Carceri italiane, un detenuto su tre è ancora in attesa di sentenza definitiva di Marco Sarti linkiesta.it, 22 aprile 2016 Antigone scatta una foto alle nostre galere. Ci sono poche donne, ma molti anziani. Il 30 per cento è composto da stranieri, soprattutto del Nord Africa. Cala il numero dei rinchiusi: sono 53mila, ma sei anni fa erano 15mila di più. In un anno 7mila atti di autolesionismo e 43 suicidi. Poche donne, troppi anziani, molti ancora in attesa di condanna definitiva. Uno su tre è straniero, originario soprattutto del Nord Africa. Ecco la fotografia dei detenuti italiani: una popolazione di 53mila persone che affolla le nostre carceri. Spesso in condizioni ancora inumane. Si spiegano anche così i 43 suicidi e i settemila atti di autolesionismo registrati lo scorso anno. Eppure la situazione sta migliorando. Rispetto a sei anni fa ci sono 15mila rinchiusi in meno. Numeri e cifre che raccontano una realtà difficile: 449 sono i ragazzi detenuti nelle carceri minorili, 3.700 detenuti hanno più di sessant’anni. Solo 29mila possono trascorrere il proprio tempo lavorando, e a fine mese si guadagnano in media 200 euro. A raccontare la realtà è l’associazione Antigone, che ha recentemente pubblicato il rapporto Galere d’Italia. Anzitutto un dato positivo: nel 2010 nel nostro Paese c’erano 68.258 detenuti, oggi sono 53.495. Eppure negli ultimi tre mesi si registra un’inversione di tendenza. Se alla fine di dicembre le carceri ospitavano 52.164 persone, ora ce ne sono 1.331 in più. Intanto almeno 3.950 di loro sono prive di posto letto regolare. E così il tasso di sovraffollamento resta alto. Il rapporto tra detenuti e posti letto è del 108 per cento. In Germania, spiega Antigone, il tasso è dell’81,8 per cento, in Spagna dell’85,2 per cento. In Inghilterra del 97,2 per cento. Peggio dell’Italia il Belgio, dove il sovraffollamento carcerario arriva al 118 per cento. Chi è rinchiuso nelle nostre galere? Rispetto all’Europa i nostri detenuti sono più anziani. Se la media della popolazione carceraria in tutto il continente è di 36 anni, da noi si sfiorano i 40 anni. Il 15,6 per cento di chi vive nelle carceri italiane - la fascia d’età più numerosa - ha tra i 35 e i 39 ani. Ma 3.699 persone, il 7,1 per cento, ha più di 60 anni. Discorso a parte per gli stranieri, mediamente più giovani. Qui la fascia d’età più presente è tra i 30 e i 34 anni (il 21,2 per cento). Solo 198 detenuti stranieri ha più di sessant’anni. Sono uomini, soprattutto. Le donne presenti in carcere sono 2.198, il 4,1 per cento della popolazione detenuta totale. La media europea è del 5,6 per cento. Stavolta in testa alle classifiche ci sono i paesi nordici. In Finlandia, ad esempio, la presenza femminile in carcere è dell’8 per cento. E poi ci sono i più giovani. Fino a poche settimane fa i ragazzi presenti nelle carceri minorili italiane erano 449. Di loro, 284 hanno già ricevuto una sentenza definitiva e 165 sono ancora in attesa di condanna. Di questi, 40 sono ragazze. Alta la percentuale di minori stranieri (uno su due, considerando i soli entrati nel 2016). Secondo i dati del rapporti Antigone la maggior parte dei detenuti italiani proviene dalle regioni del Sud. In particolare a fine 2015 erano rinchiuse 9.635 persone di origine campana (il 18,5 per cento). A seguire i detenuti di origine siciliana e pugliese, rispettivamente il 12 e il 7,1 per cento degli italiani detenuti. Un detenuto su tre è straniero. Sono il 33,45 per cento delle popolazione carceraria. Ma sette anni fa erano il 37,1 per cento. Le nazionalità più rappresentate? Il 16,9 per cento è di origine marocchina. Seguono la Romania (15,9 per cento) Albania (13,8 per cento) Tunisia (11 per cento). Sono diversi i motivi delle reclusioni (ma in alcuni casi i detenuti sono imputati per più di un reato). 29.913 detenuti nelle carceri italiani sono collegati a reati contro il patrimonio. Seguono, tra i più frequenti, i reati contro la persona (21.468) e in violazione alla legge sulle droghe (17.676). Quasi settemila detenuti sono in galera per associazione a delinquere di stampo mafioso. I tempi? Quasi 20mila detenuti devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni. Sono 1.633, invece, gli ergastolani rinchiusi nelle nostre carceri. Parlando di pene si apre inevitabilmente un altro capitolo: i detenuti in attesa di sentenza definitiva rappresentano il 34,6 per cento del totale. La media europea supera di poco il 20 per cento. E qui si apre un dato interessante. Secondo le stime di Antigone, un provvedimento di totale depenalizzazione in materia di droghe porterebbe a una riduzione di un sesto delle imputazioni e delle condanne. Senza considerare l’effetto indiretto sui reati connessi (in particolare i reati contro il patrimonio). In totale, si legge - "la decriminalizzazione delle sostanze stupefacenti potrebbe determinare la riduzione di circa un terzo della popolazione detenuta". Con un risparmio di quasi 930 milioni di euro l’anno. Le condizioni delle carceri non sempre sono buone. Lo standard minimo previsto dal Comitato europeo del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura è di 4 metri pro-capite. In Italia ancora novemila detenuti vivono in uno spazio inferiore. E i risultati sono spesso drammatici. Nel 2015 si sono registrati quasi 7mila episodi di autolesionismo. E ben 43 suicidi. Una percentuale scesa sensibilmente rispetto al 2009, quando i detenuti erano 15 mila in più. La vita in carcere. Il 95 per cento dei detenuti può trascorrere otto ore al giorno fuori dalla propria cella. E i contatti con le famiglie? In 123 carceri i familiari dei rinchiusi possono prenotare le visite. In 148 istituti si possono organizzare colloqui la domenica, in 98 strutture le visite sono sei giorni a settimana. In 146 carceri, poi, i detenuti possono chiamare a casa con una propria tessera telefonica. "Una telefonata di 10 minuti a settimana". Un modo per trascorrere il tempo è la lettura. Nelle biblioteche carcerarie sono presenti 840.116 libri. Una media di 4.352 per istituto. "Molti libri però - si legge nel rapporto - sono edizioni vecchie e poco utili di testi scolastici". Quasi un detenuto su tre può lavorare. Sono il 29,73 per cento. La maggior parte lavora per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche guadagnando circa 200 euro al mese. Ma ci sono anche, pochi, impiegati in attività di tipo manifatturiero (612) e attività agricole (208). Altri vanno a scuola. Nell’anno scolastico 2014/15 ci sono stati 17.096 detenuti iscritti a 1.139 corsi scolastici. A fine anni oltre settemila i promossi (circa la metà stranieri). Nel 2014 si sono laureati anche 72 detenuti (gli scritti all’università erano 413). E poi ci sono quelli che non sono rinchiusi. Quasi trentamila persone stanno scontando la pena detentiva fuori dal carcere. Sono 29.679: 10mila ai domiciliari, 12.500 in affidamento in prova al servizio sociale, 6.500 in lavori di pubblica utilità e poco più di 700 in semilibertà, che trascorrono parte della giornata fuori dal carcere. Solo 2.300, invece, le persone controllate con braccialetto elettronico. Le misure alternative funzionano? Sembra proprio di sì. Secondo i dati del rapporto Antigone "la percentuale di revoca di una misura alternativa per un nuovo reato commesso durante l’esecuzione della stessa è dello 0,79 per cento". Funzionali a trovare un lavoro, recuperare gli affetti e, in definitiva, a evitare la recidiva sono anche i permessi premio. Nel 2015 ne sono stati concessi 29.224. In Lombardia si arriva al 156 per cento, "ovvero più di un permesso e mezzo a detenuto". La situazione peggiore riguarda il Lazio, ultima regione in questa speciale classifica, che ha una percentuale di permessi pari al 25 per cento. Vivere al 41-bis: due ore di "libertà" e una cella che è un bagno di Carmine Gazzanni linkiesta.it, 22 aprile 2016 L’indagine della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato e le 15 raccomandazioni dell’Europa denunciano le condizioni riservate a boss mafiosi e terroristi: un regime detentivo che coinvolge 729 persone. Ventidue ore in una cella. Con la possibilità soltanto di stare distesi a letto. Oppure seduti su una panchina inchiodata a terra. E per le restanti due ore l’unico svago è una passeggiata lungo un corridoio stretto, buio, chiuso da grate arrugginite. Il pensiero andrebbe a chissà quale Paese dove vigono pesanti violazioni dei diritti umani. E invece no. Siamo in Italia. E le condizioni appena descritte sono tanto reali quanto inquietanti. Anche se le persone che si ritrovano a subirle sono criminali, boss mafiosi, terroristi in carcere. Antonio Iovine, per anni a capo dei Casalesi, è uno di questi. Prima che cominciasse a collaborare con la giustizia, ‘O Ninno ha vissuto a Nuoro, in una stanza stretta e buia, in cui c’era solo un letto singolo, con accanto un bagno alla turca chiuso da una bottiglia di plastica e un lavandino, un mobiletto, un televisore e un fornelletto a gas per il caffè. "Provate voi a vivere ventidue ore al giorno dentro un bagno", ha detto Iovine ai membri della Commissione per la tutela e dei diritti umani del Senato, quando sono andati in ispezione. Oggi, Nuoro non ospita più detenuti a regime speciale. Ma in diversi penitenziari le condizioni di vita restano inumane, come emerge dal rapporto sul 41-bis realizzato dalla Commissione e di cui Linkiesta è venuta in possesso. "Tutta colpa di regole restrittive - dicono alcuni parlamentari - che non hanno alcun legame con l’esigenza di evitare eventuali rapporti esterni con le criminalità". E, in effetti, alcune restrizioni sembrano a dir poco surreali. Esattamente come per Iovine, i 729 detenuti oggi in regime speciale restano in cella per 22 ore al giorno. Senza poter far nulla. C’è chi cammina tutto il tempo, tanto da contare quante volte si faccia su e giù: 780 in un’ora. Non si possono attaccare al muro nemmeno fotografie. E pure per la biancheria ci sono precise restrizioni al numero di capi che possono essere tenuti in cella. Il motivo? Sconosciuto. Peccato però che in molti casi sia considerato insufficiente alle esigenze delle persone recluse. Potenzialmente pericolosi sono anche i sandali, dato che in alcuni penitenziari possono essere utilizzati solo a partire dal 21 giugno, anche se dovesse cominciare a far caldo molto prima. E ancora: niente detersivo in cella per lavare piatti, bicchieri e tazzine del caffè; niente abiti firmati; niente fermagli. E chi studia può sì utilizzare il computer, ma a patto che quell’ora venga sottratta a quella d’aria. Poi c’è la privacy, completamente annientata. "Loro esistono anche nei miei sogni erotici", dice un detenuto al 41-bis ormai da 12 anni. E ne ha ben donde. Spesso le telecamere non sono solo in cella, ma anche nei bagni. E se non ci sono telecamere, c’è sempre uno spioncino che permette agli agenti di sorvegliare in qualsiasi momento i detenuti, pure nella loro intimità. Senza parlare della perquisizione fisica, prima e dopo ogni colloquio: nonostante non ci sia alcun contatto con i familiari (c’è il vetro divisorio) e vi siano telecamere di sorveglianza, il detenuto viene fatto sempre denudare. Un uso riservato ai maschi ma anche alle nove donne recluse al 41-bis, a L’Aquila. Una di queste ha provato a denunciare la cosa, rifiutandosi di farsi visitare e presentando la richiesta al magistrato di sorveglianza di poter essere visitata senza il piantonamento. La sua richiesta è stata accolta, ma - dice la relazione - "le visite delle altre detenute continuano a svolgersi davanti ad agenti". E parliamo, fin qui, del trattamento "ordinario". Perché poi ci sono le cosiddette "aree riservate", dove l’isolamento è pressoché totale. Qui ritroviamo i capi storici delle mafie. E per consentire loro un minimo di socialità, vengono affiancati in celle vicine dalle cosiddette "dame di compagnia", ovvero mafiosi di rango inferiore con cui sono a contatto non più di due ore al giorno. Uno di questi ha scontato fino ad oggi nove anni di pena, di cui quattro in area riservata: è uscito da lì con la pelle verde perché era sottoterra. E completamente al buio. Una realtà, dunque, poco conosciuta e al limite (spesso infranto) del tollerabile. Tanto che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è interessata alla questione, dopo una serie di denunce contro il trattamento riservato dal nostro Paese. E non è un caso che la relazione della Commissione parlamentare si concluda con ben 15 raccomandazioni. Dalla dismissione delle "aree riservate", fino a maggiori condizioni di riservatezza per i detenuti. Ma non basta. Perché quello che si raccomanda è innanzitutto una "revisione della legislazione consolidata". Non fosse altro che per un motivo: la detenzione al 41-bis dovrebbe essere in molti casi temporanea e rinnovata solo dopo legittime motivazioni. Peccato, però, che molto spesso questo non accada. Ciò che desta preoccupazione, in altre parole, è l’uso automatico della proroga: "Per un considerevole numero di detenuti, l’applicazione del regime di cui all’articolo 41-bis è stato rinnovata in maniera pressoché automatica". Con la conseguenza che i detenuti sono stati per anni soggetti a un regime detentivo alienante. Anche quando si è in età avanzata. Anche quando mancano solo pochi mesi alla scarcerazione. Come capitato a un detenuto a Milano Opera. Che si chiede: "Che senso ha?". Nessuno. Forse nessuno. In cella centinaia di malati psichiatrici, aspettando le Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2016 Molti sono ospitati illegalmente negli Opg. Ha tentato di aggredire un agente dopo aver sfondato, con la sua branda, l’ingresso della cella. Il detenuto, rinchiuso nel carcere calabrese di Rossano, è stato immobilizzato da altri agenti intervenuti in soccorso del collega. Durante la colluttazione il detenuto, però, è riuscito a ferire in modo non grave due assistenti, uno a uno zigomo e l’altro ad una gamba. Sottoposto a visita psichiatrica dallo specialista convenzionato con l’istituto, il detenuto è risultato affetto da uno scompenso psichiatrico tale da richiedere il trattamento sanitario obbligatorio. C’è un grave problema ancora non risolto nelle carceri italiane. Oltre ai detenuti rinchiusi illegalmente negli ex ospedali psichiatrici giudiziari, perché ancora non sono state ultimate le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici sparsi nelle galere italiane. Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone con problemi psichiatrici, senza un trattamento adeguato alle loro condizioni fisiche e psichiche. E a farne le spese - oltre ai detenuti stessi che non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari - sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi. A denunciare questi fatti, lo scorso mese - su sollecitazione degli esponenti radicali calabresi Emilio Quintieri e Valentina Moretti - è stato il senatore Francesco Molinari (Gruppo Misto) e altri quattro parlamentari con una dettagliata interrogazione ai ministri della Giustizia, della Salute e per gli Affari regionali e le autonomie. Ma finora nessuna risposta nel merito. Eppure l’interrogazione parlamentare è andata molto nel dettaglio. Si denuncia la mancata apertura del centro diagnostico terapeutico presso la casa circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro. Nella struttura si prevedeva la creazione, al quarto piano, di una sezione destinata alla tutela intramuraria della salute mentale per detenuti per otto posti e una sezione di osservazione psichiatrica per l’accertamento delle infermità psichiche per cinque posti dedicata a detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza. Ma il problema maggiore ? evidenziato sempre dall’interrogazione ? è che attraverso le recenti ispezioni di Molinari e da altre visite dei Radicali, è emerso che negli istituti penitenziari della Calabria sono ristretti almeno 513 detenuti con patologie psichiatriche. L’emergenza psichiatrica nelle carceri potrebbe esplodere da un momento all’altro se non si intraprendono provvedimenti. Nelle carceri "normali" permangono molti detenuti con problemi psichici e non avranno mai nessuna struttura alternativa. Ma non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni finiscano la pena detentiva in carcere. Quindi ne sono stati aggiunti altri a partire dell’entrata in vigore della legge approvata l’anno scorso. Tramite uno studio recente condotto dall’ agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16 mila reclusi delle carceri di Toscana Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale; il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. Attualmente le carceri sono dei serbatoi dove la società senza eccessive remore continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari e di disturbati mentali. Prevalgono le persone appartenenti agli strati sociali più poveri, allevati sui marciapiedi e nei sobborghi delle città. In definitiva la carcerazione costituisce un’esperienza vitale altamente traumatizzante e può dar luogo a molteplici forme di patologia mentale prima ancora in fase di compenso. Favorisce, in sostanza, la messa in atto del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già prima fragile, che non riesce a mantenere più il suo precario equilibrio a causa dell’isolamento, a causa delle preoccupazioni legate all’inchiesta giudiziaria, a causa della paura. Ciò che la medicina penitenziarista riscontra con maggiore incidenza è Il disturbo post-traumatico da stress, l’attacco di panico, la sindrome da separazione con riferimento particolare ai detenuti extracomunitari, le reazioni depressive, le crisi ansiose, il disturbo bipolare, il disturbo ossessivo-compulsivo, le crisi isteriche, i disturbi di personalità (borderline e antisociale), il discontrollo degli impulsi e le reazioni auto ed eteroaggressive. Con la chiusura dei manicomi, non sempre sono state create delle strutture alternative in grado di ospitare gli ammalati, sicché molti soggetti con disturbi psichiatrici sono rimasti senza alcun controllo o rete di protezione, con la conseguenza di finire con estrema facilità nelle maglie strette della giustizia. Talora, invece, è il carcere stesso con i suoi ritmi ossessivi e con le sue abitudini a creare vere e proprie turbe psicopatologiche che in cella acquisiscono una strutturazione solida e difficilmente curabile. Il suicidio in carcere è il gesto finale. Il malato di mente in galera è detenuto due volte: dal carcere e dalla malattia. Nella struttura carceraria soffre le pene dell’inferno, mentre il detenuto normale dopo un certo periodo riesce in qualche modo ad adattarsi alla vita carceraria, quello malato di mente non ha questa capacità, perché la malattia di fatto rappresenta un grave ostacolo all’adattamento. Le guardie penitenziarie non hanno i titoli per poter vigilare e aiutare un detenuto psichiatrico. Ma soprattutto è difficile anche la convivenza con gli altri detenuti non affetti da quei disturbi. Gli Opg, forse, stanno chiudendo, ma ci sono tantissimi detenuti con disabilità mentale che permangono nelle carceri. Chi si occuperà di loro? Ministro per un giorno: le proposte di un detenuto per cambiare il carcere di Teresa Valini Redattore Sociale, 22 aprile 2016 I primi tre provvedimenti: via il 4bis, attenzione all’affettività e liberalizzazione dei contatti con i proprio cari. Famiglia in evidenza nel "progetto-carceri" di Marco Costantini, il primo detenuto salito sul palco degli Stati generali. "Quando vedo in tv gli anziani maltrattati, penso che noi li tratteremmo molto meglio" Ministro per un giorno. Quali sono le prime tre cose che farebbe un detenuto di lungo corso nei panni del Guardasigilli? Marco Costantini è il primo detenuto a salire sul palco degli Stati generali sull’esecuzione penale. Parla alla platea di 600 persone che lo ascoltano dal vivo e alle altre migliaia di compagni di detenzione che seguono la diretta streaming dalle carceri d’Italia. Quando esce dall’auditorium di Rebibbia è visibilmente emozionato. E soddisfatto. Il suo messaggio è arrivato ai ministri seduti in prima fila e a tutti gli altri parlamentari, magistrati, avvocati, dirigenti, operatori e poliziotti penitenziari seduti in sala. Ha parlato del carcere con gli occhi di chi la galera la vive sulla propria pelle da 12 anni. È la persona giusta a cui girare la domanda. Ministro per un giorno, quali sono i primi tre provvedimenti che adotterebbe? Per prima cosa eliminerei il 4bis (articolo dell’ordinamento penitenziario che non consente l’accesso ai benefici per i condannati per i reati più gravi a meno che non si collabori con l’autorità giudiziaria): perché non serve a nulla. Poi farei qualcosa per far crescere l’affettività in carcere, perché in carcere non c’è possibilità di coltivare gli affetti familiari: il 70 per cento dei detenuti quando viene rinchiuso non riesce a mantenere il rapporto con la moglie o con la compagna. La terza: darei la libertà di chiamare, di telefonare, di comunicare che noi non abbiamo. Chi ha fatto il carcere anche in altri Paesi europei, come me, sa che si può chiamare a casa tutti i giorni. Io potevo farlo in ogni momento, fino a quando, la sera, chiudevano la stanza. Dovevi solo avere i soldi per la scheda. Sembra incredibile, ma ho avuto più contatti all’estero con i miei familiari che in Italia dove vivono a cento metri dal carcere. Scontare la pena in un luogo vicino alla propria famiglia è uno dei punti che gli Stati generali hanno messo in evidenza. Come vivono detenuti e familiari il problema della distanza? La territorialità della pena è un altro grosso problema che andrebbe affrontato subito. Qui abbiamo gente della Sardegna, della Sicilia che per arrivare a Roma affronta viaggi impossibili: traghetti, pullman, treni. Non è giusto che un familiare parta la notte prima per fare un’ora di colloquio. Si spendono tanti soldi che invece potrebbero servire alla famiglia per continuare a resistere fuori, perché fuori hanno tutti difficoltà economiche, per il lavoro che manca. Come accade anche qui, dentro. Diventa massacrante affrontare un viaggio per un’ora di colloquio e poi tornare a casa. E quando ci sono i bambini è ancora più difficile: è una condanna in più che non serve. Perché i familiari non sono colpevoli di niente. Cosa pensa delle proposte arrivate dagli Stati generali? Sono stato molto colpito dal ministro Orlando perché per la prima volta l’ho sentito parlare di un "non carcere". E questo secondo me è il punto fondamentale. "Non carcere" significa cominciare a pensare che non c’è soltanto questa soluzione. Cosa proporrebbe in alternativa? Quando vedo in Tv gli anziani maltrattati e picchiati nelle case di riposo, penso che sarebbe più opportuno mandare noi a prenderci cura di loro perché li tratteremmo molto meglio. Io per esempio faccio un lavoro socialmente molto utile e di questo sono felice. Sono impiegato presso il call center di un grosso ospedale pediatrico di Roma, prendo prenotazioni e ogni giorno aver dato una mano a una mamma è un po’ come fare il genitore. Quello che non ho fatto da padre con i miei figli perché sono stato chiuso, ora lo sto facendo con altre mamme e altri papà che non conosco. È la cosa migliore che si possa fare. L’ergastolo è al centro di un forte dibattito. Lei come interverrebbe? L’ergastolo come pena ultima di uno Stato così civile non è più sopportabile. Già nel 1700 si è scritto che il carcere non serve a nulla se inteso solo come punizione. Quello che ha detto il professor Giostra sull’utopia ("l’utopia serve per continuare a camminare") non è tanto distante. Basti pensare che il governo svedese ha chiuso tre prigioni e le ha vendute proprio perché ha trovato nelle misure alternative la maniera più giusta per scontare una pena. Sono in carcere da molti anni e ho avuto la forza di dedicare il tempo a costruire: mi sono iscritto all’università, faccio giurisprudenza, a settembre uscirà il mio terzo libro e di questo sono molto orgoglioso perché nessuno credeva che alla fine riuscissi a scrivere. Questo dimostra che se una persona viene messa nelle condizioni di avere conoscenza delle sue possibilità, le cose possono cambiare. Questa riflessione la fai soltanto quando sei chiuso dentro la tua stanza, dentro questi tre metri quadri di chiusura fisica. Perché la mia mente è sempre fuori. La sofferenza che infligge il carcere, una volta fuori si dimentica? Perché si torna a commettere altri reati? Perché si rischia nuovamente di finire rinchiusi? Posso portare la mia esperienza: quando dopo tanti anni sono uscito la prima volta e sono tornato a casa io mi sentivo in un altro mondo. Dopo tanti anni in carcere, trovi un mondo che è andato avanti molto rapidamente, la tecnologia è dappertutto mentre noi qui dentro siamo ancora coi quaderni e con la penna. Questa non è più una cosa pensabile nel futuro. Se anche siamo persone detenute non bisogna chiudere gli spazi mentali attraverso cui si cresce. Quando un detenuto esce dal carcere non si deve trovare in difficoltà con la società: dev’essere al passo. Ma in questo il carcere non è pronto. Quando è uscito la prima volta, come ha trovato la sua famiglia? Per fortuna, perché non tutti sono fortunati, ho avuto una famiglia che mi è stata vicino sin dal primo giorno. E ancora oggi dopo 12 anni ancora mi è vicina. Ma ci sono persone le cui famiglie vengono completamente distrutte, annientate. E quando esci e fuori non hai una famiglia, tutto si moltiplica. Che succede quando arriva una brutta notizia e non si può comunicare con casa? Mio padre è morto mentre ero in carcere. Ricevere una notizia del genera da una persona estranea alla famiglia, una persona comunque a cui tengo molto, non è stato piacevole. Perché un conto è un familiare che ti dice qual è la situazione, un conto è che ti dicano: è morto tuo padre. Fine della storia. È una cosa secca, brutta, diretta, non puoi far niente, è un male che non puoi combattere. Diventa tutto più duro. Come si gestiscono in carcere notizie come queste? Ti chiudi in stanza. E stai solo con te stesso. Quando ci riesci. Perché se stai in stanza con altre sei persone diventa difficile anche il dolore. Il rischio di un diritto a due velocità di Piero Sansonetti Il Dubbio, 22 aprile 2016 Questa è stata la settimana nella quale Matteo Renzi ha lanciato l’offensiva garantista. È stato coraggioso. Ha sfidato la parte più conservatrice della magistratura, e l’ansia di potere e di controllo sulla società che ne è la caratteristica principale. La risposta non si è fatta attendere. Prima con le dichiarazioni del nuovo presidente di Anm (il potentissimo sindacato dei magistrati) Piercamillo Davigo, il quale ha lanciato alla politica una vera e propria richiesta di resa. Ha detto che quando i giudici hanno dei sospetti su qualche esponente politico, il partito al quale appartiene - o il governo - deve cacciare via quel politico e non fare storie. E se poi è innocente? Poco male. Il bello è che questo proclama di Davigo ha coinciso con la notizia che dopo quasi nove anni si conclude definitivamente l’inchiesta "Why Not", una delle inchieste - diciamo così - politiche, più importanti dell’ultimo decennio. Provocò la caduta del governo Prodi, nel 2008, e la gogna per un gran numero di esponenti della politica calabrese e nazionale. Come si è chiusa l’inchiesta? Tutti assolti. Tutti. Centinaia di persone, o se volete di poveri cristi. Voi direte: beh, però il magistrato che ha combinato questo putiferio dovrà risponderne. No, no, il magistrato in questione, che si chiama De Magistris, è sindaco di Napoli e sembra una persona molto soddisfatta del lavoro che ha fatto. Ieri, dopo l’uscita di Davigo, è arrivato un secondo segnale a Renzi. Il segnale sta nel titolo di apertura sempre del Fatto Quotidiano (cioè dello stesso giornale dell’intervista a Davigo). Il titolo dice così: "Ecco perché Renzi attacca i Pm: il Pd ha 124 indagati e imputati". La notizia non c’è, perché tutte queste indagini alle quali si riferisce il giornale sono aperte da tempo. Ma il titolo fa capire che i magistrati hanno una clava in mano, e in qualunque momento potrebbero colpire. Ci sono un paio di righe sottintese, in quel titolo: "Attento, Renzi, anche al tuo papà, e al papà della Boschi..." Cosa vuole l’Anm, da Renzi? Che alle parole non faccia seguire i fatti. Soprattutto che non tocchi le intercettazioni, che sono una delle leve essenziali del potere di pezzi della magistratura e sono il cemento dell’alleanza tra magistratura e mondo editoriale, e cioè della forza che oggi tiene sotto scacco tutto il mondo politico. Ora però c’è una questione che non può essere messa sotto silenzio. Il nuovo garantismo di Renzi è vero garantismo o no? Perché facciamo questa domanda? Perché, come potete leggere in queste pagine, il governo sta preparando un decreto sull’ordine pubblico nelle città che, a giudicare dalle indiscrezioni, rischia di essere una creatura così feroce da fare invidia a Salvini e anche alla Le Pen. Il decreto, per come lo ha illustrato al "Messaggero" il sindaco di Firenze, Nardella, prevede un formidabile dispiegarsi di misure repressive (contro gli ambulanti, contro i mendicanti, contro i giovani, contro le prostitute) che finora nessun sindaco si era mai sognato. Naturalmente è buona cosa, prima di giudicare un decreto, aspettare che sia scritto. E noi ci auguriamo che il decreto, quando uscirà, non assomiglierà nemmeno un po’ a quello descritto da Nardella. Però il dubbio di un garantismo "a due velocità" è legittimo. Anche perché in passato lo abbiamo visto molto spesso. E poi per un’altra ragione: cosa c’entra il decreto d’urgenza con le misure per l’ordine pubblico nelle città? L’urgenza, potrebbe sospettare qualche gufo, sta solo nel fatto che si apre la campagna elettorale e un po’ di populismo "manettaro" rende sempre qualche voto... Speriamo di sbagliarci. E speriamo che Renzi capisca quello che il partito democratico raramente ha capito: il garantismo non è un comodo mezzo per difendere la società politica dalle inchieste giudiziarie, ma è l’aspirazione a costruire una società costruita sull’esaltazione dello Stato di diritto e non sulla logica della pena e della repressione. Se non è così il garantismo non serve a niente. Anzi, non esiste. Garantismo, sì ma... c’è un piano per blindare le città di Errico Novi Il Dubbio, 22 aprile 2016 Manette e Daspo, nelle città arriva il decreto "sceriffi". I paradossi del provvedimento messo a punto da Viminale e Anci. Arriva a poche settimane dalle elezioni comunali: il decreto sulla sicurezza urbana messo a punto dal ministro Alfano e dall’Anci sarà varato nei prossimi giorni dal Consiglio dei ministri, in modo che le Camere possano discuterne la conversione in legge nel corso del mese di maggio, proprio nel pieno, dunque, della campagna elettorale. Nel provvedimento si prevede di istituire un "daspo" per i parcheggiatori abusivi o per i "lavavetri aggressivi", una militarizzazione dei corpi di polizia municipale, divieto di fare cortei nei centri storici e definizione di specifici reati per comportamenti come quelli dei "writers". In un’intervista pubblicata ieri dal Messaggero, il sindaco di Firenze, il super renziano Dario Nardella, ammette che "se tutto diventa norma entro giugno, sarà un aiuto rilevante ai sindaci e un merito del governo Renzi". Restano dubbi sulla necessità e l’urgenza delle misure. Dubbi che aprono interrogativi sulla posizione che il Quirinale potrebbe assumere rispetto alla scelta di ricorrere alla soluzione del decreto legge. È un terreno sconosciuto per il Pd. Il decreto sulla sicurezza urbana messo a punto dal Viminale e dall’Anci si annuncia come un vero atto di sperimentazione politica per il governo Renzi. La misura dovrebbe essere varata dal Consiglio dei ministri a breve, comunque in tempo perché il Parlamento discuta sulla conversione in legge nel corso del mese di maggio. Scadenzario che suscita sospetti di una iniziativa dal carattere elettoralistico. Si tratta certo di norme attese da molti sindaci, che chiedono maggiori poteri in materia di ordine pubblico. Resta però la coincidenza con la campagna per le elezioni comunali. Dalle accuse di scelta propagandistica si è difeso il sindaco di Firenze Dario Nardella in un’intervista pubblicata ieri dal Messaggero. Nardella è un renziano di primissima linea e respinge l’ipotesi di ua forzatura politica in vista del voto, ma certo non nega che "se tutto diventa norma entro giugno, sarà un aiuto rilevante ai sindaci e un merito del governo Renzi". Restano molte incognite, anche dal punto di vista dell’applicabilità delle norme. A cominciare dall’efficacia di uno degli strumenti più caratterizzanti della misura, il "Daspo" previsto per alcune fattispecie. Ad esempio per parcheggiatori e ambulanti abusivi. L’espressione è mutuata dalle norme per la sicurezza negli stadi: in quel caso si tratta, testualmente, di un divieto di assistere alle manifestazioni sportive, corredato da un obbligo di firma in commissariato. Verificare l’esecutività della sanzione, nel caso degli ultras, è relativamente semplice. Più difficile per un "lavavetri aggressivo" (nel mirino c’è anche questa categoria). E in ogni caso resta opinabile l’utilità di un provvedimento che spingerebbe semplicemente il soggetto a trasferire la propria attività in un comune diverso. Ma il Daspo, si sa, è diventato una parola magica, per il marketing politico. La si è usata persino per i terroristi. Tra coloro che hanno collaborato in questi mesi con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, ci sono i vertici dell’Anci: Piero Fassino e Enzo Bianco, rispettivamente presidente dell’Associazione e presidente del Consiglio nazionale. Il primo enumera i campi di intervento: "Fenomeni di degrado urbano, di disturbo della quiete pubblica, di abusivismo commerciale e microillegalità", oltree a una speciale tutela dei "luoghi di particolare interesse storico". Dietro le definizioni ci sono novità significative, come l’individuazione di uno specifico reato per i writers o la possibilità di vietare cortei nei centri storici, ipotesi problematica per un governo di centrosinistra. Non si potrà arrivare di sicuro, fa notare Enzo Bianco, "a un inasprimento delle pene per i reati predatori, come il furto in casa: sarebbe utile ma ci vorrebbero modifiche al codice penale". Modifiche che, seppur compiute con atro provvedimento, sarebbero paradossali. Nei mesi scorsi il Parlamento ha varato alcuni provvedimenti in materia penale pensati per decongestionare sia gli uffici giudiziari che le carceri, per esempio l’archiviazione del reato per particolare tenuità del fatto. "È contraddittorio che si passi dalla messa alla prova o dalle depenalizzazioni, a un decreto sicurezza così spinto", commenta perplesso Marco Di Lello, deputato del Pd di area socialista, fino a pochi mesi fa iscritto al Psi di Nencini. "Si sono conclusi due giorni fa gli Stati generali dell’esecuzione penale, con cui il guardasigilli Orlando ha chiesto al premier una svolta diametralmente opposta agli obiettivi di questo imminente decreto. Non ha senso adeguarsi all’ansia dell’Ncd di inseguire la Lega sul terreno del giustizialismo. Anche perché nella conferenza di fine anno Alfano ci ha spiegato che i reati predatori sono in diminuzione". In effetti il ministro della Giustizia rischia di veder naufragare sul nascere la sua battaglia per far scontare le pene lontano dal carcere. D’altra parte creare nuovi reati o armare i vigili umani sono scelte praticabili con un decreto legge solo di fronte a un’improvvisa emergenza. I dati del Viminale, invece, descrivono una diminuzione per molte fattispecie di reato. Il che rischia anche di complicare il via libera del Quirinale. Sergio Mattarella fece ricorso alla moral suasion per convincere Renzi a scartare lo strumento del decreto legge già nel caso della "Buona scuola", che infatti il Consiglio dei ministri varò sotto forma di ddl. Non è da escludere che il Capo dello Stato segnali qualche dubbio sulla necessità e l’urgenza di un decreto sulla sicurezza urbana. E senza l’immediatezza del decreto cadrebbe ogni eventuale valenza elettoralistica delle nuove norme. Legittima difesa, il disegno di legge torna in Commissione tra le proteste di Stefano Pezzini La Stampa, 22 aprile 2016 La maggioranza ha approvato la richiesta di Area popolare. Sì dell’Aula della Camera al rinvio in commissione del ddl sulla legittima difesa. L’Assemblea ha approvato la richiesta avanzata da Ap per 160 voti di scarto. Area popolare ha chiesto il rinvio in commissione del provvedimento, per tentare di inserire nel testo una norma che faccia "scattare" automaticamente la legittima difesa se si è in presenza di bambini e cambiare l’emendamento del Pd che restringe la legge. "Serve una normativa di dettaglio puntuale e tassativa che eviti una giustizia a macchia di leopardo", spiega Enrico Costa, attuale ministro agli Affari regionali ed ex viceministro alla Giustizia. Le opposizioni non hanno preso bene il rinvio in commissione. Protesta la Lega, che espone cartelli con la scritta "La difesa è sempre legittima" e urla "vergogna" verso i banchi del Pd. Contrari anche i parlamentari dell’Italia dei valori: "Ho votato contro l’inutile ulteriore rinvio in commissione della discussione sulla legittima difesa. Presenterà immediatamente anche al Parlamento la nostra proposta di legge di iniziativa popolare che sta riscuotendo enorme successo tra i cittadini", afferma il deputato Nello Formisano, come portavoce parlamentare Idv. "Centinaia di Comuni - riprende - stanno collaborando alla raccolta, e in alcune località oltre un cittadino su 10 ha firmato la nostra proposta, che intende garantire più libertà di difesa in caso si venga aggrediti da ladri e delinquenti all’interno della propria abitazione o del proprio negozio". "Il confronto sulla legittima difesa è un tema assai importante ma non va banalizzato creando conflitti parlamentari a fini elettorali", afferma il presidente del gruppo Misto alla Camera, Pino Pisicchio. "Lo Stato - aggiunge - ha il dovere di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, ma certamente senza diffondere una cultura da Far West che non ci appartiene: si tenga presente il serio dibattito che si sta sviluppando negli Usa sul possesso di armi da parte dei cittadini. Diventa necessario, dunque, moderare i toni che sembrano motivati solo dalla campagna elettorale e affrontare una discussione seria e approfondita". Legittima difesa. "Sparare diventi un diritto" e la legge torna ai box di Errico Novi Il Dubbio, 22 aprile 2016 Su proposta dell’Ncd, la Camera vota un nuovo approfondimento per la riforma della legittima difesa. Il paradosso è che a sollevare il polverone sono i leghisti, quelli che vorrebbero una legge ancora più hard: il disegno di legge sulla legittima difesa torna in commissione Giustizia, col destino di concedere maggiore "libertà di sparare", e i deputati di Matteo Salvini non esultano. Invece di votare per l’ulteriore approfondimento sul testo, si schierano contro la decisione e sotto le giacche d’ordinanza svelano t-shirt con su scritto "La difesa è sempre legittima". La decisione passa con uno scarto enorme, 160 voti di differenza, ma per la bagarre in aula si trova sempre un motivo. Il rituale messo in scena a Montecitorio non può sorprendere, a poco più di un mese dalle elezioni amministrative. Sui temi della giustizia e in particolare della sicurezza nelle città si gioca la gran parte della campagna elettorale. Il nonsense parlamentare risponde dunque a questa logica. Ma l’altra logica della partita in corso alla Camera è che le modifiche al provvedimento sono invocate dai moderati della maggioranza, cioè da Area popolare, gruppo predominato dagli alfaniani. È l’alleato di centrodestra a trascinare il Pd verso soluzioni più estreme, con l’obiettivo di non lasciare troppo campo alla Lega. Due giorni fa uno degli esponenti di primissima linea dell’Ncd, il ministro della Famiglia Enrico Costa, è intervenuto a un sit in organizzato dall’Idv per raccogliere firme in calce a una proposta d’iniziativa popolare ancora più spinta di quella all’esame della Camera. Difficile che il testo parlamentare ne recepisca certi profili, come la cancellazione tout court del reato di eccesso colposo di legittima difesa. Però gli alfaniani puntano a una via di mezzo tra l’originaria idea della Lega e l’attenuazione imposta successivamente dal Pd: il punto di "equilibrio" sarebbe nell’individuazione della presenza di minori all’interno dell’abitazione o del negozio come "circostanza che esclude la colpa" per chi si difende con un colpo d’arma contro l’intrusore. Alla Lega non sta bene: era affezionata al testo originario che aveva presentato, e da cui in effetti era partito l’esame in commissione. In quel primo step parlamentare si prevedeva un intervento sull’articolo 52 del codice penale. Si escludeva cioè la possibilità di contestare l’omicidio colposo a chiunque compia un atto "per respingere l’ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un’abitazione privata" o in un negozio. All’inizio sembrava fossero tutti d’accordo a seguire il solco tracciato dallo spadone di Alberto da Giussano. Poi dalle parti del Pd si sono resi conto che Salvini non può essere assecondato del tutto e si è deciso di sostituire l’articolato della Lega con uno più soft, che interviene sull’articolo 59. La modifica è nel senso di escludere la colpa di colui che spara all’aggressore, nel caso in cui si verifichino contemporaneamente due condizioni: se l’errore nel valutare la situazione di pericolo è conseguenza di "un grave turbamento psichico", e se tale turbamento "è stato causato dalla persona contro cui è diretto il fatto", cioè il proiettile. Nei processi sarebbe più scongiurare la condanna per omicidio, con la versione proposta dal Pd. Il capogruppo dem a Montecitorio Ettore Rosato dice che "non c’è nessun problema a svolgere un’ulteriore riflessione", e quindi a seguire la rimodulazione voluta da Ncd per accorciare le distanze rispetto al testo leghista. Salvini ovviamente può fare agio su un linguaggio che scavalca sempre a destra qualunque avversario: "Chi si schiera contro la nostra idea, e cioè che la difesa è sempre legittima, è amico dei delinquenti". Sarà un ring affollatissimo, questo, fino al voto delle Amministrative. Davigo: "I politici continuano a rubare, ma non si vergognano più" di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 22 aprile 2016 Il presidente Anm: le riforme della sinistra hanno reso i giudici genuflessi. Piercamillo Davigo - consigliere presso la Cassazione, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati - 24 anni fa era nel pool di Mani Pulite. Dottor Davigo, com’è cambiata l’Italia da allora? "Con i colleghi stracciammo il velo dell’ipocrisia. E questo ha peggiorato le cose". Vale a dire? "La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nella Prima Repubblica se non altro si riconosceva la superiorità della virtù. Quando Tanassi fu arrestato e parlò di "delitto politico", io non capivo cosa dicesse. Poi ho realizzato che forse intendeva dire: "È un delitto politico perché vado in galera solo io". Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose; perché quando le sappiamo partono i processi". E partì Mani Pulite. "Dopo l’arresto di Mario Chiesa, Craxi disse che a Milano non un solo dirigente del Psi era stato condannato con sentenza definitiva, fino al "mariuolo". Nessuno esplose in una fragorosa risata. Il velo dell’ipocrisia teneva ancora". E ora? "Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: "Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare". Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti". "Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti". Lo disse davvero? "Certo. In un contesto preciso. Ma mi citano fuori contesto per farmi passare per matto". Qual era il contesto? "Appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale, non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano. Prenda la Metropolitana Milanese. Costruita da imprese associate, con una capogruppo che raccoglieva il denaro da tutte le aziende e lo versava a un politico che lo divideva tra tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Di giorno fingevano di litigare; la notte rubavano insieme". Voi però l’opposizione non l’avete colpita. Davigo si inalbera: "Non è vero! Questa è una leggenda diffusa ad arte per screditarci! Io stesso condussi una perquisizione a Botteghe Oscure!". Ma Forlani si dimise, Craxi morì ad Hammamet. Occhetto e D’Alema restarono al loro posto. "Forlani fece una figuraccia al processo Enimont. Su Craxi si trovarono le prove, infatti fu condannato. Su altri non trovammo le prove. Il Pci era finanziato dalle coop in modo dichiarato e quindi legittimo. Ma a Milano, dove partecipavano alla spartizione delle tangenti, abbiamo mandato sotto processo diversi dirigenti comunisti". Il Paese era con voi. "Gli italiani non hanno mai avuto una grande considerazione di sé: siamo gli unici a dire di noi stessi cose terribili nell’inno nazionale, "calpesti", "derisi", "divisi". All’epoca sembrò che tutto potesse cambiare. Ricordo un’intervista ai volontari che friggevano le salamelle alla festa dell’Unità; erano i primi a volere in galera i dirigenti che li avevano traditi. Ma cominciò presto il coro opposto: "E gli altri, perché non li avete presi?"". Oggi la situazione è come allora? "È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: "Qui non si fa la battaglia contro le mosche?". "L’abbiamo fatta - risponde il podestà. Solo che hanno vinto le mosche". Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti". Davvero pensa questo del nostro Paese? "È il rimprovero che mi fece Vladimiro Zagrebelski. Al Csm erano ospiti 35 magistrati francesi, che mi chiesero di Tangentopoli. Risposi che nel 1994 erano crollati cinque partiti, tra cui quello di maggioranza relativa e tre che avevano più di cent’anni. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre zebre erano diventate più veloci. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà". Fu Berlusconi a fermarvi? "Cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un po’ genuflessi sì". Ad esempio? "La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla". Con Renzi come va? "Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?". Renzi ricorda spesso di aver aumentato le pene e di conseguenza la prescrizione per i corrotti. "Ma prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta. Lo diceva anche Cantone; anche se ora ha smesso di dirlo". Perché Cantone ha smesso di dirlo? "Lo capisco. E non aggiungo altro". Quindi si ruba più di prima? "Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata". Com’è la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati? "L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano". Renzi viene paragonato ora a Craxi, ora a Berlusconi. Lei che ne pensa? "Non mi piacciono i paragoni". E del caso Guidi cosa pensa? Davigo sorride: "Non ne parlo perché se capita a me in Cassazione poi mi ricusano". "Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni". Autentica anche questa? "Sì. Ma non è una mia opinione; è un dato oggettivo. L’Italia è il Paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione. Ed è il Paese della mafia, della ndrangheta, della camorra, della sacra corona; e della corruzione diffusa. Certo che servono nuove carceri. Con le frontiere ormai evanescenti, i Paesi con una repressione penale più forte esportano crimine; quelli con una repressione penale più debole lo importano". L’Italia lo importa. "Una volta a San Vittore trovai un borseggiatore cileno. Era stato arrestato quattro volte in un mese. Mi accolse con un sorriso: "Che bel Paese, l’Italia!". Prima era stato arrestato a Ottawa ed era stato in galera due anni". In Italia ci sono troppi avvocati? "In una riunione europea degli Ordini professionali il presidente di turno ha detto che nell’Ue ci sono quasi 900 mila avvocati; e un terzo sono italiani. I più interessati al numero chiuso a giurisprudenza dovrebbero essere gli avvocati; se non altro per tutelare i loro redditi". E ci sono troppi pochi magistrati? "Ne mancano un migliaio. Ma non è un mestiere facile: ogni anno facciamo un concorso con 20 mila domande per 350 posti, e non riusciamo ad assegnarli tutti. Non è che ci sono pochi magistrati; è che ci sono troppi processi". Come ridurli? "In Italia tutte le condanne a pene da eseguire vengono appellate; in Francia solo il 40%. Sa perché? Perché in Francia si può emettere in appello una condanna più severa rispetto al primo grado. Facciamo così anche in Italia, e vedrà come si decongestionano le corti d’appello". Ci sono troppi magistrati in politica? "Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza; e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici". Riforma Giustizia Civile: Orlando a Washington per settima tappa road show giustizia giustizia.it, 22 aprile 2016 All’indomani della partecipazione, come Capo della Delegazione italiana, all’Assemblea Generale straordinaria delle Nazioni Unite sulla droga, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando svolge a Washington il 21 e 22 aprile la settima tappa del "road show" per presentare alla Banca Mondiale le riforme della giustizia civile. A quasi un anno dalla serie di incontri che il Ministro ha avuto a New York con gli ambienti economici e finanziari per illustrare i primi passi delle riforme in materia di giustizia, la visita a Washington risponde ad un esplicito interesse della Banca Mondiale a ricevere indicazioni e dati aggiornati sulle principali misure avviate dal Governo per ridurre i tempi della giustizia e l’arretrato nelle cause civili - anche attraverso l’innovazione del Processo Civile Telematico - favorire la risoluzione alternativa delle controversie e la specializzazione degli uffici giudiziari nelle materie economiche e commerciali, promuovere la semplificazione delle procedure e la revisione della disciplina delle crisi d’impresa. Il Ministro Orlando presenterà gli interventi messi in campo ed i risultati delle riforme finora ottenuti ad una cerchia di dirigenti, analisti e operatori economico-finanziari del sistema Banca Mondiale, interessati a valutare l’esperienza italiana anche nell’ottica della consulenza e assistenza tecnica che la Banca fornisce a Paesi terzi impegnati nel riformare la giustizia. Da segnalare altresì gli incontri con gli economisti autori del Rapporto "Doing Business" e con il Team Justice della Banca. Il Ministro inoltre interverrà ad un incontro ristretto presso l’Atlantic Council, nell’ambito della "Eurogrowth Initiative" lanciata dal dott. Andrea Montanino, per offrire ad un gruppo selezionato di consulenti legali ed imprese una panoramica delle principali riforme che stanno rendendo più conveniente investire in Italia. La serie di eventi dedicati alla giustizia civile prevede anche un incontro con il Direttore Esecutivo italiano del FMI Cottarelli e con il Dipartimento Affari Legali del Fondo. Completano la visita un colloquio con l’Attorney General degli Stati Uniti Loretta Lynch, dedicato alla cooperazione bilaterale e transatlantica nel contrasto al terrorismo, alla criminalità organizzata e alla corruzione; ed un incontro con il Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro, per valorizzare le più recenti iniziative italiane nel settore giustizia e sicurezza a favore dei Paesi dell’America Latina. Penale, sì all’uso ampio della Pec di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 16622/2016. La Corte di cassazione sdogana a tutti gli effetti l’uso della Pec per le notifiche penali. E lo fa dando una lettura estensiva delle disposizioni contenute nel decreto "Cresci Italia". Con la sentenza n. 16622 depositata ieri, infatti, i giudici hanno considerato legittima la notifica effettuata all’imputato attraverso invio alla casella di posta certificata del difensore. Si tratta del caso disciplinato dall’articolo 161 comma 4 del Codice di procedura penale e che la difesa aveva ritenuto, contestando il giudizio della Corte d’appello, non potesse essere fatto rientrare tra quelli che autorizzano all’utilizzo della Pec. Il decreto di citazione per la prima udienza di secondo grado era oggetto di una prima omessa notifica perché l’imputato risultava essersi trasferito dall’indirizzo indicato. A questo punto la Corte d’appello opera la notifica del decreto attraverso posta elettronica certificata al difensore di fiducia. Successivamente, a poche ore di distanza, i carabinieri operavano comunque una notifica nelle mani dell’imputato. Una situazione che per i giudici di appello era assolutamente legittima, ma che la difesa contestava sottolineando come la circolare del ministero della Giustizia dell’11 dicembre 2014 identifica i soggetti che possono essere destinatari della notifica attraverso Pec: si tratta di tutti coloro che prendono parte a un processo penale e che non assumono la qualità di imputato (i difensori, le persone offese, le parti civili, i responsabili civili, i civilmente obbligati per la pena pecuniaria, gli amministratori giudiziari, i consulenti delle parti, i periti). La circolare richiama poi il decreto "Cresci Italia", nel quale, all’articolo 16 comma 4, si ammette la possibilità di utilizzare la Pec per l’invio di notificazioni a persona diversa dall’imputato con riferimento agli articoli 148, comma 2, 149, 150, 151, comma 2 del Codice di procedura penale. Un elenco che la difesa considera tassativo e che esclude l’articolo 161 comma 4. Per la Cassazione però la linea corretta è quella Corte d’appello e, avvalorandola, mette in evidenza come, sulla base dell’articolo 148, comma 2 bis, del Codice di procedura penale, l’autorità giudiziaria può sempre disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei, con l’unico onere a carico dell’ufficio che invia l’atto di attestare di avere trasmesso il testo originale. La stessa disposizione del "Cresci Italia" va letta in questa prospettiva e sottrae all’invio via Pec (ma evidentemente ciò vale anche per strumenti analoghi come il fax) la notifica da effettuare direttamente alla persona fisica dell’imputato. Tuttavia la notifica prevista dall’articolo 161 comma 4 viene eseguita attraverso consegna al difensore, sia pure nell’interesse dell’imputato. "Si tratta, infatti - osserva la Cassazione - di una norma di chiusura che intende perfezionare il meccanismo legale di notifica in quei casi in cui l’imputato prima abbia eletto o dichiarato domicilio e poi si sia reso non reperibile allo stesso, senza comunicarne alcun mutamento". Una soluzione diversa, sottolinea la sentenza, sarebbe illogica, visto che condurrebbe a ritenere che il difensore, al medesimo indirizzo di posta elettronica, può ricevere notificazioni per sé, ma non potrebbe invece accettare notificazioni all’imputato che pure è previsto dalla norma che possono essere effettuate attraverso consegna a lui. Tanto più poi, conclude la Cassazione, che la Pec offre le stesse certezze della raccomandata per quanto riguarda l’identificazione del mittente e la stessa Corte ha legittimato il suo utilizzo anche in assenza dei decreti del ministero della Giustizia, destinati a disciplinarne l’utilizzo. Il pensiero unico di Davigo di Beniamino Migliucci (Presidente Unione Camere penali) Il Tempo, 22 aprile 2016 Il Presidente dell’Anm ha rilasciato alcune dichiarazioni che, evidentemente, rappresentano anche il pensiero del sindacato dei magistrati. Non destano meraviglia, perché si tratta di considerazioni datate. La presunzione di innocenza, secondo il dottor Davigo, sarebbe un fatto tutto interno al processo e non avrebbe riflessi nei rapporti sociali e politici. L’affermazione è errata, non solo perché il principio è inserito nella Costituzione nella parte riguardante diritti e doveri dei cittadini, ma anche perché non si può sostenere ragionevolmente che sia indifferente che una persona sia innocente o meno nei rapporti sociali. Voler sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo, ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie. L’attenzione si dovrebbe spostare, con logica inquisitoria, dal risultato del processo alle indagini, che diverrebbero guida per decidere della legittimazione di una persona a godere pienamente dei propri diritti civili. Che il ragionamento sia sbagliato è di solare evidenza, e l’ultima conferma, se ve ne fosse bisogno, viene dall’assoluzione degli imputati nel processo di Salerno sul quale puntava l’ex pm De Magistris per dimostrare il complotto ai suoi danni. La politica, appaltando alla magistratura una serie di deleghe, si è indebolita. E così, invece di dover definire le responsabilità dei singoli nel processo penale, la stessa ha assunto impropriamente il compito politico di lottare contro i fenomeni criminali. Non solo, ma la politica ha omesso di difendere il principio di presunzione di innocenza, emanando leggi che se ne discostano, permettendo così di sminuirne la valenza. Sostiene, ancora, il Dott. Davigo, che la politica è allergica al controllo di legalità. Bisogna, tuttavia, intendersi. Se ci si riferisce all’accertamento delle responsabilità individuali, è chiaro che questa competa alla magistratura. Se, invece, si allude a un esteso controllo sulla vita amministrativa e politica del Paese, si finisce con l’attribuire alla magistratura compiti che non ha. Il Dott. Davigo ha ricordato che i magistrati fanno un mestiere diverso dalla politica. Vero, lo pretende la salvaguardia degli equilibri costituzionali. Perché la magistratura ha un programma politico (manettaro) per tutto di Renzo Rosati Il Foglio, 22 aprile 2016 Prendete nota di questi concetti. Intercettazioni: "Alcune rimarranno border line, ma se il pm e il giudice le ritengono utili per descrivere il contesto saranno diffuse". Presunzione d’innocenza: "È un elemento interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici. Come se un fatto penalmente irrilevante non fosse deontologicamente disdicevole". Enunciati il primo al Corriere della Sera da Giuseppe Cascini, pm dell’inchiesta su Mafia Capitale, e il secondo al Fatto da Piercamillo Davigo, ex Mani pulite ora presidente dell’Associazione magistrati, possono essere considerati due punti-chiave di un programma politico che sta prendendo forma nella magistratura. Programma agitato intanto come reazione alle riforme annunciate da Matteo Renzi, e che verrà testato al referendum costituzionale quando Magistratura democratica, la corrente di Cascini, farà campagna per il "no": ma che potrà in caso di sconfitta renziana divenire anche agenda di governo; o in caso di vittoria fornire la ridotta etica ("Onestà, onesta!") a un’opposizione populista-grillina-benecomunista. Un "Resistere, resistere, resistere" 16 anni dopo quello del 2002 contro il Cavaliere. Per sorte, i due pronunciamenti di Davigo e Cascini arrivino mentre vengono archiviate le accuse di complotto contro l’ex pm Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli, per sabotare le inchieste "Why not" e "Poseidone", inchieste ad ampia diffusione di avvisi di garanzia e di intercettazioni. De Magistris era eccessivo perfino per gli standard giustizialisti: e tuttavia quali furono gli effetti di quelle inchieste? Cadde un governo, quello di Romano Prodi; il ministro della Giustizia di allora, Clemente Mastella, dovette fare le valige e divenne "impresentabile"; la politica nazionale e locale fu deviata. Ecco: se il combinato disposto tra presunzione d’innocenza a sovranità limitata e intercettazioni a sovranità illimitata si riproponesse oggi a Potenza, o magari in qualche altra inchiesta, avremmo un bis al cubo, perché Renzi non è il declinante Prodi di allora, perché il Pd renziano sta rompendo i ponti con le procure, e perfino Repubblica non si presta più al gioco. Così è Marco Travaglio sul Fatto a raccogliere il testimone, rendendo plastico l’O.K. Corral Davigo-Renzi, impaginati schiena contro schiena. Come ha scritto il Foglio, la linea Davigo si può così sintetizzare: "Non c’è conflitto tra noi e i politici, basta che si adeguino". E il catenaccio è a tutto campo: sulle intercettazioni, sulla prescrizione, sulla presunzione d’innocenza, sull’inefficienza e sul riordino degli uffici giudiziari. In pratica: sbarramento preventivo alle quattro maggiori riforme che Renzi ha detto di voler approvare. È utile farsi un giro su Questione Giustizia, rivista online di Magistratura democratica. Proprio Cascini è autore di un articolo sulle intercettazioni, definite "barbarie" dal premier. Titola Questione Giustizia: "Dalle circolari delle procure di Roma, Torino e Napoli vengono le soluzioni utili per il legislatore". Soluzioni che "andrebbero recepite nel ddl governativo in discussione al Senato". Anche la riforma dell’ordinamento giudiziario, anticipata dal Foglio del 26 marzo, andrebbe riscritta in quanto "soffre di insufficiente maturazione culturale". Riscritta come? Secondo le indicazioni del presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli. Qui però non si vola sui massimi principi, ma su "mutamento funzioni, semi direttivi tabellarizzati, discontinuità degli incarichi direttivi". Dopo aver nicchiato un po’ Md ha deciso di contrastare anche il "vulnus" del pensionamento dei magistrati a 70 anni anziché 75, contro il quale l’Anm ha fatto lobbying parlamentare, ottenendo deroghe. L’allarme democratico è allora per le "procure in bilico". A Taranto è stato collocato a riposo il procuratore generale Franco Sebastio, responsabile dell’inchiesta Ilva, subito sceso in campo per il referendum anti-trivelle. Così, tra ricorsi al Tar e alla Corte costituzionale per questioni di carriere e indicizzazione delle pensioni, la magistratura formato Davigo guarda ora al referendum di ottobre. "È in gioco l’architettura democratica dello Stato" dice il comunicato per il no di Md. Difficile che Davigo schieri addirittura l’Anm. Anche se da quando ha abbandonato la corrente di Magistratura indipendente è oggetto di un insistente pressing da parte di pezzi grossi, e schierati, delle procure. Tipo Armando Spataro, procuratore della repubblica di Torino; che ha appena annunciato l’adesione al comitato per il no di Alessandro Pace e Gustavo Zagrebelsky. Media e processi. Servono regole, ma è importante soprattutto la coscienza di Renato Balduzzi Avvenire, 22 aprile 2016 Al sesto Salone della giustizia, che chiude oggi i suoi lavori a Roma Eur, si è svolta una interessante mattinata, promossa dal Csm, sul tema "Processo penale e media": tema sempre ricorrente, che sta al fondo di tante altre questioni dibattute, dalle intercettazioni telefoniche all’imparzialità del magistrato, ai processi-spettacolo. Spettacolo, sì, come troppo spesso lo è la politica, ma anche la sanità o, appunto, la stessa giustizia. La critica è nota: amministrare giustizia sotto i riflettori, o, peggio, avendo in parallelo i processi mediatici, può ridurre la serenità e l’indipendenza del magistrato, influire sulle strategie processuali, condizionare l’esito finale, disorientare l’opinione pubblica invece che favorirne la formazione. Ma (si sono chiesti Antonello Mura, Luca Palamara, Giovanni Bianconi e chi scrive) come evitare questi rischi senza mortificare la funzione dei mass media di "cane da guardia" della democrazia, per usare quella significativa espressione anglosassone, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ancora recentemente ripreso? Le regole ci sono: da quelle che vietano la divulgazione di notizie coperte da segreto istruttorio, a quelle che proteggono i dati sensibili, da quelle deontologiche interne alla professione giornalistica, sino a quelle recentemente dettate dal Consiglio superiore della magistratura, che ha introdotto la necessità di autorizzazione per i magistrati che partecipino in modo non occasionale a trasmissioni radiofoniche, televisive ovvero diffuse per via telematica o informatica, nelle quali vengono trattate specifiche vicende giudiziarie ancora non definite nelle sedi competenti. Quello che invece non sempre c’è, è l’adesione intima e convinta a tali regole. Che significa, per i magistrati, assumere l’abito mentale di chi sa di dover essere soggetto soltanto alla legge, e non pure alle luci della ribalta o all’approvazione della piazza. Per gli avvocati, muoversi con la consapevolezza di essere il presidio del fondamentale principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva. Per i giornalisti, rinunciare all’ansia da scoop a tutti i costi e, per contro, preoccuparsi di essere vero "medium", cioè legame tra il mondo del processo e la pubblica opinione. Insomma, è soprattutto una questione di coscienza, non a caso definita dal John Henry Newman, cardinale e beato, come "il primo di tutti i vicari di Cristo". Sicurezza e carcere, la verità conviene di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 22 aprile 2016 Il tema della giustizia è altamente infiammabile nel dibattito pubblico, soprattutto quando riguarda il potere. Quel dibattito ha tenuto banco anche in questi giorni, oscurando sui media nazionali un’iniziativa che in Italia non ha aveva precedenti. Per la prima volta infatti si sono tenuti (lunedì e martedì scorsi a Roma) gli Stati generali sull’esecuzione penale, al termine di un percorso durato un anno e che ha messo a confronto esperti del settore (da giuristi a politici, da magistrati a dirigenti penitenziari a politici, da educatori a medici) con l’obiettivo di rendere più efficace appunto l’esecuzione della pena. Un tema decisivo riguardando la sicurezza sociale. Solo "Avvenire" e "Il Sole 24 Ore" hanno dato risalto alla cronaca della due giorni. Il primo per un’evidente sensibilità cristiana sul tema, il giornale di Confindustria invece perché laicamente coglie non da oggi la rilevanza delle questioni affrontate: una giustizia efficiente ha infatti ricadute positive anche sulla crescita civile ed economica del Paese, come dicono i dati. Spetterà ora al Parlamento e al governo dare corpo alle conclusioni alle quali sono giunti gli Stati generali: declinare la certezza della pena diversamente abbattendo gli steccati fra carcere e società, incrementare pene e misure alternative alla detenzione, più giustizia riparativa per curare la ferita generata dal colpevole sulle vittime e sulla società, riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, superata dai cambiamenti sociali e della criminalità. Il punto di partenza è la verità riguardo a un sistema che illude i cittadini: lasciare il reo al suo destino in carcere non genera più sicurezza per le nostre comunità, anzi. Non è un giudizio buonista, ma un’evidenza supportata dai numeri. La recidiva, cioè il ritorno a commettere reati quando si torna in libertà, è del 56% (fra le più alte in Europa, 67% tra gli italiani e 37% tra gli stranieri) per chi ha scontato tutta la pena dietro le sbarre, dello 0,79% per chi ha beneficiato di una misura alternativa. Umanizzare l’esecuzione della pena quindi conviene a noi oltre che ai condannati. È un dato di fatto ma non ancora senso comune, oltre che un principio sancito dalla Costituzione: "La responsabilità penale - recita l’articolo 27 - è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Inoltre in barba al dettato costituzionale (si è colpevoli solo dopo la sentenza definitiva), il 34,6% dei detenuti oggi nei penitenziari italiani è in attesa di giudizio (la media europea si attesta al 20,4%). Ma quale rieducazione è possibile in carceri criminogeni e degradati a discariche sociali, con il 40% degli ospiti affetti da malattie mentali e il 22,8% dipendenti dalla droga, persone che andrebbero curate altrove? Va dato merito al ministro della Giustizia Andrea Orlando di avere promosso gli Stati generali sull’esecuzione penale e di avere raggiunto risultati importanti nella sua azione. A cominciare dal contrasto al sovraffollamento: i detenuti erano 53.495 a marzo, rispetto ai 67.971 del dicembre 2010, a fronte di una capienza complessiva di 47.709 posti. Nessuno vive più in spazi sotto i 3 metri quadrati (standard minimo sancito dalle convenzioni europee), ma quasi 4 mila carcerati non hanno ancora un posto letto. Progressi anche nel ricorso alle misure alternative: ne beneficiano 41.399 persone, erano quasi la metà nel dicembre 2010. Cambiare aria nelle carceri è urgente anche per prevenire la pericolosa radicalizzazione islamica, che oggi coinvolge 360 detenuti, altri 500 nelle carceri minorili. Le norme in vigore erano state scritte per una popolazione penitenziaria omogenea dal punto di vista culturale, linguistico e religioso, mentre oggi il 30% dei detenuti è straniero. Il ministro Orlando ha promesso cambiamenti anche su questo fronte, comprese nuove risorse economiche. Oggi lo Stato (cioè noi) spende 140 euro al giorno per detenuto, cioè quasi 3 miliardi all’anno. Soldi mal distribuiti, visti gli esiti. In generale è sul fronte della cultura pubblica che il ministro vorrebbe intervenire come premessa al cambiamento. La cella non deve essere l’unica risposta alle legittime paure collettive, se non per i reati più gravi. Ma anche nella maggioranza di governo, Orlando non trova il sostegno necessario. Basti pensare alla mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, che nella formulazione attuale non ha certo disincentivato i flussi migratori ma ha invece intasato le Procure di procedimenti inapplicabili. La misura però è rimasta in vigore come palliativo per curare la (in) sicurezza percepita, che non coincide con quella reale. Non a caso per bucare il muro dell’ipocrisia mediatica sul tema dell’efficacia dell’esecuzione della pena, il ministro si è affidato a un video messaggio di Checco Zalone. La simpatia per alleggerire la paura e la diffidenza. Ma senza dimenticare che la questione sicurezza è seria. Provenzano ridotto a vegetale: niente pietà per il Breivik italiano di Valter Vecellio Il Dubbio, 22 aprile 2016 Cos’è un diritto umano? L’interrogativo, da ieri, è molto meno ozioso di quanto possa sembrare a prima vista. Accade infatti che un tribunale norvegese riconosce come fondate le rivendicazioni Anders Behring Breivik, nella causa intentata allo Stato per trattamento "inumano" durante la detenzione. Breivik, come certamente tutti ricordano, è l’autore delle stragi di Oslo e Utoya nel luglio 2011, una carneficina che provoca la morte di 77 persone e un numero imprecisato di feriti. Una corte di Oslo ha concluso che le condizioni di detenzione di Breivik "costituiscono un trattamento inumano"; questo perché questo pazzo nazistoide è tenuto in regime di isolamento per quasi cinque anni; e questo sembra violi l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Il giudice Helen Andenaes Sekulic ha stabilito che il diritto di Breivik alla corrispondenza non è stato violato (come invece sosteneva l’autore della strage) e che in questo caso è stata garantita l’applicazione dell’Articolo 8 della stessa Convenzione. Breivik aveva chiesto la revoca delle restrizioni sulle sue comunicazioni con l’esterno, per poter tenere contatti con i simpatizzanti; richiesta che le autorità avevano respinto per motivi di sicurezza a causa della sua "estrema pericolosità", e per prevenire attacchi da parte di qualche suo sostenitore. Giova ricordare che Breivik è stato condannato nell’agosto del 2012 a 21 anni di carcere (il massimo della pena in Norvegia). Insistendo sulla durezza della detenzione, l’avvocato di Breivik, Oystein Storrvik accusa la Norvegia di violare due disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e parla di trattamenti "inumani" e "degradanti". Breivik o c’è, o ci fa; forse entrambe le cose. L’altro giorno, salutando come usano fare i nazisti, e rivendicando di essere un seguace ammiratore di Hitler, si è contemporaneamente paragonato a Nelson Mandela. Per l’avvocato Storrvik sono "segni di vulnerabilità mentale" legati al regime carcerario a cui è sottoposto. Una disumanità, detto per inciso, che prevede 31 metri quadrati di cella divisi in tre settori: area notte, area studi, area per esercizi fisici; un televisore, un lettore dvd, una console per i giochi, macchina per scrivere, libri, giornali. Poi, certo: ci sono inconvenienti, come i caffè serviti freddi, e piatti cucinati in modo che Breivik definisce "peggiori del waterboarding" (e chissà come si fonda questa sua affermazione: improbabile che abbiano praticato su di lui questa tecnica di tortura). Fin qui Oslo, i suoi giudici, la sua giurisdizione. Ora il caso di un altro "mostro", di cui si interessano Marco Pannella, alcuni radicali (Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti di "Nessuno tocchi Caino"), e pochissimo i giornali (e tra i pochi, meritoriamente, questo). È il caso di Bernardo Provenzano, soprannominato "Binnu ù Tratturi" per la violenza e la determinazione con cui ha eliminato i suoi nemici, chiunque gli faceva ombra. Condannato a svariati ergastoli, tutti meritati per una caterva di delitti, "Binnu", da oltre due anni giace in un letto d’ospedale del reparto ospedaliero del carcere San Paolo di Milano. Immobile da mesi, il cervello, dicono le perizie, distrutto dall’encefalopatia; si deve nutrire con un sondino nasogastrico; pesa 45 chili. Ha 83 anni; il suo cuore ? si citano sempre le perizie mediche ? continua a battere, ma ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. In una parola, è un vegetale. Chi lo ha visto, parla di un boss fisicamente irriconoscibile, mentalmente confuso, non riesce a prendere in mano la cornetta del citofono per parlare con il figlio. Non riesce neanche a spiegare al figlio l’origine di un’evidente ferita alla testa: prima dice di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente. La richiesta di differimento pena sollecitata dal magistrato di sorveglianza dopo che i medici avevano definito incompatibili le condizioni del boss con il carcere, viene respinta dal tribunale di sorveglianza di Milano; respinta anche la subordinata dell’avvocato di Provenzano: lasciarlo in regime di carcerazione nello stesso ospedale, però nel reparto di lunga degenza, invece che in quello del 41bis. Il no dei giudici, a differenza del passato, non è motivato con la pericolosità del detenuto, ma nel suo interesse. Si sostiene che "non sussistano i presupposti per il differimento dell’esecuzione della pena, atteso che Provenzano, nonostante le sue gravi e croniche patologie, stia al momento rispondendo ai trattamenti sanitari attualmente praticati che gli stanno garantendo, rispetto ad altre soluzioni ipotizzabili, una maggior probabilità di sopravvivenza". Notare: sono gli stessi giudici a parlare, per Binnu, di "sopravvivenza". Binnu può contare su terapie più adatte nel reparto in cui si trova, spostarlo significherebbe garantirgliene di meno efficaci. Di più: i giudici sostengono che spostarlo, anche solo per 48 ore, potrebbe essergli fatale; ad ogni modo l’attuale condizione è di "carcerazione astratta", lo tengono lì solo per curarlo. Nella relazione medica si legge: "Il paziente presenta un grave stato di decadimento cognitivo, trascorre le giornate allettato alternando periodi di sonno a vigilanza. Raramente pronuncia parole di senso compiuto o compie atti elementari se stimolato. L’eloquio, quando presente, è assolutamente incomprensibile. Si ritiene incompatibile col regime carcerario". Il primario della V divisione di Medicina protetta del San Paolo, dottor Rodolfo Casati, nell’ultima relazione con cui Provenzano è dichiarato incapace di partecipare a un processo penale, scrive che il detenuto "è in uno stato clinico gravemente deteriorato dal punto di vista cognitivo, stabile da un punto di vista cardiorespiratorio e neurologico; allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana? Alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale. Si ritiene il paziente incompatibile con il regime carcerario. L’assistenza di cui necessita è erogabile solo in struttura sanitaria di lungodegenza". Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando "non risulta essere venuta meno la capacità del detenuto Provenzano Bernardo di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza, anche in ragione della sua particolare concreta pericolosità non sono stati rilevati dati di alcun genere idonei a dimostrare il mutamento né della posizione del Provenzano nei confronti di Cosa nostra, né di Cosa nostra nei confronti di Provenzano". Un capomafia a tutti gli effetti, insomma; per questo il 24 marzo scorso il ministro firma una proroga del ‘41 bis nei suoi confronti per altri due anni. Paradossi su paradossi. Le Procure di Caltanissetta e Firenze conferma l’assenso alla revoca del 41 bis, già espresso nel 2014; la Procura di Palermo invece cambia idea: due anni fa era favorevole al "regime ordinario", oggi non più. Perché? Nelle sedici pagine del provvedimento ministeriale, si legge: "Seppure ristretto dal 2006, Provenzano è costantemente tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa". Anche la Superprocura è d’accordo al mantenimento del "carcere duro". Il ministro si è uniformato. Ad ogni modo, delle due, l’una: o Provenzano è un "vegetale", e non ha senso tenerlo al 41 bis; oppure è tutta una mistificazione, e a questo punto lo si dica. E infine: Alfonso Sabella, magistrato non certo sospettabile di indulgenze, e fama di "cacciatore di mafiosi", giorni fa si dichiarato convinto assertore della validità del "regime" carcerario 41-bis. Proprio per questo, sostiene, per evitare che "si getti discredito su questo strumento che può servire solo se applicato nei casi necessari si devono evitare "rischi" come quello che si sta correndo con l’insistenza su un ex padrino ormai alla fine". Provenzano, appunto. Giornali e televisioni hanno parlato diffusamente, del "caso" Breivik, e con toni, spesso, scandalizzati. Del "caso" Provenzano neppure un inciso. Una ragione ci sarà, ma la risposta è bene se la dia il lettore. Il caso Regeni, tra giustizie difficili e verità improbabili di Amedeo Piva Redattore Sociale, 22 aprile 2016 Non resta che accontentarsi delle bugie? Quello che possiamo è "fare memoria" di quello che accade, non nel senso banale di non dimenticare, ma nel senso più pieno di farne derivare un insegnamento e trasformare questa memoria in cultura inclusiva. Non ci si aspetta che un promettente ragazzo di ventotto anni, ricercatore universitario, venga rapito, torturato e ucciso: tutti siamo rimasti sconcertati e addolorati quando è stato ritrovato il corpo senza vita di Giulio Regeni. Per quanto la situazione in Egitto sia precaria e complessa, come può accadere che un contesto di studio e ricerca si trasformi improvvisamente in un brutto scenario di guerra, con inquietanti ipotesi che coinvolgono servizi segreti, poliziotti senza scrupoli, strumentalizzazioni di politica interna e addirittura complotti internazionali? Tutti vorremmo giustizia e tutti pretenderemmo verità, ma la prima facciamo fatica a definirla e della seconda avremo probabilmente solo frammenti. Quando invochiamo giustizia diamo voce alla rabbia perché quanto è accaduto non ci appare accettabile, percepiamo una violenza inattesa e "ingiusta": ci interessa solo che quella violenza sia in qualche modo "compensata" e l’equilibrio ristabilito. Non ci interessa sapere in che modo e da chi, non ci chiediamo se realisticamente sia possibile, e neppure sapremmo indicare con esattezza cosa vorremmo che accadesse: esigiamo solo che "giustizia sia fatta". Allo stesso modo, quando pretendiamo di conoscere la verità, diamo per scontato che essa sia sempre lineare, ricostruibile e "confessabile". Purtroppo quasi mai la verità è lineare, spesso è estremamente complessa da ricostruire e, se pure fosse possibile, in alcuni casi (come quello di Giulio Regeni) questa verità non sarebbe realisticamente "confessabile", perché andrebbe a toccare -anche indirettamente - delicati equilibri politici e internazionali. E allora? Non resta che accontentarsi dell’ipocrita balletto di bugie e false minacce tra cancellerie e diplomazie? Benché - lo sappiamo tutti per esperienza - ci siano amarezze destinate a rimanere amare e domande destinate a rimanere senza risposta, non è vero che possiamo solo dimenticare e aspettare che il tempo faccia il suo analgesico mestiere. Quello che possiamo è "fare memoria" di quello che accade, non nel senso banale di non dimenticare, ma nel senso più pieno di farne derivare un insegnamento e trasformare questa memoria in cultura. Uscire, ad esempio, dal vicolo asfittico dell’orgoglio nazionale e contestualizzare l’accaduto: quanti ragazzi egiziani hanno subito la stessa sorte di Giulio Regeni? Quante mamme egiziane non hanno potuto neppure riavere il corpo del proprio figlio? Fare memoria è favorire una cultura inclusiva che non sia solo l’esito delle contrapposizioni di interessi ed esigere, ad esempio, che tra le contropartite degli accordi internazionali ci siano anche impegni verificabili sul piano dei diritti sociali. Fare memoria è non dimenticare che la giustizia più efficace è quella che previene i lutti, non quella che li segue. Anche il presidente della Repubblica, a proposito di Giulio Regeni, ha sintetizzato il suo pensiero: "Non vogliamo e non possiamo dimenticare la sua passione e la sua vita orribilmente spezzata" perché "fare memoria è un atto di pace". Campania: Garante dei detenuti, nomina prorogata senza una scadenza di Laura Arconti (militante Radicale) Il Dubbio, 22 aprile 2016 La Regione Campania si è dotata della figura del Garante con la legge regionale n. 18 del 24 luglio 2006, (pubblicata nel bollettino regionale n. 36 del 7 agosto) che porta il nome di: "Istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittiva della libertà personale". L’articolato è molto minuzioso nella definizione dei compiti del Garante, che dovrà occuparsi delle persone presenti negli Istituti penitenziari, negli Istituti penali dei minori, nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri, nonché delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. L’incarico di Garante è ricoperto dalla dottoressa Adriana Tocco, nominata l’8 febbraio 2011 con il decreto n. 13 del Presidente del Consiglio Regionale Stefano Caldoro. La legge n. 18/2006, istitutiva del Garante, all’articolo 2 recita così: "Il Garante resta in carica per l’intera legislatura e non può essere rieletto": di conseguenza la dottoressa Tocco avrebbe dovuto decadere nel 2015 e non avrebbe potuto essere rieletta. Ma non è così: la proposta di legge n. 51, depositata il 16/7/2010, assegnata alla Commissione Consiliare Permanente, aveva modificato i termini di vigenza del mandato. Questa legge all’art. 1 abroga dalla legge istitutiva del 2006 le parole "non può essere rieletto" e all’art. 2 recita: "La presente legge è dichiarata urgente, ed entra in vigore il giorno successivo la sua pubblicazione sul Bollettino Regionale". E la durata del mandato? Nel sito della Regione Campania non c’è traccia alcuna di un provvedimento che fissi la durata, e tanto meno di una legge o di un decreto che abroghi la decadenza concomitante con la fine della legislatura, prevista dalla legge 18/2006. Informazioni "orali" dicono che il termine di 5 anni è scaduto, ma che c’è un dispositivo in base al quale il garante resta in carica anche dopo la scadenza, finché non venga nominato il nuovo Garante, allo scopo di assicurare la continuità della funzione: la dottoressa Tocco sarebbe dunque "in attesa di nuova nomina". Ogni accurata ricerca su sito non ha consentito di verificare le fonti normative di tali dispositivi: addirittura esistono nel sito dei link che dovrebbero condurre a leggi e decreti relativi al Garante, ma che in realtà conducono a contenuti collaterali, come per esempio lo stanziamento di somme a favore di una Associazione esterna per consulenze prestate all’Ufficio del Garante. Per il momento si resta in attesa di notizie, mentre nell’elenco del Ministero l’aggiornamento 8 marzo 2016 non si dà pena di alcuna verifica e porta serenamente il nome della dottoressa Tocco come Garante in carica. Bologna: "Semi di libertà", alla Dozza i detenuti produrranno piante biologiche Redattore Sociale, 22 aprile 2016 Il progetto prevede il recupero della serra del carcere per la formazione sull’agricoltura biologica e urbana che sarà affidata a Cefal insieme ad alcuni docenti della Scuola di Agraria. Obiettivo è produrre piante per il consumo interno e per la vendita sul mercato. Formare i detenuti della Dozza sull’agricoltura biologica e urbana per avviare all’interno del carcere un’attività di impresa per la produzione di piante tradizionali e aromatiche da destinare al consumo interno e alla vendita sul mercato. È l’obiettivo del progetto "Semi di libertà", promosso da Comune, Università, Casa circondariale Dozza, Cefal, Centro Poggeschi, associazione Streccapugn e cooperativa sociale Pictor che, lo scorso 12 aprile, hanno firmato una convenzione. L’iniziativa prevede il recupero della serra del carcere e la costruzione di un impianto fotovoltaico per garantire la massima autonomia dal punto di vista energetico dell’ambiente destinato a vivaio. "Il risultato raggiunto rappresenta un significativo cambiamento nel sistema sanzionatorio - ha detto Nadia Monti, assessore comunale alla Legalità - L’attività di lavoro volontario e gratuito resa all’interno di enti pubblici e organizzazioni di assistenza sociale e volontariato, come abbiamo già potuto sperimentare grazie ai lavori di pubblica utilità e alla messa alla prova permette di promuovere sia un risarcimento concreto che di carattere simbolico verso la società e favorire il percorso di risocializzazione". Il percorso, che durerà fino al dicembre 2018, permetterà ai detenuti coinvolti di acquisire abilità professionali spendibili all’interno del carcere nella fase detentiva e all’esterno, dopo la scarcerazione. La formazione professionale sull’agricoltura biologica e urbana è affidata a Cefal in collaborazione con alcuni docenti della Scuola di Agraria. L’avvio dell’attività di impresa all’interno della quale saranno impiegati i detenuti nella produzione di piante sarà a cura della cooperativa Pictor. Tutte le coltivazioni avranno la certificazione biologica. "L’impiego in lavori di pubblica utilità è un valore aggiunto per la collettività e il territorio per ristabilire una relazione di maggiore fiducia tra soggetti in fase di riabilitazione e società esterna, evitando l’emarginazione - ha proseguito Monti - e favorendo il reingresso positivo nella comunità in un’ottica di umanizzazione della pena, di recupero al sociale del soggetto e di prevenzione dalla recidiva. Con questo progetto abbiamo attivato veri e propri percorsi lavorativi volti a insegnare un’attività pratica che in futuro potrà tornare utile agli stessi detenuti". Napoli: omicidio Bifolco, carabiniere condannato a 4 anni e 4 mesi di Titti Beneduce Corriere della Sera, 22 aprile 2016 Sentenza del Tribunale. I familiari avevano chiesto una pena per omicidio volontario. Il ragazzo, 16 anni, fu ucciso nel settembre 2014 dopo un inseguimento. Quattro anni e quattro mesi, un anno in più rispetto alla richiesta del pubblico ministero: questa la condanna inflitta dal gup Ludovica Mancini al carabiniere Giovanni Macchiaroli, che nel settembre del 2014, nel corso di un inseguimento nel Rione Traiano, a Napoli, uccise il sedicenne Davide Bifolco. Il militare è stato giudicato colpevole di omicidio colposo e condannato anche a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Soddisfatto l’avvocato Fabio Anselmo, che assiste i familiari del ragazzo, anche se il giudice non ha accolto la sua tesi secondo cui si trattò di omicidio volontario. Il carabiniere dovrà versare anche una provvisionale di 40.000 euro. L’udienza si è svolta a porte chiuse, mentre decine di familiari e amici di Davide sostavano davanti all’ingresso principale del Tribunale. Imponente lo schieramento dei poliziotti per il timore di disordini alla lettura della sentenza, ma la situazione appare abbastanza tranquilla. Questa mattina, in attesa del verdetto, un corteo di circa 150 manifestanti si è ritrovato in piazza Cenni, davanti all’edificio del Tribunale di Napoli. In testa al corteo la madre del ragazzo ucciso, Flora, e suoi amici. "Giustizia per Davide", è lo slogan scandito dai manifestanti. "Hai bloccato il cuore di mio figlio, io il tuo me lo mangio, ti uccido". È improntata all’ira la reazione di Flora, la mamma di Davide Bifolco, il 17enne ucciso da un carabiniere che poco fa è stato condannato a quattro anni e quattro mesi per omicidio colposo. La pena viene ritenuta troppo lieve dalla donna e dai manifestanti, oltre un centinaio, che stazionano da stamane - controllati da forze dell’ordine in assetto antisommossa - all’esterno del palazzo di giustizia in attesa del verdetto. "Vergogna - aggiunge la donna - l’altro mio figlio per un furto ha avuto cinque anni, ed è ancora in carcere. A questo che ha ucciso l’altro mio figlio solo quattro anni, vergogna, assassino. Se lui non va in galera anche mio figlio deve uscire". Dopo la notizia della sentenza il clima resta ancora teso sul piazzale antistante gli uffici giudiziari. Soddisfazione per la sentenza emessa dal gup di Napoli nei confronti del carabiniere che uccise con un colpo di pistola il 17enne Davide Bifolco, durante un inseguimento al Rione Traiano di Napoli, è stata espressa dall’avvocato Fabio Anselmo, legale dei familiari della vittima, che si sono costituiti parte civile. Il legale si è dichiarato tuttavia non soddisfatto per la conduzione dell’inchiesta che, ha detto, "meritava indagini più approfondite". Il penalista ha infatti sostenuto la tesi che il colpo non era partito accidentalmente, come sostenuto dalla difesa, ma che il carabiniere abbia puntato l’arma con l’intenzione di colpire il giovane. Pisa: detenuto di 55 anni muore al carcere Don Bosco, disposta l’autopsia quinewspisa.it, 22 aprile 2016 Un 55enne è morto all’interno del carcere di Pisa dopo avere accusato un malore. Sarà effettuato l’esame autoptico, i familiari chiedono chiarezza. L’uomo era originario della Campania ed era nel carcere pisano da circa sei mesi dopo il trasferimento da Volterra. È probabile che il decesso sia arrivato per cause naturali (l’uomo aveva problemi di diabete e l’avvocato della famiglia aveva chiesto la scarcerazione per incompatibilità con la detenzione) ma si attende l’esito dell’autopsia per avere una risposta chiara. Brescia: i detenuti di Canton Mombello a lezione di pet therapy di Mara Rodella Corriere della Sera, 22 aprile 2016 Emy, incrocio tra uno Spinone e un Lagotto, una volta alla settimana entra in carcere per un’ora di lezione ai detenuti. Il ritorno alla vita passa anche da qui. Emiliano sta strimpellando la chitarra al sole, seduto sulla sedia di plastica verde: il concerto in teatro è in programma tra qualche settimana. Non appena Emy entra di corsa in cortile, un balzo oltre i due gradini di cemento, gli arrangiamenti possono aspettare. "Ehi piccola come stai?", "ben tornata, che bello vederti", "dai vieni qua che ti riempio di coccole subito. Ruffiana!". Attilio non parla: basta picchi forte la mano sinistra sulla coscia e faccia un cenno con la testa perché lei corra. E lui gongoli. Lorenzo scuote la testa: "La solita venduta, non mi vuoi più bene!". Emy ha un anno e otto mesi. Simpaticissima. È un incrocio tra uno Spinone e un Lagotto. E fino a quattro mesi fa viveva segregata in un box da sola, "ignorata" dal padrone precedente. Fino a quando non ha incontrato Lara (Gandini) che l’ha presa con sé. E l’ha portata nel carcere di Canton Mombello. Siamo in carcere, ma ce ne dimenticheremo presto, non fosse per il filo spinato che corre in cima al muro rosso di cinta. E con Emy, Lara e Laura (Rossi Martelli), in cortile, una dozzina di detenuti (della sezione di custodia attenuata, per lo più a fine pena) - dimenticheremo davvero anche questo dopo un paio di minuti - partecipano alla loro sesta lezione di pet therapy. Che fa bene anche a Emy, perché dell’uomo non si fida ancora del tutto. Impara lei, imparano i ragazzi. In uno scambio ora grottesco, ora su di giri, ora maldestro e dolcissimo: ma sincero. Spontaneo. Senza barriera alcuna. Non ci sono filtri: bastano due coni bianchi e arancioni, un paio di guinzagli, un piccolo hula hop di plastica fucsia e una abbondante dose di bocconcini succulenti. Questione di "empatia", ci spiegano le ragazze: un’ora dopo capiremo che non avrebbero potuto usare definizione più azzeccata. Si inizia con un rituale: la foto di gruppo. Rigorosamente in Polaroid ("non possiamo portare altre macchine fotografiche") schizzando all’ombra delle scale interne dopo il clic per non far bruciare la pellicola. Le tengono tutte, le foto, i ragazzi. Lezione dopo lezione. Non sempre arriva Emy. "E Marco dov’è scusate?". "Lo sai che lui aveva il pastore tedesco e preferisce lavorare con i lupi". Prima la teoria: si parla del benessere del cane e dei suoi bisogni, primari e secondari. "Secondo voi quali sono?". "Cibo, acqua, passeggiate, vaccinazioni..." e si arriva a concetti come "abitudini, sicurezza, leadership e socializzazione. E maltrattamenti": è come se valessero per Emy tanto quanto per ognuno di loro. Fuori e dentro il carcere. "Ma perché a volte diventano aggressivi?" chiede Attilio a Laura. Lui che ha due Pastori del Caucaso ("ora sono con mio padre") ricorda quando "parlavo loro in dialetto, mi obbedivano sempre, anche liberi in passeggiata. E guai se mi sdraiavo nell’erba, spingevano fino a farmi da cuscino". "Se penso a quelli che li lasciano in autostrada, ma come si fa?" si arrabbia Lorenzo. È tempo degli esercizi pratici: staffetta a squadre con distrazione degli avversari ("a chi vince un litro di birra ovvio!". Ed Emy al guinzaglio naturalmente. Nonostante le resistenze iniziali, rideremo tutti di sana pianta per una buona mezz’ora. Dimenticandoci, di nuovo, di quelle mura di cinta. In un gioco di interazione con un batuffolo a quattro zampe a tratti confuso, di sfida, prese in giro e piccoli trucchi ("Lara dammi un sacco di biscottini vah"). Con una costante, il rispetto: "Oh ragazzi non dobbiamo strattonarla altrimenti si spaventa, mi raccomando". Emil è bravissimo ("adoro i cani, ne ho sempre voluto uno"), Attilio ha un feeling speciale con Emy ("quando ero piccolo mia mamma era disperata: se ne trovavo uno per strada lo portavo a casa ogni volta") ma il più dolce è Modu. Arriva dal Senegal: "anche là avevo un pastore tedesco, poi purtroppo l’hanno investito. Pure nell’officina in cui lavoravo ne tenevamo uno, ci capivamo solo guardandoci mi creda! Uscito di qua mi piacerebbe tantissimo, ma nell’appartamento in cui viviamo non è possibile...". Dall’ingresso sbuca la direttrice del carcere, Francesca Gioieni. Ma i ragazzi sono presissimi con la staffetta. Nonostante "da cinque anni una volta al mese consentiamo ai nostri detenuti di poter incontrare i loro animali domestici", ricorda, questo della pet therapy "è un progetto pilota bellissimo. E noi siamo davvero felici, grati e riconoscenti a tutte le persone meravigliose che collaborano con noi, peraltro a titolo gratuito. Soprattutto perché si accorgono che alla fine, paradossalmente, il carcere ti dà molto di più di quanto non ti chieda: sincerità e schiettezza, alla riscoperta di quei rapporti umani che fuori troppo spesso si perdono". È qui, "che ci si riscopre". Conferma Laura, libera professionista che l’hanno scorso, alla fine di un corso, ha creato un team. "Qui in carcere gli incontri stanno a metà tra l’addestramento e la pet therapy. Tutti ne traiamo benefici. E divertimento". E vita. Emiliano riafferra la chitarra. Ma segue Emy con lo sguardo fino a che non gira l’angolo: "Alla prossima!". Padova: prima presentazione per il libro di Riina jr, in pochi giorni esaurite due edizioni di Claudio Malfitano Mattino di Padova, 22 aprile 2016 Il figlio del boss incontra i lettori dopo l’intervista da Vespa. L’editore: "Minacce e insulti ma stiamo vendendo molto". Contro la sua intervista televisiva a "Porta a Porta" c’è stata la levata di scudi di mezzo parlamento, dei presidenti del Senato e della Commissione antimafia. Venerdì 29 aprile incontrerà a Padova direttamente i suoi lettori, come fa ogni scrittore in occasione della pubblicazione di un libro. Giuseppe Salvo Riina però non è uno scrittore qualsiasi. È il figlio del "capo dei capi", il boss della mafia siciliana Totò, di cui nel libro "Riina family life" racconta il lato più privato, quello di padre. Salvo è il terzogenito dei quattro figli di Totò Riina e Ninetta Bagarella. Nel 2012 ha finito di scontare una condanna a 8 anni e dieci mesi per associazione mafiosa. Adesso vive a Padova in libertà vigilata e per questo ha deciso di fare qui il primo incontro di presentazione del suo libro. Sarà nel pomeriggio di venerdì prossimo, appunto, alla libreria internazionale Nexus di via Beato Pellegrino, proprio di fronte all’ingresso di Palazzo Maldura, sede delle facoltà umanistiche del Bo. "Non vogliamo enfasi. Sarà una normale e discreta presentazione come tante", si affretta a precisare Mario Tricarico, proprietario della "Anordest", la casa editrice del libro. Un segnale è la scelta della libreria: piccola e quasi nascosta sotto i portici, con una sala che può ospitare al massimo una quarantina di persone. C’è da dire però che alcune librerie, come Feltrinelli, hanno rifiutato di vendere il libro e di ospitarne la presentazione. "Riceviamo ogni giorno migliaia e migliaia di insulti. E anche minacce personali - racconta. Ma noi non vogliamo sfidare nessuno, solo rivendicare il diritto-dovere di pubblicare un libro. Spero che ci sia una reazione civile, composta e democratica. Penso che Padova sia sempre stata così. E spero che il sindaco Bitonci abbia risolto i suoi problemi". Nel 2012 infatti, quando il primo cittadino era deputato, aveva presentato un’interrogazione parlamentare e avviato una raccolta firme contro la presenza in città del figlio del boss. Nonostante boicottaggi e perplessità il libro, secondo l’editore, fa registrare numeri da best seller: "Abbiamo esaurito la seconda edizione in pochi giorni. La terza ristampa arriverà nelle librerie la prossima settimana - racconta Tricarico. E c’è un forte interesse all’estero: nei prossimi giorni arriverà da Londra una troupe della Bbc per intervistare l’autore. E stiamo trattando i diritti per la traduzione in dieci nazioni". Padova ospiterà la prima italiana ma l’obiettivo di Riina è anche quello tornare nella sua Sicilia: "Faremo una presentazione a Vicenza, perché lì c’è il suo avvocato e non ha bisogno di chiedere permessi al giudice - spiega l’editore. Ma vogliamo organizzare incontri anche a Palermo e Corleone. Senza alcun timore". Reggio Calabria: cala il sipario sul progetto dell’Agape "Mettiamoci in gioco" strill.it, 22 aprile 2016 Il 20 aprile 2016 nella sala convegni del Liceo Scientifico "Alessandro Volta" di Reggio Calabria si è svolto l’incontro conclusivo del progetto: "Mettiamoci in gioco: giovani per la legalità e la cittadinanza attiva" realizzato dal Centro Comunitario Agape nell’ambito della "Rete per la legalità" promossa dalla Camera di Commercio di Reggio Calabria. Tale incontro è stato la tappa conclusiva di un più ampio percorso che ha coinvolto gli studenti delle terze classi del Liceo Volta di Reggio Calabria. Finalità del progetto era quella di favorire una presa di coscienza del fenomeno mafioso attraverso le testimonianze di chi ne è stato vittima e di chi si è ribellato nonché far comprendere ai ragazzi che in una società civile l’organizzazione della vita personale e sociale si fonda sul rispetto della legalità. All’evento conclusivo, che si è svolto in assemblea plenaria, gli studenti che hanno partecipato al progetto hanno ascoltato le testimonianze dei relatori invitati: Simona Dalla Chiesa e Tiberio Bentivoglio. All’incontro, moderato da Mario Nasone, Presidente del Centro Comunitario Agape, erano altresì presenti: Natina Crea, Segretario Generale della Camera di Commercio, Sergio Conti di iamu.it e Mariella Palazzolo, Dirigente scolastica del Liceo. Durante la prima parte dell’incontro è stato mostrato a tutti i presenti la video-intervista, realizzato da Sergio Conti di iamu.it, ad alcuni tra i ragazzi che hanno partecipato al progetto. Le interviste sono state particolarmente significative perché i ragazzi si sono raccontati ed è emerso come tutti loro abbiano fatto propri quei principi che hanno ispirato il progetto stesso: il senso di legalità, la necessità di fare rete e di mettersi in gioco e l’utilità di praticare una cittadinanza attiva. Gli interventi dei relatori hanno preso l’incipit proprio dalle parole dei ragazzi: la Dirigente scolastica Palazzolo ha ricordato come il Liceo Volta punti molto su progetti e percorsi che sensibilizzino alla legalità ed alla cittadinanza attiva nella convinzione che tali percorsi, se realizzati con impegno e costanza, portino a risultati positivi. Mario Nasone, nella veste di mediatore e coordinatore del progetto, ha espresso parole di ringraziamento nei confronti di tutti i ragazzi ed ha affermato "abbiamo cercato con il progetto di scavare nelle coscienze dei ragazzi per fare venire fuori le cose belle che si portano dentro". Sergio Conti di iamu.it ha posto l’accento sul tema del progetto (Mettiamoci in gioco) e si è detto soddisfatto che i ragazzi abbiano compreso l’importanza di partecipare alla vita sociale in prima persona perché "solo se si è in tanti può cambiare qualcosa". A seguire l’intervento di Simona Dalla Chiesa, figlia del Generale Carlo Alberto ucciso dalla mafia, la quale, dopo aver elogiato la scuola come luogo di formazione di una cittadinanza attiva ed i ragazzi così convinti nel voler cambiare e creare una società diversa e più bella per il futuro (#changing è l’hashtag che i giovani hanno pensato come slogan del progetto), ha ricordato che non esiste libertà senza passare per la legalità e quindi per la responsabilità. Infine ha aggiunto che, altrettanto fondamentale, per ogni percorso ed ogni attività che mirino alla costruzione di un futuro più giusto è il ruolo della memoria: "ragazzi, adesso che è il vostro momento e siete pronti a raccogliere il testimone, guardate alla forza e al sacrificio di chi voleva lasciarvi un mondo migliore". Particolarmente forte è stata la testimonianza di Tiberio Bentivoglio, imprenditore anti-racket, che ha raccontato una parte della sua storia fatta di 65 denunce e 8 attentati alla sua vita ed alla sua attività. I ragazzi attentissimi lo hanno sentito ribadire che "non c’è strada più giusta della denuncia. Non è stato facile, ma l’ho fatto e lo rifarei". Ha concluso gli interventi la dott.ssa Natina Crea, Segretario generale delle Camera di Commercio di Reggio Calabria, che, dopo avere menzionato tutte le iniziative che vedono la Camera di Commercio impegnata in prima linea nel rispetto della legalità, ha rinnovato l’impegno per ulteriori progetti che abbiano come obiettivo la formazione di una cultura della legalità ed espresso la vicinanza dell’ente a tutti i giovani. Ferrara: gli attori-detenuti del carcere in scena al Teatro Comunale di Carolina Fiorini estense.com, 22 aprile 2016 Il 28 aprile lo spettacolo "Me che libero nacqui al carcer danno" con la regia di Horacio Czertok in collaborazione con Andrea Amaducci. Il teatro è un "veicolo d’amore, un luogo d’incontro tra culture", dove la "cultura del carcere ha degli standard sociologici tutti suoi, ignorati dal semplice cittadino". Per il regista Horacio Czertok il teatro fatto all’interno della casa circondariale è un’opportunità di dialogo tra la città e i suoi abitanti perché il teatro porta cultura e, contemporaneamente, s’arricchisce lui stesso quando racconta la vita delle persone, crea sinergia e dà la possibilità alle persone di raccontarsi. "Me che libero nacqui al carcer danno", s’intitola lo spettacolo che andrà in scena giovedì 28 aprile alle ore 21 presso il teatro comunale Abbado di Ferrara, uno spettacolo realizzato dagli attori-detenuti del carcere circondariale di Ferrara, dalla regia di Horacio Czertok in collaborazione con Andrea Amaducci e prodotta dal teatro Nucleo. È uno spettacolo teatrale ispirato alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, rappresentazione che avrà anche una parte musicale grazie alla collaborazione con Gianfranco Placci, Roberto Manuzzi e con il conservatorio Girolamo Frescobaldi di Ferrara. La messa in scena si concentra sul combattimento di Tancredi e Clorinda, ove si trova l’essenza della tragedia: recitazione, azione e canto mettono in collegamento i detenuti, li spingono all’analisi e alla collaborazione, al mettersi in gioco e, per molti, rappresenta una sfida con se stessi e con la lingua italiana. "L’idea della città è quella di essere sempre più vicini al carcere - ha affermato l’assessore Chiara Sapigni. Dal 2008 è il quarto spettacolo fatto coi detenuti e ciò comporta uno sforzo non indifferente per l’impegno e per le forze necessarie per portare a termine questo tipo di progetti". Il giorno precedente lo spettacolo, mercoledì 27 aprile alle 17, si terrà la presentazione de "Me che libero nacqui al carcer danno" presso il ridotto del teatro comunale Abbado. Inoltre verrà presentato da Cristina Valenti, docenti dell’università di Bologna, il terzo numero della rivista "Quaderni del teatro carcere" dedicato alla Gerusalemme liberata nelle carceri della regione Emilia Romagna; ne seguirà la proiezione del film di Stefano Orro "Gerusalemme liberata in carcere", il quale illustrerà le messe in scena del poema del Tasso nelle carceri di Ferrara, Bologna, Castelfranco Emilia, Reggio Emilia, Parma e Forlì. A seguire una seconda proiezione, "Epica carceraria" di Marinella Rescigno e Davide Pastorello, film dedicato al lavoro d’interpretazione scenica del poema nel carcere di Ferrara. I biglietti per la rappresentazione teatrale del 28 aprile sono disponibili presso la biglietteria del teatro comunale di Ferrara, per maggiori informazioni visitare teatrocomunaleferrara.it. Facciamo tornare i conti sui migranti rifiutati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera-Sette, 22 aprile 2016 Crescono le domande d’asilo, ma aumentano anche le bocciature. Questo vuol dire che la tendenza statistica è già tutt’altro che "buonista". Testa o croce: chi si giocherebbe vita o morte con una chance su quattro lanci di monetina? Nessuno sano di mente. E forse anche ben pochi di coloro che pure concionano di immigrazione impugnando le statistiche del Viminale per sostenere che, siccome solo una parte degli stranieri che chiedono asilo se lo vede riconoscere dalle Commissioni territoriali prefettizie di primo grado, allora ciò starebbe a significare che solo una piccola parte di chi arriva in Italia fugge davvero dalla guerra; che tutti gli altri sarebbero migranti economici e come tali dovrebbero essere rimandati nei loro Paesi perché non meritevoli di protezione internazionale. E che quindi si dovrebbe ritenere uno scandalo che intanto costoro restino invece in Italia, nei mesi durante i quali pende nei Tribunali il loro ricorso giudiziario contro l’iniziale rigetto eventualmente pronunciato da una delle quaranta Commissioni territoriali italiane di primo grado. In questa rappresentazione, però, si dimentica un dato significativo, e soprattutto si sorvola su un altro dato fondamentale. Si sottovaluta, intanto, che la tendenza statistica è già tutt’altro che "buonista", poiché, se crescono le domande d’asilo esaminate dalle Commissioni (da 36.000 nel 2014 a 71.000 nel 2015), crescono anche - rileva uno studio della Fondazione Leone Moressa su dati del Viminale - le bocciature dal 36,2% al 52,6% delle istanze. E poi soprattutto si fa finta di non vedere che in una sede come ad esempio il Tribunale di Milano, che nel 2016 sta già viaggiando al ritmo-record di 400 ricorsi al mese di migranti contro i dinieghi alla protezione internazionale espressi dalle Commissioni territoriali, nel 2015 per ben il 27% sono stati accolti. Vuol dire che più di una volta su quattro c’era una persona che, a dispetto del primo "no" ricevuto alla sua richiesta di asilo, aveva invece tutti i motivi per ottenere protezione internazionale rispetto a persecuzioni che avrebbe nuovamente subìto (per ragioni di religione, politica, razza o orientamento sessuale) se fosse stato rimandato nel suo Paese. Un dato da tenere ben presente prima di parlare con superficialità. Tanto più a un mese dal controverso "accordo" del 18 marzo tra il Consiglio europeo e la Turchia beneficiata in cambio di 3 miliardi di euro: "accordo" che in realtà giuridicamente tale non è per il diritto europeo né per il diritto internazionale, non trovando base nelle procedure previste dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e perciò risolvendosi di fatto "in un comunicato stampa che al più può indicare la condivisione di un auspicato obiettivo politico. Da giurista mi indigno, giuridicamente stiamo parlando del nulla", si è accalorata alla "Terza Giornata per la Giustizia" dedicata dall’Università Statale di Milano a Guido Galli la preside della Facoltà di Giurisprudenza e docente di Diritto internazionale Nerina Boschiero. Paradossi stridenti. E se molti hanno subito notato come (in assenza dei preventivati 4.000 funzionari europei da prestare alla collassata Grecia per esaminare le richieste d’asilo) la "misura temporanea e straordinaria" del rimpatrio di tutti i migranti irregolari dalla Grecia alla Turchia rischi di incorrere nel divieto di espulsione collettiva sanzionato in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, anche il previsto scambio "1 a 1" (cioè un siriano reinsediato dalla Turchia nella Ue per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalla Grecia) sfida il principio di non discriminazione di altre etnie e provenienze. Per non parlare della classificazione della Turchia come "Paese sicuro" ai fini delle regole sull’asilo politico. Etichetta alquanto sdrucciolevole non soltanto per la precarietà delle libertà civili testimoniata ad Ankara dalle incarcerazioni di decine di professori universitari e giornalisti, ma anche per una sfumatura (appena colta in un contributo, pure dalla ricercatrice Giulia Vicini) che fa della Turchia un record planetario. È infatti l’unico Paese al mondo ad aver firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 con una riserva geografica: cioè si vincola a riconoscere lo status di rifugiati politici soltanto a quanti fuggano da persecuzioni in un Paese europeo, mentre concede al massimo solo protezione temporanea paradossalmente a chi invece scappi (proprio come nel caso delle odierne ondate di migranti) da persecuzioni in Paesi extraeuropei. Guardie europee per pattugliare mari e frontiere, c’è l’intesa della Ue di Andrea Bonanni La Repubblica, 22 aprile 2016 I ministri dell’Interno approvano il progetto: "Operativo entro l’estate". Juncker: "Apprezzo il piano italiano". L’Olanda però frena: "No alla replica dell’accordo con la Turchia". Nasce la guardia europea di confine. Si tratterà di un servizio di sorveglianza delle coste e delle frontiere esterne della Ue che agirà in coordinamento con gli Stati membri ma che potrà intervenire autonomamente in caso di emergenza anche senza una loro richiesta. Il nuovo organismo sarà altresì competente per il rimpatrio degli irregolari. I ministri Ue dell’Interno, riuniti ieri a Lussemburgo, hanno approvato la proposta presentata a inizio anno dalla Commissione. Si apre ora la fase della discussione con il Parlamento europeo, che dovrebbe arrivare a votare il provvedimento entro giugno, in modo che possa poi essere approvato in via definitiva dal vertice dei capi di governo il 28 giugno. L’obiettivo è che il nuovo servizio possa essere operativo già a settembre. Ma secondo il commissario all’immigrazione, Avramopoulos, i primi interventi della guardia europea potrebbero arrivare già a luglio. Si tratta di una novità importante perché dà concretezza al principio, enunciato dagli accordi di Schengen ma mai messo in pratica, che le frontiere esterne della Ue sono una responsabilità comune da gestire con strumenti comuni. Una prima idea della Commissione era stata proporre la creazione di un corpo completamente autonomo di guardacoste e polizia di frontiera dipendente direttamente da Bruxelles. In un secondo momento, l’esecutivo comunitario ha dovuto ripiegare, anche per ragioni di fattibilità pratica, su un corpo di pronto intervento, potenzialmente forte di 1.500 uomini che verranno messi a disposizione dagli Stati membri, e che deve essere pronto intervenire entro 72 ore. I dettagli del funzionamento del nuovo servizio, emanazione di Frontex, devono essere ancora definiti attraverso il negoziato con il Parlamento europeo. Comunque la proposta iniziale della Commissione prevedeva che la guardia europea potesse intervenire in caso di emergenza anche senza il consenso preventivo dei governi interessati. Altro elemento cruciale per l’Italia è che il nuovo corpo di guardie di frontiera avrà anche un apposito ufficio responsabile per il rimpatrio dei migranti irregolari. "Sulla guardia di frontiera europea siamo andati avanti, e si chiuderà la partita entro giugno. - ha spiegato ieri il ministro dell’Interno Alfano - Qui c’è accordo, e la cosa importante è che in quel contesto sarà istituito un ufficio appositamente per i rimpatri. L’obiettivo è che, una volta che si è stabilito che i migranti irregolari devono essere rimpatriati, il loro rimpatrio diventi la strategia centrale per tutta l’Ue, e in particolare per il nostro paese, che di irregolari ne ha tanti". Ieri Alfano ha anche confermato che il progetto di un migration compact presentato dall’Italia ha ricevuto il sostegno di molti governi: "Hanno detto in tantissimi che questo approccio è concreto, positivo, e auspicano possa essere deliberato poi a livello di riunione di capi di Stato e di governo". Sulla questione c’è stata anche una lettera che il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker ha inviato a Matteo Renzi, esprimendogli il suo sostegno: "Saluto molto favorevolmente la tua iniziativa che conferma il bisogno di un approccio europeo all’immigrazione, che io ho perorato fin dalla mia elezione come presidente della Commissione. Conto sul tuo continuo sostegno e di lavorare in stretto contatto con te in questo sforzo molto importante". Un riconoscimento che Renzi ha accolto con soddisfazione. "In un anno è cambiato molto, anche per le dinamiche che hanno riguardato Balcani e Turchia. Si è capito che quando l’Italia chiedeva di investire in Africa non lo faceva per gusto di farlo ma come ragionamento politico", ha detto il premier, aggiungendo che "c’è un buon clima con le istituzioni Ue rispetto a qualche mese fa". Sui termini concreti della proposta italiana, che vorrebbe estendere ai Paesi africani il tipo di accordo fatto con la Turchia che prevede forti finanziamenti in cambio dell’impegno a riprendere i migranti irregolare e a frenare il flusso dei profughi, stanno però emergendo le prime riserve. Secondo la presidenza di turno olandese "i Paesi dall’altra parte del mare Mediterraneo che si affacciano sull’Italia non sono come la Turchia, e quindi non possiamo limitarci a copiare il modello di quell’accordo". La Germania da parte sua ha già bocciato l’idea di finanziare l’operazione con l’emissione di euro- bond. Quanto a Juncker, nella lettera a Renzi, a proposito del finanziamento ai Paesi africani fa riferimento al già esistente "Trust fund Ue-Africa" come a un possibile modello. Ma il Trust fund conta attualmente su una dotazione di 1,8 miliardi per tutta l’Africa, mentre solo per la Turchia la Ue ha già accettato di versare 6 miliardi di euro. La distanza da colmare resta evidentemente enorme. Amnesty-Uk, oggi Cambridge in piazza chiede "Verità per Giulio" di Leonardo Clausi Il Manifesto, 22 aprile 2016 Amnesty International Uk si attiva per la vicenda Regeni. Venerdì pomeriggio a Cambridge, città nella cui università studiava il dottorando italiano, si terrà un raduno affinché il governo britannico eserciti la dovuta pressione sul brutale regime di Abdel Fettah el-Sisi per indurlo finalmente a gettar luce sulle responsabilità della sparizione e omicidio di Giulio, scomparso lo scorso 25 gennaio e il cui corpo torturato fu rinvenuto il successivo 3 febbraio. La sua non è che una delle morti e sparizioni che con tragica assiduità caratterizzano la dittatura militare sin da prima che el-Sisi si impadronisse del potere. L’appuntamento, alle 15.30 nella King’s Parade, storica strada della città universitaria, è organizzato in collaborazione con la Cambridge University, il gruppo Cambridge City Amnesty e con il sostegno della Egypt Solidarity Initiative, organizzazione in difesa dei diritti democratici in Egitto. Liesbeth Ten Ham, presidente della sezione di Cambridge di Amnesty, si aspetta un afflusso di circa duecento persone, un numero tutt’altro che basso viste le dimensioni di Cambridge e il fatto che l’iniziativa abbia luogo in un giorno feriale. "La vicenda di Giulio mi riguarda, anche se indirettamente. Io vivo a pochi metri dal suo college. Eravamo praticamente vicini di casa. Da vent’anni faccio parte di Amnesty e abbiamo ripetutamente sottolineato le violazioni che hanno luogo regolarmente in Egitto. Le sparizioni, le violenze. Un adolescente che indossava una maglietta con la scritta "una nazione senza torture" si è fatto due anni di carcere dove è stato torturato; vari giornalisti sono stati incarcerati per aver assistito a dei massacri: non sono che esempi di una prassi sconcertante che in Egitto va avanti da decenni". L’iniziativa punta a coinvolgere attivamente il governo britannico, che solo pochio mesi fa ha accolto al-Sisi a Londra con tutti gli onori e si è finora limitato a rilasciare un blando invito ad accertare la verità. "La versione ufficiale sulla morte di Giulio è ovviamente una montatura e non potrei sottolineare con maggior forza l’importanza che emerga la verità. Non si sta facendo giustizia, né per Giulio né per le troppe altre persone "scomparse" da quando al-Sisi è al potere, e la tortura è una pratica diffusa. È prioritario che si addivenga a delle indagini credibili e che i veri esecutori di questo assassinio siano processati". Lo scorso sei febbraio, i docenti di Cambridge Anne Alexander e Maha Abdelrahman avevano scritto una lettera aperta di protesta al governo egiziano per la morte di Giulio e la brutalità della polizia egiziana. A questo proposito, il deputato labour di Cambridge Daniel Zeichner, che parlerà venerdì, ha dichiarato: "Cambridge prova un profondo senso di shock e tristezza per la tragica morte di Giulio Regeni. Gli sforzi di Amnesty International, dell’università di Cambridge e dei docenti che hanno scritto la lettera aperta sono assai lodevoli, è della debole risposta del nostro governo che sono sempre più scontento". Al momento, una petizione al governo britannico perché questo richieda formalmente una piena indagine sulla morte di Giulio ha raggiunto 10.000 firme, il tetto minimo perché sia presa in considerazione dalle autorità. "Giulio era in mano ai servizi dal 25 gennaio" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 aprile 2016 Caso Regeni. Sei poliziotti e funzionari di intelligence raccontano alla Reuters le ore dell’arresto del ricercatore italiano, prelevato dalla polizia e portato nel compound dei servizi interni. La Nsa smentisce. Dubbi sul luogo dell’arresto: perché Giulio era alla stazione metro Nasser? Giulio era prigioniero della polizia egiziana prima di morire. Se confermata, la rivelazione - o meglio le rivelazioni, giunte da sei fonti diverse - ha il potere di un urugano sul castello di carte imbastito dalle autorità egiziane e spacciato a quelle italiane che hanno fatto calare il silenzio sul caso Regeni. La notizia arriva di pomeriggio sulla Reuters e subito rimbalza sui social network, ripresa da tantissimi utenti, egiziani e italiani: la sera del 25 gennaio Giulio è stato preso dalla polizia e portato nel compound della Nsa, la sicurezza interna. A riferirlo sono tre poliziotti e tre ufficiali dell’intelligence, separatamente. Raccontano tutti la stessa versione. Regeni è stato catturato da poliziotti in borghese alla stazione della metro Gamal Abdel Nasser, nel centro del Cairo, la sera del sesto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Insieme a lui è stato fermato anche un egiziano, di cui non è stato possibile confermare né l’identità né legami con Giulio. Non sarebbero stati target predestinati, ma vittime di retate arbitrarie in una serata calda per la capitale: Il Cairo era assediata dalla polizia per evitare proteste dopo il diktat governativo che vietava assembramenti. I due, Regeni e l’egiziano, sono stati condotti con un minibus bianco con targhe della polizia alla stazione di polizia di Izbakiya. Quasi una fortezza, la descrivono le fonti. La conferma dell’arresto ai tre poliziotti quella notte era stata data dagli agenti di pattuglia: "Ci dissero che un italiano era stato arrestato e portato a Izbakiya. Era Regeni". Un altro poliziotto, di base a Izbakiya, invece, dà una versione differente. Se inizialmente aveva detto di ricordarsi di un italiano arrestato, ha poi sviato: "Non so niente, ho controllato i registri e il nome di Regeni non c’era". Lì Giulio sarebbe rimasto mezz’ora per poi essere trasferito - aggiungono i tre dell’intelligence - a Lazoughli, il compound della sicurezza di Stato, gestito dalla Nsa. Cosa è accaduto dopo? Le fonti dicono di non saperlo, così come non conoscono il destino dell’egiziano arrestato con Giulio. L’agenzia indipendente egiziana Mada Masr fa notare come le rivelazioni non coincidano con quanto emerso in precedenza: Giulio, che doveva raggiungere un amico a Bab al-Louq, avrebbe dovuto prendere la metro alla stazione Sadat, che però il 25 era chiusa perché a piazza Tahrir. Testimoni lo avevano visto entrate nella stazione Behoos: per arrivare a Nasser avrebbe dovuto cambiare alla fermata di Ramses, senza però un apparente motivo perché la Nasser non si trova sulla linea diretta a Bab al-Louq. La Reuters ha chiesto un commento al Ministero degli Interni, capofila della campagna di insabbiamento degli ultimi due mesi e mezzo: "Non abbiamo rilasciato dichiarazioni in merito", la risposta di un funzionario alla richiesta di confermare la presenza di Regeni a Izbakiya. Segue a ruota la Nsa: Mohammed Ibrahim, del dipartimento per le comunicazioni, ribadisce che "non ci sono connessioni tra Regeni e la polizia o il Ministero degli Interni o la sicurezza nazionale. "Non è stato mai detenuto in una stazione di polizia o simili - aggiunge - La sola volta che è entrato in contatto con la polizia è quando dei funzionari hanno timbrato il suo passaporto all’arrivo in Egitto. Se avessimo avuto sospetti sulle sue attività, la soluzione sarebbe stata semplice: lo avremmo espulso". Ma semplice come dicono le autorità egiziane non è stata. Giulio è stato seguito e controllato mentre svolgeva le sue ricerche: un’attenzione identica a quella subita da attivisti, dissidenti, giornalisti egiziani. La sua casa è stata perquisita in sua assenza, è stato fotografato e monitorato mentre parteciva alle riunioni dei sindacati. E infine è scomparso, un nome tra centinaia di altri desaparecidos. Come molti di loro, è stato ritrovato senza vita con i segni inconfutabili di torture prolungate, una firma che gli egiziani conoscono bene, quella dei servizi di sicurezza. Se di verità ancora non ce ne sono, le voci trapelate ieri dovrebbero avere l’effetto di un terremoto sull’omertà che regna ai vertici del Cairo. Se è improbabile quanto riportato dalla presunta "gola profonda" nelle mail a Repubblica, ovvero un coinvolgimento diretto del presidente al-Sisi e del ministro degli Interni Ghaffar nella scomparsa di Giulio, su di loro pesa come un macigno la colpa dell’insabbiamento. La colpa di aver deviato le indagini, sterminato a sangue freddo 5 uomini che andavano al lavoro - non una banda criminale - per addossargli la responsabilità dell’omicidio, di aver fatto ritrovare i documenti di Regeni a casa loro, di aver gridato al complotto islamista e straniero. È probabile invece che Il Cairo continui a tacere o a negare quanto rivelato ieri. Ora spetta al governo di Roma (annichilito dall’assenza di reazioni da parte europea) prendere quelle misure "immediate e proporzionali" millantate dalla Farnesina ma mai assunte dopo il richiamo dell’ambasciatore. Sul fronte interno, però, al-Sisi ha capito che la morsa repressiva potrebbe rivelarsi un boomerang. La manifestazione di venerdì ne è la prova, come la rabbia esplosa due giorni fa quando un poliziotto ha ucciso per un tè un venditore ambulante: mercoledì al-Sisi ha proposto emendamenti alle leggi che regolano il corpo di polizia perché il loro comportamento in strada sia più conforme "agli standard dei diritti umani". Nella serata di ieri a chiedere un’indagine "imparziale e completa" sulla vicenda Regeni sono stati gli Usa, attraverso il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby: "Abbiamo ribadito che i dettagli che sono venuti alla luce dopo la morte hanno sollevato domande sulle circostanze stesse della morte che riteniamo possano essere risolte solo con un’indagine imparziale e completa". Gran Bretagna: il Times; imam estremisti predicano l’odio nelle carceri di Bianca Conte Secolo d’Italia, 22 aprile 2016 L’odio jihadista non conosce confini. Un odio senza tetto né legge, quello degli integralisti islamici, che travalica il limite dell’opportunità di luoghi e di ruoli e che, una volta di più, si rivela essere uno dei ferri del mestiere privilegiati dagli imam: soprattutto da quelli operativi negli istituti di pena. L’ultima denuncia - anche se non è certo una novità, ahinoi, che fin troppo spesso predicatori islamici radicalizzati professano l’inimicizia religiosa invocando l’odio per il nemico occidentale - arriva direttamente da un’inchiesta del blasonatissimo Times. Il "Times": imam estremisti predicano l’odio nelle carceri inglesi - Dunque, il giornale del Regno Unito formalizza l’accusa nero su bianco: ci sono anche imam "estremisti" fra i "cappellani" ammessi nelle carceri britanniche per assistere i detenuti di fede islamica. Una denuncia circostanziata, quella del Times, e formulata sulla base d’un rapporto interno commissionato dal ministro della Giustizia, Michael Gove, e fatto trapelare nella redazione del giornale. Stando al rapporto, diversi predicatori sarebbero stati lasciati liberi di spacciare in alcune prigioni opuscoli e altra "letteratura" inneggiante "all’odio". Il report che imbarazza il dipartimento penitenziario britannico. In particolare è stata trovata traccia di materiale - in buona parte edito in Arabia Saudita - contenente affermazioni sulle donne considerate addirittura "misogine" se non "omofobe": materiale lasciato senza alcun limite o cura di sorta a disposizione di tutti nelle biblioteche di diversi istituti di pena. Una volta acclarato il fatto - argomentato con tanto di elementi concreti ed emblematici esempi - adesso si attende che il ministero prenda i dovuti provvedimenti. Una presa di posizione, quella che si attende, che dirima anche la questione legata al fatto che, al momento, pare che la pubblicazione ufficiale del rapporto - un resoconto a dir poco imbarazzante per il dipartimento penitenziario britannico, nota il Times - non sia stata per il momento ancora autorizzata. Ucraina: le carceri sono piene di prigionieri politici di Fabrizio Poggi contropiano.org, 22 aprile 2016 Un’altra vittima dell’euro-integrazione ucraina si è aggiunta al doloroso elenco di morti ammazzati perché, ognuno a modo suo e non solo in Ucraina, contrastavano la "rivoluzione democratica". Dopo tre settimane di coma, è morto ieri a Mosca il chitarrista del gruppo rock "Ljubé", Pavel Usanov, ricoverato all’inizio del mese con numerose lesioni alla testa, riportate per esser stato aggredito alle spalle in un bar della capitale russa, mentre stava discutendo del Donbass con gli amici: lo avevano colpito alle spalle, provocandogli la frattura della base cranica e un ematoma intracerebrale. La portavoce del Ministero degli esteri russo, Marija Zakharova e lo scrittore Zakhar Prilepin, hanno dichiarato che la ragione dell’aggressione a Usanov va ricercata nelle sue posizioni a favore del Donbass, dove Usanov si recava spesso, incontrandosi con le milizie, aiutando la popolazione, i bambini. Lo scorso anno, Usanov aveva dato vita a un progetto educativo, la cui prima tappa era un concorso musicale per bambini nel Donbass. "Date loro diritti umani, valori europei, rispetto" ha scritto Zakharova; "non ci sarà nulla di tutto questo finché non smettono di sparare alle persone, bruciare le case dei sindacati, ucciderle nei bar. Prima la massiccia riabilitazione del nazionalismo, poi tutto il resto". L’omicidio di Usanov si aggiunge a quelli del deputato Oleg Kalašnikov e del pubblicista Oles Buzinà, assassinati a Kiev, a distanza di un giorno l’uno dall’altro, il 15 e il 16 aprile di un anno fa; si aggiunge a quello di Valentina Samsonenko, tre volte deputata dell’ex Partito socialista ucraino, "suicidata" con diversi colpi di fucile alla testa nell’agosto 2014; alla mattanza di sindaci scomodi per gli oligarchi; ai militanti comunisti torturati e assassinati nelle prigioni ucraine. E a proposito dei prigionieri politici in Ucraina, l’agenzia Novorosinform scrive di oltre 1.500 di essi, sottoposti a torture, condizioni inumane e degradanti; parla di arresti indiscriminati e processi illegali in massa. Altri attivisti per i diritti umani parlano di cifre anche più elevate e di luoghi segreti di detenzione. Novorosinform, riporta anche alcune testimonianze sullo sciopero della fame dichiarato da alcuni prigionieri politici a Kiev e sulle pessime condizioni di salute di altri, con problemi alla spina dorsale, ai reni e al fegato, dovuti alle condizioni di detenzione, praticamente senza nessuna assistenza medica. Sarebbero già cinque i prigionieri morti nelle carceri ucraine a causa dello sciopero della fame. D’altro canto, secondo Novorosinform (che, ovviamente, parla dal proprio punto di vista ultranazionalista e accusa DNR e LNR di tradimento, e rinfaccia a Mosca di non intervenire militarmente nel Donbass), le Repubbliche popolari avrebbero "unilateralmente" rimesso in libertà moltissimi prigionieri di guerra ucraini, così che ora Kiev non è disposta a scambiare i pochi militari ucraini ancora detenuti in Donbass, con le centinaia di carcerati "filorussi". Il sito Ukraina.ru, per altri versi vicino alle posizioni di Novorosinform, scrive di alcune centinaia di detenuti politici in varie prigioni dell’Ucraina: a Kiev, Odessa, Nikolaev, Mariupol, Kharkov e in alcune città del Donbass controllate dall’Ucraina; tutti accusati di separatismo, tradimento, reclutamento di miliziani, aiuto a DNR e LNR. Secondo la responsabile per i diritti umani della DNR, Darja Morozova, in Ucraina il numero esatto di detenuti politici sarebbe di 1.354, o quantomeno, "questo è il numero delle certificazioni ufficiali ucraine; 459 persone risultano scomparse. Ma anche queste potrebbero essere detenute", ha detto. Lilija Rodionova, della Commissione per i prigionieri di guerra della DNR, mentre sostiene che la maggior parte dei detenuti in Ucraina non sono prigionieri militari, bensì persone accusate di simpatizzare con le milizie, lamenta anche lo scarso interessamento della Croce Rossa, che si limita a registrarne il numero e non porta loro alcuna assistenza. Purtroppo, scrive Ukraina.ru, la maggior parte dei detenuti attende solo lo scambio coi prigionieri ucraini detenuti nel Donbass e, quando questo viene sabotato da Kiev, accusano la stessa Morozova di disinteressarsi della loro sorte. Secondo Rodionova, alla morgue di Dnepropetrovsk, ci sarebbero da 80 a 200 morti del Donbass, ma nemmeno con l’intervento dell’ONU i parenti hanno il permesso di riprendersi le salme. Anche secondo Ruspravda.info, il numero di detenuti politici in Ucraina cresce di giorno in giorno. Rimangono in prigione - coloro che riuscirono a sfuggire al massacro - gli arrestati del 2 maggio 2014 mentre difendevano la Casa dei sindacati data alle fiamme dai nazisti. In generale, tra gli arrestati ci sono non solo simpatizzanti di DNR e LNR, anche se, poi, l’accusa viene formulata quasi sempre per "finanziamento del separatismo e istigazione all’odio tra le nazionalità"(!), come è il caso dell’ex vice capogruppo del Partito delle Regioni alla Rada, Aleksandr Efremov, o del giornalista Ruslan Kotsaba, accusato di tradimento della patria, per aver promosso a Ivano-Frank l’azione "Rifiuto la mobilitazione". Al blogger e ufficiale a riposo Sergej Pevrukhin è stata la mossa l’accusa, ripetuta sempre più spesso, di "partecipazione a organizzazioni terroristiche"; così i giornalisti Elena Blokh o Andrej Zakharcuk. Alla direzione dell’Istituto "Repubblica", scrive Ruspravda.ru, sostengono che non ci sarebbe un numero ufficiale di detenuti politici, anche perché le accuse vengono mischiate con pretesti quali "porto d’armi abusivo" o "rissa"; ma comunque si parla di diverse centinaia di rinchiusi, soprattutto nelle regioni di Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk e Ivano-Frank. L’attivista per i diritti umani di Kharkov, Dmitrij Gubin, parla di oltre 600 detenuti politici nella sola Kharkov. Sempre più, si fa ricorso agli articoli del codice penale 109 (cambiamento violento dell’ordine statale), 110 (attentato all’integrità territoriale), 111 (tradimento), 161 (istigazione all’odio nazionale), 436 (propaganda della guerra!!!) e altri, che comportano pene da 5 a 15 anni. Al di là degli arresti, ai giornalisti che diffondono "propaganda antiucraina" vengono generosamente somministrate bastonature in strada o inflitte condanne amministrative. Anton Gerašcenko, consigliere del Ministro degli interni, ha detto in TV che i partecipanti ai meeting - ma non ai raduni delle bande neonaziste - verranno fermati e si prenderanno loro le impronte e ha apertamente parlato della necessità di ricorrere alla tortura. Alla Rada, è stato depositato un disegno di legge per la confisca dei cellulari ai soldati inviati nel Donbass, per impedirgli di fornire informazioni dal fronte in contraddizione con le notizie diffuse dal Ministero dell’informazione. Inutile poi parlare degli agguati portati dalle bande neonaziste contro chiunque sia sospettato di simpatie "anti-ucraine" o "rifiuto della mobilitazione". Nel frattempo, quale sacrosanto riconoscimento alla democrazia euro-golpista di Kiev, la Commissione Europea ha proposto al Parlamento Europeo e al Consiglio della UE di abolire il visto di ingresso nei paesi dell’Unione Europea per i cittadini ucraini… "vaneggianti delirio e oblio di mente e malvagità e lacrime di rabbia e sete di strage", direbbe Ovidio. Norvegia: Ingar Johnsrud "su Breivik, sentenza shock, ma i diritti valgono per tutti" di Andrea Tarquini La Repubblica, 22 aprile 2016 Lo scrittore norvegese: "Per i parenti delle 77 vittime e per noi tutti è troppo presto, non è ancora arrivato il momento di offrirgli condizioni di detenzione più morbide". Ingar Johnsrud: "Breivik, sentenza shock, ma i diritti valgono per tutti" Ingar Johnsrud "Per i parenti delle vittime e per tutti i norvegesi è troppo presto, non è ancora arrivato il momento di offrirgli condizioni di detenzione più morbide. Ma la Norvegia mantiene la convinzione che i valori democratici del nostro modello debbano valere per tutti". Così commenta a caldo lo scrittore Ingar Johnsrud (il suo romanzo d’esordio, Gli adepti, è stato appena pubblicato in Italia da Einaudi). Cosa pensa della sentenza? "Sono sorpreso. Parlare di violazione dei diritti umani è un concetto forte: lui ha una cella speciale, uno spazio pari a un costoso mini- appartamento di Oslo. Ben più degli altri detenuti. Il verdetto gli dà ragione su isolamento e perquisizioni personali. Non sui contatti con l’esterno, con la galassia neonazista: è ritenuto pericoloso. La sua vita quotidiana in prigione potrà cambiare, ma non subito: lo Stato presenterà appello". Giusto che lo Stato di diritto sia tale anche coi peggiori nemici? "La sentenza prova che noi, la democrazia, siamo superiori a terroristi come lui, abbiamo valori vincenti anche rispetto ai criminali. Breivik non è un criminale normale, ma ha 37 anni, e vivrà in prigione molto a lungo". Le sue vittime di Utoya non avranno mai 37 anni... "È vero. Ma lui ora è in prigione e lì resterà. Non puoi tenere una persona isolata in eterno, neanche un simile criminale, ha diritto a vedere ridotte le condizioni di isolamento in cui si trova. Però i norvegesi pensano che sia troppo presto: la sua, di sentenza, pose fine alle vite di 77 persone". Quali pensa possa essere la reazione dell’opinione pubblica? "La gente è sorpresa, molti indignati. Non soltanto i parenti delle vittime. Rispetto alla portata dei suoi crimini, molti pensano che concessioni o gesti di clemenza siano prematuri. Tutti si aspettavano condizioni di prigionia più leggere, ma non adesso, col ricordo della strage ancora caldo. Lo Stato di diritto gli dà ragione su perquisizioni corporali invasive, i norvegesi pensano: e le sue pallottole contro i nostri ragazzi non erano invasive? Cosa si aspettava massacrando e scegliendo poi di arrendersi e finire in prigione? Ma lo Stato di diritto non applica la vendetta: solo la giustizia secondo i suoi valori moderni. Anche contro un uomo pericoloso, nazista globale".