Gozzini, il cattolico che rivoluzionò il carcere di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 23 aprile 2016 Nel 1986 fu approvata la legge che porta ancora il suo nome. Mario Gozzini è diventato una legge. Succede, a certi uomini e donne. Tu non dici, la legge 1 dicembre 1970 numero 898, dici la legge Fortuna, quella del divorzio. Tu non dici, la legge 13 maggio 1978 numero 180, dici la legge Basaglia, quella dei manicomi. Tu non dici, la legge 20 febbraio 1958 numero 75, dici la legge Merlin, quella contro le case chiuse. Così, è accaduto a Mario Gozzini. Nessuno dice la legge 10 ottobre 1986, numero 663. Tutti dicono la legge Gozzini. Quella del carcere. A me sembra un raro privilegio, quello di legare il proprio nome a una legge. Certo, è successo che qualcuno presentasse o si desse da fare per un legge e poi se ne ritirasse, tanto gli sembrava stravolta dall’intento originario da non volervi accostare più il proprio nome. Ne risulta un effetto curioso: per esempio, il senatore Cirielli presentò una legge in materia di diritto penale, poi la sconfessò e ci votò contro, ma nessuno dice la legge 5 dicembre 2005 numero 251, no, si dice comunemente la ex-Cirielli, a disdoro del senatore, quasi un dispetto. Mario Gozzini, invece, non sconfessò mai la sua legge, anche quando gliela giravano contro, quando lo imputavano di questo o quel delitto, come se fosse stata colpa sua - quando un brigatista uscito per misure alternative non tornava in carcere e si dava latitante, quando uno dei terroristi palestinesi che avevano sequestrato l’Achille Lauro e ucciso il povero Leon Klinghoffer s’era dato alla fuga, ecco, allora lo tiravano in mezzo. Succedeva un caso su cento, 1 a 100, però lo sai com’è la politica, no. Lui fermo. Per parlare di Mario Gozzini, di uno spirito cattolico inquieto e fermo, bisogna però parlare di un pezzo di storia d’Italia che non è molto conosciuto e studiato, e che pure ha avuto una importanza straordinaria, proprio nel fare questo paese così com’è, o almeno così com’era stato fino a non molto tempo fa, anche se sembra passato un secolo. Perché bisogna parlare di quella storia di cattolici che prima della caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra pensavano e si interrogavano su quale paese volessero costruire, animati com’erano da spirito cristiano, impegnati nell’agire sociale, e pure coscienti che la politica, l’ordinamento statuale, le leggi scritte non fossero tutto quel che si potesse fare, e fossero anche poca cosa se non erano pervase dalla passione per l’umano, dal riscatto degli "ultimi". Mario Gozzini era uno di questi, uno che a un congresso della Democrazia cristiana - quando era la Balena bianca, eh, non quando stava scomparendo - chiese di parlare e disse: "Io sono uno di quei cattolici che non si riconoscono nella Democrazia cristiana". Apriti cielo, è proprio il caso di dirlo. Perché qui si tratta proprio dei confini tra il cielo e la terra. Confini politici. La Democrazia cristiana non si preoccupava di educare l’elettorato, non faceva attività pedagogica su valori e identità per costruire l’uomo nuovo, che era invece il costante lavorio dei comunisti, nelle sezioni, nelle case del popolo: per i democristiani, c’era già la chiesa che provvedeva a tutto. Così, gruppi di giovani cattolici che agivano in autonomia, partendo proprio da un’esigenza di rinnovamento religioso e sociale che il partito pareva trascurare, negli anni Cinquanta avevano praterie davanti per un lavoro culturale. È tutto un tessere rete, un progettare riviste, quel periodo dell’immediato dopoguerra, a Firenze, dove Gozzini s’è formato, a Milano, a Genova, oppure, a partecipare a altre già rodate e magari uscirne. È tutto un interrogarsi e prendere le distanze dal misticismo, tutto un distinguere tra esistenzialismo ateo e religioso, tutto un ragionare sul concetto di civiltà cristiana. Era tutto un mondo quello, di forte impronta antifascista, che guardava al movimento operaio, al Partito comunista. Era tutto un mondo che De Gasperi tendeva a esorcizzare, agli occhi di Pio XII, come "laburismo cristiano". Era, in sostanza, il confronto tra cristianesimo e marxismo. Parliamo di uomini con uno spessore culturale forte, che non si limitavano a annusare i venti della nouvelle teologie che veniva d’Oltralpe. Parliamo di Dossetti, che ebbe un peso enorme nella Costituente, di Meucci, di Pampaloni, di Balducci, di Lazzati, li chiamavano - gli altri democristiani - "i professorini"; ma parliamo anche di La Pira, che continuava a progettare convegni per la pace, e percorreva il filantropismo, il solidarismo, l’ottimismo provvidenziale, e anche il realismo politico (di Firenze, fu sindaco), come d’altronde i "politici puri", i Fanfani, i Pistelli. Questa è la Firenze di quegli anni, in cui matura il giovane cattolico Gozzini. E un discorso a parte meriterebbe il rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, due modi diversi di portare avanti la volontà riformatrice del cristianesimo: più filosofico quello di Gozzini, più colloquiale, senza mediazioni culturali, quello di don Milani. E a Milano, intanto c’erano Primo Mazzolari e David Maria Turoldo con la Corsia dei Servi, preti di grande impegno sociale. Ora, uno se pensa a quei due grandi blocchi monolitici che erano la Democrazia cristiana e il Partito comunista - soprattutto dopo il 18 aprile del 1948 - immagina che ci fosse un abisso di distanza. Eppure, c’erano uomini, da una parte e dell’altra, che cercavano la "prova del dialogo". Tra i comunisti, Franco Rodano, Valentino Gerratana, Lucio Lombardo Radice, Luciano Gruppi, lo stesso Ingrao. Era tutto un fare e disfare, con le gerarchie ecclesiastiche che tenevano strette le briglia (ma c’era sempre un padre spirituale che incitava a insistere) e le gerarchie comuniste che guardavano in tralice (finché non fu Togliatti stesso a promuovere i raccordi). Poi, ci furono aperture, da una parte e dall’altra, gli anni Sessanta con il loro vento di rinnovamento, fino all’impegno diretto - Gozzini per due volte rifiutò di essere eletto come indipendente nelle liste comuniste, gli sembrava non fosse tagliato - che si concretizzò poi con l’elezione a senatore nel 1976 (vennero anche eletti, tra gli altri, Pratesi e La Valle). Chiese di interessarsi di giustizia, perché non ne sapeva nulla. Per spirito di servizio, presumo. Quando dirlo, significava davvero qualcosa. È da questo spirito di servizio che nasce la legge Gozzini. La legge Gozzini non era "l’umanizzazione del carcere" - un concetto orrendo, non faceva che dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa, anzi di preciso recita così: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". E così, la Gozzini, che fu votata da tutto il parlamento meno quelle teste di pietra del Msi, che allora volevano l’introduzione della pena di morte (la volevano sempre, per la verità), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. Erano tempi durissimi per i carceri, con una massa di detenuti politici (che tali non erano, tali non furono mai considerati) e di detenuti policiticizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, Gozzini riuscì a ribaltare il punto di vista. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. Gozzini, è vero, introdusse l’articolo 41 bis, come contrappeso, ma doveva essere solo limitatissimo temporaneamente per tenere in isolamento detenuti dopo le rivolte - e forse, chissà, forse voleva tutelarli e evitare i massacri tipo dopo le rivolte di Pianosa e di Trani, quando la vita di un detenuto non valeva un soldo bucato, e ne fecero carne di porco. Fu nel 1992 che il 41 bis diventò da temporaneo a illimitato, subito dopo la strage di Capaci. E questa è un’altra storia, o forse no. E mica fu solo uomo di leggi Gozzini: quando il 25 agosto del 1987 scoppiò la rivolta nel carcere di Porto Azzurro, guidata dal terrorista nero Mario Tuti, e presero in ostaggio 36 persone e si asserragliarono, e per otto lunghi giorni l’Italia restò con il fiato sospeso a seguire le sorti dei sequestrati, ci andò Gozzini, tra gli altri, a trattare. Stiamo parlando di ergastolani, di uomini che non avevano niente da perdere, di uomini che avevano ucciso anche in carcere altri detenuti. E andò bene, la trattativa. Chi altri poteva andare, se non Gozzini? Quando morì, nel 1999, al funerale forse il miglior epitaffio lo fece un suo avversario politico, il senatore Caccavale di Forza Italia. Disse: "Da anni non si registrano più rivolte violente". i dati del sovraffollamento sono quasi in media, il problema è nelle varie strutture L’emergenza sovraffollamento è superata? San Vittore scoppia e Gela raddoppia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2016 Secondo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’emergenza sovraffollamento è del tutto superata, ma i dati da loro stessi pubblicati dicono il contrario. A livello nazionale il sovraffollamento è del 104 (117 se considerati i veri posti disponibili) per cento in media - quasi al livello regolamentare - ma osservando i dati della popolazione carceraria relativi ai singoli istituti penitenziari risulta che su 195, ben 91 carceri hanno un sovraffollamento che oscilla tra il 110 e il 192 per cento. Osservando le ultime cifre messe a disposizione dal Dap, risulta al primo posto il carcere milanese di San Vittore: i posti regolamentari sono 751, ma ospita ben 1030 detenuti. A seguire c’è il carcere di Como la cui capienza è di 221 detenuti, mentre vivono recluse 388 persone. Il carcere di Latina, poi, avrebbe una capacità massima di 76 detenuti, ma ne ospita 144. Nel carcere "Canton Mombello" di Brescia sono recluse 342 persone a fronte di una capienza massima di 189 detenuti. In Sicilia, il carcere di Gela accoglie un numero quasi doppio di detenuti rispetto a quello consentito dalla capacità della struttura; così come il carcere "Bicocca " di Catania con una capienza massima di 138 detenuti, dove risultano detenute 222 persone. In Sardegna quattro carceri su dieci sono oltre il limite regolamentare. Il nuovo carcere di Cagliari "Uta", dopo un anno dalla messa in funzione risulta già sovraffollato. I dati messi a disposizione dal Dap, inoltre, non danno un quadro chiaro della capienza effettiva di ogni singolo carcere: infatti nel computo sono state considerate anche le sezioni detentive attualmente in ristrutturazione o chiuse. Gli unici a denunciare le incongruenze dei dati del Dap sono i radicali per voce di Rita Bernardini e il presidente del Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari. Anche il professore Mauro Palma, neo garante nazionale dei diritti delle persone detenute, fa sapere di non essere soddisfatto dei dati e sostiene che il problema del sovraffollamento non è ancora risolto. Eppure Il ministro della giustizia Orlando ha affermato in una intervista al Foglio che l’emergenza è finita, tanto da dichiarare che se viene invocato l’indulto per "questioni legate al sovraffollamento oggi possiamo dire che quel tema non esiste più". Tra l’altro le carceri italiane risultano ancora le più sovraffollate d’Europa. A confermarlo è stato anche il Consiglio d’Europa che ha pubblicato un rapporto, "Annual Penal Statistics". Sempre secondo il dossier europeo, l’Italia registra anche una delle percentuali più alte di persone trattenute in carcere senza una condanna definitiva, 31,7% a fronte di una media Ue del 24, 2 per cento. Prima di noi troviamo Andorra (79.2%), San Marino (75%), Monaco (67.9%), l’Albania (51.9%), l’Olanda (42.8%), la Svizzera (39.4%), la Danimarca (38.8%), il Liechtenstein (37.5%), il Lussemburgo (37%). Anche se in Italia si cerca di insabbiare o far apparire meno grave di quanto sia effettivamente il problema, in Europa i richiami non sono mancati sull’argomento e anche su altri aspetti relativi alle condizioni di detenzione fra cui il rispetto dei diritti dei detenuti. A tal proposito, poche settimane fa la Corte europea dei diritti umani ha respinto la richiesta del governo Renzi di composizione amichevole del caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti. Il processo non sarà possibile in Italia per mancanza del reato di tortura nel codice, e quindi si svolgerà in sede europea. Il testo che introduce il reato di tortura, ricordiamolo, è stato approvato dopo ulteriori modifiche dalla Camera il nove aprile del 2015. La norma, poi, sarebbe dovuta passare al Senato per l’approvazione definitiva. Ma inspiegabilmente è finita nel dimenticatoio. "Torturato in cella", ma nessuno paga perché in Italia il reato non esiste di Arianna Giunti L’Espresso, 23 aprile 2016 Andrea Cirino, 38 anni, è il primo detenuto italiano ad aver subito atti di tortura in un carcere del nostro Paese. Così ha dichiarato la Corte Europea dei diritti dell’uomo - che lo scorso dicembre ha ammesso il suo ricorso a Strasburgo - e così ancora prima avevano scritto nero su bianco i giudici del Tribunale di Asti, riconoscendo colpevole del reato di tortura una squadra della polizia penitenziaria. Eppure per i responsabili accertati non c’è stata nessuna condanna: il reato di tortura in Italia non esiste. Cirino è stato beffato dalla legge e dallo Stato: il ministero della Giustizia gli ha offerto un risarcimento danni "minimo" che la Corte di Strasburgo (incaricata di valutare l’idoneità di una eventuale mediazione economica rispetto al danno subito) ha respinto al mittente. Obbligando di fatto lo Stato italiano a prendere coscienza del proprio vuoto legislativo - al quale il nostro governo non è ancora riuscito a porre rimedio - e di rispondere di quei reati gravissimi davanti ai giudici. L’ex detenuto e il suo legale Angelo Ginesi insieme all’associazione Antigone, infatti, non si arrendono. E chiedono a gran voce - proprio alla luce delle parole della Corte Europea e degli Stati Generali sul carcere che si sono appena svolti a Roma - che lo Stato italiano si assuma le proprie responsabilità. Perché vicende come queste non accadano mai più. E perché l’amministrazione penitenziaria "dia un segnale forte e chiaro verso i poliziotti violenti". "È inconcepibile - si sfoga oggi con l’Espresso l’ex detenuto - che quei poliziotti continuino a svolgere normalmente il loro lavoro come niente fosse, dopo aver rovinato per sempre la mia vita e quella di altri detenuti e dopo che la magistratura ha dimostrato le loro condotte bestiali". Visionando le carte, l’Espresso ha infatti potuto verificare che uno degli agenti ha avuto una sospensione di 4 mesi per poi tornare in servizio, un altro ha subito una semplice deplorazione (richiamo scritto) mentre uno dei due responsabili accertati dei fatti più gravi - radiato dall’amministrazione penitenziaria - potrebbe riuscire a tornare in servizio facendo ricorso in Cassazione. Nessun provvedimento interno, inoltre, fu preso nei confronti di altri 10 poliziotti identificati da Cirino e da altri testimoni come esecutori dei pestaggi ma mai rinviati a giudizio. Che oggi risultano in servizio in altre carceri italiane. La vicenda giudiziaria risale al 2009. Alcuni agenti in servizio nel carcere di Asti hanno i telefoni sotto controllo per via di un sospetto spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dell’istituto. Un assistente della Penitenziaria e sua moglie finiscono in manette. Nelle loro conversazioni fanno riferimento ad alcuni pestaggi "per punire i prigionieri più problematici". Davanti ai magistrati astigiani il poliziotto arrestato vuota il sacco, riferendo un sottobosco di violenze inaudite da parte dei poliziotti - che avrebbero agito spesso sotto effetto di sostanze stupefacenti - nei confronti dei detenuti. Che subivano senza denunciare. Avevano sopportato in silenzio anche Andrea Cirino e Claudio Renne, entrambi piemontesi, in attesa di giudizio per reati contro il patrimonio. Nel 2004 erano diventati le vittime predilette di una squadretta composta da 15 poliziotti che, protetti da un muro di omertà, li aveva sottoposti a feroci pestaggi e vessazioni. "Tutto era partito da un litigio - racconta oggi Cirino - mi hanno portato nella cella di isolamento, la cosiddetta "cella liscia", e lì è iniziata la tortura". "Ci lasciavano nudi e al freddo in una stanza senza finestre - racconta oggi Cirino - entravano dopo le dieci di sera e ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Quando sentivo il rumore degli anfibi mi rannicchiavo e aspettavo la raffica. Mi chiudevo come un riccio, sperando che smettessero. Ma loro continuavano, puntuali, ogni notte". "Ogni tanto mi allungavano un tozzo di pane e un goccio d’acqua giusto per non farmi morire di sete - prosegue Cirino nel suo racconto - A volte mi facevano vedere un bel piatto di pasta, al di là delle sbarre, ma dopo avermi fatto sentire l’odore lo portavano via. Per loro era un divertimento. Ma le cose più terribili avvenivano la sera…". Un giorno Cirino si ritrova in ospedale privo di sensi, con il collo viola. Gli dicono che ha tentato il suicidio nella cella di isolamento. Ma lui ancora oggi non crede a questa versione: "Mi ricordo solo di aver mangiato e di essermi addormentato di colpo. Stranamente, quella sera, mi avevano fatto avere un bel piatto di pasta che io, affamato, avevo divorato voracemente. Mi sono risvegliato in ospedale. Ora voglio capire: come avrei potuto impiccarmi se mi tenevano nudo in una cella completamente vuota?". Sospetti tremendi, che gettano una luce ancora più inquietante sulla "squadretta" di Asti. "Erano in tutto 15 persone - spiega oggi l’avvocato Angelo Ginesi - Cirino ha identificato ognuno di loro, perché agivano a volto scoperto, eppure siamo riusciti a portare a processo solo cinque di loro. Per gli altri, essendo passati ormai troppi anni dai fatti, non c’erano prove a sufficienza". Di questi cinque, solo quattro (Marco Sacchi, Cristiano Bucci, Alessandro D’Onofrio e Davide Bitonto) sono stati riconosciuti responsabili in Appello ma salvati, appunto, dalla prescrizione. "Nelle carte del Tribunale i giudici hanno scritto molto chiaramente che se noi detenuti avessimo deciso di denunciare prima - racconta ancora Cirino - forse i poliziotti "picchiatori" sarebbero stati condannati almeno per i reati di lesioni personali. Ma come potevamo farlo? Ci avevano detto che ci avrebbero ammazzati". "Una vicenda amara che dura da tanti anni e che non è ancora finita", ricorda l’avvocato Simona Filippi dell’associazione Antigone, la prima ad aver raccolto la testimonianza dei due ex detenuti e ad averli sostenuti durante la complessa vicenda giudiziaria. Chiediamo all’Egitto verità per Giulio. Ed è sacrosanto farlo. Ma siamo l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, ha dichiarato ammissibile il loro ricorso parlando chiaramente di "atti di tortura", ma finora non è stato possibile arrivare ad alcun tentativo di mediazione economica. "Inizialmente il ministero della Giustizia aveva proposto un risarcimento danni di 45mila euro per ciascun detenuto affinché rinunciassero a presentare il ricorso a Strasburgo - spiega ancora l’avvocato Filippi - ma la Cedu ha valutato questa composizione amichevole come non rispettosa dei diritti tutelati dalla convezione europea". "Una decisione probabilmente presa - ipotizza il legale di Antigone - perché l’Italia non si è impegnata, nel frattempo, a introdurre il reato di tortura". Ora la palla passa dunque ai giudici francesi. Saranno loro a valutare le responsabilità dello Stato italiano in questa vicenda. E saranno sempre loro a valutare se siano stati presi - oppure no - i dovuti provvedimenti verso gli agenti "picchiatori". Interpellato da l’Espresso, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia conferma di aver fatto, all’epoca, tutto il possibile: "A conclusione della vicenda penale - spiegano nei dettagli - furono adottati due provvedimenti di destituzione dal servizio e due provvedimenti di sospensione". "A tutela dell’immagine del corpo di Polizia Penitenziaria - proseguono dal Dap - ribadiamo con fermezza che singoli condannabili episodi, come quelli avvenuti nel carcere di Asti, non devono e non possono minimamente ledere l’onore e il prestigio dei singoli appartenenti e del corpo della polizia penitenziaria nel suo insieme, cui va tributato il riconoscimento per il difficile compito al quale sono chiamati quotidianamente per la tutela dei diritti e delle garanzie dei principi costituzionali". Secondo l’amministrazione penitenziaria, insomma, poliziotti che infrangono le regole che loro stessi sono chiamati a far rispettare dietro le sbarre sono pochi e devono essere allontanati. Ma è notizia di questi giorni che uno dei "picchiatori" di Asti (Cristiano Bucci) ha presentato ricorso in Cassazione per ridiscutere la sentenza di Appello e probabilmente per ottenere il reintegro. Un suo diritto, certo. Che però l’avvocato di Cirino definisce "uno schiaffo in pieno viso nei confronti delle vittime". "Si tratta dell’agente che ha avuto il ruolo più grave all’interno di tutta la vicenda, "l’anima nera" di tutta la squadretta - ricorda Ginesi - colui che, intercettato al telefono, incitava il collega a picchiare i detenuti dicendo: "devi fare uscire la carogna che c’è in te". Sapere che questa persona tornerà a negare l’evidenza davanti ai giudici è qualcosa di vergognoso. Ma noi non ci arrendiamo e andiamo avanti". Accuse ai politici, Davigo è un caso. Csm: "Rischia di alimentare conflitti" di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 23 aprile 2016 Il presidente Anm: "Dirigenti che delinquono fanno più vittime di qualunque ladro". Attacchi dal Pd, il Movimento 5 Stelle si schiera con Davigo. Il Csm: "Parole rischiano di alimentare il conflitto". Poi la precisazione: "Mai pensato che tutti i politici rubino". "La classe dirigente quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente di strada e fa danni più gravi". Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo, dopo l’intervista al Corriere della Sera in cui si era scagliato contro "i politici che continuano a rubare ma non provano più vergogna", è tornato sulla questione durante una lectio magistralis all’Università di Pisa. "C’è stato un decadimento della classe dirigente politica" ha sottolineato l’ex pm di Mani Pulite, per poi però precisare "Non ho mai penato che tutti i politici rubino, non ho mai inteso riferirmi ai politici in generale ma ai fatti di cui mi sono occupato e a quelli che successivamente ho appreso essere stati commessi". Parole, quelle di Davigo, che avevano sollevato polemiche e sulle quali era arrivato nella serata di venerdì l’intervento del Consiglio Superiore della magistratura. Csm: "Parole di Davigo rischiano di alimentare conflitto" - "Le dichiarazioni del Presidente Davigo - ha detto il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini - rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno tanto più nella difficile fase che viviamo nella quale si sta tentando di ottenere, con il dialogo ed il confronto a volte anche critico riforme, personale e mezzi per vincere la battaglia di una giustizia efficiente e rigorosa, a partire dalla lotta alla corruzione e al malaffare". "Il Consiglio - ha aggiunto - è quotidianamente impegnato ad affermare in concreto l’indipendenza della magistratura e non è utile, come qualcuno ha inteso fare, invocarne l’intervento sanzionatorio pur a fronte di affermazioni non condivisibili, peraltro rese nell’esercizio di una funzione non giurisdizionale ma associativa. Le garanzie e la considerazione che si devono alla magistratura per lo straordinario lavoro, che quotidianamente assicura spesso in condizioni difficili, devono unirsi al rispetto per gli altri poteri dello Stato". "Tutti rispettino la legge, anche chi la fa" - "Dire che i magistrati devono parlare solo con le loro sentenze equivale a dire che devono star zitti - ha detto ancora Davigo nel suo intervento all’università -, chi sostiene che abusiamo della custodia cautelare è senza vergogna". "Tutti devono rispettare la legge, perfino quelli che la fanno - ha proseguito poi, per ribadire come nel nostro Paese resti molto diffuso il fenomeno della corruzione - è un reato particolarmente segreto, occulto, non si fa davanti a testimoni, è noto solo a corrotti e corruttori, non viene quasi mai denunciato. Per un paio di decenni l’attività di questo Paese non è stata quella di contrastare la corruzione ma i processi di indagine sulla corruzione. Questo è stato un messaggio fortissimo". E ancora, secondo il presidente dell’Anm "Per fronteggiare il fenomeno è necessario avere regole che prevedano misure premiali per gli imputati che collaborano, quelle recentemente introdotte non bastano". "In Italia - ha sottolineato - la vulgata comune è dire che rubano tutti. No, mi fa arrabbiare questa cosa, rubano molti. Non tutti. Altrimenti non avrebbe senso fare i processi". Pd: "Davigo cerca la rissa ma non la troverà" - L’intervista di Davigo al Corriere della Sera aveva sollevato polemiche anche all’interno del mondo politico, il capogruppo Pd alla commissione giustizia della Camera Walter Verini aveva detto: "Davigo si è costruito un ring dove tira cazzotti da solo". "Davigo cerca la rissa ma non la troverà" ha invece commentato David Ermini, responsabile giustizia della segreteria del Pd. "Parole pericolose, l’Anm prenda le distanze" aveva invocato Donatella Ferranti, presidente della commissione giustizia della Camera. "Sicuramente ci sono politici che rubano senza vergogna e ci sono molti altri politici che non solo non rubano ma fanno leggi per punire più duramente i politici che rubano senza vergogna. Credo che le classi dirigenti dovrebbero aiutare a distinguere, a far capire le differenze ai cittadini e non a generalizzare come si fa al bar. Così non si aiuta a distinguere chi fa bene il suo mestiere e chi fa male" ha commentato il presidente del Pd Matteo Orfini. Di Maio: "Noi con Davigo, partiti facciano pulizia" - Solidarietà al presidente dell’Anm era invece arrivata dal Movimento 5 Stelle, e in particolare da vice presidente della Camera Luigi Di Maio, "invece di attaccare il magistrato", aveva detto, "i partiti dovrebbero guardarsi in casa loro e fare pulizia". E ancora: "Come sempre il pesce puzza dalla testa e qui sono i partiti, organizzazioni della fine dell’800, che ancora oggi ci impongono questa parola, ma sono comitati d’affari". La jihad di Davigo che mette in fuga le toghe moderate di Errico Novi Il Dubbio, 23 aprile 2016 "Non hanno smesso di rubare ma solo di vergognarsi". Con questa frase da ayatollah dell’anticorruzione Piercamillo Davigo proclama la guerra santa contro la politica. In un’intervista al Corriere della Sera il presidente dell’Associazione magistrati lancia un lungo anatema contro i partiti e non solo. Rincara la dose in un intervento all’università di Pisa: "La classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime più elevato di qualunque delinquente da strada. E a noi dicono che abusiamo della custodia cautelare: sono senza vergogna". A dissociarsi per primo è uno dei predecessori di Davigo alla guida dell’Anm, il pm Luca Palamara. Ma la censura più importante arriva dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini: "Le dichiarazioni di Davigo rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno, tanto più che con il dialogo si sta tentando di ottenere riforme e mezzi per una giustizia efficiente". Critiche da tutti i partiti Pd compreso, solidarietà solo dal M5s. Anche la presidente dem della commissione Giustizia Donatella Ferranti dice: "Parole gravi". Ma siamo sicuri che le correnti della magistratura volessero proprio questo? E cioè un capo dell’Anm che lancia una sorta di jihad contro i politici? C’è da dubitarne. E un segnale arriva di prima mattina, quando il Corriere della Sera con l’intervista a Piercamillo Davigo ha ancora l’odore della rotativa. "Non è il momento di alimentare un inutile scontro fra politica e magistratura", dichiara Luca Palamara, pm romano e attuale consigliere togato del Csm. Non un magistrato qualsiasi: Palamara è stato predecessore di Davigo, ha ricoperto la carica di presidente del sindacato dei giudici dal 2008 al 2012. Proviene da una corrente centrista, Unicost. Interviene sulla Rai, a Unomattina, trasmissione popolare. La sua è una presa di distanze molto pesante. Davigo è stato eletto da poco dal Consiglio direttivo centrale dell’Anm, anche grazie ai voti della corrente di Palamara. A poche settimane dall’incoronazione, l’intervista-manifesto è già sconfessata come eccesso non condivisibile. Viene allora da chiedersi: com’è possibile che l’ex pm di Mani pulite sia sfuggito al controllo delle correnti maggiori, quelle che presidiano da anni il sindacato dei giudici? Ha preso una valanga di voti, ecco come. E ci è riuscito in qualità di leader di una piccola corrente, nata da poco più di un anno: Autonomia e indipendenza. Gruppo nato per scissione dalla classica corrente "di centrodestra", che si chiama Magistratura indipendente. Davigo era da tempo in dissenso con il leader indiscusso di Mi, Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia. Si è creato il suo "partito" autonomo, che per molti colleghi è una congrega un po’ reazionaria. Ma il punto non è il giudizio sul tratto culturale: il punto è che quel piccolo gruppo ha avuto un successo strepitoso. Vuol dire che la base della magistratura si sente in buon numero vicina alle posizioni dell’ex uomo del pool. Oppure che questa base vede nelle posizioni estreme, conflittuali di Davigo l’occasione di rappresentare un malessere profondo. E di questo malessere che cova in una larga fetta del mondo togato si erano raccolti segnali di vario tipo, negli ultimi tempi. Forse se ne possono anche comprendere le ragioni: innanzitutto, la fine della guerra sulla giustizia con Berlusconi è come se avesse lasciato nudi i magistrati. Secondo diverse statistiche la loro popolarità è in costante diminuzione: basti pensare ai dati dell’Eurispes, secondo cui ad avere fiducia nei giudici è si e no un quarto degli italiani. Inoltre il conflitto con il centrodestra berlusconiano occultava i contrasti interni. Oltre a spingere una parte della tifoseria politica a parteggiare apertamente per i pm. Quello schema è cambiato: c’è nel Paese un odio viscerale verso i corrotti, il che però non vuol dire che esista amore incondizionato per i pubblici ministeri. A questo si aggiunga che i giudici qualche colpo da Renzi l’hanno dovuto incassare. Hanno tentato inutilmente di opporsi alla responsabilità civile che, sempre nell’intervista ad Aldo Cazzullo, Davigo deride ("l’unica differenza è che ora pago 30 euro in più l’anno per la mia polizza, questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme"), per poi ammettere che la nuova legge un po’ di fastidio lo crea. Si sono visti ridurre le ferie di un terzo: da 45 a 30 giorni; l’altro ieri il Csm ha dovuto escogitare un calcolo per recuperarne 6, con una delibera interpretativa secondo cui sabati incastrati nei periodi di vacanza non si scalano dal monte ferie. Sono tante piccole scalfitture, incisioni nell’intangibilità della funzione giurisdizionale. Mettete la perdita di popolarità insieme con queste pur lievi afflizioni e capite perché il grosso dei magistrati è un po’ incavolato e vota Davigo. E però, se Davigo è popolare e Palamara già lo sconfessa, vuol dire appunto che le correnti principali dell’Anm non sanno più dare risposte a quel malcontento di fondo. Un problema per la categoria, forse un vantaggio per Renzi. Che se non altro sa di poter trovare, in questa stranissima guerra santa, dei varchi in cui infilarsi e colpire. In fondo è questo il senso delle reazioni dem: Walter Verini dice che Davigo "è solo sul ring a tirar cazzotti", il responsabile Giustizia David Ermini fa notare che "le parole di Davigo fanno paura ai magistrati". Solo il cinquestelle Luigi Di Maio esprime solidarietà al capo dell’Anm. Il campo è aperto, la guerra santa pure. Con possibili esiti che il precedente della stagione berlusconiana non aiuta assolutamente a prevedere. L’irritazione di Renzi: Davigo chi? I timori di una crociata anti-governo di Francesco Verderami Corriere della Sera, 23 aprile 2016 Le parole pronunciate dal presidente dell’Anm giudicate dal premier come la formalizzazione di un conflitto. Consulto Legnini-Mattarella prima della nota del Csm. Le parole pronunciate dal presidente dell’Anm, quell’atto d’accusa alla politica così generico da far capire chi fosse nel centro del mirino, rappresentano - secondo il premier - "l’inizio di una crociata", o meglio la formalizzazione del conflitto che un pezzo di magistratura, forze politiche e poteri più o meno indeboliti avevano da tempo programmato contro Palazzo Chigi. Ai suoi occhi è come se Davigo avesse precostituito una sorta di comitato referendario per il no alle riforme: quella della giustizia, che è al vaglio del Parlamento, e quella costituzionale, che sarà al vaglio del Paese. Il premier vuole capire quale sarà la reazione del corpo togato - C’è più di un motivo se Renzi non ha reagito. Intanto non ha inteso offrire la patente di interlocutore istituzionale a un rappresentante sindacale, inoltre vuole capire quale sarà la reazione del corpo togato, dove già si segnalano stupore e malumore diffuso. Eppoi spettava formalmente ad altri dare risposta. La dichiarazione del vicepresidente del Csm, la sua denuncia contro chi "alimenta il conflitto tra istituzioni", ha dato infatti voce - senza esporlo - anche al presidente della Repubblica, che è presidente del Csm e con il quale Legnini si è consultato prima di mettere a distanza Davigo. Era da giorni peraltro che le due cariche dello Stato incrociavano opinioni preoccupate e la clamorosa sortita del presidente dell’Anm ha dato corpo a quei timori: perché un conto è proporsi come sindacalista delle toghe, altra cosa è esporsi da oppositore del governo. Un nuovo bipolarismo giudiziario - E non c’è dubbio che lo scontro abbia una valenza politica. Le reazioni del Palazzo hanno tracciato il solco di un nuovo bipolarismo giudiziario, con un fronte che tiene insieme i Cinquestelle e quel pezzo di sinistra orfana della stagione dipietrista, e un fronte che raccoglie (quasi) tutto il Pd e (quasi) tutto il centrodestra. È vero, questa mappa che divide neo-giustizialisti da neo-garantisti non ricalca gli schieramenti che si contrapporranno al referendum sulla riforma costituzionale. Ma è altrettanto vero che la sfida per il primato della politica accomuna gli epigoni della Seconda Repubblica. E non solo. La "crociata" di Renzi - Quando Renzi pochi giorni fa al Senato ha condannato i "venticinque anni di barbarie giudiziarie", è tornato scientemente indietro con le lancette della storia fino alla Prima Repubblica, seppellita da Mani Pulite. La "crociata" per il premier era di fatto già iniziata, lo si intuiva dagli umori che lasciava filtrare, dai ragionamenti sull’accerchiamento e sul complotto ai danni del governo. E siccome il Palazzo - denudato dalle inchieste e delegittimato dal malaffare - non ha l’autorità morale per imporsi, Renzi ha introdotto un nuovo schema d’ingaggio con la magistratura: regole garantiste dentro il corso naturale della giustizia. Avanti con la riforma delle intercettazioni - Un modo per far capire che sarebbe andato avanti con la riforma delle intercettazioni, respingendo la tesi di chi - nella sua stessa maggioranza - sosteneva che "avremmo dovuto fare prima, Matteo", dato che il caso Etruria e l’indagine di Potenza stavano esponendo il premier all’accusa del conflitto d’interessi. "Invece no", era stata la risposta di Renzi: "Arriveremo comunque all’obiettivo senza offrire il pretesto che per noi fosse una priorità". Una valutazione che aveva trovato conforto in Napolitano, convinto della necessità di rivedere le norme sulla pubblicazione degli atti giudiziari fin dai tempi del governo Berlusconi, se è vero che l’ex capo dello Stato non avrebbe perdonato al Cavaliere l’occasione persa quando la seconda versione della riforma - scritta dall’allora Guardasigilli Alfano e frutto di una mediazione con il consigliere giuridico del Colle, D’Ambrosio - venne cestinata dal leader del centrodestra. Renzi non ha mai ricevuto la struttura di rappresentanza dei magistrati - Altri tempi, ma stesse storie tese con la magistratura e la sua struttura di rappresentanza, che Renzi non ha mai ricevuto manco fosse la Cgil, e contro la quale - appena arrivato a palazzo Chigi - aveva attivato meccanismi anti-casta con la polemica sugli stipendi e sulle ferie delle toghe. Ma gli eventi e gli affanni di governo avevano di recente invertito la tendenza, e la spinta rottamatrice sembrava esaurita. Fino all’avvento di Davigo all’Anm, dicono ora i renziani di stretta osservanza, secondo i quali la decisione dei magistrati di aggrapparsi a un simbolo degli anni Novanta, è stata valutata in controtendenza rispetto al rinnovamento generazionale in atto dappertutto, ed è stata giudicata come una scelta di retroguardia. Per Renzi la sortita di Davigo è nello schema del nuovo contro il vecchio - Perciò la sortita di giovedì di Davigo non ha stupito il capo del governo, che ha accolto quelle parole come fossero un assist, in coerenza con il suo schema narrativo: il nuovo contro il vecchio. Anche se in un Paese attraversato ancora da una crisi economica e morale che sembra ricalcare una stagione del passato, non è ancora chiaro come finirà "la crociata". Lo si capirà con il referendum sulle riforme costituzionali. Raffaele Cantone: "Non si risolve tutto con le manette. La magistratura ha le sue colpe" di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 23 aprile 2016 Il capo dell’Anac: "Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione". E sottolinea: "Il mio mandato scade nel 2020. E la mia idea è tornare a fare il magistrato" Dottor Cantone, lei è presidente dell’Autorità anticorruzione. Piercamillo Davigo sostiene che in Italia hanno vinto i corrotti. E lei? "Non è assolutamente vero. Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione, e il sistema non può essere emendato. Io non accetto questo pessimismo cosmico. Mi ribello a questa visione che esclude qualsiasi ricetta. Il pessimismo fine a se stesso diventa una resa. E questa resa nell’Italia di oggi non c’è". Quindi non è vero che oggi è peggio di Tangentopoli? "No, non è vero. È vero che Tangentopoli non sradicò la corruzione, che è continuata come un fiume carsico. Ma ora vedo molte persone che vogliono provare a uscirne. E pensano che la soluzione non sia solo la repressione, che la ricetta non sia solo la stessa del 1993, che all’evidenza ha fallito. Uno non può ripetere le stesse cose a distanza di anni, e dire che è sempre colpa degli altri se le vecchie ricette non hanno funzionato". Che cosa intende? "L’idea che tutto si risolva con le manette è stata smentita dai fatti. La repressione da sola non funziona. Colpisce ex post; spesso in modo casuale; sempre quando i danni sono già fatti. La prevenzione ha tempi più lenti. Ma nei Paesi del Nord Europa, dove la corruzione è bassissima, ha funzionato". Anche Davigo parla di prevenzione, di agenti infiltrati che incastrino i politici. E dice che pure lei, fino a qualche tempo fa, ne parlava. "E continuo a farlo. Ho parlato di agenti infiltrati un mese fa, a un convegno di magistrati. Capisco che Davigo possa non seguire quello che dico, ma in questo caso non è molto informato. Lo stimo, sono stato tra i primi a fargli gli auguri. Condividiamo l’amore smisurato per la magistratura; ma l’amore porta lui a vedere solo gli aspetti positivi; e porta me a vedere gli aspetti critici". Quali aspetti critici? "Molto spesso la magistratura non riesce a dare risposte ai cittadini, perché è sovraccaricata di compiti non suoi. Si pensa che debba occuparsi soprattutto dei grandi temi, e un po’ meno del senso di giustizia individuale. Sul piano dei tempi e della prescrizione la risposta è insufficiente. Non a caso Ilvo Diamanti sostiene che la magistratura negli ultimi anni ha perso oltre il 20% della sua credibilità, passando dal 70% a sotto il 50. Si può sempre dire che la colpa è degli altri? Io mi ribello a questa logica del fortino assediato. La magistratura ha meriti eccezionali; ma sarebbe scorretto non evidenziare che certi meccanismi organizzativi non funzionano". A cosa si riferisce? "A tante persone che vengono in contatto con il sistema giustizia - non gli imputati; i testimoni, le parti lese - e non ne darebbero questi giudizi entusiasti. Non è giusto dire: va tutto bene madama la marchesa, e se va male la colpa è altrui. Ci sono testimoni che sono andati dieci volte ai processi e dieci volte sono stati rimandati indietro. Ci sono uffici giudiziari che danno risposte, e altri che non lo fanno. Ripeto: io amo la magistratura. Ma ho un’idea diversa del suo ruolo". La sua idea qual è? "In certe battaglie la magistratura è uno dei soggetti. Davigo pensa che sia l’unico a poter risolvere i problemi. Non condivido una visione autoreferenziale e salvifica. La magistratura non deve salvare il mondo; deve accertare i reati penali e decidere i processi civili. In nessun Paese del pianeta ha il monopolio nelle questioni di legalità; altrimenti finisce per esercitare una funzione di supplenza nei confronti della politica". Se i politici smettessero di rubare darebbero una bella mano, non crede? "Certo. La politica deve fare molto di più. Ma è ingiusto non riconoscere quanto è stato fatto negli ultimi anni. Dire che non cambia mai nulla è funzionale all’idea di non far cambiare mai nulla. Noi come magistratura abbiamo chiesto nuove norme sul falso in bilancio, sul voto di scambio politico mafioso, sull’auto-riciclaggio: e queste riforme sono state fatte. Alcune potevano essere scritte meglio, ma qualche perplessità è stata superata dalle interpretazioni della giurisprudenza. Non riconoscere che qualcosa si può fare è come dire che non c’è più niente da fare, che l’unica strada sono le manette. Ma non è così". Il sentire diffuso è che il governo stia facendo poco contro la corruzione, e usi lei come foglia di fico. "Io sto ai fatti, non alle allusioni. Tutte le volte che c’era da criticare il governo non mi sono mai tirato indietro. Il primo a denunciare il rischio dell’innalzamento dei contanti a 3 mila euro sono stato io. Ma per la prima volta c’è in Italia un’Autorità indipendente contro la corruzione cui sono stati dati poteri, secondo una visione nuova che non è affatto alternativa alla magistratura, al contrario di quel che qualcuno tende a pensare. L’Ocse, che bacchetta sempre l’Italia, ha elogiato il nostro lavoro sull’Expo. Il nuovo codice degli appalti ci attribuisce poteri autentici". Non direi: potete intervenire solo sugli appalti sopra i 5 milioni di euro, escludendo il 95% dei contratti. "Non è così. Quella soglia riguarda solo le commissioni di gara; i nostri poteri riguardano tutti gli appalti". Sicuro? "Ci sono criticità, ma c’è uno sforzo autentico, e se ne vedranno i risultati". Però continuano gli scandali. E gli arresti. "Sono fatti molto gravi. Ma se emergono è la prova che il sistema reagisce. Fino a poco fa qualche leader politico sosteneva che la corruzione non esisteva; oggi nessuno la nega. Non dico che la strada sia conclusa, sarei un folle. Ma è sbagliato non prendere atto di quel che è avvenuto, grazie al Parlamento che ha votato andando oltre la maggioranza di governo". È d’accordo con Renzi che parla di "barbarie giustizialista"? "Barbarie giustizialista è un’espressione esagerata. C’è stato un periodo in cui non tanto la magistratura, quanto l’interpretazione dei provvedimenti della magistratura ha creato eccessi: bastava essere indagato per venire messo alla gogna". I paragoni sono sempre impossibili, ma viene in mente che, in un contesto diverso, Falcone quando andò a lavorare per il ministero di Grazia e Giustizia si ritrovò isolato. "Una parte della magistratura è convinta che collaborare col potere politico ti inquina. Io dico che in questo periodo, e sono disponibile a essere sfidato sul piano della verità, nessun politico di nessuna parte mi ha mai chiesto di fare qualcosa che non potevo fare. Quando facevo il magistrato, qualcuno ci ha provato". Chi le ha fatto pressioni? "Nessuna pressione. Semmai, il sentore che qualcuno ci stesse provando: poteva capitare il collega che diceva "ti stai occupando del processo X…". Nessuno è mai andato oltre. Ma lo posso testimoniare in qualsiasi tribunale, soprattutto nel tribunale della mia coscienza: l’idea che ci sia un mondo tutto pulito, la magistratura, e un mondo tutto sporco, la politica e la burocrazia, è comoda da vendere come fiaba; ma è falsa. La magistratura è fatta al 99 per cento di persone perbene, ma le mele marce ci sono; come ci sono persone perbene in politica. Il retro-pensiero che ci si debba sporcare con i rapporti istituzionali, malgrado quello che è successo a Falcone, continua a essere usato: con allusioni e attacchi ingiustificati, basati sul nulla. In che cosa noi dell’Autorità abbiamo fatto da ruota di scorta? Se Renzi la evoca di continuo è perché finalmente l’Autorità sta provando a lottare contro la corruzione, non perché ci sia un rapporto incestuoso. Se qualcuno ha le prove di rapporti incestuosi, le tiri fuori; non usi illazioni. Altrimenti finisce come quando Falcone veniva chiamato eroe dagli stessi che lo appellavano come traditore". A chi si riferisce? "Ero uditore giudiziario quando partecipai ad assemblee di magistrati che, quando fu fatta la Direzione nazionale antimafia, usavano per Falcone parole tra cui la più buona era traditore. Quegli stessi, 15 giorni dopo, usavano la parola eroe". Quegli stessi chi? "Riportare i nomi di chi interveniva in assemblee private non mi pare corretto. E comunque non è una cosa che sto improvvisando: l’ho scritta in un libro del 2007". In Italia servono più carceri? "Sì, ma la questione riguarda soprattutto l’ordine pubblico: per i reati di criminalità di strada abbiamo una legislazione e un’applicazione della legislazione eccessivamente elastiche". Ci sono troppi magistrati in politica? "Ci sono stati troppi magistrati in politica; e molto spesso non hanno fatto grandi figure. Il nostro lavoro non ti abitua certo alla ricerca del consenso. È sbagliata l’idea che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver fatto politica torni a fare il magistrato". Lei la politica non la farà mai? "Non ci penso assolutamente. Il mio mandato scade nel 2020. E la mia idea è tornare a fare il magistrato". Bruti Liberati: "Non ci sono toghe buone contro un’Italia di cattivi. Anm non esca dal ruolo" di Piero Colaprico La Repubblica, 23 aprile 2016 Parla l’ex procuratore di Milano: "Non ci siamo se si dice che i giudici son la soluzione all’etica pubblica". "Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi, vederla così è in linea di principio sbagliato, e inoltre si scontra con la realtà". Con Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano, ex membro del Csm, per anni all’Associazione nazionale magistrati, da qualche mese in pensione, proviamo ad analizzare le nuove tensioni che dividono politica e magistratura. Dottor Bruti, le battaglie tra magistrati e politici cominciarono in Italia negli anni Settanta del secolo scorso... "Sì, lo scontro viene a galla quando la magistratura acquisisce nei fatti un’indipendenza e una volontà di non fermarsi di fronte ai santuari, dagli scandali Lockheed e petroli, alla strage di piazza Fontana, ma i paragoni con il passato servono a comprendere l’evoluzione, non l’oggi. L’essenziale per l’Anm è esprimere con chiarezza la propria opinione sui problemi della giustizia, ma altrettanto essenziale è che l’Anm non esca dal suo ruolo". Se una parte del paese chiede ai politici corrotti un passo indietro e i politici non ascoltano, come se ne esce? "Comunque non tocca ai magistrati affrontare "il problema della corruzione", i magistrati si occupano di casi singoli che costituiscono reato. Non danno ricette né affrontano i problemi deontologici altrui. E, sinceramente, un passo avanti c’è sull’aspetto della prevenzione grazie all’Anac, l’autority anti-corruzione. L’abbiamo vista a Milano con l’Expo. L’Anac ha ricoperto il suo ruolo di "investigatore" nelle pratiche amministrative, la magistratura ha svolto indagini penali e i processi in tempi rapidi, mentre il prefetto con le interdittive antimafia ha eliminato alcune aziende sospette. Fine. L’Anac è giovanissima, deve ancora assestarsi, ma uno strumento per non sprecare denaro pubblico con appalti fasulli ora c’è". Oggi come ieri, però, la tensione cresce sempre sullo stesso tema, la corruzione dilagante, o no? "Rispetto al passato, la magistratura riesce a indagare sino in fondo su casi rilevanti. Questo suo compito, riconosciuto, deve essere rispettato dalla politica. Viceversa, non ci siamo quando si dice o si fa capire che può essere la magistratura a risolvere questioni di costume o di etica pubblica. Se fossimo ridotti a questo saremmo davvero un povero paese". Quindi? "Ipotizzare una magistratura buona contro l’Italia dei cattivi è sbagliato in linea di principio e si scontra con realtà. Purtroppo abbiamo avuto casi di corruzione nella magistratura e non sempre la deontologia che l’Anm propone come codice etico è rispettata. Ognuno dovrebbe guardare al suo interno. Ma la politica non deve sottovalutare il malessere dei tanti magistrati che lavorano in condizioni frustranti per mancanza di mezzi e personale". Non c’è una differenza tra Berlusconi che accusava le "toghe rosse" e Renzi che dice ai magistrati di parlare con le sentenze e non con le inchieste mediatiche? "Non faccio paragoni, la rilevanza mediatica di alcune inchieste che coinvolgono la politica c’è oggi come ieri. Quanto alle celerità dei processi, si farebbero passi avanti significativi se alcune riforme di cui si parla sullo snellimento delle procedure fossero approvate". E la riforma sulle intercettazioni? "A Milano le abbiamo ridotte del 30 per cento in collaborazione con gli Aggiunti e con la polizia giudiziaria, valutando, soprattutto in previsione dei primi atti che con la "discovery" diventano pubblici - ad esempio con la richiesta d’arresto - quelle che sono strettamente indispensabili. Tocca al pm la prima cernita e poi, in udienza stralcio davanti al gip in contraddittorio, la seconda". Tutto in mano ai magistrati? "La discrezionalità del magistrato è ineluttabile. Come si dimostra anche ora che si parla di modificare la legge sulla legittima difesa. A chi può essere affidata la valutazione conclusiva se ci sia stata o no legittima difesa? Il magistrato, però, non deve dimenticare il "costume del dubbio e la prudenza nel giudizio, la permanente possibilità dell’errore di cui ha parlato più volte Luigi Ferraioli". E se finisci giudicato da un tipo così? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 aprile 2016 L’intervista di Davigo al Corriere apre due problemi. Uno molto pratico e l’altro di tipo ideale. Il problema pratico è questo: se a un cittadino qualunque capita - e capiterà - di aspettare una sentenza della Cassazione che deve essere emessa da una sezione della quale fa parte Davigo, come si sentirà questo povero cittadino? Potrà ricusare Davigo, o invece dovrà accettare di essere giudicato da un magistrato il quale afferma e ribadisce che "non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti"? E se per caso questo cittadino fosse uno che fa o ha fatto politica, come si sentirà a farsi giudicare da un magistrato il quale sostiene che i politici - tout court - rubano? Non è un problema "virtuale" è un problema concretissimo. E porta con se un secondo problema: è evidente che Davigo non rappresenta tutta la magistratura italiana, e che anzi la maggior parte dei magistrati hanno idee ed esprimono posizioni del tutto diverse e non in contrasto con la Costituzione Repubblicana, come sono le idee di Davigo. Però è pur vero che Davigo è stato di recente eletto a capo dell’associazione nazionale magistrati, e questo può farci immaginare che esista comunque un numero significativo di magistrati che la pensano come lui. Qualunque cittadino che dovesse finire sotto processo è autorizzato a temere che il magistrato che lo giudicherà la pensi come Davigo. Vedete, il danno che il presidente dell’Anm ha creato alla giustizia italiana con questa intervista è grande. Perché finisce col minare la credibilità non tanto di un singolo giudice, ma di tutta l’istituzione. Del resto che questo pericolo sia molto serio lo ha immediatamente avvertito il dottor Luca Palamara, che oggi fa parte del Csm e qualche anno fa ricoprì l’incarico di presidente dell’Anm. Palamara ieri mattina, appena letta la pagina del Corriere, è immediatamente intervenuto per tentare di limitare i danni. Ha fatto benissimo. Ma l’impresa è complicata, perché ormai l’intervista è stampata. E lo sfregio che ha recato all’immagine della magistratura e di tanti valorosi magistrati è irreversibile. Il secondo problema è quello dei rapporti tra giustizia e politica. Davigo non è certo uno sprovveduto. È un giurista molto colto, ha studiato, è sapiente. Il suo unico difetto è quello di avere una visione della giustizia e del diritto un po’ precedente all’esplosione, in Europa - nel settecento - dell’illuminismo. E dunque di essere, nelle sue idee, molto lontano dalla Costituzione Repubblicana (dal suo spirito e dalla sua lettera). La domanda è questa: se i rapporti tra politica e giustizia sono nelle mani di un leader dei magistrati che ha le idee di Davigo, come si può pensare che questi rapporti si risolvano in qualcosa diversa da una guerra? Mi pare che questa prospettiva sia temuta anche dal dottor Palamara, ma non credo che possa essere cambiata se non scendono in campo quei pezzi di magistratura, moderni e filo-Costituzione, che ci sono, sono molto grandi, ma anche, francamente, piuttosto silenziosi. Ecco quello che Davigo non dice sulla giustizia italiana Il Foglio, 23 aprile 2016 Continua il tour de force mediatico del nuovo presidente dell’Anm. Confronto diretto con la politica. Ma per ascoltare parole di buon senso sulla giustizia lenta e anti impresa bisogna ascoltare l’ambasciatore americano in Italia, Phillips. Non si ferma il tour mediatico di Piercamillo Davigo, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Dopo le interviste rilasciate nei giorni scorsi al programma "Di Martedì" su La7, e poi mercoledì al Fatto quotidiano, in cui - come abbiamo notato - sembrava emergere una sorta di manifesto del Partito della nazione giustizialista, oggi Davigo si è concesso alla penna di Aldo Cazzullo, sul Corriere della sera. I toni restano alti, e i temi gli stessi: si parla di politica, di "ladri", ma per niente (o quasi) di giustizia. Davigo rivendica un celebre aforisma a lui attribuito quando era componente del pool di Mani pulite ("Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti"), spiegando che "chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale non poteva essere innocente" (anche se in verità, centinaia di persone sottoposte a processo furono poi assolte). Ma, soprattutto, il presidente dell’Anm non cede sul fronte dei rapporti con la politica, affermando che a 24 anni di distanza da Tangentopoli i politici "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi", perché oggi "rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto". Gli schiaffi di Renzi alla repubblica delle manette Leggere Davigo a Teheran Non si può spacciare lo sputtanamento per libertà di stampa Renzi e la sfida con gli altri ayatollah Scende in campo il Partito della nazione giustizialista Stop intercettazioni, adesso Sulla situazione della giustizia italiana in senso stretto, sul nostro sistema giudiziario lento, inefficiente e dannoso sotto ogni punto di vista, nessuna parola, o quasi. Un commento Davigo lo riserva solo alla situazione carceraria, fonte di innumerevoli condanne europee e internazionali contro il nostro paese, e lo fa dichiarando che per risolvere il problema non servirebbero nient’altro che "nuove carceri", perché sarebbe "un dato oggettivo che l’Italia è il paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione". Per le carceri sovraffollate, dunque, la soluzione è solo edilizia (più carceri) e di principio (più manette). Insomma, tra i tanti interventi pubblici degli ultimi giorni, tra le tante parole spese, il rappresentante del sindacato della magistratura ha evitato paradossalmente di affrontare il grande tema della giustizia italiana. Lo ha fatto al suo posto invece, in maniera ripetuta e convinta, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Phillips, che sia in un intervento al Salone della Giustizia ad inizio settimana, sia in una lezione tenuta ieri all’università Bocconi, ha sottolineato come l’Italia si collochi solo all’ottavo posto per investimenti dagli Stati Uniti, e che "la giustizia è al primo posto" nel frenare questa attrazione di business. Phillips ha evidenziato che i manager americani sono scoraggiati dall’investire in un paese in cui la giustizia "è troppo lenta", dove "ci vogliono oltre tre anni per una decisione di primo grado su una semplice questione contrattuale". Non solo, l’ambasciatore americano ha anche richiamato l’attenzione sulla facilità con cui alcune procure avviano cause per presunte frodi fiscali nei confronti di grandi multinazionali, affermando che i giudici italiani "dovrebbero essere più pragmatici" e tenere conto delle conseguenze delle loro decisioni. A furia di scontri Renzi-magistrati la riforma della giustizia resta al palo di Davide Giacalone Libero, 23 aprile 2016 L’ennesimo scontro di chiacchiere, fra politica e giustizia, o, meglio, fra politici e magistrati, serve a nulla. Scena tante volte e inutilmente ripetuta. Eppure si presenta un’occasione, nel momento in cui a capo dell’Associazione nazionale magistrati si trova chi da venticinque anni prova a "girare l’Italia come un calzino", mentre a Palazzo Chigi si trova un capo della sinistra, finalmente accortosi che c’è stata "barbarie giustizialista". Sarà sprecata, l’occasione, ma c’è. Piercamillo Davigo è una persona seria. È escluso che reciti, crede in quel che dice. E se dice che la presunzione d’innocenza è un fatto tecnico, mentre l’accusa è più che sufficiente affinché l’accusato debba rendere conto ai suoi pari, di quel che ha detto o fatto, lo pensa veramente. Se dice che le norme che regolano le intercettazioni telefoniche sono in grado di tutelare la vita privata degli intercettati, nel mentre li sentiamo contarsi a vicenda i peli nel naso, dice una cosa di cui è seriamente convinto: se scopro che vai con un trans metto la notizia nel fascicolo, benché non sia reato, perché il tuo avvocato difensore potrebbe trovarci l’alibi mancante, la dimostrazione che mentre eri con quella (o quello) non potevi certo essere altrove a delinquere. Una specie di incubo totalitario, ma non privo di forza intellettuale. Essendo una persona seria, però, Davigo non può non riconoscere che un tale immenso potere, consegnato nelle mani di chi si trova a gestirlo perché ha superato un concorso, comporta anche delle responsabilità. L’infermiera arrestata perché pluriassassina e poi liberata perché non sussistono gli elementi della custodia cautelare, è comunque una cittadina che ancora a lungo dovrà pagare le spese legali della disavventura, mentre la sua immagine è stata e rimane di dominio pubblico. Nessuno chiede ai magistrati di non commettere errori (non sarebbe umano), ma occorre pagarli. Matteo Renzi è una persona determinata. Fin troppo. E crede alla prevalenza della politica, non fosse altro perché fa il politico. Sa benissimo che serve a un piffero prendersela con la "barbarie giustizialista", perché il suo mestiere consiste nel porre rimedio. Se ha alzato la voce permettere le mani avanti, in vista di complicazioni giudiziarie, come i soliti ammiccanti e bene informati dicono, ha perso tempo. Se, invece, presterà orecchio alle tesi di Davigo, condivise dalla maggioranza dei magistrati, che lo hanno eletto loro presidente, allora potrà rendersi utile, riconciliando potere e responsabilità. I rimedi sono: a. separazione delle carriere (come in tutto il mondo civilizzato); b. cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. L’Anm strillerà, ma sarà facile rispondere: la politica non ha diritto di parlare di giustizia a orologeria ed è giusto che voi siate liberi nel fare il vostro lavoro, ma avendo a lungo studiato il diritto vi sarete accorti che le leggi non le fate voi, ma il Parlamento. Un procuratore ringhiarne e severissimo, come Davigo, potrebbe anche essere benemerito. Ma quando comincia a perdere processi, non amministrati da suoi colleghi, lo si mette alla porta. Per incapacità. Quelle due riforme risolverebbero anche il tema delle intercettazioni, perché a pubblicare i sospiri d’alcova per poi vedere gli accusati restare innocenti si propizia il proprio cambio di mestiere, ove l’accusatore abbia il compito di convincere un non collega a condannare l’imputato. Si può perdere una volta, si può perdere diverse volte, ma se si perde più di quanto si vinca, avendo scelto di accusare, manca la vocazione. Renzi avrà il coraggio e la forza di fare cose così ovvie? Non credo. Vedo il brodino insipido messo a bollire sulle intercettazioni e m’accorgo che s’è imboccata la solita strada: minuscole interdizioni, che non cambiano nulla. L’essere accostati a Silvio Berlusconi, in questa materia, comporta un giudizio morale solo per gli stolti e i faziosi. Il guaio è riprodurne le polemiche improduttive, perdendo altro tempo e occasioni. L’avvocato Niccolò Ghedini: "Magistratura e politica tornino a parlare" di Carlo Fusi Il Dubbio, 23 aprile 2016 Matteo Renzi al Senato si scaglia contro la "barbarie giustizialista" e Piercamillo Davigo, capo dell’Anm, replica che i politici oggi rubano più di ieri "e senza vergogna". Atmosfera mefitica. Manca solo che Sergio Mattarella vada in tv a parlare di tintinnio di manette e oplà, si torna indietro di 25 anni, a Mani Pulite e allo scontro furibondo tra toghe-politica. Niccolò Ghedini - parlamentare, storico avvocato di Berlusconi e critico senza incertezze del cosiddetto rito giudiziario ambrosiano - è sconcertato: "Il clima è certamente difficile. Viene reso ancora più complicato da dichiarazioni come quelle del dottor Davigo, magistrato preparato e competente, che mi sembra travalichino la normale dialettica tra magistratura e politica". Davvero si sorprende, onorevole? Lo scontro tra giudici e politici in Italia è la madre di tutte le battaglie... "Beh, i toni e i modi del dottor Davigo appaiono inusuali rispetto a quelli usati negli ultimi anni dall’Anm, piuttosto contenuti. Anche perché non risultano legati a specifici avvenimenti processuali". Dunque c’è la volontà di avvelenare i clima? Si tratta di questo? Mettiamola così. Se la Corte dei Conti stima in 60 miliardi la cifra complessiva della corruzione, Davigo ha ragione o no a dire che i politici oggi rubano più di prima? Non mi pare proprio. Intendiamoci, in ogni categoria ci sono comportamenti negativi: accade anche nella magistratura. Certamente ci sono politici che hanno gestito malamente il denaro pubblico e se hanno commesso reati ben venga in questi casi l’azione dei giudici. Facendo però attenzione a quelle indagini e a quelle accuse che poi non hanno trovato riscontro nelle sentenze. Ben vengano ma? Dove sta il ma? Non credo ci debba essere una anticipazione di giudizio prima della sentenza definitiva. Sarei un po’ più prudente rispetto a valutazioni così tranchant, negative nei riguardi di tutta la classe politica. È come se di fronte ad un magistrato che sbaglia sostenessimo che tutti i magistrati sono ignoranti e non capiscono nulla. Non è così. Vede: ci sono migliaia e migliaia di amministratori politici negli ottomila e passa comuni italiani. I comportamenti antigiuridici vanno colpiti, ma generalizzare è fuorviante. Debbo insistere: tra magistratura e politica sembra di rivivere il film di 25 anni fa. Ci soffermiamo su Davigo: e Renzi che in Parlamento si scaglia contro la barbarie giustizialista? No, scusi. Renzi - che sicuramente non gode di nessuna delle mie simpatie politiche - ha espresso una considerazione perfino banale: e cioè che non ci deve essere una criminalizzazione prima della condanna. Lo dice la Costituzione. E invece Davigo dice che la destra ha cancellato il falso in bilancio. Opera sua? Dice una grave inesattezza. La destra non ha cancellato il falso in bilancio addirittura, come afferma il dottor Davigo, "attirandosi la condanna della comunità internazionale". Non c’è stata alcuna abolizione, piuttosto una modifica. Siamo andati alla Corte di giustizia europea ed è vero: sono stato io a discutere la causa. Ebbene la Corte ha ritenuto che la nuova formulazione fosse compatibile con le regole Ue. Giudizio peraltro confermato per ben due volte dalla nostra Corte Costituzionale. Però la sinistra ha varato leggi che invece di contrastarla favoriscono gli evasori fiscali. Almeno su questo giudizio di Davigo sarà d’accordo. Affatto. Piuttosto la sinistra ha varato leggi virulente e forcaiole, a cominciare dall’autoriciclaggio per finire con il nuovo falso in bilancio. Mi pare davvero incredibile accusare la politica di non fare abbastanza. Per non parlare della prescrizione. Parliamone invece. È un falso problema. Se vige un processo di tipo accusatorio dove la difesa deve portare prove a discarico, deve essere per forza un processo con tempi brevi altrimenti dove le trovo io dopo anni le prove a favore del mio assistito? Mica siamo nelle serie tv di Cold case. Le ripropongo il quesito di fondo. Come bisogna concretamente operare affinché due poteri dello Stato come politica e magistratura collaborino lealmente invece di scontrarsi e bloccare il Paese in una infinita riedizione dello scontro tra guelfi e ghibellini? Bisogna fare meno dichiarazioni pubbliche, a cominciare dalle mie, e sedersi attorno ad un tavolo. Perché se ci si confronta senza retropensieri la soluzione si trova. Magistrati ed avvocati potrebbero dare un forte contributo alla politica per trovare soluzioni normative equilibrate tra i diritti delle vittime, degli imputati, e le esigenze dello Stato di repressione dei crimini. La mia esperienza è che quando avvocatura e magistratura, in particolare l’Anm, si sono incontrate per discutere, quasi sempre è emersa una linea comune. È il mio auspicio. Il dottor Davigo, al di là di alcune affermazioni, è persona di elevata cultura tecnico-giuridica e può senz’altro essere un interlocutore importante per tutti. E la politica? Lei svolge un doppio ruolo: è un politico e anche un avvocato. Cosa deve fare la politica per impedire che il discredito di oggi, quel "sono tutti ladri" che risuona dovunque, scompaia? Finché non si troverà un meccanismo che riporti ad una netta separazione tra politica e magistratura, com’era fino al 1993 con l’articolo 68 della Costituzione... Sta parlando dell’autorizzazione a procedere? Vorrebbe reintrodurla? Bisogna o prevedere dei filtri com’era con l’articolo 68 oppure è indispensabile che i processi dei politici godano di una corsia preferenziale. Non è possibile che un politico venga accusato di un comportamento antigiuridico e poi il suo processo rimanga appeso per anni. Sia il politico sia l’opinione pubblica, i cittadini-elettori, hanno la fondamentale necessità di sapere se quell’accusa è vera o no. L’autorizzazione a procedere era la cosa migliore, mi rendo conto che reintrodurla è complicato. Si potrebbe pensare, come anche ambienti di sinistra avevano suggerito, che quest’opera di filtro sia svolta dalla Consulta. Ma se ciò non fosse possibile, la corsia preferenziale che ho proposto è decisiva per verificare se le tesi accusatorie sono fondate o meno. Nel frattempo che succede? Nel frattempo la politica deve fare il massimo per operare in trasparenza; e la magistratura il massimo per evitare indagini che a volte non appaiono particolarmente serene. Vale anche per la custodia cautelare che mi sembra in varie circostanze utilizzata con meccanismi poco equilibrati. E le intercettazioni? Vanno abolite? Le intercettazioni sono indispensabili per le indagini. Ma è altrettanto indispensabile evitare che esse, pur lasciando il filtro della difesa che ne deve valutare l’utilità o meno, finiscano sui giornali se non sono penalmente rilevanti. Lei ha parlato di filtro e di corsia preferenziale per i politici. Ma un politico indagato deve dimettersi o no? Assolutamente no come automatismo. Fermo restando che è una decisione che riguarda la singola sensibilità della persona o le regole che vigono nel partito al quale è iscritto. La verità è che noi abbiamo assistito a centinaia di casi con una ipotesi accusatoria infondata. In un Paese in cui vige l’obbligatorietà dell’azione penale è evidente che il politico non ha l’obbligo di dimettersi finché non c’è una sentenza definitiva. Aggiungo che a mio avviso la Severino è una legge totalmente sbagliata, particolarmente quando viene applicata a sentenze provvisorie come è capitato con De Magistris. Spero che l’Europa esamini in tempi brevi questa norma che, ripeto, è giuridicamente e politicamente insensata". Le parole di Davigo: così ha invaso la sfera politica (sbagliando) di Zeno Velati Il Dubbio, 23 aprile 2016 Ha un bel dire Matteo Renzi quando, arringando il Senato, predica contro il giustizialismo, per difendere invece le ragioni della giustizia. Parole vuote, prive di senso, semplicemente perché nel momento stesso in cui egli le pronunciava, Piercamillo Davigo, insediandosi quale Presidente della Associazione Nazionale Magistrati, elargiva in ogni dove il suo credo comportamentale del ruolo ricoperto, dispensando valutazioni e giudizi critici al governo, al pari di quanto sarebbe legittimato a fare il capo delle forze di opposizione. Il punto è proprio questo. Renzi sembra non comprendere come l’origine di quel giustizialismo che egli a parole tanto combatte sta proprio qui: vale a dire nel fatto che non solo l’Associazione Nazionale Magistrati ha da molti anni amplificato a dismisura il proprio perimetro d’azione, ma anche che il suo Presidente ormai parla il linguaggio medesimo della politica. Queste, non altre, sono le premesse teoretiche, politiche e perfino pratiche del giustizialismo, cioè di quella perversa ideologia secondo la quale ogni problema di carattere sociale e politico va ricondotto a soluzione nell’ottica dell’operato dei giudici, rimanendo questi in ogni caso i depositari unici ed esclusivi della verità e della pubblica moralità. Infatti, la responsabilità che ciò accada non è tanto di Davigo o dei magistrati associati, dal momento che appartiene alla fisiologia dei sistemi sociali che ogni organismo - al pari della Associazione Nazionale Magistrati - manifesti tendenze espansive del proprio ruolo, cercando di occupare spazi di non propria stretta pertinenza; la responsabilità è invece, molto di più degli organi di governo e, prima di tutto, del capo del governo, Matteo Renzi. Sarebbe ora che questi, liberatosi gli occhi dalle fette di salame che gli impediscono la vista, cercasse di capire e perciò di denunciare alcune cose. Innanzitutto, c’è da capire che bisogna gridare a viva voce che l’Associazione Nazionale Magistrati è soltanto una associazione privata con finalità di carattere sindacale e perciò non potrà mai ambire - nonostante gli sforzi in senso contrario - ad acquisire un ruolo politico o parapolitico. In secondo luogo - ed è un corollario della precedente osservazione - il Presidente delle suddetta Associazione non può vantare alcun ruolo di reale legittimazione nella interlocuzione con il governo, con il Parlamento e in genere con gli organi costituzionali. Ne viene semplicemente che, di fronte alle esternazioni di Davigo - o di chi per lui - il governo dovrebbe limitarsi a non riceverle, ad evitare di controbattere, a non conferire legittimazione a chi non la possiede di suo. È infatti appena il caso di notare come tale legittimazione Davigo - e gli altri prima di lui nel suo ruolo - se la siano conquistata sul campo, facendo in modo che gli organi costituzionali propriamente detti si piegassero a interloquire con loro a pieno titolo. Se perciò Renzi - per usare una terminologia processualistica - evitasse di "accettare il contraddittorio" con Davigo e con altri organismi della magistratura associata, egli in un sol colpo otterrebbe diversi risultati positivi. Da un primo punto di vista, relegherebbe quella Associazione nel ruolo che effettivamente le compete, quello di sindacato delle toghe. Da un secondo punto di vista, riaffermerebbe il ruolo primario dell’azione di governo, rispetto ad indebite influenze che possono spingersi fino ad evidenti condizionamenti. Da un terzo punto di vista, farebbe resuscitare l’avvilito principio della divisione dei poteri, oggi quanto mai negletto e giornalmente calpestato dalla ipertrofia dell’ordine (non del potere) giudiziario. Ce la farà Renzi a conseguire tutti questi risultati di cui oggi avremmo assoluto ed urgente bisogno? E, prima ancora, sarà capace di liberarsi dai lacci e dalle bende della ideologia dominante, quella appunto giustizialista, che invece predica l’esatto contrario? Per farlo, Renzi dovrebbe innanzitutto comprendere che la sua stessa esistenza, come capo di un governo occidentale, è legata a doppio filo al raggiungimento di quegli obiettivi, senza i quali il suo governo - come altri prima di questo - è destinato a soccombere. Ma il peggio è che a soccombere saranno prima gli italiani. Noi. La corruzione italiana è al top. Superiamo persino i record tragici di Grecia e Romania di James Hansen Italia Oggi, 23 aprile 2016 Se ha ragione la Commissione Europea, l’Italia è completamente marcia. Secondo un sondaggio ufficiale "Eurobarometer", condotto tra settembre e ottobre dell’autunno scorso, il 98% delle aziende italiane interpellate ritiene che le pratiche corruttive siano "widespread" (molto diffuse) nel Belpaese. Solo l’1% ha risposto che sono "rare". Forse questi non hanno capito la domanda. È un record assoluto nei 28 paesi dell’Unione. Supera perfino i risultati (pur tragici) della Grecia (96%) e della Romania (95%). Il primato della virtù va invece alla Danimarca (11%). Come se ciò non bastasse, le aziende italiane hanno anche le idee molto chiare sulla fonte di tanto malcostume. Alla domanda: "Nel vostro paese, a livello nazionale, quant’è comune l’uso delle bustarelle o l’abuso della posizione tra i politici, i funzionari dei partiti o gli alti burocrati?", l’88% ha riposto che pure queste sono pratiche "molto diffuse", mentre il 5% le ha ritenute "rare" e l’altro 7% ha detto "non so". Va un po’ meglio, seppure non molto, a livello regionale o locale, dove la percezione degli abusi da parte di politici e funzionari (e anche di chi paga, ovviamente) è confermata dall’81% dei rispondenti. L’Italia recupera invece diverse posizioni quando si chiede del nepotismo e della semplice "raccomandazione" senza passaggio di buste. Solo per il 63% dei rispondenti sono "widespread" (molto diffuse, ripeto). Il risultato è forse ambiguo in quanto non è detto che chi risponde li identifichi come fenomeni "problematici". Comunque sia, in questa categoria, l’Italia figura solo al quarto posto nell’Unione, appena davanti alla Francia e dietro alla Romania, la Grecia e la Bulgaria. Sono dati comunque sconfortanti. Ovviamente, è possibile che le aziende sbaglino, che la loro sia solo una convinzione infondata, basata (così, per sentito dire) sulla nozione che ci sia gente poco per bene in giro. Però, se non fosse così, allora la corruzione italiana è universale, non meramente "comune". Non sarà una consolazione, ma occorre notare che l’intera Unione Europea, nel suo insieme, non fi gura tanto bene nella sorprendente ricerca della Commissione. Oltre 7 aziende su 10 hanno confermato agli intervistatori che la corruzione sia diffusa nel proprio paese. Attraverso tutta l’Ue il 79% dei rispondenti conviene che la radice del problema stia nei rapporti troppo stretti tra affari e politica. Una difficoltà nell’interpretazione dei dati (e del verdetto estremo che suggeriscono) consiste nell’incertezza su cosa sia esattamente la corruzione. Il problema è particolarmente evidente quando i ricercatori Ue tentano di definire attraverso le loro domande esattamente a che punto un regalo di cortesia a un interlocutore diventi piuttosto un atto illecito. Per il 9% degli interpellati, qualsiasi regalia (indipendentemente dal valore) a un pubblico ufficiale che "fa un favore" sarebbe da considerarsi una forma di corruzione. Altri, molto più numerosi, il 66%, fissano il "valore corruttivo" a oltre cento euro, mentre per il 14% la soglia è di €200. È rimarchevole che la risposta più frequente in Italia sia la stessa che danno gli inglesi. In entrambi i paesi, per il 48% delle aziende coinvolte nello studio, il valore inferiore ai cinquanta euro è un gesto di semplice amicizia; al di sopra sarebbe - forse - un crimine. Nel 2015 diminuiti i furti in appartamento di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2016 La Lega vuole introdurre una sorta di "presunzione assoluta". Il Pd si è mosso sul piano dell’"errore" in cui è indotto chi reagisce. Roma, Torino, Milano: tre grandi città che, nel 2015, hanno registrato un calo, rispetto al 2014, dei furti in appartamento, a differenza dei furti in strada per i quali si è verificato, invece, un aumento. I dati raccolti dal Sole 24 ore negli uffici di Procura delle tre città smentiscono l’allarme che ha accompagnato il dibattito politico, parlamentare e mediatico sulla "legittima difesa", fondato non solo sulla "percezione di insicurezza" dei cittadini ma addirittura sul presunto aumento dei furti in casa. Non è così. La Procura della Repubblica di Roma ha ricevuto, nel 2015, 1.559 denunce per il reato previsto dall’articolo 624 bis (che comprende furti in appartamento e scippi), a fronte delle 1.881 del 2014; quella di Torino ha contato 5.992 denunce per lo stesso reato, rispetto alle 9.983 del 2014 e la Procura di Milano 1.964 a fronte di 3.259 dell’anno precedente. Non c’è dubbio che nel 2014 i furti siano stati in vetta alla classifica dei reati, in controtendenza rispetto alla diminuzione di altre forme di criminalità, come testimoniano i dati dell’Istat relativi a quell’anno. I numeri delle Procure di Roma, Torino e Milano confermano questo trend anche nel 2015, ma limitatamente ai furti di strada non anche per quelli in appartamento. Si tratta di una fotografia parziale della penisola, ma pur sempre significativa poiché riguarda tre grandi città, che comunque fa cadere uno degli argomenti più gettonati a sostegno della riforma della "legittima difesa" proposta dalla Lega e in parte avallata dalla maggioranza di governo, sia pure con una serie di distinguo sia al proprio interno sia rispetto all’opposizione. La Lega propugna infatti di introdurre una sorta di "presunzione assoluta" di legittima difesa ogni volta che un ladro si introduce in casa, facendo quindi scattare automaticamente la scusante per chi reagisce ferendo o uccidendo: la difesa è legittima sempre, e il giudice può solo prenderne atto. Una soluzione che, proprio a causa di questo automatismo, odora di incostituzionalità, quanto alla sua ragionevolezza. Il Pd si è mosso su un piano diverso dalla "legittima difesa", e cioè quello dell’"errore" in cui è indotto chi reagisce ferendo o uccidendo perché crede di trovarsi in una situazione di pericolo (che come tale legittimerebbe la sua difesa): se l’errore è frutto di un "grave turbamento psichico" determinato dal ladro, la reazione non va punita, neanche a titolo di colpa. Una soluzione che lascia sempre al giudice la decisione, sulla base di una valutazione caso per caso sullo stato psicologico di chi spara (o comunque ha una reazione aggressiva sproporzionata). Valutazione ovviamente imprescindibile, che già oggi viene effettuata, anche se non sempre, e non da tutti i giudici, attribuendo allo stato psicologico (il "grave turbamento psichico") il peso che secondo il Pd dovrebbe avere, portando così all’assoluzione. "Alcune sentenze di assoluzione valutano già oggi la reazione di una persona impaurita e turbata che ha agito temendo il pericolo di un’aggressione per la propria incolumità o per quella dei suoi familiari, se le circostanze concrete non permettono di escludere un’evoluzione dell’aggressione in senso lesivo dell’integrità fisica" osserva Ezia Maccora, Gip a Bergamo autrice, fra l’altro, di una sentenza che a gennaio del 2014 assolse dall’accusa di omicidio un uomo che aveva sparato a un ladro, uccidendolo (sentenza confermata in appello). L’Aula della Camera ha rinviato la riforma in commissione per un supplemento di istruttoria. Anche se le vere ragioni sono politiche (evitare strappi nella maggioranza e contrapposizioni su un tema "popolare" come la legittima difesa a oltranza), mai come in questo caso il rinvio è una saggia decisione per una riforma che va ponderata, che rischia di creare un clima da far west e della quale, soprattutto, non c’è alcuna urgenza, come dimostrano i dati del 2015 delle Procure nonché i margini di interpretazione della normativa vigente che i giudici hanno, già oggi, per valutare il "grave turbamento psichico". Gratteri: Oggi contano più i mafiosi dei politici. E co-gestiscono i comuni Il Velino, 23 aprile 2016 Il nuovo procuratore capo di Catanzaro: Renzi su Magistratura poteva fare di più. Ormai è tardi. Dare un tablet a tutti i detenuti, si risparmierebbe. Parla di tutto, di attualità a 360 gradi il nuovo procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri a pochi giorni dalla nomina nel corso di Otto e mezzo, in onda su La7. A partire dalle dichiarazioni di Davigo. "Davigo è una persona intelligente, preparata e brillante ma penso che abbia sbagliato a generalizzare, bisogna sempre entrare nello specifico. Se si dice che ‘sono tutti ladri’, facciamo il gioco dei ladri", spiega. Ma hanno vinto i corrotti?: "c’è stato un abbassamento della moralità e non si ci vergogna più. Sono aumentate le tangenti. Una volta i mafiosi andavano dai politici per piccoli favori, oggi sono i politici che vanno dai capimafia per chiedere pacchetti di voti. Oggi hanno più potere le famiglie mafiose dei parlamentari", spiega. Lo Stato non dà risposte. Le mafie in alcuni paesi stanno indirizzando il consenso elettorale e si stanno sempre più orientando verso le elezioni comunali e regionali, perché li ci sono i soldi", prosegue Gratteri. "Si mette nella lista le persone che garantiscono più soldi, poi una volta scoperto il legame con la mafia, nessuno ne sapeva nulla". Il nuovo procuratore capo di Catanzaro spiega anche che "la Bassanini ha dato involontariamente più potere alle mafie in quanto ha tolto ‘l’ombrello’ che i sindaci avevano quando i mafiosi andavano a chiedere qualche delibera. Quindi il mafioso co-gestisce il comune". E sul dialogo con la magistratura? "Renzi potrebbe fare di più". precisa. "Sulla Giustizia, potrebbe fermarsi un attimo a pensare e a leggere ciò che è già sul tavolo. Gli direi di leggere almeno i titoli della mia relazione", Ma "non penso che Renzi abbia intenzione di attaccare i magistrati o di rallentare il lavoro della magistratura, non ho avuto questa percezione. Però mi sarei aspettato di più Mi aspettavo che almeno il 70 per cento delle normative presentate fosse pronto per essere discusso in Parlamento. Così non è stato e non so perché non si sia andato avanti. E penso che oggi non ci sia più la forza per portare avanti una riforma del genere". "In Parlamento - prosegue poi - ci sono delle forze molto forti e trasversali. Far funzionare il processo penale vuol dire controllare il manovratore, e vuol dire avere processi molto più veloci che non portano alla prescrizione. Ogni volta che facciamo un fermo di 40 persone spendiamo circa 40mila euro di carta e forza lavoro". Secondo Gratteri "si dovrebbe dare al detenuto un tablet che può solo ricevere, non inviare, che tiene per tutta la durata della detenzione. Quando esce gli si farà un cd masterizzato con tutti i contenuti". "Sulle intercettazioni, ciò che non serve al corpo dei capi di imputazione, non dovrebbero uscire sui giornali. L’intercettazione della Guidi non andava divulgata". Sardegna: migranti nelle carceri chiuse, pronte strutture di Iglesias, Monastir e Quartucciu Sardegna Live, 23 aprile 2016 "È scattato da poche ore il piano del ministero dell’interno per riempire di migranti le carceri sarde chiuse nei mesi scorsi. Il primo contingente di circa 200 migranti è destinato subito nel carcere di Iglesias. Per tutto il giorno di ieri e di oggi il personale inviato dal carcere di Uta è impegnato a svuotare da cima a fondo la struttura. Nel frattempo negli uffici della prefettura è giunto un dispaccio ulteriore del ministero dell’interno: in arrivo dalla Sicilia 750 migranti". Lo ha denunciato stamane il deputato di Unidos Mauro Pili con un’interrogazione urgente al Ministro dell’interno. "Con una spregiudicatezza senza precedenti e senza alcun tipo di remora il ministero dell’interno, attraverso la prefettura di Cagliari, ha fatto scattare l’operazione che prevede di riempire il carcere di Iglesias di migranti. La decisione che doveva stare riservata è stata messa a punto tra i vertici del ministero della giustizia con quelli dell’interno e già da ieri l’operazione è stata avviata in gran segreto. Già ieri una squadra di agenti ha iniziato lo sgombero di ogni ultimo suppellettile dalla struttura di Iglesias e le operazioni proseguiranno anche nella giornata di oggi. Nel contempo da fonti interne viene dato per imminente, sia negli ambienti delle forze dell’ordine che della stessa prefettura, l’invio in Sardegna di almeno nuovi 750 migranti". "La decisione di utilizzare il carcere di Iglesias - spiega Pili - era stata già presa quasi un anno fa quando denunciai quella scelta scellerata mentre ora viene messa in atto con il silenzio di tutti. É gravissimo il silenzio dell’amministrazione comunale di Iglesias e ancora più grave quello della regione. Il ministero dell’interno, nonostante l’emergenza in Sardegna stia raggiungendo soglie non più sostenibili, sia sul piano della qualità dell’accoglienza che quello sanitario, continua a destinare all’isola un contingente di migranti ormai ingestibile. Non è un caso che i reparti di infettivi del sud Sardegna siano ormai pieni e la situazione sanitaria sia in piena emergenza come riportano i report sanitari delle strutture. Ed è gravissimo - denuncia Pili - il tentativo di mantenere il silenzio su questa situazione solo per non disturbare il manovratore". "La prefettura, secondo fonti attendibili, avrebbe dato disposizioni anche per utilizzare in tal senso anche il carcere minorile di Quartucciu. Il piano nuovi sbarchi in Sardegna sarà attuato con il metodo dell’emergenza, niente di concordato ma dinanzi alle navi cariche di profughi e migranti nessuno potrà dire più niente. Il tutto passa attraverso una vertice in prefettura dopo che il ministero ha deciso di inviare in Sardegna 750 nuovi migranti. Una prefettura incapace di reagire nonostante le tantissime situazioni di disagio nella gestione sia sul piano logistico che igienico sanitario della situazione. La comunicazione di utilizzare le carceri era stata già formalizzata con nota già divulgata nei mesi scorsi, ma da ieri si fa sul serio. "Si tratta di un piano operativo che riguarderà innanzitutto la Sardegna. E la scelta riguarda proprio la sua caratteristica principale: il suo essere isola e isolata. Una decisione scandalosa e contro tutte le disposizioni internazionali. Si vuole creare una vera e propria barriera fisica che isoli gli immigrati dal resto del continente e impedisca loro di muoversi nel territorio nazionale con troppa facilità. Anzi, la Sardegna sarebbe di fatto un vero e proprio campo di isolamento. Si tratta - ha detto il deputato di Unidos - di un piano scellerato e frutto solo di un retaggio statale che vede la Sardegna come cayenna, una volta per i mafiosi, una volta per i migranti. A Roma pensano di poter isolare i profughi e migranti in genere nella nostra regione solo con lo scopo di allentare la pressione sul resto del continente. La realtà, come si è dimostrato in questi ultimi giorni, è completamente diversa sottoponendo agenti e forze dell’ordine ad un impegno oltre misura per contenere i migranti nei porti, visto che l’unico loro obiettivo era quello di lasciare il territorio sardo. Si tratta di un comportamento del ministero davvero irrazionale e scandaloso. Spendono soldi per trasferire i migranti in Sardegna e poi dopo giorni di tensione sono costretti a spendere altri soldi per trasferirli dall’altra parte del mare. Uno spreco di risorse pubbliche inaudito. A partire dalla chiusura delle carceri di Iglesias, Macomer e Quartucciu". "L’operazione Iglesias scattata ieri - specifica Pili - è stata avviata all’insaputa di tutti. Una squadra di agenti penitenziari è stata di punto in bianco mandata nella casa circondariale di Iglesias in località Sa Stoia. Il carcere era stato vergognosamente chiuso quasi un anno fa con la scusa del freddo e da allora non è stato mai riaperto. Gli agenti hanno finito di caricare tutto quello che era di proprietà dell’amministrazione penitenziaria. Registri, suppellettili, attrezzature informatiche e poche altre cose. La disposizione data al responsabile della squadra era tassativa: portar via tutto quello che riguarda la gestione del personale e dei detenuti. Il carcere deve passare di gestione. Dalla giustizia passa al Ministero dell’Interno. Nel carcere di Iglesias, secondo il piano ministeriale, si pensa di stivare non meno di migranti, utilizzando anche la caserma agenti. Una decisione anche per il luogo prescelto un carcere, che la dice tutta sul grado di accoglienza che viene messa in campo. Siamo alla violazione di ogni regola di buon senso e di responsabilità. Un piano che va bloccato per evitare che la situazione degeneri proprio per la mala gestione di un’accoglienza raffazzonata e inadeguata sotto ogni punto di vista". Veneto: fondo per le vittime della criminalità, il governo impugna la legge regionale Il Mattino di Padova, 23 aprile 2016 Bocciato il patrocinio legale gratuito riservato ai solo residenti in regione da almeno 15 anni: "Viola il principio di uguaglianza e la competenza statale in materia di ordine pubblico". Nuovo scontro Roma-Venezia. Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie Enrico Costa, ha esaminato venerdì 22 aprile 2016 sette leggi delle Regioni. Impugnata la legge della Regione Veneto n. 7 del 23/02/2016 "Legge di stabilità regionale 2016", in quanto una norma, che istituisce un Fondo regionale per il patrocinio legale gratuito a sostegno dei cittadini veneti colpiti dalla criminalità e residenti nel territorio veneto da almeno quindici anni viola il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e viola altresì le previsioni costituzionali di cui all’articolo 117, comma secondo, lett. h e lett. l), che riservano alla esclusiva potestà legislativa statale la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, nonché la materia dell’ordinamento penale. In poche parole, la Regione Veneto aveva istituito un fondo per pagare la difesa legale delle vittime di episodi di criminalità che fossero state in qualche modo chiamate a giudizio (ad esempio, per eccesso di legittima difesa), ma riservandolo solo ai veneti "doc", cioè residenti in regione da almeno 15 anni. Durissima la reazione di Zaia: "Sia chiaro fin d’ora che la Giunta regionale ed io personalmente difenderemo fino in fondo il principio di civiltà secondo il quale il cittadino colpito dalla criminalità va difeso ed aiutato ad avere giustizia. Lo stesso vale per la difesa del diritto delle nostre Polizie Municipali e delle nostre Forze dell’Ordine ad avere quelle tutele che lo Stato non sa o peggio non vuole garantire loro". "Sono punti cardine del programma - incalza Zaia - incardinati in una legge votata e approvata dal Consiglio regionale. Sappia il Governo, sempre restìo quando si tratta di difendere il diritto all’incolumità dei cittadini e dei tutori dell’ordine, che ho già dato mandato all’Avvocatura regionale di resistere in giudizio contro questa assurdità, per non definirla peggio". Un’altra norma, che istituisce un Fondo regionale per il patrocinio legale ed il sostegno alle spese mediche degli addetti delle Polizie locali e delle Forze dell’ordine travalica i limiti della potestà legislativa regionale, invadendo l’ambito assegnato dalla Costituzione alla legge dello Stato sia in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato sia in materia di ordinamento civile e penale: ne consegue la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. g) e l) della Costituzione, e del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. Pisa: muore in cella, aperta un’inchiesta. La figlia: "Voglio giustizia" Il Tirreno, 23 aprile 2016 Un malore improvviso intorno alle 6,30, i soccorsi e poi il decesso accertato verso le 7. Una parabola fatale e rapida quella di Armando Principe, 55 anni, originario della Campania. Era detenuto da circa sei mesi, proveniente da Volterra, nel carcere Don Bosco dove la presenza della clinica sanitaria era stata ritenuta una risposta sufficiente per i suoi problemi di diabete. Il corpo è stato trasferito all’istituto di medicina legale su disposizione del sostituto procuratore di turno, Flavia Alemi in attesa di effettuare l’autopsia prevista per sabato 23 aprile. La figlia di Principe, Marika, originaria di San Giovanni a Teduccio (Napoli), residente a Piombino dove era domiciliato anche il papà, si è affidata all’avvocato di Livorno, Barbara Luceri per chiedere giustizia. "Mio padre stava sempre peggio da quando è stato trasferito da Volterra a Pisa - spiega -. L’avvocato aveva chiesto la scarcerazione per l’incompatibilità con la detenzione in carcere, ma non ci hanno mai risposto. Vogliamo sapere come è morto e se ci sono responsabilità". Oristano: quaranta capi clan mafiosi nel carcere di Massama di Valeria Pinna L’Unione Sarda, 23 aprile 2016 Gli ultimi arrivati nel carcere di Massama sono tutti capi-clan. Quaranta esponenti di spicco della criminalità organizzata detenuti in un penitenziario che di fatto ormai è ad alta scurezza, anche se secondo l’Unione di sindacati di polizia penitenziaria "viene gestito come se fosse di media sicurezza". Il sindacato non fa sconti e dipinge una situazione al limite sia per i detenuti che per gli agenti, tanto da arrivare a chiedere la sostituzione dell’attuale direttore. Le proteste dei detenuti vanno di pari passo con quelle degli agenti di polizia penitenziaria: i reclusi, complessivamente oltre 300, sono per la maggior parte mafiosi, camorristi, 40 sono gli ex 41 bis e molti sono ergastolani. Tra loro ci sono esponenti della famiglia Laudani, storico clan della mafia catanese e ancora l’ergastolano Domenico Papalia che nel febbraio scorso lamentò l’impossibilità di utilizzare una stampante necessaria per i suoi studi. Tante le lamentele dei detenuti che protestano per il sovraffollamento e per l’impossibilità di svolgere attività che invece sono ammesse negli altri penitenziari, ad esempio frequentare la palestra. Ma come spiega il segretario regionale dell’Uspp Alessandro Cara non è possibile perché il personale di polizia non è sufficiente a garantire queste attività. Gli agenti sono appena 164, ma in realtà dovrebbero essere 258. Fino a qualche giorno fa i detenuti protestavano battendo le stoviglie alle grate delle celle, adesso sono i poliziotti pronti ad astenersi dalla mensa e a scendere in piazza. Il sindacato punta il dito contro "l’immobilismo disarmante della direzione del carcere di Massama". Roma: ludoteche in carcere a rischio, stop ai fondi per la coop che li gestisce di Claudia Voltatto Corriere della Sera, 23 aprile 2016 A Rebibbia gli spazi ad hoc per gli incontri, dove oltre duemila bambini per un’ora una volta a settimana incontrano un papà o una mamma detenuti. Il Dap: "Progetto concluso". C’è stata quella volta in cui una madre straniera voleva far incontrare il figlio con il padre: c’erano un mucchio di moduli da riempire, lei non parlava italiano e non sapeva cosa fare. Il ragazzino, 11 anni, non voleva neanche dirmi il suo nome. Io li aiutai e alla fine il ragazzino riuscì a vedere il padre detenuto: andando via mi disse come si chiamava". Ecco, "quando sarà grande, voglio che ricordi che qualcuno gli ha allungato una mano nel momento del bisogno". Un servizio sociale per duemila detenuti - È tutto qui il lavoro di Marianna Cervellone, ideatrice, coordinatrice e operatrice delle ludoteche nelle carceri di Roma e del Lazio, posti colorati e allegri pieni di giochi per situazioni tristi e difficili, dove oltre duemila bambini per un’ora una volta a settimana incontrano un papà o una mamma detenuti. "Non ci limitiamo a farli giocare - dice Marianna -, noi per loro diventiamo un tramite, tra il mondo fuori e quello dove vive il papà". Aiutano, parlano, consigliano, salvano rapporti che sarebbero destinati a spegnersi. Un vero e proprio servizio sociale per oltre duemila detenuti che dallo scorso settembre però è stato sospeso. Gli operatori vanno volontari una volta a settimana, "per non perdere il rapporto con detenuti e figli". Ma la cooperativa sociale Cecilia Onlus che lo ha ideato e lo gestisce dal 2009 non ha più avuto i fondi dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che attraverso la Cassa delle Ammende gestisce i fondi destinati al recupero delle persone detenute per il loro reinserimento sociale e lavorativo. Così le ludoteche della sezione maschile e di quella femminile di Rebibbia rischiano di restare vuote, come anche le altre realizzate nelle carceri di Rieti, Viterbo, Civitavecchia. "Per ora garantiamo ancora il servizio ma solo usando nostri fondi derivanti da altre attività, ma non possiamo andare avanti per molto", dice Luigi Di Mauro, presidente della Consulta Penitenziaria di Roma e responsabile Giustizia della onlus che ricorda come "la genitorialità anche in carcere sia un diritto riconosciuto da una circolare del Dap nel 2009: ora non lo è più?". Non vuole fare polemica, "ma chiediamo aiuto, vogliamo poter continuare a tenere aperti dei luoghi diventati ormai fondamentali per tante persone, i detenuti, i loro famigliari, ma anche gli stessi agenti penitenziari che spesso ci chiedono aiuto per gestire situazioni difficili". Le manine colorate dei bambini - Racconta Marcella di quando per la festa del papà ha fatto preparare ai bambini delle piantine da regalare ai loro padri e "dell’angolo verde nella sezione maschile di Rebibbia dipinto con tutte le manine colorate dei bambini: non è facile rendere allegro un posto dove c’è così tanta sofferenza, ma ci proviamo". Spesso ci sono situazioni molto difficili, "lì siamo importanti - dice Marcella -, perché ce ne accorgiamo e interveniamo subito". Come quella bimba tanto allegra improvvisamente diventata chiusa e taciturna: "Abbiamo capito che era stata vittima di abusi: il nostro è davvero un servizio a 360 gradi". Il Dap fa sapere che "i fondi non sono stati sospesi, è solo terminato il progetto per il quale la Cecilia Onlus li aveva ottenuti". Ma Di Mauro protesta: "Si preferisce finanziare quelli che loro chiamano progetti "sostenibili", cioè attività imprenditoriali come la lavanderia in carcere piuttosto che un servizio sociale come il nostro". E ha scritto anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "Abbiamo creato dei luoghi - dice Marcella - dove andare a trovare il papà in carcere non è più una cosa triste, come possiamo lasciare che tutto finisca così?". Napoli: a Poggioreale un detenuto su quattro assume psicofarmaci di Maria Pirro Il Mattino, 23 aprile 2016 È un modo per contenere la sofferenza, ma a Poggioreale quasi un detenuto su quattro assume psicofarmaci, "e questo dato restituisce un quadro drammatico". Lancia l’allarme l’associazione Antigone, mentre si discute della chiusura degli Opg e una parte degli internati fa ritorno in cella: "Probabilmente - dice il presidente campano, Mario Barone - è la prima volta che una Asl fornisce cifre ufficiali di tale precisione. Di sicuro, è la prima volta che è dato conoscere il fenomeno per come si manifesta nella casa circondariale". Di salute e giustizia si discute il 23 aprile alle 11 nella libreria Ubik in via Croce, a partire dal rapporto aggiornato a gennaio 2016. Per l’esattezza, 463 reclusi su 1992 assumono ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi o stabilizzanti dell’umore; tra queste persone, 278 hanno una malattia mentale. Ciò significa per Antigone che "nell’istituto penale vive un carcere-manicomio che conta più pazzi, più del doppio di quanti ce n’erano nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano da poco dismesso", ma anche che "la pratica della sommersione farmacologica della sofferenza svolge un ruolo decisivo nel mantenimento degli equilibri interni", perché si fa ricorso alle medicine pur "in assenza di una riconosciuta patologia psichiatrica". L’associazione fa notare altre criticità. Ad esempio, nella relazione l’Asl non precisa "quanti ammalati erano seguiti dai servizi psichiatrici territoriali prima di entrare in prigione, nel senso che è un dato che non viene rilevato"; mentre è "pari a zero" il numero di pazienti ai quali "è stata assicurata una continuità terapeutica, al momento della reclusione". Non tenere conto della storia clinica rende tutto più difficile, anche al momento della scarcerazione: difatti, gli specialisti precisano che, "se avvertiti in tempo", possono rilasciare una prescrizione utile per proseguire l’assistenza, lasciando intuire la necessità di rafforzare le strategie. In più, a Poggioreale si può fare anche ricorso al trattamento sanitario obbligatorio: "Ma non ci risulta ci sia in carcere un reparto psichiatrico per questo tipo di interventi. Dove e come vengono eseguiti? E da quale personale?", chiede l’associazione. Sono evidenti le carenze di personale: "Il servizio psichiatrico interno può contare solo sull’intervento di due psichiatri, a 38 ore settimanali, a tempo indeterminato. Non ci sono infermieri, psicologi e operatori della riabilitazione". Insomma, "le risorse sono talmente insufficienti che davvero ogni forma di commento sembra superflua". Fin qui la critica al sistema: seguono le proposte per migliorarlo. La prima consiste nella "digitalizzazione dei dati sulla sofferenza psichica; la condivisione informatica può aiutare a risolvere il problema. Sappiamo che l’Asl ha già avviato un percorso, ma c’è molto da fare", scrive l’associazione. Naturalmente, occorre colmare le carenze in organico ed è utile puntare sulle "riforme sul piano normativo". Conclude Antigone: "Il tavolo 10 degli Stati generali dell’esecuzione penale - dedicato a "Salute e Disagio psichico" - avanza un’interessante proposta, cioè l’introduzione di misure alternative alla detenzione più aperte e flessibili per i condannati con patologie psichiatriche". Ma la "casa circondariale di Poggioreale destinata ad accogliere detenuti in attesa di giudizio, presenta 500 condannati definitivi: un’altra anomalia nell’anomalia di un carcere che, elaborato con criteri ottocenteschi, costruito agli inizi del Novecento, è ancora in piedi, monumento di un modello che tutti, da prospettive diverse, tentano di superare". Mentre "la cronica mancanza di spazi per la socialità e il numero di ore di ozio forzato, ancora troppo elevato, deve trovare una "contro-spinta" di altro tenore". Torino: "seconda possibilità a chi esce dal carcere", una convenzione per gli ex detenuti di Irene Famà La Stampa, 23 aprile 2016 Dare una seconda possibilità. Rieducare e reintegrare chi, in passato, ha commesso un reato e ne sta scontando la pena. Cercando, però, di ridurre al minimo la possibilità di una ricaduta criminale. Questo l’obiettivo - educativo e di sicurezza sociale - della convenzione firmata questa mattina, venerdì 22 aprile, tra il Dipartimento di Psicologia, il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte e Valle d’Aosta. "Il carcere non deve rimanere una realtà chiusa in se stessa. Ma deve collaborare con le realtà giuridiche e formative della città", ha commentato Luigi Pagano, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Ruolo centrale in questa scommessa è quello degli psicologi forensi e criminologi, che seguono gli autori di reato. Torino fa da capofila. Nel 2013 è stato attivato il corso di laurea magistrale in Psicologia criminologica forense. Il primo ed unico in Italia, che prevede la realizzazione di specifiche iniziative di ricerca scientifica sul carcere e sulle misure alternative alla detenzione. "Il corso è a numero chiuso - ha spiegato la professoressa Georgia Zara - Quest’anno si passa dall’avere 120 studenti all’accettarne 150". Con la collaborazione continua tra le diverse realtà, l’attivazione di laboratori specialistici tenuti da esperti che lavorano direttamente nel carcere, il promuovere attività di ricerca nel campo clinico, psico-criminologico, sociologico-penitenziario, si vuole riuscire a rieducare i detenuti, così come previsto dalla Costituzione. Lecce: l’agricoltura sociale per il riscatto dei detenuti, VaZapp incontra Made in Carcere immediato.net, 23 aprile 2016 Sono due modi apparentemente molto diversi tra loro, quelli della foggiana VaZapp, Hub rurale a sostegno dell’agricoltura creata da Giuseppe Savino, e Made in Carcere, il progetto di riabilitazione attraverso il lavoro dei detenuti, creato dalla leccese Luciana Delle Donne. Due mondi che si sono incontrati, nei giorni scorsi, nel capoluogo salentino e che si sono scoperti vicini, non tanto per gli attori cui si rivolgono, quanto per la visione che è alla base di entrambi: credere che, attraverso l’amore, la contaminazione e la condivisione di un sogno, il cambiamento sia possibile. "Ci rivolgiamo a realtà diverse" afferma il founder di VaZapp, Giuseppe Savino "accomunate, però, dallo stesso senso di abbandono e solitudine: economica per gli agricoltori, sociale per i detenuti. Due realtà in cerca di riscatto." "Il bello esiste" per Luciana Delle Donne "e va ricercato ovunque. A noi piace rivoluzionare, scombinare, mischiare le carte. Diamo valore all’etica attraverso l’estetica, rendendo attraente il ben-essere, proprio come le persone che ricostruiscono il loro percorso di vita. E con VaZapp siamo entrati immediatamente in sintonia. Abbiamo un Dna compatibile" Un Dna compatibile che ha già dato vita alla prima sinergia, quella per le prossime #Contadinner i cui gadget, dalle tovagliette ai porta bicchieri, porteranno il marchio Made in Carcere. Bari: l’appello del parroco per gli 80 bambini dei detenuti "togliamoli alla criminalità" di Francesca Russi La Repubblica, 23 aprile 2016 "A Bari vecchia ci sono 165 famiglie all’interno delle quali almeno una persona ha pendenze con la giustizia, è in carcere o agli arresti domiciliari. Quindi ci sono almeno 70-80 bambini da sottrarre alla criminalità". A lanciare la sfida - "non un allarme", rimarca con forza - è don Franco Lanzolla, parroco della cattedrale di San Sabino nel cuore del centro storico. "C’è una realtà fatta di figli del ceto più sguarnito a livello culturale con un papà assente perché malavitoso e con la mamma sola: questi bambini, che non hanno un genitore che li porta in vacanza, nascono a Bari vecchia e lì girano per strada, hanno bisogno di essere aiutati e sostenuti nell’educazione", spiega don Franco. Che poi aggiunge: "Non voglio criminalizzare Bari vecchia, non è un serbatoio di malavita, ma chiamare a raccolta tanta forza sana che c’è perché si faccia un lavoro di prevenzione e non di repressione. Quello che voglio lanciare è un progetto educativo". L’appello di don Franco, ripetuto anche durante l’ultimo incontro pubblico con le scolaresche baresi, non è rimasto inascoltato. A rispondere sono stati già 12 studenti universitari che hanno dato vita all’oratorio di strada per i bambini da otto a 12 anni. "Sono cittadini che si sacrificano per mettersi a servizio gratuito dei bambini - va avanti don Franco - Abbiamo aperto così, grazie alla disponibilità della struttura messa dal Comune, il doposcuola di largo Annunziata. Non è da poco insegnare loro a leggere e scrivere: significa fornire un’alternativa per evitare che la vita malata porti alla mala vita". A seguire le attività sono circa 40 ragazzini. "Qualcuno arrivato a 16 anni ha già ipotecato la sua genealogia - dice don Franco - è la dimostrazione che si possono rubare i bambini alla criminalità". A raccogliere l’invito di don Franco è anche il neoresponsabile dell’Agenzia per la lotta non repressiva della criminalità organizzata del Comune, Vitandrea Marzano, il quale si spinge oltre in questo tipo di analisi: "Basta il centro diurno? Basta la scuola? Sono sicuramente anticorpi fortissimi, ma se si torna a casa e certa cultura viene proposta come giusta è difficile che il minore possa emanciparsi. In Calabria ci sono state esperienze estreme di bambini che sono stati sottratti alle famiglie mafiose: le pratiche di affido per dare contesti alternativi, supportati da servizi sociali e monitorai dal tribunale, benché dolorose dovrebbero essere studiate. E non lo diciamo noi, ma la Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia". Viterbo: "Diritti in campo", 600 € in attrezzature sportive per il carcere di Mammagialla di Wanda Cherubini tusciatimes.eu, 23 aprile 2016 Due set da ping pong e 80 palline, una cyclette, 7 palloni da calcio e otto coppie di manubri body building. Questo il materiale acquistato con le 600 euro raccolte nel triangolare "Diritti in campo" svoltosi lo scorso ottobre a Marta tra la Nazionale Italiana Jazzisti, la Nazionale italiana giornalisti sportivi Rai e l’associazione Pianeta Giustizia, a favore dei detenuti della casa circondariale Mammagialla. Questo pomeriggio, dentro l’istituto penitenziario, si è proceduto alla cerimonia di consegna del materiale, alla presenza degli avvocati Marco Valerio Mazzatosta, Giuseppe Mariottini, Ottavio Maria Capparella, del giornalista di Rai sport Mario Mattioli e di Fabrizio Salvatori, in rappresentanza della nazionale Jazzisti, con la direttrice del carcere viterbese, Teresa Mascolo. "È questo un momento simbolico e non solo - ha esordito quest’ultima - ringrazio i fondatori di questa giornata, tra cui il consigliere regionale Riccardo Valentini". "L’iniziativa - ha spiegato l’addetto stampa Daniele Camilli - è stata organizzata dall’associazione Pianeta Giustizia di Viterbo, dalla Federazione italiana gioco calcio, dall’associazione italiana arbitri, dalla Croce Rossa, dal Lions Club e dall’avvocato Ottavio Capparella, presidente dell’associazione Pianeta Giustizia. Con la partita che si è svolta a Marta siamo riusciti a raccogliere 600 euro, non sono molti, ma è un gesto importante di apertura del territorio verso la realtà carceraria. Anche il carcere è un’istituzione democratica, dove i detenuti hanno gli stessi diritti dei cittadini fuori dal carcere ed hanno anche diritto alla felicità. La struttura penitenziaria deve essere intesa non come un luogo punitivo, ma di rieducazione. Questo carcere sta lavorando in questa direzione, grazie al suo direttore". "È importante dare voce a chi spesso non ce l’ha - ha affermato l’avvocato Mazzatosta della Camera Penale di Viterbo - Sono contento, quindi, di poter partecipare a questo evento. Mi auguro che questo sia il primo gesto verso un’apertura sempre maggiore della realtà carceraria". Ha preso, quindi, la parola Mario Mattioli, noto giornalista sportivo della Rai, che ha detto, rivolgendosi ai numerosi detenuti presenti in sala: "So bene quello che state passando. La realtà è questa: alzarsi la mattina e passare una giornata dietro l’altra e, spesso, non sapendo quante dovrete passarle così. Vorrei che quello di oggi fosse un segnale per dirvi che all’occorrenza ci siamo anche noi. Questi piccoli episodi vorrei rappresentassero un momento di vicinanza. Mi sono preso l’impegno di riprovarci, dopo le Olimpiadi, con un altro torneo ancora, in modo che la gente apra il portafoglio un po’ di più". Mattioli ha, quindi, chiesto al direttore Mascolo di poter disputare un altro torneo di calcio, ma questa volta presso il campo da calcio della casa circondariale. Mascolo ha risposto che il campo non è regolamentare, ma che se per loro va bene, il torneo si potrà tenere anche lì. È poi intervenuto Fabrizio Salvatori, in rappresentanza della Nazionale jazzisti italiani, che ha spiegato come si occupi di musica popolare. "Ci interessa l’unione tra sport e musica - ha dichiarato - Cerchiamo tra di voi degli artisti che sappiano suonare, recitare e cantare per fare un concerto a porte chiuse". "Bisogna avere il cuore, la cultura - ha aggiunto Capparella- per capire che la privazione dei diritti non debba avvenire. Noi avvocati conosciamo l’apertura mentale della dottoressa Mascolo, unico elemento per riconsegnare queste vite ad un mondo che ha bisogno di voi. Questo non è che l’inizio". Capparella ha poi voluto sottolineare come il torneo sia stato vinto dall’associazione Pianeta Giustizia e di come lo sport possa essere utilizzato come strumento per riavvicinare le distanze. Per Riccardo Valentini, questo pomeriggio assente, l’iniziativa ha permesso di raggiungere due obiettivi: da una parte promuovere il territorio e il suo patrimonio facendolo conoscere ad artisti e giornalisti che lavorano in contesti e testate nazionali, dall’altra ha permesso di contribuire a dare una piccola risposta ai bisogni dei detenuti e ad una casa circondariale gestita da un direttore come la Mascolo e da un personale amministrativo e di polizia illuminati e di grande professionalità che con impegno hanno fatto della struttura di Mammagialla un esempio e parte integrante della città di Viterbo. Livorno: l’hotel di Pianosa si rifà il look grazie al lavoro dei detenuti di Stefano Bramanti Il Tirreno, 23 aprile 2016 Nuovi arredi in stile marinaresco grazie al lavoro dei detenuti. E da quest’anno spazio ai matrimoni. Festeggia cinque anni di accoglienza l’unico albergo di Pianosa, ex sede del carcere per boss mafiosi chiusa nel 1998 e diventata da anni una perla del Parco nazionale dell’Arcipelago. Giulia Manca, la direttrice, annuncia due novità per la stagione 2016: 6 delle 10 camere, in grado di ospitare 22 persone, hanno un nuovo arredo in stile marinaresco. E, seconda novità, tutto è pronto per gestire matrimoni nella chiesa di San Gaudenzio. Milena è il nome dell’hotel. Il nome della Briano, prematuramente scomparsa e presidente della Cooperativa San Giacomo che gestisce la struttura. "Quest’anno - spiega Gulia Manca - abbiamo completato degli abbellimenti grazie a sei detenuti che lavorano per questo albergo e anche nel ristorante. La nostra cooperativa favorisce un futura nuova vita a chi ha sbagliato, anche attraverso il lavoro. Legni, conchiglie, oggetti riguardanti la pesca e altro materiale, che il mare ha fatto arrivare sulle nostre coste, sono state raccolte da queste persone, ormai in semilibertà, e in laboratorio hanno ripulito e sistemato i materiali per dare alle camere uno stile in sintonia col nostro ambiente. Quest’anno puntiamo pure sui matrimoni, ne abbiamo già avuti. Sposarsi in un luogo così singolare attira: esiste un porticciolo incantevole, i resti della villa romana di Agrippa, il forte Teglia voluto da Napoleone, le catacombe e una natura incontaminata con panorami e tramonti unici". La cerimonia potrà insomma contare su una scenografia spettacolare, gli sposi sfoglieranno poi l’album forte di un servizio fotografico notevole. Progressi che avrebbe voluto anche Brunello De Batte, il precedente direttore pure lui deceduto. "Le camere, dotate di bagno, sono accoglienti - prosegue Giulia - anche il ristorante gestito da Franco ha una veste nuova, come da progetto dell’architetto fiorentino Guido Ciompi. È stato decorato con tele il soffitto che ricordano le onde, poi tovaglie di stoffa e pareti in bambù. Una terrazza é stata attrezzata per mangiare all’aperto godendo dei panorami". E i prezzi sono sempre uguali: 90 euro a persona per pensione completa, bevande comprese ai pasti, biancheria da letto e bagno, pulizia giornaliera e chi scopre Pianosa, assicura la direttrice, se ne sono innamora e torna di anno in anno. Un luogo che è un’oasi di pace, tranquillità, natura e storia narrata anche nel museo degli "Amici di Pianosa" e dalle mostre nella casa del parco."I rumori che regnano qui - conclude la giovane - sono quelli del vento, del mare o il canto degli uccelli. Possibili escursioni con le guide, a piedi, in bici o con la carrozza trinata da cavalli e la notte molti vanno a vedere, nel porticciolo, lo spettacolo della danza dei barracuda. I detenuti sono sempre gentili e colpiscono i clienti per l’impegno". Ferrara: il teatro veicolo d’amore, i detenuti dell’Arginone in scena al Comunale di Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 23 aprile 2016 Giovedì 28 aprile c’è il nuovo spettacolo organizzato dal Nucleo con i detenuti del carcere ferrarese. Marighelli: questa attività fondamentale per il recupero. "Il teatro è un veicolo d’amore, un modo per fare dialogare due culture diverse in conflitto ma che attraverso lo spazio scenico possono parlarsi". Horacio Czertock del teatro Nucleo, vera e propria bandiera in materia di teatro e carcere, ha presentato ieri nelle sale del Ridotto del Teatro Comunale, "Ma che libero nacqui al carcer danno", lavoro drammaturgico sulla "Gerusalemme liberata" di Tasso, realizzato con i detenuti dell’Arginone e che andrà in scena proprio al Teatro Comunale Abbado il prossimo 28 aprile alle 21. Alla conferenza, oltre al "padrone di casa" Marino Pedroni, erano presenti anche gli assessori Massimo Maisto, Chiara Sapigni, il direttore del conservatorio Paolo Biagini e l’insegnante Gianfranco Placci, la presidente dell’Asp Angela Alvisi e Marcello Marighelli, garante dei diritti dei detenuti. Proprio quest’ultimo ha dichiarato che "da uno studio è emerso che i detenuti che all’interno della struttura penitenziaria svolgono attività teatrale hanno, una volta in libertà, una percentuale bassissima di recidività". Sì perché il teatro fa bene per tanti motivi e in questi undici anni di laboratorio nella casa circondariale di Ferrara, lo si è detto e dimostrato tante volte. Ma per il detenuto-attore è anche importante incontrarsi con il mondo esterno, confrontarsi con esso e portare sul palcoscenico un lavoro fatto di prove, studio e impegno. Il detenuto-attore si rimette in gioco, porta a compimento un percorso e se è vero che il carcere a questo dovrebbe servire, a portare a termine dei percorsi, allora è altrettanto vero che l’attività teatrale è una strada che anche in questo senso va perseguita. Il conservatorio "G. Frescobaldi" per la prima volta accanto a questo tipo di laboratorio vorrebbe dare vita a una collaborazione più attiva e continuativa, l’Asp rinnova il suo coinvolgimento e il Comune, da parte sua, rinnova la sua sensibilità. Il Teatro Comunale "salotto bene" come è stato definito da Czertock, apre le porte e dà la possibilità per la quarta volta ai detenuti di calcare un palco prestigioso, punto di incontro con la realtà che li circonda ma che, allo stesso tempo, li fa sentire troppo spesso estranei. Ad anticipare lo spettacolo, mercoledì 27 alle 17, ci saranno anche una serie di incontri in cui verranno presentati, tra le varie cose, la rappresentazione e la rivista "Quaderni del teatro carcere". Infine, Czertock ha aggiunto: "Il lavoro nel carcere è sostenuto anche dal programma Erasmus, attraverso un progetto specifico sull’educazione in carcere del quale il teatro Nucleo è capofila". Per info e dettagli: biglietteria.teatro@comune.fe.it; teatrocomunaleferrara.it; 0532.202675. "L’inferno di Pianosa", un libro riapre la ferita del 41 bis di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 23 aprile 2016 Alcuni giorni fa ho conosciuto Rosario Enzo Indelicato e Cetta Brancato. Il primo mi ha colpito per la sua grande forza d’animo e il suo coraggio, la seconda per la qualità della sua scrittura: piana, dura, non artificiosa. Scrittura di rivolta. Indelicato è l’autore e Brancato è la curatrice de "L’inferno di Pianosa", edito da Sensibili alle foglie, libro di un centinaio di pagine. Pagine che fanno male, che riaprono una ferita e che a me hanno riportato alla mente gli orrori descritti da Primo Levi in "Se questo è un uomo" o da Tahar Ben Jelloun ne "Il libro del buio". Pagine che sono un viaggio nella violenza subìta da Rosario Enzo Indelicato, detenuto a Pianosa fra il 1992 e il 1997, in un’epoca nella quale, sull’onda delle stragi mafiose, venne concepito e attuato il regime di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, analizzato, in vista di una modifica, proprio in questi giorni dalla Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, e inteso, all’epoca, come strumento atto ad evitare che i capi della mafia continuassero dall’interno del carcere a organizzare traffici, attentati, vendette e a dirigere i gregari rimasti fuori. "L’inferno di Pianosa" ci fa toccare con mano cosa è stato realmente in quegli anni il 41 bis: nato e finalizzato a estorcere confessioni, a "produrre" collaboratori di giustizia, subito è diventato strumento di tortura per chi non si pentiva o, per meglio dire, contro chi non accettava lo scambio facendo nomi e cognomi. Dunque tortura fisica e psicologica, come nel caso di Indelicato, costretto giorno dopo giorno, per 5 anni, un mese e 20 giorni, a soffrire pene da inferno, disumanizzato come in un lager, all’interno di un carcere di massima sicurezza trasformato, come dice Cetta Brancato, in "un albergo di ferocia" dove la vita scorreva tra pedate, pugni, sputi, manganellate, detersivo o vetri nella minestra. E che a Enzo Rosario Indelicato ha lasciato "una ferita incancellabile". "Un incubo un dramma che vorrei cancellare, ma che non dimenticherò mai. La mia esistenza è stata appesa a un filo...nel lager era come vivere in una buca piena di serpenti...a Pianosa era tutto permesso, anche uccidere". L’autore e la curatrice hanno parlato del libro in un incontro che si è tenuto alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, presenti il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il magistrato ed ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo Alfonso Sabella, il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Due ore di riflessioni, interrotte dalla lettura di alcuni brani, sulla dignità delle persone, dignità che non deve essere mai violata qualunque sia il reato commesso, sul rispetto delle regole, sulle inaudite violenze e sulle inutili vessazioni che accompagnano ancora oggi il 41 bis (divieti di cucinare in cella, di avere più di tre libri, di appendere manifesti sul muro, di avere le matite colorate). Due ore di dibattito concluso con alcune idee più o meno condivise e che provo a riassumere: 1) il 41 bis non doveva diventare strumento ordinario (cosa avvenuta nel 2002) ma doveva restare misura d’emergenza e dunque da applicarsi non a pioggia, ma in casi eccezionali; 2) doveva assolutamente impedire, come ha fatto, che i boss vivessero all’interno del carcere come avveniva al tempo del cosiddetto Grand hotel Ucciardone e che continuassero a comandare e dirigere i mafiosi rimasti in libertà, ma non certo infierire come succede ancora oggi, soprattutto oggi, nei confronti di Provenzano, ridotto a un vegetale (come affermano le perizie della procura), e tenuto in regime di carcere duro solo perché un simbolo, sull’onda del solito populismo da consenso; 3) pur necessario nella lotta alla mafia, pur di fronte all’emergenza, non poteva, come in molti casi ha fatto, sospendere l’applicazione dell’articolo 27, ovvero rendere accettabile l’annullamento di uno dei principi base della nostra Costituzione, cioè che le pene devono tendere alla rieducazione e al reinserimento e non sono strumento di punizione fine a se stessa e dunque non doveva annullare le attività trattamentali; 4) il 41 bis è stato (lo è ancora in alcuni casi) puro inasprimento della pena, brutta sterzata e focolaio di violenza. Insomma tempo di "passi indietro": "per salvarlo" ha detto Sabella; "perché non sia snaturata la sua filosofia e la sua legittimità" ha chiarito Flick. Contro ogni inutile vessazione, in difesa appunto della dignità delle persone. Quella dignità che non può venire mai meno e che ogni giorno in realtà viene calpestata. Per colpa, come io penso, delle stesse leggi d’emergenza, per effetto indiretto del 4 bis o dello stesso 41 bis, in ragione dell’idea che il fine giustifichi i mezzi, qualunque essi siano, senza accorgersi che i mezzi sono già di per sé fine. E lasciano strascichi: ci fanno diventare meno sensibili, ci desensibilizzano. E così le persone cessano di essere viste come persone ma vengono viste come "soggetti" come del resto vengono definiti nelle sentenze, nei verbali, negli atti giudiziari, nel linguaggio comune. E le deportazioni dei mafiosi nelle isole, perché questo sono, vengono descritte come semplici trasferimenti. E poi ci stupiamo che possano accadere orrori tipo Cucchi, Mastrogiovanni, Aldrovandi, Uva... e qualcuno pensa che se la siano cercata. E Provenzano diventa solo un simbolo per cui pur ridotto a un vegetale deve restare in regime di carcere duro. E gli indizi o le accuse di un Pm sono prove ancora prima del processo. E sui giornali oggi ci sono giornalisti che pubblicano le intercettazioni e i dialoghi tra Federica Guidi e Gianluca Gemelli. E il professor Flick quando era ministro (l’ha ricordato al convegno durante la presentazione del libro) venne criticato dai giornali per il solo fatto di aver dato la mano a un detenuto. Soggetto e non persona. Disumanizzato appunto. Altro che dignità, a parole. Nella prefazione de "L’inferno di Pianosa" Patrizio Gonnella scrive: "Spero fortemente che il racconto della storia di Rosario Indelicato, possa essere da un lato un monito rispetto ai rischi di un sistema penale e penitenziario illegalmente violento, dall’altro un incoraggiamento a quei parlamentari ancora oggi restii a introdurre nel codice penale italiano il crimine di tortura. La dignità umana deve prevalere rispetto al potere di punire, sempre e in ogni circostanza. Non devono esservi in una democrazia zone buie o stati di eccezione". Droghe. Il fallimento della "tolleranza zero" di Carla Rossi (Vicepresidente Consiglio italiano di Scienze sociali) L’Unità, 23 aprile 2016 Una cosa è sicura: dopo cent’anni dalle prime iniziative repressive e punitive contro il consumo di sostanze stupefacenti, bisogna prendere atto di quello che è un sostanziale fallimento. L’uso e l’abuso di droghe non è affatto diminuito, anzi è molto cresciute e contestualmente i crimini; traffico e consumo hanno arricchito e continuano ad arricchire le mafie, bilanci che superano quelli di interi stati, condizionandone le politiche. Il "proibizionismo" è sostanzialmente fallita, lo si ammette sempre più apertamente anche in paesi come gli Stati Uniti e la Svezia, che hanno fatto della "tolleranza zero" in materia di droga la loro bandiera. È giunto il momento di ragionare seriamente sulle possibili alternative. Lo chiedono in modo esplicito, ponendo in modo inequivocabile la urgente necessità di modificare l’approccio al problema finora seguito, un migliaio di leader politici di tutto il mondo in una lettera al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Chiedono "una vera riforma delle politiche globali di controllo della droga"; sostengono che "il regime di controllo delle droghe emerso nel corso del secolo scorso si è dimostrato disastroso per la salute globale, la sicurezza e i diritti umani. Focalizzato sulla criminalizzazione e la punizione, quel sistema ha creato un enorme mercato illegale che ha arricchito le organizzazioni criminali, i governi corrotti, innescato la violenza esplosiva, distorto mercati economici e minato valori morali fondamentali". In poche, efficaci parole ecco riassunte le conclusioni dei principali studi internazionali sulle gravissime "unintended consequences" delle politiche proibizioniste sulla droga applicate negli ultimi decenni. A titolo di esempio ci sembrano particolarmente significative alcune cifre che documentano non solo l’inefficacia, ma il danno creato in Italia da una quantità di leggi in vigore dopo il 1990, tutte fondate sulla repressione penale. Occorre innanzitutto valutare e "pesare" i costi e l’efficacia degli interventi repressivi. Il costo annuale per azioni di polizia, procedimenti e detenzione, nel solo 2014, per il singolo reato di spaccio (mancano dati su furti e rapine riferibili a tossicodipendenti), ammonta, pensate, a 18 euro per abitante. Per quel che riguarda l’efficacia, occorre tener presente che un enorme spiegamento di forze, risorse ed energie comporta - sono cifre ufficiali fornite dalla Direzione Nazionale Antimafia - una percentuale di persone identificate sul totale delle persone coinvolte a livello medio basso nell’offerta di sostanze illegali, di circa il 7 per cento. In pratica, le "perdite" inflitte alla criminalità organizzata non sono maggiori di quelle subite da un supermercato per scadenza dei prodotti, taccheggio, ecc. Lo ammettono gli stessi investigatori, e praticamente tutti gli operatori sul "campo": gli esiti di contrasto perseguiti dalle nostre leggi appaiono insignificanti; come riportato già lo scorso anno nella Relazione Dpa al Parlamento, i risultati conseguiti sono stati decisamente negativi, uso, abuso e spaccio delle sostanze stupefacenti non risulta intaccato se non in modo irrilevante. Tutto il mondo si interroga, riflette, ragiona su queste questioni. La "war of drugs" scatenata negli anni 80 del secolo scorso è clamorosamente fallita. In tutto il mondo si cercano e si individuano altre strade, si sperimenta, si cercano soluzioni pragmatiche e di buon senso. Non sarebbe il caso, anche in Italia, di poterne discutere, confrontarsi e ragionarne pacatamente, senza pregiudizi e sulla base di conoscenze e dati di fatto? E offrire elementi di conoscenza e riflessione anche su questa materia non è compito e "missione" di un servizio che dice di essere "pubblico"? Lo chiediamo, formalmente al presidente e al direttore generale della Rai, ai responsabili delle reti, ai direttori dei telegiornali, a tutti coloro che dicono di fare informazione. Schulz: "Su Regeni l’Europa sta con l’Italia" di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 aprile 2016 Parlamento Ue. Il presidente: "L’Egitto ha fallito la prova". Gentiloni: "Non desisteremo". Sit-in all’università di Cambridge: "Verità su Giulio, nell’interesse della libertà accademica". Alle autorità egiziane che continuano a negare che Giulio Regeni sia "mai stato in una stazione di polizia o simili", né che sia "mai entrato in contatto con i servizi di sicurezza" se non per il visto di ingresso - smentendo così la notizia del suo arresto e del trasferimento in un famigerato compound della polizia cairota prima di essere ucciso, divulgata giovedì dalla Reuters - il governo italiano non risponde direttamente. Però ieri il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ribadito che "se si pensa che col trascorrere del tempo rinunceremo a chiedere e a pretendere la verità sull’omicidio di Regeni, si sbaglia". Un concetto già espresso più volte ma che ieri è stato rafforzato dalla prima dichiarazione pubblica di Martin Schulz sulla vicenda: "L’Unione europea sostiene l’Italia nella sua ricerca della verità", ha detto il presidente del Parlamento europeo durante una lectio magistralis all’Università per stranieri di Siena. E rafforzata anche dall’azione di lobbing esercitata dall’Università di Cambridge sul Foreign office britannico affinché faccia pressione sul governo egiziano: una via già aperta dal segretario di Stato Usa John Kerry che al Cairo, incontrando il presidente Al Sisi e le massime autorità egiziane, ha chiesto "un’indagine imparziale e completa" sull’omicidio del ricercatore friulano. Ovviamente nessuno entra nel merito della veridicità delle testimonianze raccolte dalla Reuters, tre poliziotti e tre funzionari dell’intelligence sentiti in separata sede che affermano, pur con qualche contraddizione, che Giulio era prigioniero della polizia egiziana prima di essere ucciso. "Al di là delle valutazioni su queste notizie che non spetta al governo fare - precisa il capo della Farnesina - è comunque chiaro che ci confermano nella nostra posizione che abbiamo assunto in modo molto chiaro in queste settimane". Allo stesso modo Martin Schulz si limita a ricordare che "il Parlamento europeo si è già espresso" sull’"odioso e vile omicidio di Giulio Regeni", chiedendo alle autorità egiziane "di dar prova di trasparenza e di collaborazione". Ma così non è stato: "Finora hanno fallito la prova". "L’Unione europea e il Parlamento europeo - ha promesso Schulz - continueranno ad essere vigili", perché Regeni "era un cittadino italiano ma anche un cittadino europeo". Ed è stato ucciso perché, come ricorda il presidente del Parlamento europeo, "giunto in Egitto, non si è fermato alle verità preconfezionate, si è dedicato allo studio del difficile e complesso mondo dei sindacati del Paese. Lo ha fatto in un momento in cui il discorso globale ed accademico sembra andare contro il movimento sindacale". E proprio l’Università di Cambridge, per la quale Giulio svolgeva la sua attività di ricercatore, ieri ha organizzato una sit-in per appoggiare "tutte le richieste di giustizia", "per la famiglia Regeni e nell’interesse della libertà accademica". In una nota l’ateneo fa sapere di aver "scritto al governo italiano offrendo il suo continuo sostegno ed esprimendo quanto la nostra comunità sia sconvolta e disgustata da questo omicidio", e di aver "contattato il Foreign office" ed "espresso le nostre preoccupazioni al governo egiziano". L’ambasciatore italiano a Londra, Pasquale Terracciano, ha ringraziato la Cambridge University per la solidarietà manifestata ed ha testimoniato "la determinazione del governo italiano di andare fino in fondo" ricordando che per iniziativa della delegazione italiana oltre cento parlamentari del Consiglio d’Europa hanno sottoscritto una dichiarazione per richiamare l’Egitto, in quanto Paese firmatario della Convenzione contro la tortura, a collaborare pienamente all’accertamento dei fatti. "Il governo sta facendo, ma deve fare molto, molto di più", ha esortato in un post su Facebook il governatore della Toscana e candidato alla segreteria del Pd, Enrico Rossi, presente a Siena alla cerimonia di conferimento della laurea honoris causa a Martin Schulz. "I giovani - ragiona Rossi - non devono pensare che siamo disposti a sacrificare la verità su uno di loro pur di fare affari con un Paese retto da un regime dittatoriale". A quei giovani però bisognerebbe anche spiegare perché l’Italia ricorda all’Egitto ciò che non riesce a far passare nel proprio Parlamento: ossia che "la tortura è crimine non soggetto a prescrizione", come recita la dichiarazione depositata all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, perciò va perseguito. Riconosciuto, normato e perseguito.