcere l’idea del suicidio mi ha accompagnato ogni giorno e se non fosse stato per mia moglie non so che cosa sarebbe successo. Comunque abbiamo impugnato anche il secondo provvedimento e anche questa volta mi hanno rimandato a casa". Quando sono andati a prenderlo per la terza volta racconta di avere avuto l’impressione che l’anima avesse lasciato il corpo strappato. Anche il terzo provvedimento è stato impugnato, ma il giorno prima che il tribunale per il riesame lo annullasse il giudice per le indagini preliminari ne ha emesso un quarto. "Una follia. Ma ho combattuto e vinto". Ha anche ricevuto un indennizzo, che non è bastato a pagare la metà delle spese legate al processo. "Non importa. Volevo che la mia innocenza fosse riconosciuta a tutto tondo. La prima notte in carcere è un disastro. Io però dormivo con i pantaloni e con la maglietta. Mai con il pigiama. Era il modo per dirmi: non mi piegherò mai a questo stato di cose, sono un uomo libero". Ogni anno in Italia ci sono 7000 casi Lattanzi - "tutti fratelli che vorrei abbracciare" - fisiologia o patologia del sistema giudiziario? Il Ministro Costa: "Dietro i numeri sofferenze vere. Ora si cambia" di Andrea Malaguti La Stampa, 24 aprile 2016 "Equivoci e superficialità, sistema malato. La dignità tolta non si restituisce". Ministro Costa, nei primi tre mesi del 2016 lo Stato ha risarcito con oltre 11 milioni di euro 434 persone vittime di ingiusta detenzione. Siamo di fronte a un fatto fisiologico o patologico? "Questi dati impongono una riflessione molto seria, perché dietro ad ogni numero ci sono una storia personale e familiare. Mogli e mariti che si dividono, lavori che si perdono, aziende che saltano, identità che entrano in crisi. Sofferenze vere, insomma. Tra l’altro i numeri sono più duri di così". Ovvero? "Dal 1992 a oggi sono stati pagati 630 milioni di euro a 25 mila persone. E questa è solo la platea di coloro che hanno chiesto e ottenuto l’indennizzo. Richiesta che molti non fanno. Magari perché non sanno che esiste la possibilità. Ma lei provi a immaginare uno stadio riempito con queste 25 mila persone". Pensa anche lei come Renzi, che veniamo da "25 anni di barbarie giudiziarie"? "Penso che dobbiamo smettere di considerare colpevole una persona solo perché è iscritta nel registro degli indagati. Quello è l’inizio dell’indagine, non il suo esito. Ma la politica ha una grande responsabilità, perché ha usato le indagini come una clava per attaccare gli avversari. I processi dalle aule si sono trasferiti sugli organi di stampa, pubblicizzando fatti irrilevanti e togliendo alle persone una dignità che poi è impossibile restituire". Davigo, presidente dell’Anm, in una intervista al "Corriere" ha sostenuto che i politici rubano più di prima ma che adesso non si vergognano più. "Davigo guarda in casa di altri e fa bene, perché ciascuno di noi deve intervenire sulle proprie criticità. Ma la sua è una visione a 350° che evita di guardare la responsabilità della magistratura che invece, di fronte ai numeri della ingiusta detenzione qualche domanda dovrebbe farsela. Mettere in prigione una persona ingiustamente non è molto diverso dal mettergli le mani addosso. Eppure per le lesioni si paga, per le ingiuste detenzioni no. Però vedo che il Csm interviene prontamente se una giudice fa commenti superficiali sulla bellezza di Garko". Torno alla prima domanda: siamo di fronte alla fisiologia o una patologia del sistema? "Siamo di fronte a una distorsione del sistema causata dalla equivocità della normativa, dalla superficialità individuale, dalla farraginosità delle procedure che portano all’errore. E nessun parlamentare può essere a posto con la coscienza finché non affronta questo tema". I parlamentari affrontino il tema solo quando riguarda loro. "Non è così. Certamente non lo è per me che da anni porto avanti questa battaglia e che continuo a domandarmi: che cosa succede al magistrato che ha sbagliato". Era giusto pubblicare le intercettazioni tra l’ex ministro Guidi e il suo compagno? "Non parlo di casi specifici. Voglio fare un discorso generale". Solo i casi specifici aiutano a capire di che cosa si sta parlando. "Io penso che prima ci si debba mettere d’accordo sui principi generali. E che l’atto introduttivo dell’indagine non può diventare l’indagine stessa. E questo tema va affrontato a prescindere dai fatti di cronaca. Lo Stato, di fronte a un errore, deve sapere perché sta pagando. Mentre con la legge Pinto è previsto un automatismo che va a verificare da cosa dipendano i risarcimenti per l’irragionevole durata dei processi, con l’ingiusta detenzione questo automatismo manca". Flick: "Sulla custodia cautelare eccessi ingiustificati" di Antonio Manzo Il Mattino, 24 aprile 2016 "Non si manda in cella per far confessare i reati". Le parole di Davigo sono una dichiarazione di guerra della magistratura alla politica? "Io non drammatizzerei, né enfatizzerei le parole del presidente Davigo. Paradossalmente, Davigo ha sbagliato: non è che i politici sul tema della corruzione abbiano rinunciato al senso della vergogna, semmai non l’hanno mai avuto. Non è che hanno smesso di vergognarsi senza smettere di rubare, è che non si sono mai vergognati, come non si sono mai vergognati gli italiani. Siamo ancora lontanissimi nel nostro Paese da una cultura della reputazione civica e della vergogna che precede di molto la repressione penale". Giovanni Maria Flick, ex ministro di Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale, è convinto che spesso la transitoria indignazione contro la corruzione sfocia nella indifferenza generalizzata. Non le pare che il test sull’integrità dei politici, proposto da Davigo, rischi di creare ulteriori incertezze perché diverso dal ruolo richiesto ad un agente provocatore? "Le parole di Davigo con il giudizio etico sui politici, così generalizzato nella sua analisi, forse sono inopportune. Tanto che lo stesso Davigo ha dovuto precisare che il suo giudizio era riferibile a quei politici che erano stati al centro delle sue inchieste". L’agente provocatore? "Il tema, nei termini proposto da Davigo, non mi trova d’accordo. È vero che in molti ordinamenti è prevista la figura di un agente provocatore ma una cosa è il poliziotto sotto copertura che fa finta di essere d’accordo con la condotta criminale per poi denunziare doverosamente l’accaduto; caso diverso è quello dell’agente provocatore che spinge gli altri a commettere un reato". Scrisse di Mani Pulite: quella del 92-93 è stata una esperienza deludente. È ancora della stessa opinione? "Non ho cambiato opinione, mi sembra che lo stesso Davigo lo riconosca nella sua analisi impietosa". In cosa fallì quella stagione? "Nella pretesa della politica di limitarsi a delegare al giudice penale la repressione della corruzione, anziché trarre spunti per lavorare sul fronte della prevenzione, cosa che poi solo dopo venti anni si è iniziato a fare". Le parole del presidente dell’Anm aprono un nuovo scontro politica-giustizia? "Credo di no: aprono un dibattito. Ad esempio, io non sono d’accordo con Davigo sul tema della custodia cautelare laddove dice "noi facciamo uscire gli arrestati quando hanno parlato". È un discorso che affrontai con il procuratore Borrelli quando, nel 1993, gli scrissi una lettera con una serie di dubbi, compreso quello sull’uso indiscriminato e continuo della custodia cautelare. Imprigionare una persona per farla parlare o liberarla quando ha parlato non sono cose poi così diverse". Il 40 per cento dei detenuti è ancora senza processo. Colpa dei politici o dei giudici? "Al mio posto rispondono il primo presidente della Corte di Cassazione e la Corte europea dei diritti umani che hanno già denunciato questa emergenza. Forse, ma togliamo anche il forse, l’eccesso di custodia cautelare ha rappresentato, in maniera disinvolta, la giustizia con una misura emblematica. Come se fosse, di per sé, l’unico momento di intervento repressivo rispetto all’opinione pubblica. La Corte europea dei diritti umani ci ha condannati per il sovraffollamento delle carceri ma io non sono per la costruzione di nuove carceri, come sostiene Davigo. Altra cosa è constatare che per corruzione, in carcere, ce ne sono davvero pochissimi. Le carceri sono sovraffollate da quella discarica sociale degli ultimi, come l’ha definita papa Francesco". In Francia, le sentenze di primo grado sono appellate solo in una parte ridotta di casi. In Italia, casi come quello del governatore De Luca, insegnano invece il contrario. Che il ricorso in appello fa giustizia. "Sono stato relatore di una sentenza della Consulta che ha ritenuto, sullo stesso piano, l’appello del pm dopo l’assoluzione come quello dell’imputato dopo la condanna. Il problema dei processi lunghi va risolto con la modifica della prescrizione. Prima di dare un taglio all’Appello ci penserei due volte. Potrebbe essere saggia l’idea di prevedere in appello una reformatio in pejus, cioè con il rischio che, per me appellante, possa arrivare una sentenza a mio sfavore, anche se non c’è stato l’appello del pm". Dal 2012 nel codice penale c’è un nuovo reato: traffico di influenze. Non le sembra troppo fragile questa previsione normativa? "Questo reato, traffico di influenze, è necessario ma è come una automobile nuova appena messa in strada. Non può camminare bene se non si vara una legge sul lobbismo, che di per sé non è attività criminogena, se è trasparente e regolato. Se, invece, esso sfocia in pressioni indebite, e nell’anticamera della corruzione, allora è giusto reprimere il traffico di influenze". Giustizia e politica, cosa resta dopo la zuffa di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 aprile 2016 Se, come insiste Renzi, i partiti dai giudici si attendono le sentenze e non altro, dal governo e dal legislatore sarebbe lecito attendersi le leggi, almeno quelle annunciate. Parlare per slogan può risultare efficace, ma a volte gioca brutti scherzi. Soprattutto quando si affrontano ricostruzioni storiche o questioni complesse, come i rapporti tra politica e giustizia. Dire che "i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi" spiega poco o nulla di come s’è evoluto il fenomeno della corruzione; però fa un bell’effetto, tanto più se ad affermarlo è il rappresentante dei magistrati italiani, il giorno dopo che il capo del governo ha sostenuto: "Noi vogliamo che i magistrati parlino con le loro sentenze". Altra frase che non aiuta il confronto né l’analisi della realtà: perché spesso il verdetto finale di un processo dipende da fattori e valutazioni indipendenti dai fatti emersi, e la selezione della classe dirigente non può essere legata solo al casellario giudiziario. Sarebbe l’ennesima, impropria delega affidata dalla politica ai giudici, denunciata più volte da Paolo Borsellino (che certo non si limitava a parlare con le sentenze), tanto inascoltato in vita quanto celebrato da morto come "magistrato eroe". L’ultimo capitolo del conflitto tra chi governa e chi giudica risente delle semplificazioni che servono a lanciare messaggi chiari e immediati, e con due comunicatori di professione come Piercamillo Davigo e Matteo Renzi il rischio di continuare su questa strada è altissimo. E porta con sé il pericolo di una rumorosa zuffa che però, posatasi la polvere, lascia tutto com’è. Lascia tutto com’è, per esempio, nel contrasto alla corruzione, che dovrebbe essere il fulcro della discussione innescata dall’ultima indagine avvicinatasi ai palazzi del potere (al di là del merito del lavoro della Procura di Potenza, sul quale è pure legittimo avanzare riserve ma dev’essere vagliato nelle sedi giudiziarie competenti, non in Parlamento). Che il malaffare legato alla gestione della cosa pubblica sia un’emergenza l’ha ammesso lo stesso Renzi quando ha dato nuovo impulso all’Autorità anticorruzione, chiamando a dirigerla un magistrato piuttosto noto alle cronache e tirandolo in ballo ogni volta che qualche inchiesta giudiziaria ha creato problemi alla politica: dall’Expo agli arbitrati sui risparmiatori danneggiati dalle banche, passando per il Mose e Mafia capitale. Si può con questa mossa considerare chiusa la questione? Ovviamente no. Se governo e Parlamento sono riusciti a fare qualcosa per aumentare prevenzione e repressione, è evidente che il fenomeno è ben lungi dall’essere sconfitto; passare il tempo ad accusarsi reciprocamente di non voler vincere la battaglia perché i ladri sono nascosti tra chi fa le leggi, e di non saper applicare le leggi perché troppo impegnati in campagne propagandistiche, non serve a nessuno. Tantomeno ai cittadini che della corruzione pagano il prezzo più alto, in termini di aumento della spesa pubblica e servizi scadenti. Per scoprire e perseguire questo genere di reati - sommersi per definizione, giacché a nessuno conviene denunciarli - è essenziale lo strumento delle intercettazioni; ora pare che l’intervento più urgente sia diventato limitare o impedire la loro diffusione sui mezzi d’informazione. Ma le circolari di alcuni procuratori dimostrano che non serve una nuova norma per adottare contromisure di buonsenso. In ogni caso il dibattito su alcuni eccessi, o su certe pubblicazioni inopportune, non dovrebbe oscurare le pratiche corruttive (ancorché da accertare), ma anche solo di malcostume (non penalmente perseguibili, ma non per questo irrilevanti) che emergono da quel tipo di indagini. Piuttosto, nel programma di governo c’era la riforma della prescrizione che com’è concepita ora - o meglio, come la concepì il governo Berlusconi a suo tempo - rende molto difficile giungere a una condanna definitiva per reati di corruzione. Da circa un anno un disegno di legge che cerca di rimediare a questa disfunzione è fermo al Senato, per via dei contrasti interni alla maggioranza tra Pd e Nuovo centrodestra. Se, come insiste Renzi, la politica dai giudici si attende le sentenze e non altro, dalla politica sarebbe lecito attendersi le leggi. Almeno quelle annunciate. Corruzione, giustizia, politica. L’illusione bellica di Marco Olivetti Avvenire, 24 aprile 2016 La settimana che si conclude oggi ha visto una nuova tappa nell’ormai pluridecennale conflitto fra politica e giustizia in Italia. Una raffica di interviste di Piercamillo Davigo, neo-presidente dell’Associazione nazionale magistrati - eletto a larga maggioranza dai suoi colleghi - sulla corruzione dei politici (che a suo avviso sarebbe in crescendo, senza neppure più il correttivo della vergogna per gli atti di corruzione) hanno infatti avviato una nuova escalation. Tutto sembra ricondotto a uno stucchevole confronto fra "guardie e ladri", come nell’ultimo decennio della Prima Repubblica e come negli anni roventi del berlusconismo. L’Italia appare ferma lì, e uno dei protagonisti della stagione di Mani Pulite rivendica le sue posizioni più radicali, con frasi come "non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti" (in barba alla presunzione di non colpevolezza solennemente proclamata dalla Costituzione e dall’art. 6 Cedu) o "non ci sono troppi prigionieri; si sono troppe poche prigioni" (in barba all’idea del diritto penale, e della carcerazione, come extrema ratio). Il problema è serio. Perché il dottor Davigo, persona certamente integerrima e co-protagonista in vicende chiave nella storia d’Italia, è oggi la voce più alta dei magistrati italiani. Non parla per sé, ma per la categoria che rappresenta. Occorre dunque chiedersi se sia legittimo ridurre i conflitti fra politica e giurisdizione a una lotta fra "guardie e ladri", magari partendo dal dato di fatto dei livelli preoccupanti del fenomeno corruttivo in Italia (livelli più da America Latina o da Est Europa post-comunista che da Europa occidentale). E la risposta a questa domanda non può che essere negativa, almeno in due direzioni, entrambe le quali devono indurre alla prudenza (prudentia tout court, non solo juris prudentia) nell’uso delle parole. Da un lato il conflitto fra politica e giustizia è ineliminabile da qualsiasi società liberaldemocratica evoluta, che si basa, appunto, su un equilibrio instabile fra jurisdictio e gubernaculum. Ma questo conflitto ha assunto in Italia forme patologiche: e se alcune ragioni di esso sono quelle che indica Davigo (una corruzione più elevata), ne esistono tuttavia altre, che hanno la loro causa nell’esistenza in Italia della magistratura (requirente e giudicante) più potente del mondo occidentale. E se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in maniera assoluta, diceva Lord Acton. Si pensi alla folta e continua presenza di magistrati nell’agone politico (deputati, ministri, presidenti di regione, sindaci, addirittura capi partito); all’avvio di enormi inchieste mediante le quali alcune procure partecipano, condizionandola, alla politica industriale del Paese (Ilva e Tempa Rossa sono solo due casi fra molti). E si pensi al continuo ricorso ai provvedimenti cautelari per intervenire d’urgenza - e anche - arbitrariamente su questioni assai problematiche (si pensi al "caso Stamina") e ai molteplici volti dell’attivismo giudiziale, cioè a giudici che tendono a farsi legislatori nei settori più vari, dalle unioni gay all’eutanasia (non si può dimenticare la sentenza Englaro). Anche in questi giorni si assiste a magistrati che scendono in campo in vista del referendum costituzionale, mentre altri negli scorsi mesi lo hanno fatto - sui due versanti della controversia - sulla stepchild adoption nelle unioni di persone dello stesso sesso. Sicché la causa prima del conflitto politica-giustizia non è la corruzione, ma lo smarrimento dei confini fra le due sfere. L’altro versante della dialettica politica-giustizia in materia di corruzione sta nel fatto che se la lotta contro quest’ultima è essenziale, occorre definirne bene i confini (ad esempio non spacciando per corruzione ciò che, pur eticamente discutibile, non rientra nella sfera di operatività delle fattispecie penali: e proprio alcuni aspetti dell’inchiesta su Tempa Rossa offrono buoni esempi al riguardo) e, soprattutto, avere consapevolezza che la repressione penale non può essere l’unico mezzo per contrastare il fenomeno. Esistono - e devono essere efficaci - azioni sul piano educativo, dell’opinione pubblica, del costume civile, della prevenzione. E non si può negare che l’istituzione dell’Autorità anticorruzione (palesemente "non amata" da alcuni settori della magistratura) costituisca finalmente un passo significativo in questa direzione. Insomma, assieme ai segnali inquietanti non mancano segni di un nuovo impegno, nella direzione di un contrasto effettivo. Compito che è irrinunciabilmente (anche se non esclusivamente) proprio della classe politica, che in nessuna sua parte dovrebbe più illudersi di poter "usare" tatticamente lo strumento della lotta "guardie e ladri" per regolare i conti con l’avversario. La storia recente dimostra che certe guerre rischiano di non finire mai, non debellano la corruzione e non incoronano vincitori. Renzi: rispetto i magistrati e attendo le sentenze di Carlo Bertini La Stampa, 24 aprile 2016 Intanto in Senato si va verso un accordo Pd-Ap sulla prescrizione. Serve rispetto tra magistratura e politica", puntualizza Matteo Renzi, nella prima esternazione messa nero su bianco dopo aver fatto decantare per 24 ore la polemica sollevata dalle bordate di Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Soppesando le parole, il premier gli risponde in questi termini nella sua news vergata al ritorno dall’America. "Tutti i giorni leggo polemiche tra politici e magistrati. Un film già visto per troppi anni. Personalmente ammiro i moltissimi magistrati che cercano di fare bene il loro dovere. E anche i moltissimi politici che provano a fare altrettanto". Dunque palla al centro, perché "il rapporto tra politici e magistrati deve essere molto semplice: il politico rispetta i magistrati e aspetta le sentenze. Il magistrato applica la legge e condanna i colpevoli. Io rispetto i magistrati e aspetto le sentenze. Buon lavoro a tutti". Chiude così la comunicazione il premier, mentre a difendere Davigo resta Beppe Grillo, "lui non è contro il governo, è contro i corrotti... Se le cose coincidono la colpa non è di Davigo". Rischio boomerang Ma nel pieno della temperie il governo si muove per raggiungere un accordo sul nodo della prescrizione che si trascina da mesi. Nel Pd lo chiamano "lodo Orlando", dal ministro della Giustizia che proprio ieri ha provato a stemperare il clima invocando "sinergia e leale collaborazione tra tutti i soggetti della giurisdizione". I pochi che gestiscono la pratica spiegano che l’operazione andrebbe però ben calibrata sul piano della comunicazione per evitare un rischio boomerang: se fosse percepita solo come resa ai veti centristi, il rischio di finire nel mirino mediatico sarebbe alto e proprio sul fronte più delicato di queste settimane. Sul piano tecnico, l’accordo prevede un aumento della prescrizione per i reati di corruzione di altri tre anni come per tutti gli altri reati, fino ad un massimo di 15 anni e mezzo. La questione si presenta in questi termini: la legge che aumenta i tempi della prescrizione, approvata alla Camera ma bloccata al Senato da Ap, si divide in due grandi filoni. Spiega chi segue la pratica che il primo riguarda tutti i reati, corruzione compresa, furti, ricettazioni, violenze, lesioni; e anche le contravvenzioni su materie come inquinamento, rifiuti, abusi, urbanistica. Per tutti i reati c’è un aumento della prescrizione di tre anni. Il secondo blocco prevede un aumento ulteriore della prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione e cosiddetti reati satellite: un emendamento votato alla Camera la allunga fino a 21 anni e mezzo dai 12 e mezzo attuali. Resistenze in Pd e Ncd E visto che tra i deputati Pd ci sono resistenze a togliere questa norma e che al Senato il pallino è in mano a Ncd che viceversa è contrario alla "stretta", cosa sta pensando di fare il governo? "Rinunciare a questo raddoppio indigesto a Ncd, lasciando che i tempi di prescrizione per la corruzione possano aumentare come per tutti gli altri reati di tre anni, arrivando dunque ad un massimo di 15 anni e mezzo", spiegano i renziani con voce in capitolo. Si procederebbe così per step successivi, portando a casa subito questo compromesso che ancora richiede un’opera di persuasione sul gruppo parlamentare dei centristi, guidato in commissione Giustizia dal presidente Nico D’Ascola. Mercoledì in commissione arriverà il testo base della riforma del processo penale, che dovrebbe contenere oltre alla delega sulle intercettazioni, anche la legge sulla prescrizione. E lì si vedrà se si sbloccherà la situazione. Quelle carriere politiche messe alla gogna da accuse che al processo finiscono in nulla di Mattia Feltri La Stampa, 24 aprile 2016 I politici saranno anche tutti ladri ma qualche volta li assolvono. Probabilmente Vincenzo De Luca, impresentabile secondo la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi poche ore prima delle elezioni per la presidenza della Campania, sarà assolto nel processo Sea Park. Il pm ha detto che "i fatti non sono sussistiti e non sussistono". Molto mal condotte le indagini, ha detto, e inutilizzabili le intercettazioni: "O non si facevano, o si facevano secondo legge". Quando De Luca decise di respingere vivacemente il titolo di impresentabile, e di continuare la campagna elettorale, i Cinque Stelle lanciarono l’allarme democratico: "Golpe!". Ed è per le medesime urgenze di libertà e onestà che pochi giorni fa hanno discusso in Senato una mozione di sfiducia al governo, ispirata dalle inchieste di Potenze, e ricalcata sulle urgenze di libertà e onestà che li avevano portati, l’anno scorso, alle medesime battaglie parlamentari attorno alle disavventure del ministero di Maurizio Lupi, che si dimise, e all’arresto dell’alto dirigente delle Infrastrutture, Ercole Incalza. Chissà se i grillini e i leghisti e quelli di Sel e la parte di Forza Italia immemore di antiche furie garantiste sanno che Incalza - accusato di corruzione, frode, truffa, associazione per delinquere e altro, e considerato da tutti i giornali "il principale artefice del sistema" - è stato prosciolto lo scorso 10 marzo. Il gip ha buttato le carte nel cestino, niente processo. E chissà se i suddetti parlamentari avevano idea di chi fosse Salvatore Margiotta, il senatore citato martedì in aula da Matteo Renzi come vittima della "barbarie giustizialista". La storia è interessante: nel 2008 la procura di Potenza (toh) ne aveva chiesto l’arresto per l’estrazione del petrolio (toh) e siccome Palazzo Madama aveva negato l’autorizzazione, Margiotta diventò per i grillini uno dei tanti simboli della casta corrotta e impunita. Margiotta è stato assolto in primo grado, condannato a 18 mesi in appello, di nuovo assolto in Cassazione. Non c’è nemmeno bisogno di citare i grandi casi - Giulio Andreotti mafioso fino al 31 dicembre 1979, e prescritto, e non più mafioso dal 1 gennaio 1980, e assolto, Silvio Berlusconi in mignottopoli, Bruno Contrada che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo non era condannabile per concorso esterno in associazione mafiosa, reato che quando fu commesso non esisteva, Calogero Mannino sotto inchiesta dal 1991 per mafia e poi assolto nel 2015. Bastano quelli più marginali. Il forzista Giovanni Paolo Bernini, indagato per concorso esterno a Parma in ragione di un bonifico di 20 mila euro a uno ‘ndranghetista (ma chi è lo scemo che fa un bonifico a uno ‘ndranghetista?) è stato appena prosciolto anche perché il bonifico non è mai stato eseguito. L’ex ministro dell’Agricoltura, Saverio Romano, è stato prosciolto e assolto per mafia e corruzione, e si ricordano lunghe giornate di zuffa parlamentare sull’autorizzazione all’uso di intercettazioni telefoniche indispensabili a dimostrare il solito eterno "sistema di potere". Un paio di settimane fa, Maurizio Gasparri è stato assolto dall’imputazione di peculato per 600 mila euro sottratti al Pdl che gli sarebbero serviti a sottoscrivere una polizza sulla vita: il fatto non sussiste. Si potrebbe andare avanti a lungo, a dimostrare che forse ha ragione Piercamillo Davigo: l’errore giudiziario è fisiologico. E che forse ha torto quando dice che gli indizi delle indagini dovrebbero bastare ad allontanare i politici dai partiti. Morosini: "Davigo critica il malaffare. Il governo migliori le leggi" Corriere della Sera, 24 aprile 2016 Il magistrato, membro del Csm, difende il presidente dell’Anm: "La legislazione ha fatto passi avanti, ma alcuni profili andrebbero migliorati. Penso alla riforma della prescrizione e alle risorse". "Davigo va rispettato". L’intervista di giovedì al Corriere continua a interrogare la politica e a lacerare la magistratura. Piergiorgio Morosini - componente del Consiglio superiore della magistratura e già gip a Palermo nell’inchiesta sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia - prende le difese del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: "Davigo ha una sua autorevolezza e una certa storia professionale. È un magistrato che non ha mai rincorso incarichi di diversa natura a livello istituzionale, rispetto a quello giudiziario". I pm sono divisi. Raffaele Cantone ed Edmondo Bruti Liberati contestano il presidente dell’Anm e il Coordinamento nazionale di Area, la corrente a cui lei appartiene, ha espresso "perplessità" per le parole di Davigo. "Nella magistratura ci sono sensibilità diverse e questo può anche essere salutare. Ma Piercamillo Davigo va rispettato, anche se non si condivide tutto ciò che dice". Ha attaccato con forza la politica, provocando la dura reazione del governo. "A mio avviso Davigo non intendeva attaccare genericamente la classe politica e neppure qualche politico in particolare. Il presidente dell’Anm ha voluto porre l’attenzione sul tema dell’emergenza etica e sulla diffusione del malaffare, che rischia di danneggiare gravemente non solo l’economia e le istituzioni, ma anche l’immagine del nostro Paese". È stata la politica a fermare il processo di risanamento dell’Italia dalla corruzione? "La lotta alla corruzione necessita non solo della risposta giudiziaria, ma richiede anche un’azione che riguarda le pubbliche amministrazioni e la legislazione". Le riforme di Renzi in fatto di giustizia non vanno bene? "La legislazione ha fatto passi avanti, ma alcuni profili andrebbero migliorati. Penso alla riforma della prescrizione e alle risorse, cominciando dal nuovo personale ausiliario che non viene assunto da anni". È in arrivo una nuova "crociata" mediatica e giudiziaria contro Palazzo Chigi? "Non ho alcun elemento in merito. Però vorrei dire che parlare di barbarie giustizialista, come ha fatto il premier qualche giorno fa, rischia di alimentare le tensioni tra magistratura e politica". Renzi contro le toghe, come Berlusconi? "Non mi entusiasmano i paragoni col passato. Piuttosto vorrei evidenziare come, sulle intercettazioni, ci sia una legislazione robusta a difesa della privacy degli indagati". Il governo lavora a norme più restrittive... "Le circolari delle procure di Roma, Torino e Firenze hanno mostrato un atteggiamento di grande responsabilità. Si stanno cercando dei modelli operativi per evitare che dati non rilevanti ai fini del processo finiscano sui giornali. La verità è che c’è anche chi preme per mettere mano alle intercettazioni e limitarne il campo di applicazione. Sarebbe cosa molto dannosa per l’efficacia delle nostre indagini". Il capo del governo chiede ai magistrati di parlare con le sentenze. Sbaglia? "Credo che i magistrati possano e debbano partecipare al dibattito pubblico sui grandi temi della giustizia. La Anm è stata istituita anche per questo ed è una grande risorsa per le dinamiche democratiche". Si sta aprendo una nuova stagione di veleni e sospetti tra politica e magistratura? "Mi auguro proprio di no, non farebbe bene al Paese. C’è grande bisogno di rispetto e autonomia dei diversi dei ruoli istituzionali. Io auspico un confronto autentico tra il Parlamento e l’ordine giudiziario per trovare soluzioni adeguate a sfide enormi, come la lotta alla corruzione e al terrorismo e i temi della giustizia legati all’immigrazione". Renzi dovrebbe dialogare di più con i magistrati? "Tutti devono auspicare una ricomposizione dei rapporti. La precondizione è il rispetto dell’autonomia delle diverse posizioni istituzionali, senza tentativi di ingerenza o di invasione. Né da una parte, né dall’altra". Carofiglio: "Toni sbagliati, ma la questione morale esiste" di Giuliano Foschini La Repubblica, 24 aprile 2016 L’intervista allo scrittore ed ex pm. È stato senatore del pd. Gianrico Carofiglio è un ex magistrato (antimafia, a Bari) ed ex politico (senatore Pd nella scorsa legislatura). Da scrittore, oggi, è dunque osservatore privilegiato del suo passato. Carofiglio, è in corso un nuovo scontro tra politica e magistratura? "Purtroppo è sempre lo stesso scontro, caratterizzato da semplificazione e demagogia". Sta dicendo che sbagliano sia Davigo che Renzi? "Davigo ha ragione nel merito su molti temi, anche se non su tutti. Ma ha sbagliato nel metodo e nei toni. Quando si ricopre un ruolo così delicato come quello di Presidente dell’Anm non bisogna dire cose che si prestano anche solo all’equivoco. In una frase come "La classe dirigente che delinque fa più danni dei delinquenti di strada" vi è un eccesso di sintesi che si traduce in una banalizzazione che non ti aspetti da un uomo di grande intelligenza come Davigo. I reati li commettono i singoli, non le classi dirigenti. Con queste semplificazioni si offendono le persone perbene, che nonostante tutto, per fortuna sono tante, e si presta il fianco a critiche strumentali". Quindi che non esiste una questione morale? "Certo che esiste. Ma non la si risolve con la legge penale. Ci sono tre piccole, semplici, banali regole: decoro nell’esercizio delle funzioni, assenza di ogni commistione tra interesse pubblico e privato, accettazione dell’idea che i ruoli della politica, ma anche quelli della burocrazia, siano a tempo determinato. La violazione di queste regole è il terreno di coltura dei reati". A chi tocca applicare queste regole se non alla magistratura? "Alla politica. Prima ancora dei reati vi è l’idea dell’uso privatistico delle funzioni pubbliche. O la pretesa di essere più uguali degli altri, per citare Orwell. Come Fondazione Petruzzelli di Bari (ndr, Carofiglio ne è presidente) abbiamo organizzato un concerto gratuito con un famoso cantante. I biglietti andavano, fino a esaurimento, a chi si prenotava prima. Sono arrivate tante chiamate di politici e di funzionari pubblici che pretendevano un ingresso soltanto per il loro ruolo. Ma è quel presentarsi con "sono l’onorevole x", con un aggettivo che diventa sostantivo, a rappresentare il centro esatto della questione morale. Indipendentemente dai reati". L’Anm chiede leggi diverse. "Hanno ragione. Fa bene Davigo a chiedere regole diverse sulla prescrizione e sull’appello, e la possibilità di usare agenti sotto copertura contro la corruzione. C’è una convenzione Onu che ci impegna a introdurre norme sull’uso di agenti sotto copertura nella lotta alla corruzione. Siamo inadempienti. Perché?". In un racconto del suo ultimo "Passeggeri notturni" racconta di una terza possibilità: la compressione dell’uso del contante. "Eliminando il contante si eliminerebbe gran parte della corruzione, oltre a gran parte dell’evasione fiscale. In Europa lo stanno facendo. Perché noi no?". Siamo di nuovo allo stesso punto: magistrati contro politica. "E questo è un male. Come peraltro è un errore grave dire che Renzi è come Berlusconi, che era pluri-imputato e pluri-indagato e dunque aveva interessi personali a paralizzare la giustizia. Ma Renzi dovrebbe evitare espressioni irridenti come "brr che paura", o "le inchieste di Potenza cadono ogni 4 anni come le Olimpiadi" oppure cedere a riflessi propagandistici e demagogici come per esempio sulla questione delle ferie dei magistrati. Di contro, i magistrati non possono pensare che l’etica pubblica sia loro appannaggio. I magistrati sono tecnici cui tocca applicare le leggi e non portatori di etica da imporre alla società. Per evitare strumentalizzazioni è necessario non opporre demagogia a demagogia". Di Matteo: "La politica è incapace di colpire i corrotti, troppi attacchi ai pm" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 24 aprile 2016 "Mafia e corruzione sono ormai facce della stessa medaglia - dice Nino Di Matteo - ma mentre i boss sono adeguatamente puniti, i corrotti che vanno a braccetto con i padrini sono garantiti da una sostanziale impunità dalla politica". Il pubblico ministero del processo Stato-mafia riprende le parole di Piercamillo Davigo sui politici che "continuano a rubare e non si vergognano", sulle difficoltà nelle indagini. Le definisce: "Parole chiare, coraggiose, la stragrande maggioranza dei magistrati la pensa così". E rilancia: "Nei pochi casi in cui si riesce ad acquisire la prova di quei fatti di reato, tutti gli sforzi vengono mortificati dal sistema della prescrizione, che non si riesce a riformare". Perché, secondo lei? "Probabilmente, una parte della politica trova conveniente l’eventualità di continuare a utilizzare la prescrizione come un comodo rifugio rispetto alla responsabilità dei delinquenti dal colletto bianco". Si è già riaperto un conflitto fra politica e magistratura? "Non c’è stata e non c’è una guerra fra politica e magistratura. Una guerra evoca volontà e azione bilaterali. Piuttosto, negli ultimi 30 anni, con sfumature e governi di colore diverso, c’è stata un’offensiva organizzata, costante e abilmente condotta di una parte della politica contro una parte della magistratura, quella che si ispira esclusivamente al principio dell’eguaglianza di tutti innanzi alla legge". La politica critica i magistrati per certi processi che si concludono con un nulla di fatto. Perché le sembra un fatto anomalo? "Tante assoluzioni o archiviazioni riguardanti esponenti politici fanno riferimento a rapporti accertati con mafiosi, dunque a dei fatti, che però non sono diventati reato. E la politica cosa fa? Si è dimostrata del tutto incapace di reagire, punendo con meccanismi di responsabilità interna coloro che cercano i mafiosi. È molto più facile attaccare i magistrati". La politica invoca le sentenza definitive. "Questo non può essere un alibi. A prescindere dall’eventuale configurabilità di un reato, certe frequentazioni fra mafia e politica sono evidenti, e la politica ancora oggi non sa o non vuole capire. Non è un caso che negli ultimi dodici anni due presidenti della Regione Siciliana siano stati processati per mafia". Per colpire il voto di scambio politico mafioso, la politica ha avviato la riforma dell’articolo 416 ter. "Considero quella riforma un’occasione persa. Le pene per il voto di scambio sono molto più basse di quelle previste per l’associazione mafiosa. Non si vuole capire la gravità estrema del patto elettorale mafioso. Ritengo che la nuova norma sia stata formulata male, con aspetti di equivocità". C’è stato già qualche banco di prova? "Di recente è stato assolto un politico siciliano che era stato invece condannato per voto di scambio sotto il vigore della vecchia legge". Su cosa si potrebbe riaprire un tavolo di dialogo fra magistratura e politica per le riforme? "Per prima cosa, la politica dovrebbe recuperare il messaggio di Pio La Torre, il segretario del Pci ucciso dalla mafia, e ispirarsi alla sua capacità di denunciare le collusioni del potere prima ancora delle inchieste della magistratura". La segretaria di Md Anna Canepa: "Davigo? Ha parlato per sé" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 aprile 2016 "Sul carcere siamo più in sintonia con il governo", dice la segretaria di Md Anna Canepa: "Il presidente dell’Anm deve capire che non è più in campagna elettorale. Ora si confronti con la giunta unitaria". La sinistra delle toghe: lontani dalla visione dell’ex Mani pulite, non sempre i giudici sono la soluzione. Nel dialogo fatti passi in avanti. Dopo due giorni di polemiche, anche la corrente di sinistra della magistratura prende le distanze dalle uscite di Piercamillo Davigo. Con una nota attentamente bilanciata Area, il cartello che vede insieme Magistratura democratica e i Movimenti per la giustizia, critica "toni e contenuti" del neo presidente dell’Anm. Anna Canepa, magistrata della procura nazionale antimafia, è la segretaria di Md ed è stata vicepresidente nella precedente giunta dell’Anm. Cosa c’è di sbagliato nelle parole di Davigo? Non ne facciamo una questione di bon ton, le nostre critiche riguardano il merito delle cose che ha detto, che non rappresentano certo un sentire condiviso di tutta la magistratura italiana. Soprattutto la sua visione pan penalistica, in base alla quale è sempre e solo il diritto penale che risolve tutti i problemi e moralizza il paese. Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi. Noi di Area, ma direi tutta l’Anm, abbiamo sempre sottolineato l’esigenza di riqualificare la pubblica amministrazione, le forme della politica e le pratiche della società civile e del mondo economico. Davigo dice anche che ci sono troppo pochi detenuti, in Italia. La sua visione del carcere è lontanissima dalla nostra. Tra l’altro ai recenti stati generali dell’esecuzione penale è emerso un approccio assai diverso, che indica nella detenzione in carcere l’extrema ratio. Un metodo che ci trova concordi. Dunque Area è più vicina alle proposte del governo che alle tesi del presidente dell’Anm? Schematizzando e parlando di carcere, tema che il governo sta affrontando bene, si può dire che sia così. Anche perché sono state recepite molte nostre proposte. Le cito un altro pensiero di Davigo: hanno vinto i corrotti e adesso è anche peggio di Tangentopoli. Non credo sia così. Processi ne sono stati fatti e se ne fanno ancora, magari lontano dai riflettori. Del resto è questo il compito della magistratura, indagare e giudicare su singoli fatti. L’idea che la magistratura sia la moralizzatrice della società che sguaina la sua spada è troppo semplice e sbagliata. Davigo non lo scoprite certo oggi, eppure due settimane fa lo avete, anche voi di Area, votato come presidente. È giusto che Davigo si confronti con chi l’ha eletto. Con un sovrappiù di attenzione: una giunta unitaria richiede posizioni unitarie. È vero, tutti sapevamo com’è fatto, ma con i voti che ha preso (oltre mille, il più votato tra le toghe, ndr) era giusto che fosse lui il presidente. A patto però che si ricordi di misurarsi con l’organo collegiale che rappresenta. Lo sta sfiduciando? Nessuna sfiducia, soltanto un richiamo ai doveri collegati al ruolo che ha assunto. Ha fatto una campagna elettorale di rottura, del resto gli veniva facile dall’opposizione. Ora non può più parlare per suo conto. Gli riconoscerà che rispondeva a un affondo del presidente del Consiglio, che ha parlato di "barbarie giustizialista" lunga 25 anni. Le frasi di Renzi mi hanno riportato alla mente un brutto passato, fin troppo recente. Eppure noi siamo passati attraverso quegli anni non facendo mancare le nostre risposte agli attacchi, ma restando sempre nel nostro ruolo e con posizioni istituzionali. La precedente giunta in realtà è stata criticata per la debolezza nei confronti del governo, e soprattutto Area è stata penalizzata alle elezioni. Al precedente presidente si imputava una scarsa efficacia comunicativa. Ma se essere più efficaci significa uscirsene con dichiarazioni come quelle degli ultimi giorni, allora direi che c’è il problema di riuscire a dominarsi. Renzi non meritava una risposta? Sì, ma non la risposta che ha avuto da Davigo. E guardi che la magistratura associata ha saputo replicare ad attacchi ben più gravi. Con Davigo polemizza anche il sottosegretario alla giustizia Ferri, cioè il leader della corrente della magistratura dalla quale Davigo è uscito con una scissione. Appunto, tra i due ci sono evidenti questioni personali, Ferri è l’ultimo titolato a parlare. Area chiederà al presidente dell’Anm di cambiare metodo? Immagino che già mercoledì, alla prima riunione della giunta che si è appena formata, gli sarà chiesto di confrontarsi. Questa posizione non rischia di spingervi di nuovo nel ruolo di sentinelle del governo? Noi non dobbiamo avere paura di dialogare e di confrontarci con il governo. Senza rinunciare però a segnalare criticità e a chiedere strumenti e risorse per garantire una giustizia migliore ai cittadini. Ad esempio attendiamo da tempo una riforma della prescrizione. Ma se facciamo un bilancio del periodo in cui i toni si sono abbassati, abbiamo ottenuto qualcosa. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati, però, è una vostra sconfitta. È vero, si tratta di una legge che abbiamo combattuto e che continuiamo a ritenere sbagliata. Ma è giusto anche dire che all’atto pratico non si sta rivelando così disastrosa. Serve una nuova legge sulle intercettazioni? La legge c’è. Presenta dei limiti e ci sono dei buchi che sarebbe opportuno chiudere. Non è però un argomento urgente. Alcune procure importanti, come Torino e Roma, stanno dimostrando che i magistrati possono autoregolamentarsi e sanno farlo. Questa prese di responsabilità non guastano. Perché è giusto riconoscere che anche i magistrati, talvolta, sbagliano. Esiste una questione morale anche in magistratura. L’idea del pubblico ministero sul cavallo bianco è un’altra delle cose che ci divide da Davigo. Toh, i forcaioli si scoprono garantisti di Fausto Carioti Libero, 24 aprile 2016 Dal Csm alle toghe fino ai giornalisti: tutti in coro contro Davigo. Ma l’ex pm di Mani Pulite continua a dire le stesse cose da 20 anni. Edmondo Bruti Liberati? Quello che il 27 ottobre del 2013, senza curarsi del fatto che la propria procura - tanto per cambiare era titolare di indagini su Silvio Berlusconi, cioè senza preoccuparsi di quella imparzialità che nel mondo delle favole dovrebbe essere la regola aurea delle toghe, faceva m pubblico battute sul suo indagato preferito? Proprio lui. È rispuntato. Adesso, dopo che Piercamillo Davigo ha ripetuto sulla classe dirigente che circonda Matteo Renzi un decimo delle cose che Bruti Liberati e Davigo hanno sempre detto su Berlusconi, ha scelto di insegnare la separazione dei poteri di Montesquieu al collega. Dalle colonne di Repubblica gli spiega che "è essenziale che l’Anm non esca dal suo ruolo", lo avverte che "i magistrati non danno ricette ne affrontano i problemi deontologici altrui". Oggi Bruti Liberati è un magi strato in pensione, ma due anni e mezzo fa era procuratore capo di Milano. Intervenendo proprio al congresso dell’Anni, la separazione dei poteri e l’imparzialità di fronte agli indagati le mise in pratica così: "Una volta tanto possiamo fare gli sciovinisti con i francesi. Sarkozy quanto ad atteggiamenti anti-istituzionali ne ha da fare di strada. Noi siamo andati molto, ma molto avanti. Possiamo dare qualche lezione". Un’accusa a Berlusconi che il capo di chi faceva le indagini sul Cavaliere avrebbe dovuto risparmiarsi, e che indusse il centrodestra a scatenare l’inferno. Adesso Bruti Liberati, assieme a tanti altri insospettabili, alza il di tino e dispensa consigli di bon ton istituzionale a Davigo. Come lui, tutti gli altri. Vedi Luca Palamara, oggi presidente della Sesta Commissione del Csm. Sparge bromuro e mette m guardia Davigo: "Non è il momento di alimentare un inutile scontro tra politica e magistratura". Lo era però nel marzo del 2011, quando presidente dell’Anni e quindi predecessore di Davigo era lo stesso Palamara. Fu il segretario del sindacato delle toghe, Giuseppe Cascini, a dire che "questa maggioranza non ha legittimità morale, culturale, politica e storica per affrontare il tema della riforma costituzionale della giustizia". Per inciso, era la stessa maggioranza che teneva in piedi quello che resta l’ultimo governo scelto dagli elettori. Fu un po’ troppo persino per le abitudini della casa, tanto che Cascini dovette fare una mezza correzione. Anche quella volta, però, dal mondo della magistratura, dai politici e dai commentatori, le uniche voci critiche furono quelle più o meno organiche al centrodestra. Nessuno scandalo generalizzato, uno zero virgola per cento di polemiche in confronto al putiferio di queste ore. Così oggi quasi fa tenerezza l’ex dottor Sottile di Mani Pulite, che almeno ha il privilegio della coerenza e dice le stesse cose da vent’anni. Sembra uno di quei reduci che con oltre cinquanta primavere alle spalle e la prostatite avanzata si ostinano a vestirsi da paninari, cercando in piazza San Babila anime affini sempre più rare. Perché mentre Davigo nel be ne e nel male è rimasto se stesso, intorno a lui tutto è cambiato. Quella frase lì - "i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi" - la ripete da anni, nelle interviste e nei convegni. E probabilmente pensava che anche stavolta sarebbe scivolata via come tutte le altre. Sbagliava, perché quello che un tempo era normale e addirittura doveroso dire, adesso che al timone c’è Renzi è diventato un insulto istituzionale. E stavolta infatti si sono aperte le cateratte del cielo. Da quanto non si vedeva il Consiglio superiore della magistratura, in uno scontro tra un magistrato e l’esecutivo, schierarsi con quest’ultimo? È successo ora, per bocca dello stesso vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, incidentalmente renziano, rapidissimo ad avvertire che le parole di Davigo "rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno". Così come è un prodigio della natura leggere su Repubblica un’intemerata contro un magistrato colpevole di maltrattare i politici firmata da Liana Milella. Un coro monodico cui partecipa Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione: invocava l’uso di "agenti provocatori", incaricati di corrompere politici e pubblici ufficiali per metterne in gabbia il più possibile, ma ora che quest’opera di pulizia vuole intestarsela Davigo, lui ne contesta la "visione autoreferenziale e salvifica". Persino Gherardo Colombo, compagno di arresti di Davigo ai bei tempi di Mani Pulite, non è più lui. All’epoca difendeva l’uso della custodia cautelare e spiegava, numeri alla mano, che non c’erano abusi, perché in mille giorni lui e i suoi colleghi del pool di Milano avevano chiesto la custodia cautelare per 600 persone e per un centinaio di queste il gip aveva respinto la richiesta. "Utilizzare l’ordine di arresto è un passo doloroso anche per coloro che lo applicano. Ma in alcuni casi non se ne può fare a meno", argomentava candido. Quanto al 41 bis, diceva che serve a difendere la società "nei confronti di chi, anche dal carcere, può influire sugli atteggiamenti criminosi di persone che stanno fuori". Con la stessa convinzione oggi, intervistato da Affari Italiani, sostiene che "il carcere non serve a nulla". E lo dice appena ha letto l’intervista in cui Davigo chiede la costruzione di nuove carceri. Quelle mura tra persone alzate dalle parole di Agnese Moro La Stampa, 24 aprile 2016 Il primo muro con cui si scontrano le persone che attraversano il Mediterraneo per cercare di entrare in Europa è quello delle parole usate per indicarli. Tutto si confonde: immigrati, profughi, rifugiati, regolari, irregolari; tutto diventa sinonimo di tutto. Con il risultato di creare l’impressione di avere a che fare con un magma, una fiumana indifferenziata, fatta non di uomini veri, come noi, ma di simboli e di spauracchi, che, per questo, possono essere abbandonati e respinti senza troppo pensarci e senza grandi scrupoli. Se, invece, li si incontra le cose cambiano. È quanto avviene ai soccorritori, alle nonne dell’isola di Lesbo, agli abitanti di Lampedusa e a quanti sono costretti a riconoscere in quei volti persone come loro. Finché l’altro è una cosa, puoi disinteressartene o nuocergli. Appena incontri il suo viso e torna ad essere uomo tutto cambia. Per questo è importante il lavoro culturale che il Centro Astalli dei Gesuiti, con la sua Associazione e con la sua Fondazione - nella sede centrale di Roma e nelle altre -, fa per far incontrare a tanti giovani dei rifugiati in carne, ossa e vicende personali. Nel 2015 sono stati avvicinati, con diversi progetti, 23.737 studenti. Il Centro ha anche lavorato con i media e con campagne rivolte a tutti noi per creare una diversa visione dei problemi e delle aspirazioni di queste persone. Ed è proprio la capacità di distinguere bisogni e situazioni, e di agire di conseguenza, che mi colpisce sempre nell’operato in favore dei rifugiati e dei richiedenti asilo del Centro Astalli. Che, oltre a cambiare la nostra cultura, si occupa di accoglienza in varie forme. Sono 668 le persone ospitate nei Centri di accoglienza; 250 quelle che ogni giorno usufruiscono della mensa (pari a 67.780 pasti nel 2015); offrono servizi di ambulatorio, aiuto legale, scuole di italiano, accompagnamento all’esercizio dell’autonomia, sostegno alle persone vulnerabili tra cui i torturati. Il loro rapporto annuale ci dice che sono state 1.255.600 le richieste di asilo presentate nei 28 stati dell’Unione Europea nel 2015; di queste 83.000 rivolte all’Italia (+31% rispetto al 2014). Il Centro ne ha assistiti 36.000 (di cui 21.000 a Roma) con 544 volontari e 49 operatori. Un mondo pieno di vita e di creatività che insegna che le persone, una per una, possono essere aiutate. Senza drammi, muri, paure. L’insostenibile sottigliezza del dott. Davigo camerepenali.it, 24 aprile 2016 La Magistratura, chiamata a svolgere un delicato ruolo nell’ambito della giurisdizione, dovrebbe parlare, attraverso chi la rappresenta, non con le formule di una banale demagogia, ma con una voce costruttiva, seria e responsabile. Il dott. Davigo immagina evidentemente che il tempo si sia fermato a Tangentopoli. Pensa che solo attraverso i processi sia possibile combattere la corruzione, e che l’unica alternativa possibile sia sostanzialmente quella di un governo della Magistratura, alla quale soltanto spetterebbe il controllo assoluto e totale della legalità, dell’economia, della elaborazione dei valori di verità e di giustizia e, dunque, in fin dei conti, della distinzione fra ciò che bene e ciò che è male. Solo la Magistratura è perfetta e solo i magistrati sono autorizzati a riformare il mondo, mai nessun errore giudiziario e mai nessun abuso delle manette (Davigo afferma che "chi dice che abusiamo della custodia cautelare è senza vergogna", ma non si dovrebbe vergognare chi fa spendere ai cittadini italiani centinaia di milioni di euro di riparazione per le ingiuste detenzioni?). Abbiamo spesso richiamato quali siano i guasti dell’illegalità e quali siano i vizi e le debolezze della politica, ma abbiamo anche sempre affermato che in una democrazia moderna e liberale non è compito dei processi e tanto meno della magistratura cambiare la società, e che una simile idea finirebbe con il devastare gli equilibri istituzionali trasformando la nostra già debole democrazia nel peggiore dei totalitarismi orwelliani, nel quale, in nome della legalità, vengono abbattuti tutti i confini delle nostre già fragili libertà, fra intercettazioni onnivore, gogne mediatiche, tribunali speciali e agenti provocatori infiltrati nelle amministrazioni… Noi crediamo che di fronte ad una simile autocratica visione del mondo, tanto antiquata quanto pericolosa, la Politica debba ritrovare la sua autorevolezza rifondando la sua indipendenza e ribadendo la sua autonomia, respingendo con forza ogni tentativo di chi intende invece ricondurla in una posizione di subalternità. Non occorre solo che la Politica si renda credibile rafforzando al suo interno la sorveglianza su ogni forma di illegalità, ma è anche necessario che riaffermi in maniera convinta che il compito della Magistratura non può che essere quello di accertare le responsabilità dei singoli, nel rispetto dei valori imposti dalla Costituzione, dall’equo e giusto processo e dagli equilibri istituzionali, senza operare indebite supplenze ed invasioni di campo. Nessuno ha mai pensato che i magistrati "devono stare zitti", ma certamente non è possibile che la Magistratura associata cerchi di condizionare la politica con espressioni gravemente offensive, arrogandosi un ruolo di governo della società che certamente non le compete. Evidentemente, dopo tanti anni di ininterrotto predominio sulle questioni della giustizia, non piace al dott. Davigo l’idea che la Magistratura possa veder ridimensionato il suo appeal e ricondotta la propria azione nell’ambito di ciò che la Costituzione le riserva. In questo difficile momento occorrerebbe invece che ognuno sorvegliasse meglio i confini del proprio ambito istituzionale, e che la Magistratura, chiamata a svolgere un delicato ruolo nell’ambito della giurisdizione, si dedicasse con la necessaria cura e diligenza a tale difficile compito e parlasse all’intero Paese, attraverso chi la rappresenta, non con le formule di una banale demagogia, ma con una voce costruttiva, seria e responsabile. Dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali Vi ho fatto vedere la mafia e dal male deve venire il bene di Bruno Vespa Avvenire, 24 aprile 2016 Caro direttore, approfitto della tua risposta di venerdì 22 aprile a un lettore di Frascati per proporti alcune riflessioni a freddo sulla mia intervista al figlio di Totò Riina che aveva provocato un ampio dibattito anche su "Avvenire". La prima riflessione è e resta di stupore. Tutti i più grandi mafiosi o camorristi (Liggio, Sindona, Piromalli, Cutolo, Buscetta, Ciancimino padre) e i maggiori terroristi non pentiti sono stati negli anni intervistati da grandi giornalisti (Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Jo Marrazzo e altri) senza che nessuno battesse ciglio. Erano tutte interviste più aggressive della mia? E le calunnie di cui Ciancimino figlio ha inondato lo studio di Michele Santoro, nell’indifferenza quasi generale? Il lettore faccia una ricerca su internet e maturi, magari, un’opinione più compiuta. La seconda riflessione è più profonda e riguarda le ragioni per cui ieri grandi giornalisti e oggi io abbiamo deciso di intervistare il Male. Quando ho deciso di incontrare Salvo Riina avevo letto le bozze del suo libro e avevo detto ai miei colleghi: si tratta di un mafioso a 24 carati. Lo stesso puntualmente apparso nell’intervista. Ma il nostro dovere di cronisti è rivelare il Male o nasconderlo? Per la prima volta il pubblico ha potuto conoscere una famiglia mafiosa vista dall’interno, con la sua incrollabile fede nei valori mafiosi della "famiglia", superiori a ogni omicidio e a ogni strage. Che cosa dovevo fare di più che contestargli ogni omissione e mostrargli le stragi compiute da suo padre registrandone l’assoluta indifferenza? Che cosa se non invitare a commentare l’intervista il meraviglioso figlio di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta a Falcone, il ministro dell’Interno, il presidente dell’Anticorruzione, i giovani che si battono contro il pizzo? Dopo quella trasmissione il pubblico sa più o meno della nuova mafia? È vero, caro direttore, come tu scrivi, che quella di Riina jr è stata una "professione di fede mafiosa", un "messaggio-annuncio" recapitato agli altri "figli" della mafia. Ma quell’annuncio è stato visto e capito da tanta gente onesta che altrimenti sarebbe rimasta convinta che la mafia è soltanto quella sepolta nelle celle del 41 bis. Non a caso Maria Falcone, sorella di Giovanni, ha osservato che da una "cosa brutta" è nata una "cosa buona", ("Ex malo bonum", diceva Sant’Agostino) cioè la consapevolezza di tanti che la lotta alla mafia non può finire ed è innanzitutto una lotta civile e culturale. Soprattutto dopo che le nostre trasmissioni hanno rivelato quanta ambiguità ci sia in una parte non trascurabile di quelli che ancora oggi Leonardo Sciascia chiamerebbe "i professionisti dell’antimafia". Grazie e tanti cari saluti. Grazie a te, caro Bruno, per questa intensa e appassionata reazione al dialogo tra due nostri lettori e il sottoscritto convinti che quell’intervista per Riina jr sia stata più di un puro "fatto giornalistico". Non mi azzardo a dire a un collega di gran valore come te che cosa si sarebbe potuto fare "di più". So che cosa tutti noi, in ogni contesto, non possiamo fare "di meno": reagire a ogni parola e gesto e immagine di mafia con parole e gesti e immagini di onesta cittadinanza. Cioè con vita buona e buon mestiere, senza paura di passare per professionisti dell’antimafia. "Vinci con il bene il male" (Rm 12) sta scritto. Per questo, davanti a ogni manifestazione del male mafioso, è bene che lo scandalo comunque avvenga. Detto ciò, rassegnati: ancora per un bel po’ a te non si perdonerà quello che ad altri è stato (o verrà) perdonato. E ho il sospetto che ormai quando, e se, succederà, non ne sarai poi così contento. (Marco Tarquinio) Calabria: Libera "stipendi equi e formazione, con gli immigrati vinceremo la ‘ndrangheta" di Andrea Gualtieri La Repubblica, 24 aprile 2016 I ragazzi africani della tendopoli di Rosarno lavorano sui terreni confiscati ai boss. Il presidio antimafia della piana di Gioia Tauro: "Loro hanno quello che manca a noi calabresi: una mentalità senza condizionamenti". Non hanno mai visto la rovesciata acrobatica di Pelé ma il finale della prossima partita, quella decisiva, lo immaginano proprio come quello del film "Fuga per la vittoria". E in fondo non chiedono nemmeno di essere portati in trionfo da una folla osannante: ai ragazzi africani di Rosarno basta la soddisfazione di dimostrare che possono competere alla pari con gli altri. E magari anche vincere. L’anno scorso lo hanno fatto: la squadra della tendopoli ha conquistato il primo posto nel campionato dilettantistico di Terza Categoria e una promozione epica. Adesso, nel campionato superiore, si lotta sul campo di calcio per non retrocedere. Dopo aver lottato, ogni giorno, per sopravvivere nelle tende e nelle baracche. "Ma la battaglia più importante gli immigrati la stanno combattendo per la Calabria. E sarà quella che ci farà vincere contro la ‘ndrangheta", assicura Domenico Fazzari. Lui è il presidente della cooperativa Valle del Marro, avamposto di Libera nella piana di Gioia Tauro. E mentre guarda i ragazzi della squadra di calcio lavorare ai frutteti confiscati alla ‘ndrangheta si lascia sfuggire un sorriso: "Loro hanno quello che manca a noi calabresi: una mentalità senza condizionamenti. Non hanno paura di nessuno perché pensano a quello che si sono lasciati alle spalle. E non sono cresciuti sentendosi ripetere che è bene farsi gli affari propri". E poi sono determinati. Tanto da affrontare le notti nelle rabberciate tende assegnate sei anni fa dal ministero dell’Interno, come soluzione provvisoria dopo la rivolta di Rosarno. E da svegliarsi per andare a lavorare nei campi. E ancora, alla fine della giornata, da trovare la voglia e la forza di allenarsi seriamente sul campo di calcio. La squadra è nata proprio nel ghetto: l’ha ideata il parroco della zona, don Roberto Meduri, e si chiama Koa per ricordare i cavalieri invocati nella Bibbia per liberare il proprio popolo. E un po’ come nel film con Sylvster Stallone, è dal campo sportivo che, in effetti, per alcuni degli africani della piana di Gioa Tauro arriva la salvezza. Che non è una fuga ma un lavoro. "Li vedevamo arrivare e poi partire - racconta Fazzari - perché l’impiego nei campi era solo stagionale: il calcio li inseriva in una ordinarietà di vita ma non avevano nemmeno il tempo di abituarsi. E così abbiamo pensato che si deve dare loro la possibilità di trovare stabilità". In questi giorni alcuni ragazzi della squadra stanno ripulendo gli agrumeti verdi sui quali si affaccia qualche piccolo fiore bianco. Quello che stanno lavorando è un terreno gestito dalla cooperativa Valle del Marro tra Polistena e i comuni vicini, a ridosso del confine che delimita i due regni criminali: quello di Rosarno da una parte, quello di Gioia Tauro dall’altra. Giacomo Zappia, l’agronomo della cooperativa, ricorda con soddisfazione che la Valle del Marro, nata nel 2004, oggi coltiva oltre cento ettari confiscati ai potenti boss Piromalli, Molè, Mammoliti: "Si tratta di piantagioni che un tempo erano fiorenti ma poi sono state abbandonate per anni in attesa che diventassero definitivi i provvedimenti giudiziari. A noi tocca rigenerarle, a volte si devono estirpare le piante per collocarne di nuove. Ora 70 ettari sono ricoperti da ulivi, su 35 abbiamo agrumi, 5 li abbiamo dedicati ai kiwi". Quello dei frutti verdi è però solo un ripiego commerciale: "Le clementine sono produzioni di qualità e tipicità locali, ma sul mercato non le pagano più di 15 centesimi al chilo. Con i kiwi, almeno, si arriva a 50". È il problema che denunciano tutti i produttori agricoli della zona. Ed è anche l’alibi usato per giustificare il lavoro sottopagato degli immigrati, vittime del caporalato e piegati dalla fame ad accettare pochi euro per una giornata di fatica nei frutteti. "A me però è andata bene: posso guadagnare una cifra dignitosa e mi insegnano pure i segreti per fare meglio questo mestiere e diventare qualcosa di più che semplice bracciante", racconta Gaye Mandieme, senegalese, chiamato dai suoi amici che cercavano un difensore centrale per la Koa e poi scelto per far parte di un primo gruppo di immigrati formati dalla Valle del Marro: sono stati 7 a ricevere una borsa lavoro, finanziata dalla Fondazione "Il cuore si scioglie onlus" di Unicoop Firenze. E la Valle del Marro è entrata anche nella rete nazionale della campagna ‘Buoni e giusti Coop’, che promuove l’eticità nelle filiere ortofrutticole, imponendo a tutti i fornitori di prodotti agricoli di verificare le condizioni di lavoro nelle oltre settantamila aziende produttrici: "Non si può pensare di pagare pochi centesimi i prodotti che vengono dalla terra: è una questione culturale e qualcosa per fortuna sta cambiando", commenta Claudio Vanni di Coop. "Ognuno degli attori deve fare la sua parte - rilancia Fazzari. Nel 2010, quando esplose la rivolta di Rosarno, avremmo dovuto capire che questi ragazzi arrivati dall’Africa stavano trovando il coraggio di ribellarsi alla prepotenza criminale, lo hanno fatto nel modo sbagliato ma le loro richieste erano giuste. Quando abbiamo offerto agli africani un lavoro dignitoso, qui in Calabria c’è stato chi ci ha criticato. Ma lo hanno fatto anche quando abbiamo iniziato a coltivare i terreni tolti alla ‘ndrangheta". Su quei campi, dieci anni fa, non c’era nessuno che volesse mettere mano: "La mattina arrivavo e mi facevano trovare teste di pesce davanti alla porta - racconta Marina Anile, una delle fondatrici della Valle del Marro -. Poi una notte il cancello è stato divelto e le attrezzature danneggiate. Le amiche mi chiedevano: chi te la fa fare?". "Ecco - interviene Fazzari - questa è un’altra domanda che gli immigrati non si fanno mai. E la nostra terra ha bisogno di gente così". Salerno: dalla Coldiretti una cooperativa sociale di detenuti per lavorare la terra Ansa, 24 aprile 2016 L’agricoltura come opportunità di riscatto sociale e di reinserimento nel mondo del lavoro. È questo l’intento di Coldiretti Salerno che entra nella casa di reclusione di Eboli - un istituto penitenziario che ospita detenuti per reati connessi alla tossicodipendenza - e avvia una partnership per fare della "terra" uno strumento di inclusione. Nei prossimi mesi sarà creata una cooperativa sociale di detenuti ed ex detenuti, giovani che saranno poi avviati a tirocini ed esperienze lavorative presso le aziende agricole della Campania. "Abbiamo avviato - spiega il direttore di Coldiretti, Enzo Tropiano - una serie di incontri per favorire l’inserimento lavorativo e l’inclusione sociale di detenuti tossicodipendenti. L’obiettivo è di formare e avviare al lavoro detenuti ed ex tossicodipendenti, nel settore agricolo e florovivaistico, per un loro reinserimento sociale e lavorativo". "Istruzione e lavoro - aggiunge la delegata di Coldiretti Donne Impresa, Antonella Dell’Orto - sono le migliori armi per sconfiggere la cultura della illegalità e per avviare, in carcere, un percorso di recupero dei detenuti. Il lavoro rappresenta un forte veicolo di riscatto. Per questo abbiamo sostenuto interventi di cooperazione sociale che ci auguriamo possano essere replicati anche in altri territori della Campania". Catanzaro: il Garante per l’Infanzia va dai giovani detenuti e da bimbi abusati strill.it, 24 aprile 2016 Davvero "on the road", come è stato definito dal presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto, il neo Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, che immediatamente dopo la conferenza stampa di presentazione a Palazzo Campanella, insieme allo stesso Irto e al vicepresidente Francesco D’Agostino, ha raggiunto le carceri minorili di Catanzaro. Accompagnato dal direttore Francesco Pellegrino e dalla responsabile del Centro di Giustizia Minorile per la Calabria, Maria Gemmabella, ha incontrato i giovanissimi detenuti e ha preso contezza sullo stato delle attività di recupero e reinserimento sociale. Marziale si è anche sottoposto ad un’intervista realizzata dai giovanissimi reclusi per la loro rivista "Il Cielo". Settimana prossima si terrà un tavolo tecnico ad hoc per approfondire le esigenze dei ragazzi e dei loro tutori. Uscito dal luogo di detenzione minorile, il Garante, accompagnato dall’assessore regionale Federica Roccisano, ha raggiunto, sempre nel capoluogo la "Casa di Nilla", Centro specialistico per la cura e la protezione di bambini e adolescenti vittime di abusi sessuali. I due attori istituzionali si sono lungamente soffermati con il direttore del Centro, Giancarlo Rafele, ed hanno discusso sulla necessità di puntare lo sviluppo della tutela dei bambini in stato di bisogno sull’eccellente esistente. "La nostra - ha detto Rafele al Garante e all’Assessore - è l’unica struttura privata riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione per lo svolgimento dei tirocini formativi per la Scuole di specializzazione in Psicoterapia, oltre ad essere convenzionata con ben nove Università italiane per lo svolgimento dei tirocini curriculari ed a godere del Patrocinio del Presidente della Repubblica". La prima giornata del Garante è terminata con una lunga telefonata tra lo stesso e il presidente della Commissione Antimafia del Consiglio Regionale della Calabria, Arturo Bova, che già settimana prossima provvederanno ad incontrarsi per delineare un piano di azione convergente. Pavia: detenuto incendia l’infermeria, paura in carcere di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 24 aprile 2016 Agenti intossicati, il fumo invade un piano a Torre del Gallo I sindacati: "Il sovraffollamento porta all’esasperazione". Ha dato fuoco alle lenzuola e ai suoi vestiti nella cella dell’infermeria dove era detenuto, per protesta. E le fiamme si sono mangiate la cella, ora inagibile, il fumo ha invaso la sezione del carcere di Torre del gallo, al primo piano, dove si trovano le 21 celle dell’infermeria. L’episodio è avvenuto ieri pomeriggio, il bilancio è di alcune guardie intossicate e un gran parapiglia. I detenuti sono stati sfollati e messi al sicuro dalle esalazioni del fumo, ma gli agenti che hanno spento l’incendio si sono sentiti male e sono stati medicati dal personale della stessa infermeria del carcere. "Il carcere è sovraffollato e da settimane si ripetono episodi di insofferenza - spiega Cosimo Moi, sindacalista Cisl che si occupa di carceri - di nuovo è stato raggiunto il limite massimo di 570 detenuti, i comuni sono 300, non c’è nemmeno la possibilità di fare spostamenti di cella in caso di bisogno e l’infermeria è piena. I detenuti comuni sono 50 per sezione, alcuni detenuti hanno dato fuoco alla cella in infermeria per protesta, dando in escandescenza. Per fortuna non c’è stata nessuna seria conseguenza, solo alcuni agenti intossicati dal fumo, specialmente quelli intervenuti per spegnere le fiamme e portare via i detenuti delle celle vicine. Come Cisl abbiamo chiesto alla direzione un incontro sulla situazione, anche se sappiamo che la stessa direzione ha chiesto lo sfollamento di alcuni detenuti violenti vista la situazione, ma senza risultati". Vanna Jahier, garante dei detenuti, non sapeva ancora nulla: "Rispetto alle altre carceri anche del territorio la situazione di pavia è quella meno grave - spiega - tuttavia le tensioni ci sono e riguardano anche l’infermeria, che sconta le carenze di personale: mancano infermieri anche per garantire una copertura sanitaria sulle 24 ore. Tanto più ora che i detenuti sono quasi raddoppiati e fanno capo alla stessa infermeria nel padiglione vecchio, che è sempre affollata., nel padiglione nuovo c’è solo uno spazio per le visite. E c’è dello scontento. Anche se qui a Pavia la direzione ha un’attenzione altissima per la rieducazione dei detenuti, ci sono laboratori, stiamo per aprire le aree verdi per i colloqui con le famiglie. Nel reparto dei detenuti comuni c’è tanto da fare: per dare un’idea, tutti gli orologi delle sezioni sono fermi". "A tempo debito", in carcere per cambiare cinemaitaliano.info, 24 aprile 2016 Intervista con Chistian Cinetto che ha proposto a Lecce il suo documentario girato nella casa circondariale di Padova per conoscere i detenuti senza giudicarli. A tempo debito non è il solito documentario sulle carceri. Christian Cinetto, sceneggiatore e regista, ci racconta il percorso che lo ha portato a realizzare questo documentario nella casa circondariale di Padova e l’idea che, a suo avviso, lo rende diverso nell’impostazione agli altri film. "La mia idea era proprio quella di fare un film in carcere, non di raccontare un progetto fatto nel carcere. per me e per il pubblico il film è come un sentiero di montagna, all’inizio e poi anche dopo pensi "chi me lo ha fatto fare", ma alla fine, giunto sulla vetta, capisci di aver fatto bene". Come è nata l’idea? "Frequentavo il carcere dove andavo a riprendere alcuni laboratori di musica per poi realizzare delle clip. Ma non ero soddisfatto dei risultati, per un discorso che mi sembrava sempre troppo retorico. Vedevo in giro che stava diventando un genere e non mi interessava lo sfruttamento della sofferenza. Per il pubblico, un film sul carcere è un po’ noioso se non proponi qualcosa di estremo. Tra il 2013 e il 2014, nel periodo di massimo affollamento del carcere che era giunto al 270% della ricettività, mi trovavo lì e la maggior parte dei detenuti era in attesa di giudizio. Io decisi di fare un film, non un laboratorio di cinema, ma proprio un film vero e proprio con 15 detenuti dei quali non si sarebbe dovuto sapere il motivo della detenzione". Quale effetto volevi creare? "Volevo che non fossero giudicati e considerati per quello che avevano fatto, ma pensavo di far affezionare la gente a loro a prescindere dal reato commesso. Volevo creare come una classe di scuola che grazie alla forza del gruppo riesce ad andare da qualche parte. E questa è la forza di "A tempo Debito". Il pubblico si affeziona agli interpreti senza sapere cosa hanno fatto e a quel punto si pone la domanda scomoda: se mi trovo in empatia con loro, potrei accettarli come vicini di casa? Nel momento che so cosa hanno fatto il mio atteggiamento con loro cambia ò è lo stesso? Come reagisci se non sai cosa hanno fatto? La risposta è che basta poco per riattivare le persone e renderle diverse da quando sono entrate in carcere". Come sta andando la circuitazione del documentario? "La distribuzione, come è normale da noi, ci sta considerando poco. Ma nei Festival stiamo avendo molto successo; ne abbiamo fatti 15 vincendo 8 premi tra cui Todi e Annecy. Ora vorrei affrontare una distribuzione nelle scuole che mi sembrano i luoghi veramente adatti per mostrare questo documentario. A Todi abbiamo fatto una proiezione con due istituti e il dibattito è stato veramente costruttivo e interessante. Era proprio quello che volevamo". "A Tempo debito" è stato prodotto da Marta Ridolfi della Jengafilm. Libia: sul fronte di Bengasi a pochi passi dai cecchini dell’Isis di Francesco Battistini Corriere della Sera, 24 aprile 2016 Viaggio nella città che per prima si ribellò a Gheddafi. In rovina il consolato italiano. Tra capannoni e betoniere duecento uomini del Califfato resistono al generale Haftar. "Indietro, andate indietro!". Ma indietro dove? È tutto bloccato. "Allora andate a destra!". Ma a destra è peggio… "Via, levatevi di qui!". All’incrocio per il cementificio, il semaforo è un optional. Il miliziano alza la pistola e ricaccia il traffico, un colpo al cielo come un moccolo. L’ora di punta è anche l’ora della guerra e ai soldati tocca fare i vigili. Là avanti, due chilometri, s’alza il fumo. Tra i capannoni del clinker e le betoniere, ci sono ancora duecento uomini dell’Isis. Cercano la fuga. Sono accerchiati dalle truppe del generale Haftar. E hanno trappolato la strada di mine, dicono, e messo il tritolo pure nei manichini dei negozi. "Ce ne raccontano tante…", ride il negoziante che ci fa da autista perché "tanto non si lavora più e qui guadagni solo se fai il miliziano o la propaganda". Da un anno e mezzo la Karama Tv del Generalissimo mandato dagli americani annuncia la presa del centro, la liberazione del porto, la conquista del grande cementificio, la cacciata dei barbuti. E intanto il fronte è sempre in fondo alla strada. I bengasini non ci fanno più caso: alle due del pomeriggio ci s’ammazza con pazienza, laggiù, e qua stiamo in colonna a contemplare impazienti il rosso, il giallo, il verde. I clacson coprono i botti. Sui marciapiedi si sgomita per avere un po’ di cash dalle banche, vietato prelevare più di 70 euro, e si fa la coda per il pane, lusso a prezzo quadruplicato. Bengasi aspetta: non è più sotto assedio, non è ancora libera. Cecchini jihadisti - "Benvenuti nella culla della Rivoluzione libica". La città che fu la prima a zittire Gheddafi, ed è l’ultima a far tacere le armi, ha un cartello d’orgoglio impolverato e quasi invisibile fra i mercatini di marmitte usate. Si passa "il check-point del kamikaze", l’asfalto ancora spaccato, poi la Rotonda dell’Aereo col vecchio Mig messo in obliquo, si supera la laguna salata e i due anni di guerra sono sulla vostra destra: il quartiere di Assabri è una cartolina di bianche case coloniali accartocciate, palazzine verdi della Jamahiriya anneriti, rottami su cumuli di cemento sfondato. Non ci passa nessuno. Fino a un mese fa c’erano i cecchini alle finestre e ora chi lo sa: "Entrano nelle case vuote - racconta un medico -, aprono passaggi da un appartamento all’altro. E sparano sulla gente". Una guerriglia sporca: "È difficile liberare i quartieri. Non c’è un nemico di qua e uno di là. Se il cecchino jihadista ha chi gli porta il cibo e le sigarette, là dentro può resistere anche un anno". Il consolato italiano è una di queste case dei fantasmi: lo chiusero quando Gheddafi sparò sulla folla, inferocita per il leghista Calderoli che aveva mostrato in tv le vignette su Maometto; lo riaprirono e lo richiusero quando spararono al console, rientrato e subito ritirato; ora gli uffici sono in rovina, le marcite corrodono gli stucchi, e tutti stanno alla larga. Non s’è salvato un indirizzo famoso: l’antica corte ottomana è mezza crollata, la villa di Gheddafi è una discarica e il venerdì ci fanno il mercato dei piccioni. Pure la vecchia casa di Haftar l’han fatta saltare con dodici chili d’esplosivo, cambiando il nome della strada: basta con Via Nasser, casomai si fosse montato la testa, meglio un generico Viale Indipendenza. Le mire del generale - Bengasi è divisa in tre come la Gallia, ma il Generalissimo non è ancora quel Cesare nasseriano che sogna d’essere: controlla l’ottanta per cento, all’aeroporto si mormora possa contare sui corpi speciali francesi, ma fatica nella piazza Tahrir dove partì la Rivoluzione (ricordate Sarkozy che ci venne ad autocelebrarsi?) e nella terra di nessuno intorno al porto, dove stavano le quattro milizie amiche di Misurata e approdavano i carichi di armi. Tanti nemici, però, ne han fatto un onorato eroe: i manifesti dei candidati alle elezioni 2011 sono ormai sbiaditi, sui salvaschermi degli smartphone e sui parabrezza trionfa solo la divisa gheddafiana di Haftar in occhialoni scuri, un po’ Al Sisi e un po’ Pinochet. L’uomo della provvidenza e soprattutto della previdenza. Perché ci sono due cose, sanno a Bengasi, che tutt’e 25mila i mercenari di tutte le parti condividono: il contrabbando dell’alcol e lo stipendio, 800 euro al mese se sei sposato, 400 se sei single, più gli straordinari, i bonus, perfino i premi di produzione ogni trimestre. Finché c’è guerra c’è speranza: chi smantellerà mai questo welfare del kalashnikov? Chi trasferirà mai i poteri al premier Serraj, mandato dall’Onu a unificare la Libia? Presa Bengasi, il Generalissimo è già impegnato a traslocarvi i ministri del governo di Tobruk. E poi ad assediare Derna, il regno dei salafiti di Ansar al Sharia. E poi a marciare su Sirte, la capitale libica del Califfo. E magari a regolare i conti col nemico Ibrahim Jadran, il capomilizia dei pozzi. Nessuno disturbi le manovre militari: per noi che siamo i primi giornalisti dopo mesi, l’accoglienza è coi mitra e senza cortesie. Poche ore in città e sciò. Al fotoreporter Gabriele Micalizzi sequestrano pure le immagini: perché far vedere Bengasi al mondo, se c’è già Karama Tv a raccontarla? Dopo il campus universitario, la prima linea - Dietro gli angoli, è un attimo precipitare nei buchi neri. Passi da via Dubai, caffè all’italiana e un po’ di dolciastra vita coi negozi Adidas e Samsung, alla prima linea del campus studentesco. "Vero che qui sembra Aleppo?", indica l’autista che Aleppo l’ha vista solo in tv. Come no. Sembra anche Beirut, Mostar, Kabul, quel che ti pare: luoghi comuni dell’abbandono, e poco cambia nel quartiere di Leti o a Salman oppure al vecchio mercato degli orafi Al Zahab. Da quando Haftar lanciò l’operazione Karama per riprendere la città ai misuratini e ai Fratelli musulmani tripolini, per sconfiggere Ansar al Sharia e l’Isis, lui uno contro tutti e contro il suo stesso Parlamento di Tobruk, in due anni a Bengasi ci sono stati più di duemila morti, 30mila famiglie sono sfollate da una zona all’altra, in 200mila sono scappati in Tripolitania o all’estero. S’avanza e s’arretra a colpi di mortaio. La luce sparisce per ore. Il cibo e l’acqua si trovano, ma la Libia è tricefala e il governo di Tripoli ha chiuso i rubinetti della Banca centrale: senza contante in circolazione, fare credito è buon cuore. L’università è distrutta, 61 scuole sono piene di profughi e le altre funzionano a turno: tre giorni le primarie, tre le secondarie, solo chi ha 400 euro manda i figli all’unica privata. La spazzatura, non la raccoglie nessuno: i bangladesi, che l’han sempre fatto al posto dei libici, alla fine se ne sono andati. Dalla Svizzera han mandato 350mila franchi al nuovo sindaco Omar Barazhi, perché quello degl’islamisti è scappato, ma è denaro che nessuno sa bene come usare. Morte all’ospedale - Anche gli ospedali sono inservibili. Tre su cinque, irraggiungibili. Agli altri mancano seicento posti letto, le garze, il paracetamolo: devono spedire i feriti dai chirurghi italiani d’Emergency, tre ore d’ambulanza. Ce ne sfila davanti uno: un vecchio, finito in mezzo all’ultima battaglia. Lo portano in corsia con le cosce squarciate, il figlio che piange e gli accarezza la testa. Il vecchio perde sangue, vita, di tutto. Ad accoglierlo c’è solo un giovanotto in camice che non sa cosa fare e gli stecca un polso fratturato. È una guerra incapace di tutto: quello muore e il dottorino pensa alla mano. Dalle barelle intorno capiscono che per il vecchio è finita. I feriti s’alzano e fanno un cerchio: si recita tutt’insieme la Salat Al Janazah, la preghiera dei morti. "O Dio, dagli una casa migliore di questa". Siria: ora anche per l’Onu le vittime della guerra sono 400mila di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 aprile 2016 Dopo aver smesso di tenere il bilancio della guerra per due anni, le Nazioni Unite lo aggiornano. E a Ginevra millantano ottimismo, ma il negoziato è fermo. Anche l’Onu aggiorna il numero delle vittime della guerra siriana: 400mila. Lo ha riferito ieri da Ginevra l’inviato de Mistura: "Ne contavamo 250mila due anni fa. Beh, due anni fa sono due anni fa". Il nuovo bilancio è stato aggiornato dopo la decisione del gennaio 2014 quando il Palazzo di Vetro smise di calcolare le vittime per l’assenza di fonti certe e la scarsa fiducia nei dati di governo e opposizioni. Chi ha continuato a monitorare il dramma siriano è il Syrian Center for Research: a febbraio un rapporto parlava di 470mila morti in 5 anni di guerra e 1.9 milioni di feriti, l’11,5% della popolazione. Numeri che hanno fatto crollare l’aspettativa di vita (da 70 anni nel 2010 a 55 oggi) e salire alle stelle il tasso di mortalità (da 4,4 persone su mille a 10,9). E le morti non cessano: nonostante la tregua gli scontri si sono intensificati negli ultimi giorni, mentre a Ginevra si sarebbe dovuto discutere di pace. L’Onu millanta ottimismo: de Mistura ha assicurato ieri che il negoziato non si fermerà nonostante l’Hnc, la federazione delle opposizioni, abbia deciso di andarsene. L’inviato Onu ha proposto un incontro ministeriale con i paesi coinvolti, il Gruppo Internazionale di Supporto composto da Usa, Russia, Unione Europea, Iran, Turchia e paesi del Golfo. Ovvero quegli attori che procrastinano la fine del conflitto infilandoci dentro i propri interessi. Si è invece conclusa l’ondata di scontri tra kurdi siriani e forze pro-governative a Qamishli. La tregua è in vigore da venerdì dopo tre giorni di fuoco che hanno ucciso almeno 26 persone. Le violenze sono cominciate con l’attacco da parte delle forze pro-Damasco di checkpoint delle Asayish, forze armate kurde che hanno poi assunto il controllo di numerose postazioni governative e della prigione della città. Egitto: 100 arresti in tre giorni e un attivista torturato in fin di vita di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 aprile 2016 Khaled Abdel Rahman trovato lungo una strada deserta con segni di tortura dopo l’arresto della polizia, come Giulio. Oltre 5mila case perquisite solo al Cairo in previsione della manifestazione di domani. Rinviata la sentenza del quarto processo a Morsi. Al-Sisi è furioso: il boomerang delle isole Tanar e Sanafir è tornato indietro con potenza doppia. Manca poco alla manifestazione di domani e un’ondata di arresti ha investito il paese, sintomo della debolezza di un regime disfunzionale. La notte di venerdì è stata la replica delle retate compiute dalla polizia durante la giornata. E si è conclusa con una scoperta drammatica: Khaled Abdel Rahman, attivista di Alessandria, è stato ritrovato lunga una strada deserta alla periferia del Cairo con il corpo segnato dalle torture. È ancora vivo, riporta la sorella Reem a Middle East Eye, ma è ricoverato in terapia intensiva. "Il suo corpo è pieno dei segni di pestaggi e torture, elettroshock sui genitali", ha scritto su Facebook aggiungendo che Khaled era stato arrestato il giorno prima dalla polizia durante una perquisizione nella loro abitazione. A trovarlo è stato un passante, un’immagine che ricorda alla perfezione il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni. Da giovedì a sabato tante province egiziane sono state teatro di perquisizioni e arresti di massa, nei café, nelle case private, in strada. A Giza è stato portato via uno dei leader dei Socialisti Rivoluzionari, Haytham Mohamadeen: ieri la procura ha allungato di 15 giorni la sua detenzione perché "membro di organizzazione illegale", senza specificare però quale. È stato invece rilasciato il fumettista Makhlouf. A parlare sono i numeri del Ministero degli Interni: in una settimana sono state perquisite 5mila abitazioni solo nel centro del Cairo e esaminati migliaia di computer e telefoni. E gli arrestati, riporta Ahram Online, sono stati almeno cento solo nella sera di giovedì. Il timore è che si tratti del preludio alla giornata di domani, 25 aprile, visti i precedenti. Il 15 aprile 4mila persone sono scese in piazza per la prima manifestazione anti-governativa dall’elezione a presidente di al-Sisi, estate 2014. Il bilancio finale, secondo l’Association for Freedom of Thought and Expression, è stato di 387 arrestati: 268 sono stati rilasciati, 98 sono a piede libero in attesa del processo e 21 sono ancora in prigione. E ora tra i target torna l’attivista Sanaa Seif (sorella dei più noti Alaa Abdel-Fattah e Mona Seif) che iei è stata convocata dalla procura del Cairo. L’accusa è incitamento alle proteste per aver denunciato l’arresto dell’attivista Yasser al-Qott, anche lui accusato di incitamento. Scure anche sulla stampa: ieri il Ministero degli Interni ha denunciato il capo dell’ufficio della Reuters al Cairo, Michael Georgy per "pubblicazione di notizie false volte a disturbare la pace e a danneggiare la reputazione dell’Egitto". È questa la sola reazione istituzionale alle rivelazioni pubblicate dall’agenzia internazionale sulle prime ore dell’arresto di Giulio Regeni, eccezion fatta per l’immediata smentita giunta dalla Nsa, i servizi segreti interni accusati dalle fonti di aver detenuto Giulio. I legami stretti tra i vertici politici e la magistratura sono palesi, rinvigoriti dalle leggi del presidente golpista: normative che vietano le proteste, criminalizzano la società civile, incrementano i poteri di polizia e servizi segreti si concretizzano nelle mani dei tanti giudici che avallano le politiche del governo. A nulla valgono le parole di al-Sisi nella Giornata nazionale della Magistratura: "Mai interferito con il sistema giudiziario", ha detto ieri alla Corte Suprema. Nelle stesse ore veniva rinviata al 7 maggio la sentenza finale del quarto processo contro Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani e primo presidente democraticamente eletto dal popolo egiziano, deposto dall’ex generale. Quello che è stato definito dal procuratore "il più grande caso di spionaggio e tradimento nella storia della nazione" vede Morsi accusato di aver consegnato al Qatar - tramite i corrispondenti di al-Jazeera - documenti segreti contenenti informazioni sulle forze armate. L’ennesimo processo dopo i tre già conclusi con tre pene diverse: condanna a morte per la partecipazione ad un’evasione di prigionieri nel 2011; ergastolo per la collaborazione con Hamas, Hezbollah e guardie rivoluzionarie iraniane; e 20 anni per l’uccisione di manifestanti di fronte al palazzo presidenziale nel 2012. Stati Uniti: la Virginia restituisce il diritto di voto a 200mila ex detenuti Internazionale, 24 aprile 2016 Il governatore democratico della Virginia, Terry McAuliffe, ha sfruttato il potere esecutivo per aggirare l’assemblea legislativa dello stato e restituire quindi il diritto di voto a più di 200mila persone condannate che hanno scontato la loro pena. Quello della Virginia non è l’unico stato in cui democratici e repubblicani, in vista delle presidenziali di novembre, si scontrano sulla questione del diritto di voto agli ex detenuti. Di recente anche in Kentucky e in Maryland sono avvenuti episodi simili.