Stati generali dell’esecuzione della pena, il carcere dalla paura ai diritti di Aurelio Mancuso huffingtonpost.it, 21 aprile 2016 Le due giornate conclusive degli Stati Generali dell’esecuzione della pena tenutesi a Rebibbia hanno dato conto del lavoro intrapreso in un anno di confronti e serrati in 18 tavoli nati dall’evento inaugurale al carcere di Opera. Un lungo convegno per tirare le somme, dare voce a opinioni anche distanti fra loro, far dialogare architetti, accademici, volontari, operatori, detenuti. In oltre 200 hanno animato i gruppi di lavoro, in più di 600 si sono ritrovati al meeting conclusivo. Non stupisce che un parte della stampa non sia stata attenta a questo evento, dal punto di vista delle vendite dei giornali e degli ascolti tv il carcere non è di moda, meglio affidarsi alla paura che è facilmente sollecitabile quando dal carcere scappa un detenuto, oppure una misura alternativa produce un effetto non positivo. Eppure i numeri del ministero della Giustizia parlano chiaro, e sono non solamente cifre ufficiali, ma sono sostanziate dai report indipendenti di Antigone o di osservatori europei. Quando una persona detenuta entra in un programma di risocializzazione, viene avviata al lavoro, è seguita con un sostegno sociale ricade in un reato che la riporta in carcere il 20% dei casi, quando langue in cella vi ritorna per il 70% delle volte. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, primo guardasigilli ad aver dato vita a un’operazione politica culturale di questa portata, non ha dubbi: "Dobbiamo spiegare che il carcere è necessario e serve a realizzare sicurezza, ma a patto che sia un carcere dove il tema non è solo segregare ma è anche quello di costruire un percorso che sia la condizione per una reintegrazione sociale, per abbattere la percentuale di recidiva". Il tema sicurezza, così sensibile tra l’opinione pubblica è stato usato fino ad oggi per scaricare sul sistema penitenziario tensioni sociali che nei decenni hanno sovraffollato gli istituti, tanto che l’Italia ha dovuto rispondere all’infrazione europea (la famosa sentenza Torreggiani). L’unica possibilità per molti era quella di promuovere indulti o amnistie, strumenti su cui il dibattito politico è sempre molto acceso. Come hanno ricordato molti relatori, la storia ha insegnato che anche quei provvedimenti dopo un momentaneo abbassamento dei detenuti, non sono serviti a molto. Così nel 2010 le patrie galere "ospitavano" quasi 70mila persone, oggi la cifra è intorno ai 54mila. Cosa è accaduto? Il governo ha messo in campo norme di semplificazione dell’esecuzione penale, rafforzando le misure alternative e la messa in prova. Ma la vera sfida è quella di promuovere un’azione culturale che faccia comprendere come il carcere quando è usato come strumento di propaganda e di paura, non solo non aiuta a rendere il paese più sicuro, diventa più inumano, inutilmente segregante, sforna migliaia di persone che uscite sono spaesate e rabbiose, abbandonate a e se stesse, quindi peggiori rispetto a come sono entrate. La delega per la riforma del sistema carcerario è in discussione alla commissione del Senato e, se presto sarà deliberata potrà concretizzare alcune delle proposte uscite dagli Stati Generali. Orlando è convinto del percorso che tenacemente sta difendendo, con il sostegno, anche questa una prima volta nella storia, della gran parte dei soggetti coinvolti: dalla magistratura di sorveglianza al volontariato, dagli avvocati al corpo di polizia penitenziaria. A un anno dall’avvio della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, una vergogna nazionale stigmatizzata da tutto il mondo civile, diritti dei detenuti, ma anche diritti degli operatori, riconversione delle strutture, avvio di percorsi lavorativi, di attività sportive, di formazione culturale, fanno parte della spinta che si vuole ora concretizzare con ancora più forza. L’istituzione della figura del Garante dei detenuti, la firma di protocolli con il Miur e di attenzione per i bambini dei detenuti, l’avvio di soluzioni detentive per le madri con bimbi sotto i 3 anni, sono i segnali più inequivocabili che si sta esprimendo una determinata volontà politica. Quei diritti, umani e civili, che da fuori molte volte sono liquidati con disprezzo, perché ritenuti dei lussi, invece possono far diminuire il costo enorme del sistema penitenziario (3 miliardi all’anno) riqualificare la spesa, tagliando assurde posizioni di rendita, valorizzando invece la formazione del personale, quei tanti giovani agenti penitenziari con alta scolarità che invece hanno ancora appiccata l’etichetta popolare dei cafoni "secondini". Esser oggi distratti da cosa avviene nelle nostre carceri è un atteggiamento fuori dal tempo, che non vuol sapere che più nel carcere stazionano persone in attesa di giudizio, più gli stranieri aumentano (oltre il 30% dei detenuti) senza che siano messi in campo strumenti di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione, e più siamo insicuri. È il ministro a ricordare che il cambiamento è nelle cose: "Conviene ai detenuti ma anche alla società perché abbiamo bisogno di carceri che in qualche modo siano strumenti contro il crimine e non scuole di formazione della criminalità pagate dai contribuenti". Il lavoro da fare è immane, perché il micro cosmo carcerario, composto da circa 50mila detenuti e altrettanti operatori penitenziari, volontari, educatori e personale socio sanitario, è stato vissuto per secoli separato dal contesto, in una visione che era autoritaria e, che nemmeno la Costituzione e l’ottima riforma del 1975 hanno saputo in alcuni atteggiamenti scalfire. Perché la società dei normali si sente rassicurata se quella dei diversi sta lontana possibilmente nascosta e chiusa; accadeva per le carceri, per i manicomi, per i postriboli e così via. È tempo di cambiare, gli Stati Generali andranno avanti con altre forme, forse autorganizzate, con l’intenzione di non rinchiudersi tra esperti ma coinvolgere la società più larga. Nella patria di Beccaria dovrebbe essere normale. Stati Generali: consultazione riuscita, ma poco spazio a cultura e media di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente IsICult) key4biz.it, 21 aprile 2016 Lunedì 18 e martedì 19 aprile, le porte del carcere romano di Rebibbia si sono aperte alla "società civile", ed il grigio auditorium dell’istituto penitenziario ha accolto oltre trecento persone, con un "parterre de roi": dal Ministro Andrea Orlando al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Cardinal Angelo Bagnasco, dalla Commissaria Europea per la Giustizia Vera Jourová al Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, tutti attivi partecipanti delle giornate conclusive degli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale", avviati un anno fa. La prima sessione del dibattito (nel pomeriggio di lunedì 18) ha registrato anche la presenza (silente) del Presidente Sergio Mattarella. Circa 700 persone (detenuti inclusi) hanno potuto seguire i lavori grazie al maxi-schermo allestito nella chiesa del carcere. Il Ministero ha garantito la diretta in streaming degli Stati Generali. L’iniziativa ha registrato una buona rassegna stampa, e complessivamente si è registrato un diffuso apprezzamento per la due giorni di riflessione teorico-pratica: molte ore dense di riflessioni (spesso iperspecialistiche), tutte concentrate sul tentativo di abbattere i "muri" che separano storicamente il carcere dalla società. Da segnalare - e lamentare - una forte prevalenza di magistrati e giuristi, a fronte di un approccio che vorrebbe invece essere sociologico-culturologico, di apertura in ottica multidimensionale e multidisciplinare. Non è certo bastato l’intervento eterodosso di un’attrice del calibro di Valeria Golino per comprendere al meglio la funzione catartica che la cultura può svolgere (anche) nell’habitat carcerario. In effetti, nessuno degli interventi si è concentrato sulla funzione rigenerativa che la cultura può / deve svolgere all’interno del carcere, e non ci è parso ben focalizzato nemmeno l’intervento della Presidente della Rai Monica Maggioni (peraltro costretta a parlare alla conclusione della prima giornata dei lavori, a tarda ora - oltre le 20 - con un uditorio decimato, ovviamente stremato), che ha fatto riferimento soprattutto alla propria esperienza giornalistica (dalla Nigeria a Guantanamo), ma poche parole ha speso sulla rappresentazione Rai (e, più in generale, del sistema mediale italiano) della dimensione carceraria. Eppure ci sarebbe molto, e di problematico, da analizzare su come i media italiani trattano la dimensione carceraria e, più in generale, il sistema della giustizia, tematiche delicate spesso affrontate con logiche di allarmismo emergenziale, di semplificazioni giustizialiste, di populismo securitario. Come abbiamo già scritto su queste colonne una delle caratteristiche del Governo a guida Matteo Renzi è la volontà di "deliberare" alla luce di una conoscenza delle istanze dei settori sui quali si interviene, attraverso lo strumento della consultazione "dal basso": questo spirito è in sé apprezzabile metodologicamente, anche se spesso le migliori intenzioni sono contraddette da procedure operative che si rivelano deficitarie, fallaci, erratiche. Più che una autentica logica "bottom-up", sembra che venga messa in scena una rappresentazione mediatica della stessa. Come dire?! La "consultazione renziana" sembra in qualche modo un’evoluzione mediologica del "sondaggismo berlusconiano" (alla fin fine sempre all’interno di una logica da "politica spettacolo"). Gli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale" rappresentano un’operazione consultiva di approccio diverso: non grandiosi (a livello dimensionale e di interazione con la cittadinanza) come la consultazione della "Buona Scuola", ma strutturati certamente meglio rispetto alla consultazione "CambieRai" (il Ministero della Giustizia ha promosso un dibattito approfondito tra gli esperti coinvolti, arricchito da numerose audizioni durate alcuni mesi). La kermesse di ieri e l’altro ieri ha cercato di proporre una qualche sintesi dei mesi di lavoro di 18 "tavoli tematici", formati da oltre 200 persone (accademici, giuristi, magistrati, architetti, sociologi, medici, sportivi, educatori, dirigenti penitenziari e poliziotti, psicologi, politici…), che hanno anche promosso audizioni con altre centinaia di operatori del settore ed esperti. Ogni "tavolo" ha prodotto un corposo rapporto finale. Dal 12 febbraio al 12 marzo 2016, è stato anche possibile inviare commenti (l’Ufficio Stampa del Ministero, nonostante le nostre reiterate istanze, non ha fornito un dato quantitativo sui flussi di feedback: quanti cittadini hanno espresso il proprio parere?! non è dato sapere…). Il Professor Glauco Giostra (accademico di lungo corso e già membro del Csm) ha coordinato i lavori degli "Stati Generali", nella veste di Presidente del Comitato Scientifico. È stata distribuita ai partecipanti una pen-drive con tutti i documenti (centinaia di file, considerando anche gli allegati) ed è stato presentato un "Documento finale" di un centinaio di pagine. Tutta questa documentazione è disponibile online, nella apposita sezione del sito web del Ministero dedicata agli Stati Generali. Certamente assai apprezzabile questa pubblicità e disseminazione dei materiali di lavoro. Superata l’emergenza del sovraffollamento (i detenuti in Italia sono attualmente 53mila - di cui un 30 per cento è straniero - a fronte dei 68mila di fine 2010, e l’Italia non è più nella "black list" della Corte Europea dei Diritti Umani), il Ministro Orlando ha voluto promuovere un ripensamento sull’istituzione "carcere". Si ricordi che la dimensione carceraria costa all’italico Stato ben 3miliardi di euro l’anno, con un tasso di recidiva tra i peggiori d’Europa (circa il 56 per cento). Il Guardasigilli, nella sua relazione, s’è dichiarato impressionato da una scritta che ha trovato spesso nei graffiti sulle mura delle carceri: "Il carcere è un ozio senza riposo, dove le cose facili sono rese difficili da cose inutili". Orlando ha auspicato una riforma del sistema delle pene (serve una "nuova idea di pena"), sostenendo che "il carcere più sicuro è oltre le celle". Si deve ragionare su "un nuovo modello di esecuzione penale per superare lo stigma del carcere". Le statistiche dimostrano che chi svolge attività culturali (e comunque lavorative) in carcere ha un tasso di recidiva assai basso, così come chi è sottoposto a misure alternative rispetto al carcere. In sostanza, il "carcere" è una istituzione che, se resta chiusa nella propria autoreferenzialità, ri-produce se stessa. Il lavorio degli Stati Generali dovrebbe fornire un contributo concreto anche alla messa a punto della "delega" che il Parlamento ha affidato al Governo, in materia di riforma della giustizia, attualmente all’esame del Senato. Complessivamente, gli interventi a Rebibbia son stati "positivi", nel senso che tutti hanno manifestato plauso nei confronti del Ministro Orlando e dell’iniziativa degli Stati Generali. In casi come questo, l’assenza di voci fuori dal coro preoccupa sempre un po’. Sarebbe stato stimolante ascoltare, per esempio, la voce di un’associazione indipendente e pugnace che funge da osservatore critico del sistema delle carceri italiane, qual è Antigone (che proprio pochi giorni fa ha presentato la XII edizione del proprio rapporto annuale). Qualche cenno discretamente critico nelle parole del giovane ed appassionato Francesco Cascini, capo del nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, che ha lamentato il deficit di risorse, a fronte di impegni crescenti in materia di "esecuzione penale esterna" (son state gestite nel 2015 ben 41mila misure, a fronte delle 26mila nel 2011, implementate dalle norme su messa alla prova e lavoro di pubblica utilità), dinamica che sta spostando la sanzione penale dal carcere verso la comunità. Molto ci si attende anche dall’eccellente Mauro Palma (accademico ed esperto di livello, tra l’altro Membro per l’Italia del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti), nominato qualche settimana fa Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale, e ci si deve augurare che quest’istituzione venga dotata delle risorse adeguate. Quel che in verità più ci ha impressionato è stata la relazione letta dal Presidente della Cei, il Cardinal Bagnasco (che è anche Arcivescovo di Genova): come dire?! Non ha affrontato paradossalmente la questione centrale - il carcere - ma ha proposto una raffinata lettura critica della giustizia umana nella dimensione del sociale, interrogandosi su cosa sia il "bene comune". Ci hanno colpito le sue parole: "Non sempre è stata la coscienza collettiva una coscienza sana. Quando la cultura alimenta miti, esigenze, simboli vuoti, mode, nasce una società sotto il segno della menzogna, che induce comportamenti tragicamente coerenti con una bolla di fantasmi". Centrale appare il concetto di "cultura", giustappunto. Critica ben severa nei confronti dell’immaginario prodotto dal capitalismo (vecchio e contemporaneo), in perfetta sintonia con le tesi di Papa Francesco. Avremmo molto apprezzato, se un esponente dello Stato italiano avesse manifestato un’interpretazione critica altrettanto alta e sensibile. Grande assente, anche se evocato da molti intervenuti, Marco Pannella: notoriamente le sue condizioni di salute sono gravi, ma ci domandiamo se sarebbe stato effettivamente invitato ad intervenire agli Stati Generali se fosse stato bene… E naturale sorge il quesito: la Rai non ha forse una sua grave responsabilità, in questa riproduzione di un immaginario consumistico e materialistico, prevalentemente conformista banale stereotipato, lontano anni-luce da una dimensione spirituale - semplicemente umana - dell’esistenza? Da segnalare infine il divertente ed acuto contributo che il Ministro Andrea Orlando ha chiesto al noto regista ed attore pugliese Checco Zalone, che ha già registrato un buon successo su web. Mancano i braccialetti elettronici, in 400 restano in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2016 Il Viminale aspetta il via libera per un bando per altri duemila dispositivi. Quattrocento persone in lista d’attesa in carcere. Questo è il numero dei detenuti in custodia cautelare che al momento si sono visti respingere la richiesta di applicazione dei braccialetti elettronici per via del loro esaurimento. I duemila braccialetti sono stati tutti assegnati e per questo il ministero dell’Interno aspetta il via libera dal ministero dell’Economia e delle Finanze per far partire un nuovo bando che prevedere la produzione di diecimila dispositivi. La scorsa intesa tra la Telecom e il ministero della Giustizia prevedeva la fornitura contemporanea di un massimo di 2mila braccialetti. Il problema che ora si è palesemente creato è l’opposto di quello che si era manifestato nel corso degli anni dopo l’introduzione di questa possibilità: superata la diffidenza e i disguidi iniziali, con i numeri che nei primi sei mesi del 2013 parlavano di soli 26 braccialetti attivati, la nuova misura di custodia cautelare aveva iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei 2mila braccialetti che Telecom Italia si era impegnata a fornire al ministero della Giustizia risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano, dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura. Il dispositivo viene gestito dalla centrale operativa grazie a un’infrastruttura di telecomunicazioni a larga banda messa a disposizione da Telecom. Il sistema fornito dall’operatore provvede anche all’assistenza 24 ore su 24, 365 giorni all’anno (dal momento che potrebbero rendersi necessarie installazioni o controlli anche nei giorni festivi o di notte, a seconda delle necessità dell’autorità giudiziaria), e l’aggiornamento dei software agli standard più avanzati. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è dotato anche da una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna. Un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. Il business dei braccialetti elettronici nasce nel 2001 da un accordo di due illustri membri dell’allora governo Amato: l’ex ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e l’ex Guardasigilli, Piero Fassino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale aveva noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all’anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro. Uno spreco abnorme. Un gap che la ex ministra Cancellieri aveva tentato di risolvere con un decreto del 2013 che caldeggiava l’utilizzo dei braccialetti per le persone agli arresti domiciliari. Ma risolto un problema, se ne è creato un altro: i dispostivi erano troppo pochi e quindi, ad oggi, sono del tutto esauriti. In realtà la notizia non ha colto nessuno di sorpresa. Nonostante i ripetuti allarmi lanciati al ministero dell’Interno da Telecom, cui una convenzione ha assegnato la fornitura degli apparecchi, la dotazione di 2.000 "pezzi" non è stata ampliata da due anni a questa parte. Il risultato risplende nella circolare che l’ufficio del capo della polizia Pansa aveva inviato ai vertici del Dap il 19 giugno del 2014: "Ad oggi", scriveva Pansa, "si è arrivati a circa 1.600 dispositivi attivi con una saturazione del plafond di 2.000 unità prevista entro il corrente mese di giugno". Siamo nel 2016 e forse, dopo due anni di ritardo, ci sarà finalmente la gara d’appalto per la produzione dei braccialetti. Anni di polemiche contro i costi di uno strumento percepito come "inutile", e ora che il braccialetto diventa essenziale, l’Italia se ne trova sprovvista. Nel frattempo per il futuro delle 400 persone in "lista d’attesa", intanto, a fine mese, sarà la corte di Cassazione a stabilire se, in mancanza di braccialetti, dovranno affrontare la custodia cautelare in carcere o potranno usufruire comunque dei domiciliari. A questi casi sono inoltre da aggiungere tutti quelli in cui il controllo a distanza può essere utilizzato in alternativa alla detenzione, e senza braccialetti sono comunque costretti a rimanere in carcere. Misure di sicurezza detentive: quei "lavori forzati" pena del passato nel nuovo millennio di Sarah Martinenghi La Repubblica, 21 aprile 2016 Sono un retaggio del passato, uno dei pochi scampoli d’annata del codice Rocco. Ma esistono ancora, in Italia, i "lavori forzati": una misura di sicurezza detentiva sopravvissuta a ogni riforma che prevede la costrizione per il detenuto a zappare la terra, raccogliere ortaggi o tagliare la legna. Un provvedimento desueto, sempre meno applicato, non a caso chiamato "ergastolo bianco". Discusso e controverso, considerato da molti anacronistico, ai limiti del disumano. Ma alcuni magistrati della procura credono ancora nella sua utilità e, quando hanno per le mani il bandito incallito, il malvivente recidivo che entra ed esce dal carcere e bollato come "delinquente abituale", oltre che "socialmente pericoloso", chiedono ai giudici questo aggravamento della condanna. Il detenuto, una volta scontata la sua pena, passerà dal carcere alla "casa di lavoro" o alla "colonia agricola". Fino a quando la relazione di un magistrato di sorveglianza non riterrà superata la sua pericolosità e gli restituirà la libertà. È riuscito ad ottenerla, pochi giorni fa, il pm Roberto Furlan. Il caso giudiziario è quello di Vincenzo D’Alcalà, pregiudicato di Santena con una lunga "carriera" nei reati di estorsione e di usura, che nella sua vita ha già collezionato per tre volte la misura di sicurezza della casa di lavoro, chiesta ed ottenuta, tra l’altro, sempre dallo stesso magistrato. La prima volta per D’Alcalà, era stata nel 2003: il giudice Alessandra Salvadori gli aveva inflitto sette anni di carcere e tre di "lavori forzati". "Ma poi, per paradosso, uscì con l’indulto del 2006, e nel 2008 gli fu applicata la misura di sicurezza in una casa lavoro dell’Emilia Romagna - ricorda l’avvocato difensore Claudio Strata. Scontò solo un anno in quella struttura, in cui era entrato anche per via di un altro procedimento da cui fu assolto. Poi tornò in libertà". Ma, indagando sull’omicidio dell’avvocato Alberto Musy, Furlan si imbatte di nuovo in D’Alcalà, come personaggio legato a Francesco Furchì. Nascono due procedimenti; uno per usura, che si conclude a novembre quando il gup Alfredo Toppino lo condanna a sei anni e 10 mesi più due di casa lavoro; l’altro per estorsione al manager Luca Di-Gioia, da cui avrebbe preteso 20 mila euro per inserirsi nell’affare Arenaways. La corte presieduta dal giudice Maria Iannibelli gli infligge sette anni e altri due di "lavori forzati". "Auspichiamo che quando sarà necessaria una valutazione, si possa dimostrare che D’Alcalà non è un soggetto pericoloso" commenta l’avvocato Strata. Più volte Furlan ha ottenuto questa misura, era successo un anno fa per una banda di rapinatori seriali (Michele Capezzera, Vincenzo Mecca e Giovanni Nardozzi), e in precedenza per Gerardo De Vito, un intermediario di affari accusato di fatture false ed evasione di Iva. Anche il pm Andrea Padalino, negli ultimi anni, ha visto applicare con successo i "lavori forzati" per scippatori, rapinatori e trafficanti di droga. Quando fiocca questa misura, che i pm chiedono già in fase di indagine, è matematico anche il ricorso del difensore. "I detenuti in tutta Italia sottoposti a questa forma di detenzione sono al massimo un centinaio - spiega Mauro Palma, il garante nazionale dei detenuti - le strutture sono pochissime in tutta Italia, e spesso non si svolge nemmeno un vero lavoro. Un caso positivo è a Vasto, dove ci sono progetti seri. Ma per il resto il rischio è che diventi un "parcheggio" per chi non ha una rete sociale di protezione. Pochi sanno che è passata una riforma, un anno fa, grazie alla quale gli anni lì dentro non possono superare quelli di carcere inflitti in sentenza: tecnicamente non è più un ergastolo bianco". Il rischio, prima, era il fine pena mai. Radicalizzazione nelle carceri italiane: fenomeno limitato, ma attenzione ai giovanissimi di M. Chiara Biagioni agensir.it, 21 aprile 2016 Dopo l’allarme lanciato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sul rischio di radicalizzazione islamica dei giovanissimi nelle carceri italiane, il presidente di Antigone Patrizio Gonnella invita a non sovradimensionare il "pericolo". Paolo Branca però avverte: "Gli altri si insinuano facilmente laddove c’è un vuoto". E "finora nelle carceri non si è fatto un granché". La radicalizzazione nelle carceri italiane è ancora un fenomeno limitato. La situazione non può essere paragonata a quella francese o belga e le dinamiche migratorie nel nostro Paese sono recenti e molto diverse. Ma non si può abbassare la guardia o permettere che qualcuno si insinui in un "vuoto" lasciato per mancanza di fondi o di personale competente. Occorre avviare un’opera di prevenzione. Parola di esperti che in questi termini commentano l’allarme lanciato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sul reclutamento anche nelle carceri italiane di nuove leve, spesso giovanissime. "Se non interveniamo subito - ha detto, tra cinque-dieci anni ci ritroveremo nella stessa situazione di Bruxelles o delle banlieue parigine". È il presidente di Antigone Onlus, Patrizio Gonnella, a margine della presentazione del XII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, a ridimensionare i dati del procuratore. Nelle carceri italiane ci sono "200 islamici attenzionati". Si tratta per lo più di ferventi religiosi e non è detto che siano radicalizzati. "Questi ultimi sono solo 19, tutti detenuti nel carcere di Rossano Calabro". Gonnella lancia poi un invito: "non bisogna creare allarmi, perché possono produrre una tensione nelle carceri che può contribuire a una radicalizzazione nei soggetti detenuti". I dati. Secondo uno studio del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, presentato quest’anno a febbraio, circa il 35% dei detenuti nelle carceri italiane proviene da Paesi di religione islamica, principalmente dal Maghreb e soprattutto da Marocco e Tunisia. Su un totale di 64.760 detenuti (al 30 settembre 2015), circa 23mila erano gli stranieri e 13.500 gli originari di Paesi musulmani. I musulmani osservanti sono poco meno di 9.000, e in 52 istituti sui 202 censiti possono riunirsi in preghiera in salette adibite a moschee. Nelle carceri dove le carenze strutturali non lo consentono, la preghiera avviene nelle celle o nei momenti di socialità e nei cortili interni. "Il rischio della radicalizzazione in carcere è sicuramente un’evidenza", sostiene Paolo Branca, esperto di islam e professore all’Università cattolica di Milano. D’altronde l’identikit dei jihadisti catturati a Parigi e Bruxelles parla chiaro: "più che una educazione islamica o una frequentazione in moschea, i ragazzi che aderiscono alla jihad hanno avuto un passato di delinquenza comune e finiscono in un giro di reclutamento che fa presa su un cocktail esplosivo fatto di rabbia e frustrazione". Non è detto ovviamente che tutti siano destinati a finire nel girone della jihad. Si tratta di "alcune persone attenzionate" ma secondo l’esperto occorre parlare del fenomeno perché "finora nelle carceri non si è fatto un granché". Il reclutamento. Nei centri per minori non accompagnati trovano accoglienza ragazzi che hanno commesso reati minori. Sono giovani che viaggiano molto sul Web e possono essere facilmente agganciati. Il reclutamento fa presa sull’età delicata degli adolescenti: "si sentono emarginati e l’idea di andare a fare qualcosa di grandioso ed eroico può essere vissuta come una chance". Dentro il carcere invece si formano gruppi attorno a dei punti di riferimento. "Sono spesso persone carismatiche un po’ esaltate", spiega Branca. "Ci si trova per pregare ma poi accanto alla preghiera ci può essere la predica o altre forme di propaganda favorevole ad un islam più tradizionalista al quale a volte i detenuti si aggrappano un po’ per senso di colpa un po’ come possibilità di riscatto. A volte diventano musulmani molto praticanti, qualcuno però quando esce, può essere facilmente agganciato da reti di reclutatori". Cosa fare. Il problema - dice Branca - è avere sia nei centri per i minori sia nelle carceri mediatori che conoscono e parlano la lingua araba e che possano capire esattamente le dinamiche interne. "C’è bisogno di un investimento maggiore di personale adeguato per poter fare opera di prevenzione". Qualcosa - ma sono iniziative d’avanguardia - si sta facendo. A Milano per esempio il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria lombarda e la Caritas Ambrosiana hanno promosso un seminario di formazione per 150 agenti della polizia penitenziaria su "Conoscere il pluralismo religioso nelle carceri italiane". È appena uscito un film - "Dustur" - che racconta il lavoro fatto al carcere bolognese di Dozza con 20 incontri sulla Costituzione rivolti ai detenuti islamici. L’iniziativa è sostenuta da frate Ignazio de Francesco, un monaco dossettiano, dei piccoli fratelli dell’Annunciata, che ha vissuto molti anni in Medio Oriente e parla molto bene l’arabo. "Gli altri - conclude Branca - si insinuano facilmente laddove c’è un vuoto ed è un peccato perché il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione. E lo si fa poco, un po’ per la crisi economica che ha ridotto fortemente i fondi; un po’ per la difficoltà di accedere ad un ambiente come il carcere dove ogni spostamento è soggetto a complicate pratiche burocratiche". Ma è un lavoro da avviare perché "il carcere torni ad essere quel luogo in cui le persone riescono a recuperare la propria dignità a partire dalla loro cultura". Renzi e la giustizia, una partita difficile di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 21 aprile 2016 L’inchiesta di Potenza si pone come una specie di spartiacque nelle relazioni tra governo e giudici. L’orizzonte riformista del premier dovrà prima o poi affrontare il rapporto con le toghe e la materia delle intercettazioni. Superato il referendum anti-trivelle, resta tuttavia sul cammino di Matteo Renzi e del suo governo lo strascico dell’inchiesta di Potenza, che per qualche settimana ha infiammato la consultazione popolare, altrimenti incomprensibile ai più: con le intercettazioni del "quartierino" e la generosa illusione di votare per i buoni contro i cattivi, paladini dell’ambiente di qua e sodali dei petrolieri di là. Il problema non attiene tanto alla sostanza penale, che potrebbe rivelarsi fumosa quanto il reato di traffico di influenze che la genera; riguarda piuttosto l’ombra politica che i faldoni di Tempa Rossa proiettano nel rapporto tra poteri dello Stato. In questo senso l’inchiesta lucana si pone come una specie di spartiacque nelle relazioni tra Renzi e i giudici. Una questione che il premier non potrà eludere troppo a lungo, nemmeno volendolo. Renzi s’è risentito, e molto, nei giorni più caldi che hanno preceduto il referendum di domenica 17, per quelle che gli sono apparse irruzioni dei magistrati nell’iter legislativo: è, infatti, la legge di Stabilità che ha sbloccato la protratta paralisi dell’impianto lucano e proprio su un suo emendamento hanno messo gli occhi i pm, provocando l’ira renziana con l’audizione da teste di Maria Elena Boschi che, in quanto ministro per i rapporti col Parlamento, accompagnava quell’iter. Il premier pareva propenso al contropiede ("in Basilicata le inchieste sul petrolio si fanno ogni quattro anni, come le Olimpiadi. Non si è mai arrivati a sentenza!") politicizzando a sua volta il referendum sulle trivelle e l’inchiesta stessa. Un’occhiata al calendario deve averlo indotto a cambiare toni: le amministrative di giugno - con il rischio di perdere a Roma, Milano e Napoli - ma soprattutto il referendum istituzionale di ottobre, al quale Renzi ha legato la propria sopravvivenza politica, non sono appuntamenti da affrontare avendo in corso uno scontro con la magistratura, specie se questa ha deciso di affidare il proprio organismo di rappresentanza, l’Anm, a un giudice famoso e affilato nel dibattito come Piercamillo Davigo, l’antico dottor Sottile di Mani pulite. Dunque il premier ha frenato, assicurato che non meditava interventi a gamba tesa sulle intercettazioni, sostenuto che voleva solo incitare i magistrati a celebrare processi veloci. Ma in queste ore è tornato a picchiare sulla "barbarie giustizialista", quasi d’impeto. Il tema è delicato e controverso. Del resto il reato di traffico di influenze - che può fare da innesco a uno scontro di più vasta portata - fu una fattispecie sponsorizzata dal Pd bersaniano quattro anni fa, al tempo della Severino, e non è certo semplice sconfessarlo ora. Esiste in tutta Europa, dove però è normalmente disciplinata l’attività di lobbying: il che traccia un confine tra il lobbismo lecito e la pressione illecita da noi inesistente. Questo vuoto nel nostro ordinamento assieme alla peculiarità del rapporto politica-giustizia in Italia, fa sì che, nella malaugurata assenza di un attento lavoro di vaglio, il traffico di influenze diventi un reato omnibus, su cui caricare tutto e il contrario di tutto, riempiendo i faldoni di intercettazioni irrilevanti penalmente ma dal forte contenuto di contesto e dunque micidiali all’approssimarsi di qualsiasi appuntamento politico. Chi ha capito davvero di cosa è accusato Ivan Lo Bello, icona dell’antimafia siciliana? Anonimi a parte, in quali parole si coglie la responsabilità penale dell’ammiraglio De Giorgi, artefice dell’operazione Mare Nostrum? Dove arriva il lecito dialogo tra soggetti pubblici o privati e comincia il lavorìo del faccendiere? Le intercettazioni, su cui il presidente Napolitano ha riaperto il dibattito, potrebbero dunque essere (magari accompagnandole alla attesa revisione dei termini di prescrizione dei reati) il primo passo d’un percorso quasi obbligato: solo il primo, se i pezzi sulla scacchiera sono questi. Con una domanda inevitabile: quale riformismo immagina Renzi sulla giustizia? Il presidente del Consiglio è stretto tra la necessità di non sembrare "un altro Berlusconi" evitando così il cementarsi di una nuova Santa Alleanza ventennale simile a quella contro il Cavaliere (Massimo Cacciari di recente ne evidenziava giustamente i rischi, in primis la paralisi del Paese) e il bisogno di proteggere provvedimenti di sviluppo come lo Sblocca Italia o la ripresa delle grandi opere da iniziative giudiziarie talvolta così elastiche da coprire nei faldoni grandi distanze geografiche e logiche (si pensi al salto tra l’inquinamento ambientale di Viggiano e le telefonate per il porto di Augusta). Difficile non pronosticargli un anno accidentato, da qui alla primavera del 2017 nella quale, secondo molti, potrebbero collocarsi elezioni politiche anticipate. Semmai ne nascesse un esecutivo infine forte, starebbe quasi nelle leggi della fisica l’urto con la magistratura che, essendo stata chiamata per oltre vent’anni alla supplenza di una politica debole e ricattabile, potrebbe trovare innaturale qualsiasi passo indietro. Perciò l’indagine di Potenza, con le sue suggestioni e le sue velleità "sistemiche", è assai diversa dall’inchiesta sulla Banca dell’Etruria, concretamente per tabulas, e assume il contorno di una profezia. Se Renzi avrà modo di proiettarsi in una strategia di medio periodo, pur tenendosi lontano da guerre di religione con le toghe (le direttive di procuratori saggi come Pignatone e Spataro in questo lo aiuterebbero) difficilmente potrà scansare il nodo della giustizia: quello vero. Che potrebbe portare con sé persino scelte gravi e complesse come una reale separazione delle carriere, la riforma del Csm e la discrezionalità dell’azione penale. Scogli su cui, solo a parlarne, più d’uno prima di lui s’è arenato. Dalla denuncia sulla "barbarie giustizialista" alla riforma delle intercettazioni? di Errico Novi Il Dubbio, 21 aprile 2016 Difficile che Matteo Renzi compia un passo simile. I due piani per lui restano separati: da una parte la sfida ad alcuni pm, a cominciare da quelli di Potenza, dall’altra la riscrittura delle norme sul processo. La seconda operazione è troppo impopolare e ad oggi il premier pare intenzionato a lasciare che se ne occupi solo il Csm. Cadrà probabilmente nel vuoto l’appello lanciato ieri dagli alfaniani, che chiedono un vertice di maggioranza sulla giustizia. Il messaggio a Palazzo Chigi porta la firma del capogruppo di Area popolare alla Camera, Maurizio Lupi, e del deputato Nino Marotta. "Dopo le parole sulla giustizia pronunciate dal presidente del Consiglio in Senato, per noi assolutamente condivisibili, riteniamo che sia importante e urgente un incontro con gli altri partiti di maggioranza per verificare le iniziative parlamentari in merito". I due deputati di Ncd puntano a due precisi obiettivi: "Dobbiamo confrontarci sulla ragionevole durata del processo e sull’uso mediatico delle intercettazioni, senza polemiche o inutili contrapposizioni". Due dossier spinosi: il primo rimanda alla riforma della prescrizione, arenata a Palazzo Madama proprio per il dissenso tra il Pd e il partito di Alfano, mentre la regolamentazione degli ascolti non trova uno sbocco parlamentare rapido per l’alto coefficiente di impopolarità. Inevitabile che si debba lasciare campo libero al Consiglio superiore della magistratura. In un’intervista al Corriere della Sera di ieri uno dei pm di Mafia Capitale, Giuseppe Cascini, ha detto che l’eventuale legge delega non dovrebbe spingersi oltre le regole già fissatre da alcune Procure, e a breve recepite dal Csm. Linee guida prive di un elemento che Ncd vorrebbe vedere inserito nel testo del Senato: l’istituzione di un "garante delle intercettazioni", un magistrato che risponda degli abusi. Il Csm dovrebbe restare padrone del campo. E intanto lo presidia anche attraverso giudici come il gip di Roma Stefano Aprile, che alla fine della prossima settimana terrà una lezione su "Come usare le intercettazioni", organizzata dalla redazione del Fatto quotidiano. Si tratta di un corso per giornalisti. Il costo di iscrizione è contenuto, 85 euro, ma sufficiente a rendere obbligatoria l’autorizzazione del Csm. Che evidentemente è stata già concessa. A conferma che sulla materia intercettazioni l’organo di autogoverno della magistratura è padrone assoluto del campo di gioco. Ed è il solo potere in grado di imporre le regole. Nasce il potere legislativo delle procure di Massimo Bordin Il Foglio, 21 aprile 2016 Le disavventure dei reati associativi, i magistrati che sentenziano sulla politica e gli sconfinamenti del potere togato in campi che non dovrebbero essere di sua pertinenza. Dal caso Lo Bello all’assoluzione di De Luca. Questa settimana, per la prima volta da quando se ne è avuta notizia, per sapere le novità sull’inchiesta della procura di Potenza è stato necessario sfogliare un numero maggiore di pagine dei grandi giornali. La degradazione nella gerarchia delle notizie è sicuramente dovuta all’attualità incalzante ma con qualche probabilità anche al risultato del referendum, rispetto al quale l’iniziativa dei pm lucani si è rivelata del tutto ininfluente. Eppure personaggi sempre nuovi popolano le cronache dell’indagine, nuovi filoni, come si usa dire, si aprono e non di sole intercettazioni si riempiono gli atti giudiziari e le pagine dei giornali. Anche le lettere anonime ottengono adeguato risalto, come nel caso dell’ammiraglio De Giorgi su cui, partendo appunto da un anonimo, si è centrata l’attenzione della stampa che riporta gli spunti d’indagine coltivati dagli investigatori. Per esempio su quella che i pm definiscono "una operazione di speculazione edilizia nella zona del porto di Napoli". Ne ha scritto Repubblica qualche giorno fa. Per come viene riassunta, la faccenda è singolare. L’attenzione degli inquirenti nasce dai contatti telefonici fra l’ammiraglio e Nicola Colicchi, che aspirava alla presidenza della Lega navale. Colicchi è in contatto con De Giorgi, capo di Stato maggiore della marina, perché un altro ammiraglio, di rango inferiore, si è mostrato ostile alle sue ambizioni. In una telefonata De Giorgi prova a mettere a frutto le numerose relazioni di Colicchi chiedendogli informazioni su un progetto relativo al porto di Napoli di cui ha saputo vagamente dall’allora governatore Caldoro e dal sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, sul quale non dà un giudizio granché positivo. Infatti, stando a quel che Repubblica mette fra virgolette, l’ammiraglio si chiede come mai il sottosegretario si occupi della ristrutturazione portuale che non riguarda il suo collegio elettorale, e ne deduce che debba trattarsi di "una operazione speculativa, da cui prenderà dei soldi". In sostanza a formulare l’ipotesi di reato è l’intercettato, prima ancora dei pm. Ma gli inquirenti trovano assai sospetto che il capo di Stato maggiore della marina si interessi alla ristrutturazione di un porto così come di un altro progetto relativo ai "Sistemi di Difesa e sicurezza del territorio", interesse che, per un alto grado militare, non appare incongruo. Anche una cena al circolo della marina, notizia di apertura sul Fatto di ieri, sia pure organizzata dall’iperattivo Colicchi con pezzi grossi della Guardia di Finanza e dei Servizi e con la senatrice Finocchiaro guest star, non appare in sé penalmente censurabile. Si sarà parlato di nomine? Più che possibile. Se mai quello più in difficoltà sarà stato Colicchi quando avrà provato a inserire, nel Risiko delle poltrone di Stati maggiori e servizi segreti, l’agognata presidenza della Lega navale. In ogni caso è logico pensare che sull’ammiraglio De Giorgi la magistratura lucana abbia qualcosa di più solido in mano, anche se l’imputazione di peculato per l’uso personale del telefonino di servizio sembra sostanziare sviluppi clamorosi. Eppure, fra telefonate che si incrociano, cene e incontri, i pm sono giunti a ipotizzare l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite. Nel reato associativo è incappato anche Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria e presidente di Unioncamere. Soprattutto Lo Bello è stato l’uomo simbolo di una stagione della Confindustria siciliana, quando arrivò, con il sostegno dell’allora presidente nazionale Luca di Montezemolo, al vertice regionale dell’associazione degli industriali. La sua fu una presidenza di svolta. Venne rottamato, anche se non si diceva ancora così, il vertice locale e si istituì un rigido codice di comportamento antimafia. Destino vuole che oggi l’altro esponente di punta di quella primavera confindustriale siciliana, Antonello Montante, si trovi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, per la verità da oltre un anno senza che la procura di Palermo abbia ancora deciso se chiedere il rinvio a giudizio. Senza dubbio la posizione di Montante è comunque fonte di imbarazzo per i vertici di Viale dell’Astronomia, soprattutto dopo che, oltre a Repubblica, da subito schierata con la procura palermitana, recentemente anche il Corriere della Sera con un editoriale di Paolo Mieli aveva sollecitato le dimissioni di Montante dalle sue cariche in Confindustria. Del resto anche il fidanzato dell’ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, è cresciuto nell’associazione degli industriali siciliani nel periodo della "primavera antimafiosa", andando a ricoprire il ruolo di presidente della sede di Siracusa che proprio Ivan Lo Bello aveva già ricoperto. Non c’è dubbio che il filone siciliano dell’inchiesta partita a Potenza apra un capitolo ulteriore sulla valutazione di un periodo politicamente importante per l’isola, quando l’assemblea regionale era guidata da Raffaele Lombardo e la sua giunta fece sponda con la rinnovata Confindustria locale - per poi rompere proprio su temi relativi a piattaforme petrolifere e rigassificatori. Ma conviene tornare all’inserimento nell’inchiesta di Ivan Lo Bello, una volta ricordato che si tratta di persona politicamente di rilievo. Anche lui è in fondo vittima del poliedrico Colicchi. Il reato ipotizzato dai pm è l’associazione a delinquere finalizzata al controllo di un pontile del porto di Augusta. L’associazione sarebbe composta da quattro persone, due promotori, Colicchi e Gemelli, e due partecipanti, Lo Bello e il segretario della senatrice Finocchiaro, Paolo Quinto. Il dirigente confindustriale si attiva perché venga prorogato nel ruolo di autorità portuale l’avvocato Cozzo. "Ha perorato la nomina di Cozzo", lo inchioda un rapporto di polizia. E così il peroratore entra nell’associazione a delinquere. Per la verità l’implacabile Colicchi ottiene da Lo Bello anche una telefonata di sponsorizzazione, al capogruppo alla Camera del Pd, per la sua nomina alla Lega navale. Ma il reato di traffico d’influenze illecite, istituito nel 2012 dal governo Monti, consente questa discrezionalità dei pm nel valutare l’illiceità o meno di una telefonata in cui si parla di nomine. E altro ancora se si pensa alle indagini della procura lucana sulla genesi dell’emendamento inserito nella legge di Stabilità dopo essere stato espunto dal decreto "Sblocca Italia". L’iniziativa giudiziaria si muove in quel caso su un terreno delicatissimo che attiene all’autonomia del potere legislativo. Ha fatto sicuramente male la ministra Guidi a raccontare al suo interessato fidanzato il percorso del decreto in tempo reale, ma pensare a un provvedimento "ad personam" appare fuori misura, quando anche le polemiche del dopo referendum hanno mostrato come lo scontro fra potere esecutivo centrale e poteri regionali fosse il vero oggetto delle tribolazioni parlamentari di quell’emendamento. La "consistenza criminosa inafferrabile" del reato di "traffico di influenze", per citare l’espressione usata dal professore e avvocato Tullio Padovani su questo giornale, finisce di fatto per consentire pericolosi e ambigui sconfinamenti del potere togato in campi che non dovrebbero essere di sua pertinenza, e che peraltro si realizzano anche con articoli del codice assai più antichi. Recentissimo il caso del governatore campano Vincenzo De Luca, accusato diciotto anni fa di abuso d’ufficio, falso e associazione a delinquere per essersi battuto per il riconoscimento della cassa integrazione per gli operai della Ideal Standard e per la riconversione della fabbrica chiusa in un parco che poi non venne costruito. Due giorni fa il pm ha chiesto, al termine del dibattimento, durato otto (8) anni, la sua assoluzione "perché il fatto non sussiste", sostenendo nella requisitoria che quella riconversione poteva essere sicuramente discussa ma non in tribunale, perché non c’era nulla di penalmente rilevante. Il pm, dottore Montemurro, non condusse a suo tempo quell’indagine e fa decisamente impressione pensare che i pm dell’epoca avevano chiesto l’arresto dell’indagato, peraltro negato dal gip. Ma fa ancora più impressione pensare che, sulla base di quell’accusa, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, aveva inserito l’allora candidato alla presidenza della regione nell’elenco degli "invotabili". Gli elettori non tennero in minimo conto l’editto bindiano e De Luca fu trionfalmente eletto, ma l’esempio vale a dimostrare come, nelle crisi politiche, il cosiddetto populismo giudiziario, in quel caso fortunatamente senza popolo, trovi sponde anche nelle istituzioni che ne sono il bersaglio. Il Sottosegretario a Giustizia Migliore "le toghe non possono dettare la linea alla politica" di Carlo Fusi Il Dubbio, 21 aprile 2016 La barbarie giudiziaria denunciata da Matteo Renzi non deve essere interpretata come l’avvio di una nuova fase di scontro della politica contro la magistratura. Però non possono essere le toghe a stabilire come la politica debba autoriformarsi. È il pensiero di Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia. Però, onorevole Migliore, l’affondo del premier ha toni che paiono riportare a stagioni conflittuali con le toghe. Perché non è così? Non c’è alcuna volontà di scontro con la magistratura. Esiste un riflesso condizionato che è avvilente. Qualsiasi dichiarazione di Renzi sulla giustizia viene vissuta come ritorno ai temi di Berlusconi. Assurdo. Quando il premier dice ai magistrati fate i processi, non percorriamo alcun legittimo impedimento, non c’è alcuna indulgenza verso i reati contro la Pubblica amministrazione, vuole spianare la strada e non certo limitare l’azione dei giudici. Casomai la battaglia è contro quei tribuni che dalle colonne dei giornali utilizzano materiale proveniente dalle sedi giudiziarie per stilare sentenze mediatiche. Non c’è alcuna intenzione di alimentare un conflitto con la magistratura: la conferma è che il governo sta realizzando riforme molto positive per migliorare il pianeta giustizia. Ma Renzi non ha usato espressioni casuali. Scagliarsi contro la barbarie giustizialista vuol dire mettere nel mirino un meccanismo giudiziario che ha prodotto risultati aberranti. Vedi l’avviso di garanzia diventato una sorta di condanna preventiva. Perché c’è una grossolana strumentalizzazione. Che in passato ha coinvolto anche una parte della sinistra, non certo quella garantista alla quale appartengo. Il ragionamento è semplice. Se c’è da fare un avviso di garanzia, bisogna farlo punto e basta, nessuno può pensare di limitare l’attività giurisdizionale. Ma in nessun caso si può ritenere di costruire una sentenza utilizzando le colonne dei giornali. Altro che difesa corporativa delle classi dirigenti. Piuttosto si tratta di difendere alcuni principi costituzionali cardine, che sono sacrosanti. E che vanno difesi senza complessi di colpa o sentimenti di inferiorità. In una intervista tv, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ha ribadito che la responsabilità è della politica che non si sa autoregolare. Se c’è una indagine in corso, perché la politica non fa dimettere l’indagato? La convince questa impostazione? Io non trovo nulla di strano nella richiesta di autoriforma della politica. Infatti è quello che stiamo facendo. Siamo il governo in cui anche ministri non indagati e addirittura parte lesa come il ministro Federica Guidi, hanno ritenuto comunque di dimettersi per facilitare il lavoro dei magistrati. Sono contro ogni automatismo: rifiuto e trovo inaccettabile l’idea che ci sia qualcun altro che decide come si deve riformare la politica. Detto questo, la necessità di una riforma della politica è un problema aperto, e non certo da oggi. Il fatto vero è che la magistratura ha deciso di alzare il tiro preventivo di Serena Gana Cavallo Italia Oggi, 21 aprile 2016 Non condivido una virgola dell’intervista (domande e risposte) di Riccardo Ruggeri a Piercamillo Davigo. Quello scoperto da Mani pulite era un sistema di finanziamento (illecito fin che vuoi) della politica: chi ha mai trovato il famoso "tesoro di Craxi"? E chi si alzò in Parlamento per dire, alla richiesta di Craxi sull’uso diffuso di finanziamenti illeciti (compresi quelli di provenienza oltrecortina) "il mio partito non ha mai fatto nulla di tutto ciò"? Ora, la corruzione dilagante la fanno in proprio: basta accedere ad una posizione di piccolo o grande potere e moltissimi purtroppo si mettono "sul mercato": politici. funzionari, magistrati (in specie fallimentari e tributari, ma non solo). La magistratura pretende "rispetto" a priori (Davigo dixit) e si indigna se la Corte dei conti chiede il rendiconto dei conti (mi scuso per il gioco di parole) del Csm. Il presidente dei magistrati tributari, dopo un po’ di arresti per troppa e non più occultabile sfacciataggine, dice che si fanno corrompere perché sono pagati poco, ma non assolverebbe un ladruncolo che ruba per bisogno. I magistrati denunciati per pedofilia scompaiono nel porto delle nebbie. I magistrati dei tribunali fallimentari vengono condannati dopo 12 anni, di modo che gran parte delle accuse sono cadute in prescrizione. La nuova ribalta di Davigo e la imminente ribalta di Greco a Milano, di Ielo a Roma, così come le grandi inchieste di Potenza (gliene fosse mai andata bene una: tranne una con condanna annullata dalla prescrizione e ricordo che abbiamo anche pagati i danni a Vittorio Emanuele di Savoia), sono i primi rombi di cannone di una "guerra preventiva". Se Renzi, che ieri si è un po’ lasciato sfuggire fuor dai denti il suo pensiero, passa il referendum costituzionale, con la nuova legge elettorale avrà la maggioranza che serve a fare la riforma della Giustizia. La fiducia nella magistratura, dati fine 2015 (Ilvo Diamanti) è al 31%, in pratica Travaglio e tutta la variegata ipersinistra. I magistrati, che non sono certo degli sprovveduti scemi e vogliono semmai accrescere il potere che hanno sin qui costruito, si stanno attrezzando. C’è una parola che spiega bene questa strategia: blitzkrieg? Ecco. Politica e toghe. Il fuoco amico che ostacola l’avanzata garantista di Carlo Nordio Il Messaggero, 21 aprile 2016 Rincuorato dall’esito del referendum, e stimolato dalla balbettante reazione degli sconfitti, il presidente Renzi ha affondato la lama nella piaga dei processi penali, e ha detto quello che nessun leader di sinistra aveva mai osato dire: che negli ultimi venticinque anni il Paese ha assistito a momenti di "barbarie giustizialista". Ha citato, opportunamente, l’uso strumentale delle intercettazioni e dell’informazione di garanzia. Avrebbe potuto continuare a lungo. Magari concludendo che, in un Paese normale, non è affatto normale che i magistrati che hanno indagato i politici si presentino alle elezioni per prendere il loro posto. Ma dopo l’infelicissima uscita del governatore della Puglia - ex pubblico ministero - che ha sostenuto di aver vinto dopo aver sonoramente perso, forse non ha voluto infierire. Ma è possibile che si riservi l’argomento per una prossima occasione. Chi, come noi, auspica da sempre una coraggiosa reazione del potere politico davanti alle storture di un sistema giudiziario invadente e anomalo, non può che rallegrarsi davanti a una presa di posizione così netta. Con l’auspicio, va da sé, che alle parole seguano i fatti, e che il premier non si intimidisca davanti alle prevedibili reazioni delle anime belle del giacobinismo forcaiolo, come già avvenne anni fa ad alcuni suoi predecessori. Ricordiamo che persino il roccioso presidente D’Alema rinunciò alla sua riforma bicamerale su pressione dell’associazione magistrati. Ma i tempi mutano, e così le persone. Forse questa è la volta buona. Potrebbe esser la volta buona perché la sortita del primo ministro ha trovato consensi diffusi, anche in ambienti sino a ieri impermeabili all’analisi razionale delle distorsioni dei rapporti tra giustizia e politica. Persino un’esponente grillina ha ammesso che un’informazione di garanzia non è un buon motivo per l’ineleggibilità a una carica o per l’esclusione da essa. E una cosa ovvia. Ma non lo era fino a ieri. Quindi, come dice il poeta, forse la ragione riprende a parlare, e la speranza a rifiorire. C’è tuttavia un paradosso in queste novità. Il paradosso risiede nell’atteggiamento di un centrodestra che, dopo aver predicato per anni un garantismo talvolta esasperato, retrocede ora in un prudente attendismo che sconfina nell’ambiguità. Invece di applaudire il premier, incoraggiandolo con una convergenza di intenti, sembra oscillare tra esitazioni e silenzi, rischiando di legittimare il sospetto, che vogliamo ripudiare con orrore, che le precedenti battaglie fossero ispirate, più che dalla nobiltà dei principi, da calcoli di interessi personali. È vero, e possiamo concederlo, che la politica - come il cuore - ha delle ragioni che la ragione non conosce, e che le ragioni dell’avversario possano essere avversate per opportunismo tattico, a prescindere dalla loro validità. Questo del resto lo abbiamo visto in occasione del referendum, dove il centrodestra ha incoraggiato il voto principalmente in odio al governo, senza peraltro considerare che l’eventuale successo degli abrogazionisti sarebbe stato monopolizzato dai grillini e dall’estrema sinistra. Più o meno come quaranta anni fa avvenne con il referendum sul divorzio, dove la vittoria di una legge firmata da un socialista e da un liberale spianò la strada al successo comunista e al successivo compromesso storico. Tuttavia vi sono argomenti sui quali vorremmo che il calcolo politico cedesse davanti all’importanza del principio. E la giustizia è uno di questi. La libertà personale vulnerata dall’eccesso di custodia cautelare; la dignità calpestata dalle intercettazioni generalizzate e diffuse; il pretesto dell’informazione di garanzia come strumento di estromissione degli avversari politici; l’andirivieni di magistrati dai tribunali al parlamento, e viceversa; ecco, questi, e tanti altri argomenti analoghi, sono così essenziali alla dignità dello stato che non possono essere asserviti e piegati alle convenienze elettorali. Perché, come ricordò in una solenne occasione Benedetto Croce, accanto a persone per le quali Parigi vai bene una messa ve ne sono altre per le quali una messa conta molto più di Parigi: perché, ammonì il filosofo, "è questione di coscienza". Legittima difesa, alla Camera è scontro sulla legge di Liana Milella La Repubblica, 21 aprile 2016 La proposta di Costa: se ci sono bambini, la reazione è giustificata. No di Ncd al progetto di legge del Pd. Al via la discussione. Lega sulle barricate. Legittima difesa, giornata di duro scontro. In Parlamento, nella maggioranza, e pure in piazza. Alla Camera torna in discussione la legge. Il governo si divide. E davanti a Montecitorio, dalle 10 e 30, gli esponenti dell’Idv, che con i suoi tre parlamentari appoggia il governo Renzi, faranno propaganda alla loro legge di iniziativa popolare sulla legittima difesa che finora ha raccolto oltre 200mila firme. Un segnale di quanto il problema sia avvertito nel Paese. Una manifestazione cui però prenderà parte anche il ministro della Famiglia Enrico Costa, già vice della Giustizia, il cui partito, il Nuovo centrodestra, è intenzionato a chiedere al Pd che ci si fermi sulla riforma perché il testo non li convince. Lo stesso Costa ha chiesto, dopo l’ennesimo caso di cronaca sulla legittima difesa, che la presenza di bambini sul luogo di una rapina, e quindi la necessità di difenderli, sia di per sé considerata una ragione sufficiente per giustificare la legittima difesa stessa. La proposta della Lega - Finisce così ai ferri corti tra i partiti del governo la querelle sulla norma - l’articolo 52 del codice penale - che dovrebbe consentire alla vittima di una rapina nella propria casa o nel proprio negozio di difendersi dall’aggressione o dalla concreta minaccia di morte senza temere poi di finire a sua volta indagata e imputata. Dall’opposizione la Lega, autrice della prima proposta di riforma con il capogruppo in commissione Giustizia Nicola Molteni, si batte per una norma più permissiva ed effettivamente difensiva nei confronti di chi spara per difendere se stesso e la sua famiglia. Si badi, non la sua proprietà. Deve esistere, secondo la Lega, "una presunzione assoluta di legittima difesa", per cui non esiste né aggressione né reato se la vittima difende la sua incolumità e il bene della vita. Solo in questo modo, per il partito di Salvini, si supera l’eccesso colposo di legittima difesa, oggi causa di molte polemiche e di processi. Lo scontro nella maggioranza - Ma il Pd ha già superato l’ipotesi Lega, con un testo proposto da Ermini e approvato in commissione Giustizia, quello che oggi dovrebbe andare al voto dell’aula. Un testo che non modifica l’articolo 52 del codice penale, ma il 59. E proprio qui sta lo scontro tra i partiti di governo, il Nuovo centrodestra del ministro dell’Interno Angelino Alfano e il Pd. Quella dei Dem, dice Ncd, sarebbe una soluzione "blanda, inadatta, che non risolve affatto il problema della legittima difesa". Tant’è che proprio oggi i centristi chiederanno a Montecitorio di non portare il testo in aula, ma di tornare in commissione Giustizia per un nuovo esame e modifiche sostanziali. Dove sta il confine della difesa - Basta leggere e incrociare il testo attuale dell’articolo 52, la proposta della Lega, e quella di David Ermini, di professione avvocato, per capire il centro della querelle. Dice l’attuale articolo 52: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa". Un testo del genere, ovviamente, mette nelle mani del giudice la valutazione della difesa compiuta, sarà lui a stabilire se quella difesa era commisurata al pericolo, oppure se chi si è difeso ha esagerato, oppure addirittura ha aggredito l’aggressore quando costui aveva già regredito dall’azione criminale. Il tipico gesto della vittima che spara al ladro quando già sta scappando e lo colpisce alle spalle. La proposta del Pd - Questa valutazione, secondo la Lega, non deve più essere affidata al giudice, ma la legge deve già contenere delle indicazioni molto precise. Anche Ncd chiede garanzie simili, compresa quella sui minori presenti, che ovviamente fanno aumentare la necessità di una legittima difesa. Ma il Pd con Ermini è attestato su una frontiera differente, tant’è che la sua modifica non riguarda l’articolo 52, ma il 59 del codice penale che riguarda le "circostanze non conosciute o erroneamente supposte". Ermini scrive che, quando di mezzo c’è un caso di legittima difesa, "la colpa dell’agente è sempre esclusa se l’errore riferito alla situazione di pericolo e ai limiti imposti è conseguenza di un grave turbamento psichico ed è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". Il no di Ncd - Ma è proprio sul presunto "errore" che il partito di Alfano oggi punta i piedi e chiede di mandare all’aria il testo Ermini. Il ragionamento centrista è questo: "Non possiamo limitarci, su una questione particolarmente sentita da tante vittime, a fare una legge solo sui casi di errore. Noi dobbiamo disciplinare nella sua pienezza la legittima difesa e mettere al sicuro le vittime dicendo fin dove possono difendersi. Altrimenti avremo lavorato inutilmente". Legittima difesa, scontro sui doveri dei magistrati di Cristiana Mangani Il Messaggero, 21 aprile 2016 Torna in Aula questa mattina alla Camera la legittima difesa, ma sarà subito scontro, tra la Lega che chiede regole chiare riguardo alla discrezionalità del giudice, e il Pd che prevede una valutazione dell’elemento psichico di chi subisce l’aggressione. E così la soluzione si allontana e c’è chi, dopo il rinvio del marzo scorso, ritiene possibile che il testo ritorni in Commissione giustizia per un nuovo esame e modifiche sostanziali. Con un passaggio che potrebbe avvenire senza troppi contrasti né opposizioni. L’emendamento Pd con il quale è stato di fatto riscritto il testo base della Lega, oltre a vedere il Carroccio sulle barricate non convince infatti neppure Ncd. E a testimoniare i malumori centristi è stata la presenza, ieri mattina, del ministro per gli Affari regionali Enrico Costa a una manifestazione dell’Idv per la raccolta firme per una legge popolare che rafforzi la legittima difesa. "Serve una normativa di dettaglio puntuale e tassativa" che eviti una giustizia "a macchia di leopardo", ha spiegato l’ex viceministro della Giustizia, ribadendo un concetto che già aveva illustrato: quello che, in qualche modo, la presenza di bambini in casa giustifichi la legittima difesa di fronte a "una criminalità attrezzata per neutralizzare i proprietari". Le condizioni - Sulla norma, insomma, i giochi sono tutt’altro che chiusi. "Per noi il testo così va bene" insiste il responsabile Giustizia del Pd David Ermini, autore dell’emendamento con cui si modifica l’articolo 59, che esclude "la colpa dell’agente se l’errore riferito alla situazione di pericolo e ai limiti imposti è conseguenza di un grave turbamento psichico ed è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". La proposta di modifica, non intervenendo sull’articolo 52 del Codice penale (che disciplina la difesa legittima) lascia una certa discrezionalità al magistrato andando in direzione contraria alle intenzioni leghiste, ma non convincendo neppure Ncd. Ed è probabile che oggi siano proprio i centristi - senza che il Pd protesti eccessivamente - a chiedere il rinvio in commissione. Mentre la Lega avverte: "La maggioranza è nel caos, noi chiederemo che il testo resti in Aula. L’unica via è la nostra legge, è ora di approvarla". Per capire dove risiedano i contrasti, basta mettere a confronto il testo attuale dell’articolo 52, la proposta della Lega, e quella di David Ermini. Dice l’articolo 52: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa". E questo vuol dire che la valutazione della difesa compiuta viene lasciata alla discrezionalità del giudice. Sarà lui a valutare se c’è stato un eccesso di reazione, se il pericolo è stato commisurato alla risposta data, o anche se l’aggredito è intervenuto contro l’aggressore quando questo aveva già smesso di agire. Caso classico, quello in cui la vittima spara alle spalle al ladro che sta fuggendo o lo colpisce quando è ormai quasi fuori dalla scena del crimine. La valutazione dl giudice - La Lega ritiene, invece, che la valutazione non debba passare dal giudice, ma che è già la legge a dover contenere indicazioni precise. Le stesse garanzie vengono chieste da Ncd che fa il caso dei minori presenti: un elemento che è considerato ulteriore e importante ai fini della legittima difesa. Ermini e il Pd la vedono diversamente, tanto che la modifica proposta riguarda l’articolo 59 e non il 52, nella parte in cui si discute sulle "circostanze non conosciute o erroneamente supposte". E si fa il caso del "grave turbamento psichico causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". Una querelle che sembra allontanare la soluzione. La vera separazione delle carriere da fare è quella tra giornalisti e pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 aprile 2016 Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd) ci spiega cosa succede tra governo e magistrati. "La vera separazione delle carriere è quella tra magistrati e giornalisti", dice Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia del governo Renzi, una vita in Rifondazione comunista e nei movimenti della sinistra. "Voglio dire che nel nostro paese troppo spesso i processi si fanno in televisione e sui giornali, nel contesto di un dibattito pubblico esasperato, e di un racconto supersemplificato della cronaca, che strumentalizza i casi giudiziari, spesso prescindendo persino dai fatti, per fare lotta politica nel fango ed emette sentenze sulle colonne dei quotidiani o attraverso la schiuma dell’etere nei talk show. Persino tutta questa storia della contrapposizione tra governo e magistratura è falsa, è frutto di una distorsione esasperata dei fatti, degli eventi, persino delle parole pronunciate dal presidente del Consiglio o dal presidente dell’Anni Piercamillo Davigo". Scusi, però Renzi, martedì sera, in Senato, qualche critica ai magistrati l’ha fatta. Altroché. Ha parlato di "tribuni", tra le toghe. "Guardi, non è la prima volta che sento Renzi usare quell’espressione e le assicuro che non era riferita ai magistrati, ma ai politici e all’uso politico delle inchieste giudiziarie. La critica di Renzi, la sua preoccupazione, è rivolta ai giustizialisti, alla violenza che caratterizza la lotta politica. Noi tutti siamo preoccupati per l’uso che viene fatto di elementi provenienti dalle indagini giudiziarie, come le intercettazioni, ma non solo, per emettere violentissime sentenze mediatiche. Dovrebbero essere preoccupati tutti gli italiani, perché ne va della nostra civiltà politica e giuridica. Dello stato di salute della nostra convivenza sociale. E in questo senso anche il racconto di una contrapposizione, di uno scontro con il coltello fra i denti, tra il governo e i magistrati è l’effetto dello stesso cortocircuito: provano ad applicare a Renzi le categorie berlusconiane. Ma non funziona. Renzi non è Berlusconi. Noi abbiamo introdotto il falso in bilancio, l’autori-ciclaggio, abbiamo rafforzato l’autorità anti-corruzione, abbiamo persino introdotto il reato di disastro ambientale, quello da cui è partita l’inchiesta di Potenza. Dunque il gioco di prestigio dei giustizialisti, che ci vogliono mettere contro la magistratura, o che descrivono il governo come se fosse impegnato a difendersi con l’uso privatistico delle leggi, con noi non funziona. Non attacca". Non ci sono leggi ad personam, né "giudici matti", nella grammatica di Renzi. Eppure qualcosa sta succedendo. "Noi vogliamo che i reati siano perseguiti, e con efficienza solerte. Vogliamo che la nostra magistratura sia dotata di tutti gli strumenti necessari per poter indagare a fondo, e liberamente. Il problema che poniamo, in termini politici e culturali, è un altro. E riguarda gli elementi di certezza della pena, e un certo imbarbarimento nel rapporto tra informazione e questioni giudiziarie. Guardi, si tratta di un argomento estremamente serio. Mi spiego meglio: basta un avviso di garanzia, basta essere iscritti nel registro degli indagati, basta una mezza intercettazione perché vengano scritte e protocollate delle sentenze inappellabili sui giornali?". Allora le intercettazioni non vanno pubblicate? Le notizie di reato non vanno diffuse? "Certo che sì, certo che la libertà d’informazione va tutelata. Ma c’è una differenza tra l’informazione e il racconto caotico, strumentalizzato, che a intervalli regolari viene fatto delle vicende giudiziarie in questo paese. Prendiamo i fatti di Potenza. Federica Guidi è parte lesa, e si è dimessa dal suo incarico nel governo. Eppure c’è un confuso spurgo mediatico che utilizza tutta questa faccenda per sostenere un’equazione fuori dalla realtà e dalla logica, e cioè che il nostro è un governo di affaristi. Ma da dove diamine verrebbe fuori? È tutta un’implicazione pseudo giornalistica, di strombazzamenti passionali e umorali che esplodono in televisione e nelle parole dei ‘tribunì (per citare Renzi), che sono poi quei politici come Salvini o Di Battista, ma non solo loro, che vivono coltivando i semi velenosi del rancore e del malumore popolare". Facebook e un esempio di cortocircuito - L’Italia salta regolarmente nei cerchi di fuoco. E il dibattito pubblico è violento. "È violento perché la politica si è fatta divorare dal suo interno. Ma la soluzione è nella politica stessa. Noi vogliamo riportare la politica al posto che le spetta. Il che significa rispetto e separazione dagli altri poteri, ma anche riaffermazione di un principio di non soggezione. In un paese dove il rapporto tra i poteri dello stato è bilanciato non succede quello che accade da noi. Ovvero in una condizione normale, di fisiologia, la magistratura indaga, la politica governa, e le due sfere non finiscono continuamente e drammaticamente per incrociarsi sui giornali. In uno dei suoi libri più belli, che s’intitola "Il mistero del processo", Salvatore Satta diceva che il processo di per sé è già una pena. E lui ancora non conosceva la violenza di quello mediatico. Chi sostiene l’opportunità di recuperare distanza, separazione, rispetto ed equilibrio tra le vicende giudiziarie e quelle politiche, non vuole attentare all’indipendenza della magistratura ma sottolineare un problema di civiltà. Un problema che in gran parte si realizza nel cortocircuito tra giustizia, politica e sistema dell’informazione. Per questo dico che la vera separazione delle carriere, quella che andrebbe fatta, è tra magistrati e giornalisti. Una battuta che semplifica, come credo di avere spiegato, un pensiero più complesso. Mi è capitato, in queste ultime settimane, di pensare molto al caso di Doina Matei, che fu condannata per omicidio preterintenzionale. Questa persona è stata condannata dal Tribunale, secondo la legge, al massimo della pena. Dopo nove anni è andata in semi-libertà, ed è stata massacrata, aggredita, dal sistema dell’informazione, dallo stesso pasticcio tra giustizia e opportunismo politico, perché sorrideva in alcune foto pubblicate su Facebook. Anche questo è un esempio di cortocircuito, su cui sono saltati al galoppo i soliti noti, i soliti ‘tribu­ nì del populismo trinariciuto. Ed è una barbarie, un gesto contrario alla civiltà del nostro paese". Intercettazioni. "Se ti infango non devo risarcirti" di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 aprile 2016 Sentenza choc della Cassazione sulla lite Repubblica-Mediaset. Quando un giornale pubblica illegittimamente gli atti di un procedimento penale, l’unico danneggiato è lo Stato e non l’infamato". Per questo, non c’è diritto a chiedere il risarcimento del danno, a meno che non si dimostri di essere stati concretamente diffamati da quella pubblicazione. Lo ha stabilito - ribaltando la giurisprudenza maggioritaria - una sentenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che ha deciso sul ricorso presentato da Mediaset contro il giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo. Punto centrale della decisione è l’articolo 684 del codice penale, che prevede: "Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258". Un reato contravvenzionale, ma pur sempre un reato. La domanda a cui risponde la Suprema Corte è: chi risente di questa arbitraria pubblicazione? Secondo la posizione prevalente, il reato ha natura plurioffensiva, ovvero offende più soggetti: lo Stato e il suo interesse al funzionamento della giustizia, ma anche la reputazione delle parti nel processo. I giudici di legittimità, invece, hanno ritenuto che reato di pubblicazione arbitraria (senza che sia stata dimostrata la diffamazione ai danni dell’indagato o imputato) leda solo l’interesse al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, ma non dia diritto al risarcimento del danno, in sede civile, al cittadino sottoposto al procedimento. In altre parole: devo dimostrare di essere stato diffamato, perché la pubblicazione illegittima in quanto tale non lede i miei diritti di parte, ma solo l’interesse pubblico al buon andamento della giustizia. Infatti - continua la Cassazione - la norma tutela solo la "corretta formazione del convincimento del giudice" ed è volta a impedire alla stampa di "determinare la cristallizzazione di pregiudizi" in chi è chiamato a decidere. Il caso Mediaset - La sentenza nasce da un ricorso civile degli avvocati di Mediaset. Nel 2005 il giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo, scomparso cinque anni fa, riportò due frasi in cui il "famigerato" David Mills parlava di Silvio Berlusconi, nell’indagine sulla presunta frode fiscale di Mediaset per la compravendita di diritti televisivi. D’Avanzo fu citato in giudizio perché, secondo gli avvocati, quelle frasi non erano pubblicabili. Mediaset chiedeva il risarcimento dei danni, ma la Cassazione ha rigettato definitivamente la richiesta, perché "l’obiettivo della norma è quello di non compromettere il buon andamento delle indagini", ma non di tutelare la parte coinvolta nel processo. La parte in questione, cioè Mediaset, era rimasta in causa con l’editore, il Gruppo L’Espresso, e il direttore Ezio Mauro. Nell’attuale normativa esiste un doppio filtro alla pubblicazione. Nella fase delle indagini preliminari, gli atti d’indagine sono coperti dal segreto. In altre parole, sono atti che l’indagato e il suo difensore non hanno ancora il diritto di conoscere. In questa fase, c’è il divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti da segreto istruttorio e del loro contenuto. Solo al momento della chiusura delle indagini il segreto cade e l’atto diventa conoscibile all’imputato e al suo difensore. Da questo momento, è possibile divulgare il contenuto delle indagini, ma non il testo integrale virgolettato. Il testo integrale, invece, diventa pubblicabile integralmente solo al momento della pronuncia della sentenza di primo grado. L’obiettivo è quello di salvaguardare il libero convincimento del giudice, che non deve - o meglio non dovrebbe - venire a conoscenza degli atti di indagine se non della fase del dibattimento, in cui le prove devono formarsi nel contraddittorio tra le parti. L’allarme dell’Antimafia: "Rischio cosche nei Comuni al voto" di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 21 aprile 2016 La relazione della presidente Bindi: "Gli enti locali sono la principale porta d’ingresso per i clan". Serve un intervento del governo. Monitorate 15 amministrazioni tra cui Roma. Le organizzazioni criminali hanno circondato gli enti locali, adesso proveranno a infiltrarli con le Comunali di giugno. Ecco la denuncia dell’Antimafia, contenuta in un’allarmante relazione di Rosy Bindi che a breve sarà resa pubblica. "La principale porta d’ingresso delle mafie nella gestione delle risorse pubbliche - si legge - risiede nella politica e nell’amministrazione locale, con le forme tipiche della violenza, dell’intimidazione e della corruzione". Di fatto, un’autostrada che permette un "ingresso "legale" della criminalità nella vita dell’ente, attraverso la raccolta del consenso". Per rompere questo assedio, la commissione chiede al governo e al Parlamento un immediato intervento legislativo che consenta agli uffici elettorali di scovare i nomi degli incandidabili. Propone a tutte le liste, comprese quelle civiche, di rispettare il codice di autoregolamentazione che esclude anche i semplici imputati per alcuni reati. E promette di monitorare in modo capillare i nomi in lizza in quindici Comuni sciolti per mafia, o sottoposti a ispezione. Tra questi, Roma. È in corso un vero e proprio attacco concentrico delle mafie alle istituzioni, è scritto nel testo presentato ieri da Bindi all’ufficio di presidenza e che sarà votato la prossima settimana, con tratti "quasi emergenziali per la nostra democrazia". E lo dimostrano i dati: "Si assiste a un’impressionante progressione degli scioglimenti dei consigli comunali, sempre più anche al Nord. Anche con forme di mafia "originale e originaria", scoperta a Roma con l’inchiesta "Terra di mezzo". Un’escalation che fa crescere i commissariamenti, 33 nel solo 2015, per un totale di 713 mila abitanti. Come se non bastasse, negli ultimi anni si moltiplicano le intimidazioni contro gli amministratori - 1.265 dal gennaio 2013 ad aprile 2014 - e si conta anche un impressionante incremento delle infiltrazioni: "Emerge un quadro devastante". Questa volta, però, l’Antimafia cambia strategia rispetto alle recenti Regionali. Non stilerà un elenco nazionale di "impresentabili", come quello che fece deflagrare il caso De Luca e generò "contestazioni individuali e sentimenti contrastanti nell’opinione pubblica". Non lo consentono i numeri di una tornata elettorale troppo ampia, che rende impossibile "una verifica preventiva, con la medesima garanzia di completezza". In vista del voto di giugno, invece, la commissione zoomerà solo sulle quindici amministrazioni più a rischio, in cinque Regioni. Setaccerà le liste con il filtro della legge Severino e del codice di autoregolamentazione, poi stilerà relazioni dettagliate per i comuni di Roma, S. Oreste e Morlupo nel Lazio, Badolato, San Luca, Platì, Scalea, Ricadi e San Sostene in Calabria, Battipaglia, Trentola Ducenta e Villa di Briano in Campania, Diano Marina in Liguria e Finale Emilia in Emilia Romagna. Il codice di autoregolamentazione è in cima ai pensieri dell’Antimafia. È considerato l’unico strumento in grado di bandire dalle liste non solo i condannati in via definitiva, ma anche gli imputati per un "ampio catalogo di fattispecie penali". Una scrematura resa ancora più necessaria dal fatto che gli uffici elettorali non sempre sono in grado di verificare nei due giorni previsti dalla legge la candidabilità dei contendenti. Un "imbuto" generato da casellari giudiziari aggiornati in tempi biblici e dall’assenza di una banca dati dei carichi pendenti. Sui quali adesso - è l’invito dell’Antimafia - è necessario accelerare. Ma non basta. Bindi propone alcuni ritocchi legislativi. Tra questi, la possibilità di ampliare a una settimana i termini di verifica per le commissioni elettorali, l’obbligo per i candidati di allegare il certificato dei carichi penali pendenti e la presenza di magistrati nella commissioni elettorali. Nella relazione si immagina anche un’anagrafe unica dei candidati, da rendere accessibile sul web. Ai partiti, poi, si consiglia di dotarsi di "pagine web dedicate alla politica trasparente". Accanto a questa sfida, l’Antimafia reclama pene più severe per lo scambio politico-mafioso e l’allargamento della Severino alle ipotesi più gravi di reati elettorali. È una "malattia sistemica" e occorre una "terapia di sistema", è la conclusione della commissione. Cambiando alcune pratiche di un movimento antimafia a volte riservato a "specialisti e mestieranti". Ma soprattutto trasformando il dna dei partiti - "tutti, perché nessuno può ritenersi immune dal condizionamento o peggio dall’infiltrazione" - affinché ripensino la governance, a partire dalla preselezione delle primarie dei gazebo o sul web. Particolare tenuità per il writer che disegna sulla facciata di un palazzo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 20 aprile n. 16371. La "particolare tenuità del fatto" salva l’artista di strada dal reato di "imbrattamento di cose altrui" per aver disegnato con lo spray la facciata di un palazzo già deturpato da altre scritte. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 16371/2016, dando ragione al writer e così respingendo per la terza volta l’azione della procura. In primo grado, il graffitaro era stato imputato per il delitto previsto dall’articolo 639, comma 2, del codice penale "per avere imbrattato un muro posto sulla pubblica via con diverse bombolette di colore spray, imprimendo la scritta "Manuinvisibile.com"". Il tribunale di Milano però lo assolse "perché il fatto non costituisce reato", anche considerato che "la parete in questione era già stata completamente imbrattata e deturpata da ignoti" e che l’imputato aveva agito "con l’intento di abbellire la facciata e di effettuare un intervento riparatore, realizzando un’opera di oggettivo valore artistico". Del resto, prosegue la sentenza, le doti dell’artista erano state "pubblicamente riconosciute" proprio dal comune meneghino, dal momento che l’imputato aveva vinto un bando mirante alla rivalutazione di piazza Schiavone nel quartiere Bovisa mediante l’intervento di uno "street artist". Su ricorso del pubblico ministero, la Corte d’appello di Milano ha poi parzialmente riformato la sentenza, ritenendo l’imputato non punibile ai sensi dell’articolo 131-bis c.p. In sostanza, per il giudice d’appello "il fatto, ancorché astrattamente configurabile come reato, non è punibile per la sua particolare tenuità, derivante dalla circostanza che il muro in questione era già stato deturpato da ignoti e quindi l’intervento non determinava, a ben vedere, alcun danno". Contro tale decisione ha fatto ricorso il procuratore generale, sostenendo che non vi sarebbe alcuna prova dell’esiguità del danno, anzi "la copertura dei graffiti precedenti con un disegno di ancora più ampie dimensioni rende ancor più problematica l’opera di pulitura". Non solo, per via del rimando al sito Internet dell’imputato, l’attività doveva ritenersi compiuta anche a scopo pubblicitario e quindi di lucro. Di diverso avviso la Cassazione che ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, in quanto il giudizio di particolare tenuità integra una valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata motivazione. L’esito delle indagini preliminari appreso poco prima dell’udienza non inficia il processo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 20 aprile 2016 n. 16387. L’imputato non può eccepire in Cassazione che nel giudizio di merito abbia preso conoscenza della documentazione delle indagini preliminari solamente un quarto d’ora prima dell’inizio dell’udienza. La Cassazione, con la sentenza n. 16387/2016, ha precisato che in presenza di un procedimento con termini particolarmente stringenti quale quello del riesame delle misure cautelari personali, l’esercizio del diritto della difesa a esaminare gli atti dell’indagine si esercita mediante il materiale accesso del difensore presso la cancelleria del tribunale. L’estrazione, poi, in tutto o in parte di copia degli atti medesimi costituisce, invece, una modalità per agevolare il lavoro dell’avvocato. Pertanto se il difensore si fosse diligentemente attivato, avrebbe avuto un intero giorno di tempo e non soltanto pochi minuti o poche ore per esaminare la documentazione. Non compromesso il diritto alla difesa - Consegue quindi che tanto l’esercizio di tale facoltà, quanto la materiale ricezione delle copie, non incidono sul diritto di difesa, comprimendolo oltre i diritti resi necessari dalla celerità del procedimento di riesame. La Corte - alla stregua di tale principio - ha escluso che l’articolo 309 del cpp potesse presentare profili di illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede che, oltre al diritto di visione degli atti garantito nei tre giorni anteriori all’udienza di riesame, garantisca parimenti nel medesimo termine anche il rilascio di copia degli atti di interesse del difensore. I Supremi giudici, poi, si sono espressi anche sulla legittimità della decisione sull’impossibilità di concedere le misure cautelari. Questo perché il soggetto - ex sottoufficiale della Gdf - aveva effettuato un numero elevato di accessi all’anagrafe tributaria per scopi personali (ex articoli 81 e 615-ter cp), aveva "accettato" una cifra prossima ai 15 mila euro "per sistemare le cose" (ex articolo 319-quater cp) e altri reati. Pertanto - si legge nella decisione - "quanto alle esigenze cautelari di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c) del cpp occorre ricordare che la pericolosità sociale dell’indagato può essere desunta sia dalle specifiche modalità e circostanze del fatto, sia dalla sua personalità, evidenziata congiuntamente dalle modalità del comportamento nell’esecuzione del reato e da precedenti condanne subite. Ne deriva quindi che ai fini del giudizio di pericolosità dell’indagato, è legittima e doverosa la valutazione del giudice di merito delle specifiche modalità e circostanze del fatto che possono rivestire una duplice valenza e pertanto assumere rilievo oltre che sul piano della gravità del fatto, anche su quello dell’apprezzamento delle capacità a delinquere". Conclusioni - Nella specie i giudici di merito si sono conformati a questi principi di diritto osservando che l’imputato avesse agito con modalità prevaricatorie e intimidatrici, sia quando era in servizio sia quando agiva come consulente privato. Alla luce di tali elementi la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari è stata considerata correttamente del tutto inadeguata essendo impossibile formulare un giudizio di positiva affidabilità sulla capacità di autocontrollo dell’imputato e in considerazione dell’esistenza di numerosi contatti illeciti maturati nel circuito lavorativo. Non è minaccia a pubblico ufficiale l’annuncio di azioni legali poi realizzate di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 20 aprile 2016 n. 16381. La prospettazione di un’azione giudiziaria, puntualmente messa in atto, non sostanzia una minaccia o una violenza penalmente rilevanti. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 16381/16, depositata ieri, ha escluso la sussistenza del reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale - proprio a causa della concreta attivazione del sistema giudiziario - relegando al rango di semplice monito, quelle che si volevano considerare minacce. La vicenda - Gli accusati erano i responsabili di una delle più grandi società straniere di gestione dei giochi in Italia e avevano subito diversi accertamenti, poi posti nel nulla con provvedimenti giurisdizionali che avevano, tra l’altro, messo all’indice la non corrispondenza della legge italiana con quella comunitaria del settore. Da qui gli indagati avevano successivamente diffidato diversi pubblici ufficiali dal porre in essere nuovi accertamenti ai fini del pagamento dell’imposta unica sui giochi. E soprattutto, li ammonivano dal procedere a sequestri conservativi. Nello specifico, si trattava di funzionari sia dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e Dogane sia della Polizia di Stato e di militari della Guardia di Finanza. L’insussistenza dell’accusa - I tre indagati cui era stato applicato dal giudice delle indagini preliminari il divieto di esercizio d’impresa e di uffici direttivi di persone giuridiche avevano poi ottenuto ragione dal tribunale che aveva rimosso la misura cautelare. Il Tribunale ha infatti confutato il ragionamento del Gip, sul punto della sussistenza del reato previsto dall’articolo 336 del Codice penale. Infatti, non veniva ravvisata come condotta penalmente rilevante il fatto che il proprietario e due legali rappresentanti della società di giochi inviassero sistematicamente annunci e atti di diffida, che preannunciavano la volontà di citare i destinatari davanti all’autorità giudiziaria. La scriminante individuata dal Tribunale di merito - e confermata ora in sede di legittimità - è la circostanza che a tali annunci è stato dato concreto seguito, attraverso l’azione giudiziaria. Quindi per la Cassazione i destinatari delle presunte minacce - una volta citati davanti a un giudice terzo - non hanno patito quell’indebita pressione, cui consegue il timore e l’alea nel se e nel quando di un ingiusto male in grado di comprometterne la libertà di scelta e di agire. La parabola di Vanessa e Doina di Luigi Manconi Ristretti Orizzonti, 21 aprile 2016 L’insensata tragedia dell’assassinio di Vanessa Russo nella metropolitana di Roma, col volgere dei giorni, si è trasformata da atroce fatto di cronaca in parabola sapienziale, non so se religiosa o laica (ma ha una qualche importanza?). Un dramma crudele che è stato manipolato in chiave etnica dagli "imprenditori politici della paura", che hanno tentato di trovarvi la scintilla di un possibile conflitto razziale (un titolo di quotidiano: "Ragazza rumena uccide italiana"!) : quando si era in presenza, palesemente, di una infelicissima vicenda di cronaca. Una vicenda dove il caso avrebbe potuto invertire esattamente le parti, collocando la vittima al posto dell’assassina, e viceversa. E poi, ecco la "novità": non per iniziativa della difesa, ma per atto dovuto del pubblico ministero, emerge che Vanessa veniva da una storia tormentata di tossicodipendenza, forse mai conclusa, e attualmente si trovava sotto terapia di metadone. Questo dato biografico, ce la rende ancora più cara: anche lei, come Doina, ha conosciuto l’asprezza e il dolore del vivere. E invece, quello stesso dato biografico (la tossicodipendenza) ha suscitato in Alessandra Mussolini, nel corso di una trasmissione televisiva, una reazione totalmente opposta: "adesso vogliono infamare la vittima - ha detto l’europarlamentare - per scagionare l’assassina". Il che serve a ricordarci che la distanza tra noi e un avversario politico può essere davvero incolmabile. Ma perché la storia di Vanessa/Doina può essere intesa come una parabola? Perché offre l’opportunità di leggere la grande questione del Male e - per rimanere alla nostra portata - il problema sociale della violenza e della responsabilità, del crimine e della colpa, in una maniera straordinariamente efficace e, direi, salutare. Quella storia ci dice, infatti, che la divisione netta del mondo, e quindi dell’organizzazione e della vita sociale, in "buoni" e "cattivi" non è semplicemente difficile (o meglio: impossibile): corrisponde, bensì, a un falso scientifico e a un imbroglio ideologico (o religioso o culturale o antropologico). Gli uomini e le donne che si incontrano, che hanno rapporti, che fanno negozi, che confliggono, che si amano e che si odiano, che si cercano e che si fuggono, sono, appunto, uomini e donne : ovvero un impasto misterioso e inestricabile di virtù e vizi, di pulsioni aggressive e sentimenti pacifici, di volontà di potenza e di disponibilità alla cooperazione, di grettezza e di oblatività (e molte altre coppie di termini potrebbero essere evocate). Questo è tanto più vero quanto più quegli uomini e quelle donne hanno fatto esperienza della fatica esistenziale, della sofferenza personale e del degrado individuale e collettivo: e, quindi, quanto più le loro scelte sono condizionate da quei percorsi di emarginazione. Tutto ciò, a mio avviso, riguarda una parte significativa della società, ma - certamente - interessa in particolare quanti vivono, o hanno appena finito di vivere, condizioni di abbrutimento. In essi - malati di mente, tossicomani, detenuti, alcolisti, dipendenti da qualunque sostanza, uomini e donne "di strada" - la possibilità di offendere e ledere altri è maggiore. Questo non ne annulla la potenzialità di "fare il bene" o, ancora, di "godere del bello" (avreste dovuto vedere quei venticinque detenuti di Rebibbia Penale ascoltare Vittorio Sermonti leggere Dante; e dovreste sapere che nel luogo d’Italia dov’è più alto il tasso di analfabetismo, il carcere appunto, si tengono ben 136 corsi di scrittura creativa). Dunque, la parabola di Vanessa/Doina dice, inequivocabilmente, che la devianza, e la conseguente marginalità, è una possibilità nell’esistenza di molti: non è (non dev’essere) uno stigma perenne né una condanna a vita. E, soprattutto, può riguardare molti di noi: per una volta sola o per un periodo dell’esistenza, per la follia di un’ora o per una debolezza irreparabile. Attenzione: ciò non vuol dire che sia innanzitutto il caso (e nemmeno "le colpe della società") a determinare quella devianza, che si traduce talvolta in crimine; conta, eccome se conta!, il libero arbitrio, o comunque si voglia chiamare la capacità di autodeterminazione, che è propria di ogni essere umano: anche dove e quando l’autonomia sia la più ridotta. Ma, una volta assegnata alla libera scelta di ognuno la prima responsabilità degli atti compiuti, tutte le altre cause o con-cause, e i fattori agevolanti e quelli acceleranti, e le circostanze e il contesto, vanno attentamente considerati. Ovvero assunti come (anche) propri: dell’intera società, cioè, e della corresponsabilità che deriva dal legame sociale. E ciò, si badi bene, non è questione di altruismo né di solidarietà: bensì, è vincolo politico di reciprocità, proprio di ogni comunità organizzata. Il che, attualmente e "normalmente", non avviene in alcun modo. E proprio perché la società avverte - più o meno consapevolmente - che tutto ciò la coinvolge e la turba nel profondo: e ne svela l’intima debolezza. Pertanto, la società ne fugge e procede a una vera e propria rimozione. E qui, ancora una volta, le parole sono rivelatrici. L’emarginazione di cui parlo corrisponde, appunto, a una messa ai margini: a uno spostamento-esclusione-occultamento. E, dunque, l’architettura, l’ingegneria e, in particolare, l’urbanistica c’entrano moltissimo. Non è un caso che i progetti di nuove carceri prevedano, tutti, la realizzazione degli edifici o in periferia o a qualche distanza dalla città e la dismissione di istituti collocati nei centri cittadini (come San Vittore e Regina Coeli). È forse fin troppo facile, ma non per questo meno giusto, dedurne che quella procedura di "nascondimento" degli istituti di pena sia la trascrizione toponomastica di un processo psichico collettivo, che va qualificato, appunto, come rimozione. E rimozione è proprio l’atteggiamento prevalente nei confronti del carcere da parte della collettività. È un termine, questo, significativamente ambivalente : in uso nel linguaggio tecnico-professionale dell’edilizia e in quello tecnico-professionale delle discipline della psiche. Nel primo caso, si parla di rimozione dei residui, dei resti, delle macerie; nel secondo, di rimozione degli scarti dell’inconscio o, se vogliamo, dei detriti della psiche. In altre parole, la società, l’opinione pubblica, la mentalità collettiva tendono a spostare fuori dalle mura cittadine (e dal proprio sguardo) i luoghi della detenzione: e proprio per allontanare da sé quel rimosso rappresentato, appunto, dal carcere e da chi lo abita; e per esorcizzare ciò di cui quegli "abitanti" sono simbolo e, insieme, incubo. Ovvero, sinteticamente, la pulsione, l’errore, il crimine che ciascuno di noi avverte come un proprio rischio - tanto più forte quanto più lo si nega - al quale si è sottratto, ma dal quale non si sente immune. Forse tutto ciò contribuisce a spiegare il rifiuto di gran parte della società italiana nei confronti del provvedimento di indulto. Ma vallo a dire a quelle vanesie star televisive, terribilmente "di sinistra" e terribilmente virtuose, che - nella trasmissione televisiva già ricordata - si esercitavano nel loro cinismo futile e mondano, torvo e, insieme, ilare: e totalmente incapace di "sentire" - con intensità e verità - il dolore delle vittime e quello dei colpevoli. Loro sono il Bene, e per loro vale quanto il Danton di Bùchner affermava a proposito di Robespierre: "È così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio". Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane di Carmine Gazzanni linkiesta.it, 21 aprile 2016 Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: "La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile". Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall’accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall’accusa di aver seviziato l’operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. "Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità" dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. "Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire", ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. "Sapevo - racconta a Linkiesta - che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato". Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. "La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile" dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Silenzi e ritardi - Meno "fortunato" è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima "non riusciva più a stare in posizione eretta", non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le "cause della morte" e "eventuali lesioni interne o esterne" riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile - si chiedono da Antigone - che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: "una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita". L’ultimo caso a Ivrea - Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma "R.A." in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. "Il giorno sabato 7 novembre scorso - si legge nella lettera - ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la "rotonda" del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare". R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome. Catanzaro: incontro tra delegazione del Garante nazionale dei detenuti e Yairaiha Onlus zoom24.it, 21 aprile 2016 L’associazione ha segnalato diverse questioni che riguardano le persone che scontano la loro pena nelle carceri calabresi. Un incontro "molto proficuo" quello tra la delegazione dell’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà - composta da Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela de Robert - che ha voluto incontrare l’associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus e i familiari di Michele Rotella, deceduto lo scorso 26 febbraio mentre si trovava ristretto nel carcere di Siano a seguito di una infezione da Clostridium Difficilis sottovalutata dal personale sanitario del carcere. "Tra gli elementi emersi dalla narrazione dei familiari - fa sapere l’associazione Yairaiha - due hanno colpito in particolare l’attenzione dei Garanti: l’intervento tardivo nel predisporre il ricovero in ospedale e la procedura di comunicazione del ricovero ai familiari da parte dell’amministrazione penitenziaria, avvenuta a distanza di due giorni dallo stesso e quando ormai stava per morire. Queste stesse modalità vengono confermate anche dalla storia del signor Verde, che a distanza di un mese circa viene portato in ospedale dopo sette mesi di sofferenze e dove gli verrà diagnosticato un tumore con diverse metastasi in fase, ormai, terminale". "Abbiamo poi segnalato - prosegue l’associazione - una serie di questioni di carattere generale, opportunamente documentate e testimoniate, sulle carenze e discriminazioni che investono i detenuti che si trovano a scontare la pena a Catanzaro che vanno dal diritto (spesso negato) alla salute all’eccesso di discrezionalità della magistratura di sorveglianza che rigetta puntualmente la prevalenza delle richieste, anche quelle di necessità gravi finanche a persone che sono quasi a scadenza pena. È stato il caso di Antonio che a sei mesi dalla libertà si è visto rigettare la richiesta di permesso per poter partecipare al funerale del padre, o di Massimo che non ha potuto dare l’ultimo saluto alla madre morente o di Claudio a cui è stata rigettata la richiesta di discutere la tesi di laurea dopo 27 anni di carcere e tanti altri casi ancora, raccolti in un dossier che verrà presentato al Garante nazionale con l’obiettivo di superare un elemento di fortissima discriminazione rispetto alle persone che hanno la ‘fortunà di scontare la pena in altre città d’Italia. Permessi che la sentenza 15.953 della Corte di Cassazione stabilisce si debbano concedere anche ai detenuti sottoposti al regime di carcere duro "anche i detenuti sottoposti a regime di 41 bis hanno diritto unirsi al dolore familiare, in caso di lutti, risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla tomba di un congiunto, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa". Cogliamo l’occasione - conclude Yairaiha Onlus - per ringraziare pubblicamente i Garanti nazionali che a pochissimo tempo dall’insediamento hanno iniziato il loro difficile lavoro, proprio in Calabria accogliendo anche le nostre segnalazioni e richieste, sperando che si riesca ad intervenire concretamente affinché scontare la pena in Calabria non debba rappresentare una pena accessoria ulteriore". Forlì: il laboratorio Altremani, interno alla Casa circondariale, celebra il decennale forlìtoday.it, 21 aprile 2016 L’evento dunque intende festeggiare i protagonisti di oggi e riconoscere ai protagonisti di allora il merito di aver avviato e di aver creduto in un’iniziativa assolutamente non scontata per il territorio di Forlì. Il laboratorio di assemblaggio componentistica per l’illuminazione, Altremani, interno alla casa circondariale di Forlì compie 10 anni. Il laboratorio, nato nel 2006, rappresenta un’esperienza di grande successo, per nulla scontato all’interno di un carcere, sia in termini occupazionali che economici. Altremani, infatti, rappresenta un’eccellenza a livello nazionale non solo per gli oltre 55 detenuti che in questi anni ha coinvolto, ma anche grazie all’autosufficienza economica raggiunta dal Laboratorio, superando le difficoltà strutturali, logistiche, normative e relazionali caratterizzanti le attività in carcere che spesso ne compromettono non solo l’autosufficienza economica ma la stessa sostenibilità. I risultati lusinghieri sono sicuramente da attribuire alla sinergica collaborazione che vede coinvolti diversi attori, istituzionali e non, che ne garantiscono il successo: in primis, le due imprese del territorio, Mareco Luce e Vossloh Schwabe che, dimostrando una forte responsabilità sociale, forniscono le commesse indispensabili alla sostenibilità del laboratorio. Inoltre, le attività gestite dalla Cooperativa Lavoro Con che assume i detenuti e coordinate da Techne, quale soggetto di regia dell’intero progetto con funzioni di monitoraggio e verifica dei risultati, permettono di raggiungere quotidianamente indici produttivi davvero soddisfacenti e una buona qualità nelle lavorazioni. La ricorrenza del decennale Altremani rientra tra le iniziative del 90° Anniversario di Confindutria Forlì-Cesena (1926-2016) poiché proprio le imprese committenti del Laboratorio (Mareco Luce e Vossloh Schwabe) sono associate Confindustria. Venerdì si celebra la ricorrenza con un incontro alle 11 al carcere di Via della Rocca alla presenza di Franco Vazio, vicepresidente Commissione Giustizia della Camera, Marco di Maio, deputato della Repubblica e Cesare Trevisani, membro del Comitato Etico di Confindustria Nazionale. All’evento, interverranno inoltre Armando Reho, provveditorato regionale amministrazione penitenziaria; Desi Bruno, garante regionale dei detenuti; Francesco Errani, servizio programmazione politiche della formazione della Regione; Davide Drei, sindaco di Forlì; Alberto Zambianchi, presidente della Camera di Commercio di Forlì-Cesena; Roberto Pinza, presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì; Roberto Sabbatucci, direttore della drezione territoriale del Lavoro Forlì-Cesena; Vincenzo Colonna, presidente di Confindustria Forlì-Cesena; Kevin Bravi, presidente dei Giovani Imprenditori Confindustria Forlì-Cesena; Mauro Neri, presidente di Confcooperative Forlì-Cesena; Leonardo Belli, presidente di Assiprov Forlì-Cesena; Palma Mercurio, direttrice del carcere di Forlì, e Lia Benvenuti, direttore generale Techne. L’evento dunque intende festeggiare i protagonisti di oggi e riconoscere ai protagonisti di allora il merito di aver avviato e di aver creduto in un’iniziativa assolutamente non scontata per il territorio di Forlì. Catanzaro: presentato progetto Rems, presente il Commissario del governo Corleone cn24tv.it, 21 aprile 2016 Accompagnato dai vertici dell’Asp di Catanzaro, questa mattina, il rappresentante del Governo e commissario per il completamento delle Rems, l’onorevole Franco Corleone, ha fatto visita al Comune di Girifalco dove ha incontrato il sindaco, Pietrantonio Cristofaro. All’incontro - organizzato dall’Asp di Catanzaro e di cui il Comune si è fatto solo padrone di casa - sviluppatosi in due momenti, hanno preso parte gli assessori comunali Nando Cosco, Maurizio Siniscalco e Elisabetta Sestito, i consiglieri comunali Filippo Giovanni De Stefani e Concetta Piccione, il dirigente del dipartimento alla Tutela della Salute della Regione Calabria, Luciano Lucania, il direttore generale dell’Asp, Giuseppe Perri, il referente della sanità penitenziaria Antonio Montuoro, il direttore dell’Ufficio tecnico dell’Asp di Catanzaro, Carlo Nisticò, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, Maria Antonietta Onorati, il capitano della Compagnia dei Carabinieri di Girifalco, Silvio Maria Ponzio, il comandante di Stazione, Giuseppe Milisenda, i progettisti e i titolari dell’impresa capofila della R.T.I. aggiudicataria dei lavori (B.L. Costruzioni srl di Catanzaro). La prima parte dell’incontro si è sviluppata nella sala giunta del Comune. I tecnici hanno, infatti, illustrato all’onorevole Corleone i dettagli del progetto delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Si è discusso sui lavori, i cui tempi previsti sono pari all’incirca a 600 giorni e sui tempi di consegna degli stessi. I vertici dell’Asp, oltre ad illustrare il progetto e le potenzialità dello stesso, hanno sottolineato la grande sinergia ed intesa con cui hanno lavorato Azienda sanitaria provinciale e Regione. Scendendo nel merito della discussione è emersa l’esigenza di intervenire su alcune importanti questioni: il numero dei posti letto per stanza, con un’area riservata alle donne, le aree da adibire ad attività di integrazione e il fattore "accoglienza" che la struttura deve avere pur avendo le giuste garanzie di sicurezza. Il ragionamento si è, dunque, spostato sul personale che dovrà essere qualificato e formato adeguatamente. "Chi lavora nelle Rems - ha detto Corleone - deve essere consapevole di far parte di un’operazione culturale importante". Carlo Nisticò ha, quindi, sottolineato come l’area dove sorgeranno le Rems è ubicata a pochi passi da un’altra importante realtà qual è l’orto botanico. L’impegno dei presenti all’incontro è stato, dunque, quello di perfezionare alcuni aspetti del progetto per poi rivederli e dare l’ultimo ok tra poche settimane. Subito dopo l’incontro in Comune, l’onorevole Corleone ha visitato la struttura offrendo all’Asp, alla ditta e all’amministrazione comunale ulteriori consigli e suggerimenti. E ribadendo, al contempo, un principio che rispecchia a pieno lo spirito dell’intero progetto: "Quello che ha assunto Girifalco con le Rems è un impegno storico. Ora, l’impegno ulteriore è, dunque, quello di non fallire, non alimentare paure e costruire un’opera bella. Non un contenitore in cui mettere corpi bensì persone. Chi ci lavorerà si sentirà, così, protagonista di una cosa eccezionale". Foggia: "Il grande futuro", di Giuseppe Catozzella, presentato alla Casa circondariale Quotidiano di Foggia, 21 aprile 2016 Lo scrittore Giuseppe Catozzella ha incontrato circa 70 detenuti della Casa Circondariale di Foggia appartenenti alle sezioni AS (Alta Sicurezza), Reclusione e Nuovo Complesso per parlare de "Il grande futuro". Un libro che dopo aver fatto il pieno di consensi di critica ha tra i suoi grandi estimatori anche Lorenzo Jovanotti, il quale ha definito l’ultimo libro dello scrittore milanese "una vera bomba, un romanzo che racconta la meraviglia dell’essere umano". Catozzella ha raccontato nel teatro dell’Istituto penitenziario foggiano la storia di Amal, nato su un’isola in cui c’è la guerra tra Esercito Regolare e Neri, soldati che in una mano impugnano il fucile e nell’altra il libro sacro. "Amal - ha spiegato lo scrittore. È l’ultimo, servo figlio di servi pescatori e migliore amico di Ahmed, figlio del signore del villaggio. In cerca di riscatto raggiunge l’imam della Grande Moschea del Deserto, per riempire il vuoto con un’educazione religiosa. Resiste finché un’ombra misteriosa e derelitta riapre in lui una ferita profonda che lo strappa all’isolamento. Allora si lascia arruolare: la religione si colma di azione. L’educazione militare lo fa guerriero, lo fa uomo. Lo prepara a trovare una sposa per generare un figlio e saranno quella sposa e l’amore a cambiargli la vita". Il racconto della nascita de "Il grande futuro" e del precedente romanzo "Non dirmi che hai paura", già "Premio Strega Giovani" e tradotto in tutto il mondo, ha sollecitato alcune domande nella platea: dalla religione all’estremismo islamico, all’ultima strage di migranti in mare. Un detenuto, tra gli applausi e la commozione dei presenti, ha voluto leggere un proprio componimento sul tema della fede. L’incontro è stato organizzato dal Csv Foggia (Centro di Servizio al Volontariato), in collaborazione con la libreria Ubik e fa parte della rassegna "Lib(e)ri dentro", nata da una costola di "Innocenti Evasioni", il progetto che dal 2013 il Centro realizza con Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri nella sezione AS dell’Istituto Penitenziario di Foggia. Il pericolo di scrivere. Italia in fondo alla classifica sulla libertà di stampa di Gilda Maussier Il Manifesto, 21 aprile 2016 Reporters sans Frontieres. L’Italia scivola di altre quattro posizioni in fondo alla classifica sulla libertà di stampa. Al 77esimo posto su 180 per le intimidazioni, minacce e querele subite dai giornalisti. "Il livello di violenza contro i giornalisti (comprese intimidazioni verbali e fisiche, e minacce di morte) è allarmante": no, non è la Corea del sud, non è la Georgia, né il Lesotho, la Bosnia Herzegovina o il Nicaragua. E neppure la Moldova. Tutti Paesi che precedono il nostro, nell’annuale classifica sulla libertà di stampa, considerati un po’ più sicuri per chi fa il mestiere di cronista. Gli analisti di Reporters sans frontières (Rsf) parlano così invece dell’Italia, che perde quattro posizioni anche quest’anno, scivolando dal 73esimo posto del 2015 al 77esimo. Sebbene non sia il tracollo dell’anno scorso, quando rispetto al 2014 Roma aveva perso 24 postazioni in un sol colpo, la ong con sede a Parigi motiva però il pessimo ranking già con il titolo del dossier che ci riguarda: "Sotto scorta della polizia". "Le minacce mafiose sono ricorrenti", contro i giornalisti italiani. Gli autori di "inchieste sulla corruzione o sul crimine organizzato sono i primi a finire nel mirino". Tanto che "da 30 a 50 giornalisti sono sotto protezione dopo minacce pronunciate nei loro confronti", scrive Rsf riportando notizie uscite sui quotidiani italiani. E ancora: un motivo particolare di preoccupazione è destato dal sistema giudiziario del Vaticano che "attacca la stampa, nel contesto degli scandali Vatileaks e Vatileaks 2. Due giornalisti - ricorda il report annuale francese - rischiano 8 anni di carcere per la pubblicazione di libri che rivelano il malaffare della Santa Sede". Questa volta - differentemente dal 2015 quando l’Italia precipitò dal 49esimo al 73esimo posto della classifica stilata prendendo in considerazione pluralismo, indipendenza dei media, ambiente generale e autocensura, quadro legislativo, trasparenza e infrastrutture - Rsf non menziona nel suo rapporto la concentrazione dei media e la pressione del potere sui giornalisti italiani. Una problematica che invece viene evidenziata per motivare la 45esima postazione della Francia dove "un pugno di uomini d’affari con interessi estranei al mondo dei media possiedono la maggior parte delle testate private nazionali". In Gran Bretagna (38esima) i problemi sono simili ai nostri, secondo gli osservatori internazionali: contro i cronisti britannici infatti "la polizia ricorre al Regulation of investigatory Powers Act per tentare di violare il segreto delle fonti", mentre in Italia "si moltiplicano le irruzioni di polizia con lo stesso obiettivo". L’Europa però, nel suo insieme, detiene il primato di continente dove la libertà di stampa è più tutelata, malgrado le leggi speciali contro il terrorismo rischiano di comprometterne il modello virtuoso. In cima alla classifica che viene stilata dal 2002 si trovano la Finlandia (in testa per il sesto anno consecutivo), l’Olanda (che guadagna due posizioni rispetto all’anno scorso), la Norvegia (indietro di un posto), la Danimarca (retrocede anch’essa di una postazione) e la Nuova Zelanda (che avanza di un gradino). In fondo, su 180 Paesi presi in considerazione, rimangono Sudan, Vietnam, Cina, Siria, Turkmenistan, Corea del Nord e - ultima - Eritrea. Al netto del Medio Oriente, che è posto decisamente out per i cronisti e dell’Egitto (al 159esimo posto), che è surclassato perfino dall’Iraq, l’Africa però per la prima volta supera l’America latina. Ma è solo per colpa del clima che si vive in Paesi come Venezuela, Honduras, Colombia ed Ecuador. Al contrario, particolare menzione merita la Tunisia (96esima), che guadagna 30 posti per "il consolidamento degli effetti positivi della rivoluzione", e si conferma il più libero - almeno per i media - tra i Paesi arabi. Se continua così, tra otto mesi la Tunisia potrebbe superare l’Italia. D’altronde, nemmeno l’Fnsi è sorpresa dal pessimo risultato italiano e anzi denuncia problemi nell’"organizzazione complessiva di tutto il sistema" mediatico. Da noi, ricorda in una nota il segretario generale, Raffaele Lorusso, "vige ancora l’articolo 595 del codice penale che prevede il carcere per i giornalisti, anche se da anni si parla di intervenire: non aiuta certo in una classifica sulla libertà di stampa". Non solo: "Si va dall’assenza di normative antitrust ai meccanismi di nomina della governance dell’ente radiotelevisivo di Stato, che resta legato all’esecutivo in carica". E infine la questione urgente delle "querele temerarie spesso usate a scopo intimidatorio, tema che non è stato ancora affrontato". "C’è un dibattito, è stato fatto un primo passo con l’emendamento approvato nell’ambito della proposta di legge di riforma del processo civile -ricorda Lorusso, ma non ancora un provvedimento definitivo e siamo lontani dalle linee guida auspicate dall’Europa, secondo le quali la querela intimidatoria deve portare, in caso di sconfitta del querelante, non solo al pagamento delle spese processuali ma anche a sanzioni proporzionali all’entità del risarcimento richiesto con la querela". Terrorismo. L’allargamento, cintura di sicurezza per l’Europa di Ricardo Franco Levi Corriere della Sera, 21 aprile 2016 Alzare muri è contro il nostro interesse. Non sottovalutiamo l’ingresso dei Balcani. Mentre l’Austria medita di alzare una barriera al Brennero, in Olanda due milioni e mezzo di cittadini respingono l’accordo commerciale tra l’Unione europea e l’Ucraina. È un nuovo, doppio no ad un’Europa aperta e larga. Al fondo, sempre più spesso, sempre più diffusa, si è sentita e si sente la critica all’allargamento dell’Europa all’est e al sud-est: alla Polonia, all’Ungheria, ai Balcani. Soprattutto ai Balcani. Un allargamento improvvido, troppo veloce, prematuro, fatto mettendo il carro avanti ai buoi: questo dicono ormai in tanti. A tutti loro, perché sono tanti e perché le loro posizioni rischiano di trasformarsi in senso comune, è doveroso rispondere, difendendo e rivalutando il progetto, il significato, i risultati dell’allargamento. Potremmo parlare di economia e sottolineare come i nuovi Paesi dell’est e del sud-est - basta chiedere agli imprenditori italiani cosa rappresenti oggi per loro la Romania - siano rapidamente diventati parte integrante e preziosa delle catene di produzione dell’industria europea. O, ancora potremmo ricordare come da loro, più in grado e più pronti a sfruttare il calo del prezzo del petrolio, sia venuto negli ultimi anni il maggior contributo alla crescita europea, con tassi di sviluppo che vanno dal 3,1 della Bulgaria al 4,8 per cento della Repubblica Ceca. Ma, per difendere l’allargamento, parlare di sola economia sarebbe riduttivo. A fronte delle paure dell’Europa è per la nostra sicurezza che l’anello che abbiamo costruito verso l’est in direzione della Russia e verso il sud-est in direzione del Medio Oriente e dell’Asia è stato ed è prezioso. Quali tensioni avremmo alle nostre porte se l’Ucraina confinasse non con Paesi membri a pieno titolo dell’Unione europea (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Romania) ma con territori abbandonati in un vuoto politico tra Russia ed Europa? Ma guardiamo più in là, ai Paesi che nell’Unione ancora non sono entrati ma che all’Unione guardano come al loro porto di approdo. Di fronte alla pressione dell’immigrazione dalla Siria e dal Mediterraneo orientale e, ancora peggio, della minaccia e degli attacchi dell’Isis, cosa sarebbe stato dei e nei Balcani? Dopo le guerre nell’ex Jugoslavia, Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia, Albania, Kosovo sono diventati l’arsenale di kalashnikov e di ogni altro genere di armi da cui tutti, proprio tutti, attingono: dai terroristi islamici per gli attentati di Parigi agli americani per rifornire i Peshmerga curdi che combattono l’Isis nell’Iraq settentrionale. Se queste terre, teatro di conflitti e di orrori lungo i secoli, non si sono trasformati in una gigantesca polveriera, se abbiamo evitato che anche qui, sull’altra sponda dell’Adriatico, si insediasse il Califfo, è solo per l’ombrello politico che su di esse l’Europa, imparata la lezione dei massacri degli anni Novanta compiuti sotto i suoi occhi distratti, ha saputo e voluto stendere riconoscendone la "vocazione europea". Nell’estate del 2014, prima ancora di diventare presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker disse che nei suoi cinque anni di mandato non ci sarebbe stato alcun altro allargamento dell’Unione. Fatta per ingraziarsi un pubblico spaventato, fu una dichiarazione vuota di contenuto concreto, perché nessuno dei Paesi balcanici sarebbe comunque stato in condizione di diventare così presto membro dell’Unione, e sbagliata, perché trasmetteva il messaggio che, quali che fossero i loro sforzi, la porta dell’Europa sarebbe rimasta chiusa. Ci vorrà molto tempo prima che tutti i Balcani possano entrare a far parte a pieno titolo dell’Unione Europa superando, tappa dopo tappa, gli esami a cui tutti i Paesi si dovranno sottoporre per procedere nel cammino verso la possibile ammissione. Ma, se li vogliamo come alleati per la nostra difesa e la nostra sicurezza - e il pensiero di noi italiani va innanzitutto all’Albania - a tutti loro noi dobbiamo garantire che la strada verso l’Europa rimane aperta. Flessibilità per le spese anti terrorismo. La proposta della Commissione europea di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 21 aprile 2016 Si potranno scorporare dai bilanci pubblici nel caso di eventi eccezionali. La spinta emozionale dei sanguinosi attentati terroristici a Parigi e Bruxelles può generare maggiori margini di flessibilità nell’applicazione dei vincoli di bilancio previsti dal Patto di Stabilità e di crescita dell’Ue. Lo ha fatto capire la Commissione europea annunciando la sua proposta di scorporare le spese per la sicurezza nel caso di "eventi eccezionali", come potrebbero essere i rischi di avanzata dei kamikaze jihadisti nei Paesi membri. Nella comunicazione dell’istituzione di Bruxelles sulla strategia per una politica comune di sicurezza, la richiesta ai governi di attuare valutazioni flessibili sui conti pubblici è stata giustificata con la necessità di "fronteggiare eventi al di fuori del controllo dei governi quando si considerano le spese direttamente relative a tali minacce". In pratica la attuale possibilità di chiedere flessibilità per gli investimenti produttivi co-finanziati dall’Ue, per affrontare i costi iniziali delle riforme strutturali o per fronteggiare l’emergenza migranti, verrebbe estesa a quanto gli Stati devono spendere in più per rafforzare la sicurezza dei cittadini davanti alla minaccia del terrorismo jihadista. L’Italia, che ha chiesto di beneficiare delle tre forme già previste di flessibilità, potrebbe chiedere questa ulteriore concessione perché, dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles, Roma e Milano sono risultate nella lunga lista di città europee dove sarebbe necessario intervenire per ridurre i rischi. Lo stesso pacchetto anti-terrorismo proposto dalla Commissione europea (incentrato sullo scambio di informazioni tra i servizi segreti nazionali, il potenziamento delle strutture di intelligence, azioni contro la diffusione incontrollata delle armi, maggiore coordinamento presso l’agenzia comunitaria Europol, ecc.) prevede aumenti dei costi a carico degli Stati membri. L’estensione della flessibilità di bilancio alle spese per la sicurezza rientra in una più ampia ridiscussione del Patto di stabilità e di crescita, che con i suoi vincoli non viene più considerato attuabile da Italia, Francia, Portogallo, Spagna e vari altri Paesi membri a causa della lunga crisi economica internazionale. Nell’Eurogruppo/Ecofin informale dei ministri finanziari, in programma domani e sabato ad Amsterdam, è in agenda la discussione di una semplificazione dei complicati meccanismi di valutazione degli attuali parametri. E i Paesi con difficoltà nei conti pubblici intenderebbero utilizzare questo procedimento per ottenere maggiori margini di spesa per rilanciare crescita e occupazione. Terrorismo. In Francia stato d’emergenza fino a fine luglio di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 21 aprile 2016 Lotta al terrorismo. L’eccezione diventa sempre più la regola. La giustificazione ora sono l’Euro 2016 e il Tour de France. Ma la contestazione della riforma del lavoro prosegue. La Nuit Debout si interroga sul dopo. Come c’era da aspettarsi, il governo ha presentato in Consigli dei ministri ieri mattina la proposta di prolungare di altri due mesi lo stato d’emergenza. Ci sarà un voto al parlamento, che è scontato, visto che la destra è più che favorevole. Lo stato di emergenza, deciso l’indomani degli attentati del 13 novembre, è già stato prolungato due volte ed è in vigore fino al 26 maggio. Ci sono state 3400 perquisizioni, sono state reperite 740 armi, di cui 75 da guerra, 60 persone sono state condannate a pene di prigione e un’altra sessantina è ancora ai domiciliari. Con il nuovo prolungamento, che sarà di due mesi (e non di tre come nel passato) si va fino alla fine dell’Euro 2016 (football, dal 10 giugno al 10 luglio) e verrà anche coperto il Tour de France, due appuntamenti popolari che attirano molta gente, c’è soprattutto preoccupazione per la protezione delle "fan zone", dove verranno trasmesse le partite in corso su grandi schermi. A fine luglio, del resto, il governo pensa che sarà stata definitivamente approvata la riforma della procedura penale, che praticamente inserisce nella legge ordinaria alcune norme d’eccezione adesso in vigore grazie allo stato d’emergenza. In altri termini, gli attentati del 2015 lasciano in Francia un segno duraturo di limitazione delle libertà e, nell’attesa, lo stato d’emergenza sarà durato 8 mesi (l’altra volta, ai tempi della guerra d’Algeria, era iniziato come misura temporanea ed era durato 8 anni). Il governo ieri si è premurato di sottolineare che lo stato d’emergenza "non impedisce manifestazioni e riunioni". Il 28 aprile è già prevista un’altra giornata di cortei contro la legge di riforma del lavoro e ogni sera la Nuit Debout riunisce centinaia di persone in varie città. Ma resta comunque su queste iniziative sempre la spada di Damocle di una possibile proibizione in nome dell’emergenza. La legge Lavoro è sempre più nell’impasse, contestata nelle piazze e ormai sfidata anche dal padronato, che ricatta il governo: il Medef (la Confindustria francese) e la Cgpme (organizzazione padronale della piccola e media impresa) minacciano di lasciare il tavolo della trattativa con i sindacati sugli assegni di disoccupazione (che non c’entrano niente con la Loi Travail), se l’esecutivo non torna alla prima versione della riforma, modificata a varie riprese e a piccoli tocchi sotto la pressione dei giovani e delle proteste (il padronato contesta la promessa fatta alle organizzazioni degli studenti di tassare i Cdd, i contratti a tempo determinato, per favorire le assunzioni). La Nuit Debout, poco per volta, si radica nel paesaggio delle città francesi, grandi e piccole. Ieri sera, la rivista Fakir e la commissione "convergenza delle lotte" hanno organizzato un incontro alla Bourse du Travail a Parigi (da un primo incontro, il 23 febbraio scorso, è nata la prima scintilla del movimento che si è poi radicato nelle piazze a partire dal 31 marzo). Il tema della discussione: "la prossima tappa?", a partire dall’avvertimento "attenzione a non trovarci così belli nello specchio mediatico", che ha dato ampio spazio al movimento. "Attenzione a non accecarci di fronte all’oceano di rassegnazione di cui è costituita la Francia, solo perché abbiamo costruito un nostro isolotto di rivolta", spiega Fakir, la rivista di François Ruffin, autore del film-documentario Merci patron!. "Verso dove?" si chiede Nuit Debout, "invadere place de la République e conservarla non è una finalità: è solo un mezzo. Per fare cosa?". Il 26 c’è sciopero nelle ferrovie (per i salari), in molte professioni il malessere dilaga. L’obiettivo è organizzare concretamente la "convergenza delle lotte", andando al di là del nucleo di origine della Nuit Debout. Il governo sembra suonato, paralizzato di fronte a una contestazione che arriva da tutte le parti e con segno opposto. I sondaggi distruggono il morale: Hollande, che ha detto che farà sapere "alla fine dell’anno" se si ripresenterà per le presidenziali del 2017, è dato non solo perdente ma persino non presente al secondo turno in tutte le ipotesi e con qualsiasi sfidante. Ormai, sarebbe superato al primo turno anche da Jean-Luc Mélenchon (che mira a "farsi recuperare" dalla Nuit Debout). Bond per gestire i profughi. Ecco il progetto di Bruxelles di Federico Fubini Corriere della Sera, 21 aprile 2016 Il piano in linea con la proposta di Renzi per tenere i costi fuori dai bilanci. Non senza ragione, negli ultimi anni il governo tedesco si è abituato a pensare che la Commissione Ue a ogni passaggio delicato seguirà i suoi consigli. Niente per ora impedisce che accada ancora una volta il prossimo 28 giugno. Quel giorno, l’ennesima data europea dell’ultima spiaggia, i leader dei 28 Stati si troveranno a Bruxelles per discutere due argomenti che in teoria non avrebbero mai dovuto accavallarsi: come finanziare la prevenzione di nuove ondate migratorie nel Mediterraneo e come rispondere al referendum britannico sulla secessione dalla Ue fissato per il giorno prima, il 27 giugno. È possibile che almeno sul primo punto la Commissione segua ancora una volta la Germania. Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze di Berlino, ha già messo in chiaro a Bruxelles le sue preferenze: le risorse per l’emergenza migratoria vanno trovate nei circa 150 miliardi di euro l’anno dell’attuale bilancio dell’Unione, per esempio riducendo i sussidi agricoli o altri programmi tradizionali. Un sistema di guardia comune alle frontiere marittime dell’Unione si potrebbe finanziarie così, ritiene Schäuble. In via subordinata la Germania pensa a un prelievo "europeo" di scopo sulla benzina, anche a costo di rendere gli elettori sempre più ostili sia verso Bruxelles che nei confronti dei migranti. Almeno per ora però la Commissione Ue lavora a idee diverse. Un documento riservato della direzione generale Economia e finanza (Ecfin) di Bruxelles del febbraio scorso prospetta qualcosa di simile a quanto poi proposto dall’Italia la settimana scorsa: emissioni di obbligazioni comuni europee da parte di un’agenzia specializzata. "La crisi dei rifugiati ha potenzialmente implicazioni significative, benché molto incerte, per la finanza pubblica" si legge nel documento informale, riservato solo a pochissimi funzionari di vertice della Commissione. Secondo i suoi autori l’approccio attuale - tolleranza per le spese in più dei singoli Stati - non può funzionare a lungo. "Anche permettere un rinvio temporaneo del pareggio di bilancio non equivale a un’efficace spalmatura del costo fiscale dell’impatto della crisi". L’emergenza migratoria rischia infatti di durare ben oltre le scadenze concesse ai vari Paesi per portare i deficit verso quota zero. E anche cambiare la destinazione d’uso del bilancio dell’Ue, come propone Schäuble, secondo il documento "non farebbe la differenza" perché i margini di spesa restano comunque ristretti. Di qui la proposta presentata nel documento riservato dell’Ecfin: un eurobond in tutto salvo che nel nome, accuratamente evitato per non irritare Berlino. Si fa presente nel testo che esiste "un precedente su scala ridotta per gestire una crisi umanitaria anticipando le spese sul terreno, mentre si permette di far emergere solo gradualmente l’impatto per il deficit e il debito". Il riferimento va al Fondo per i vaccini e allo Strumento finanziario internazionale per l’immunizzazione. Sono due agenzie create lo scorso decennio dai governi europei, che funzionano esattamente così: emettono obbligazioni per coprire certe spese specifiche, sulla base dell’impegno dei governi a rimborsare pro quota quei titoli alla scadenza. La conclusione del documento di Bruxelles è chiara: "Il debito dell’agenzia non andrebbe considerato debito pubblico dei governi", almeno fino a quando le obbligazioni comuni non andranno rimborsate con i fondi dei singoli Stati. Il vantaggio finanziario sarebbe nel diluire nel tempo gli oneri dell’emergenza migratoria, potenzialmente per decine di miliardi l’anno. E di farlo grazie all’emissione di titoli a interessi vicinissimi allo zero. Resta l’opposizione della Germania, pressoché isolata ma determinatissima a evitare qualunque condivisione del debito con gli Stati del Sud Europa. La tragedia dell’Unione europea è che questo rischia di essere il punto più facile all’ordine del giorno del prossimo vertice. L’altro sarà il referendum europeo voluto dal governo di Londra, nell’illusione che strappare una maggioranza contro la secessione fosse davvero scontato. Iran: 8 persone impiccate, più di 2.300 esecuzioni durante presidenza di Rouhani ncr-iran.org, 21 aprile 2016 Ad Isfahan, tre prigionieri sono stati identificati come Mojtaba Kazemi, Hamid Shahsavand ed Hamid Mahdavi. Del quarto non si conosce il nome. Tutti sono stati impiccati domenica 17 Aprile. Martedì il regime dei mullah ha impiccato quattro prigionieri nel carcere di Orumieh (Urmia). Questi sono stati identificati come Alireza Sarebani, Ahmad Nami, Manouchehr Razani ed Abdolhamid Moradi. Erano tutti accusati di reati legati alla droga. Queste impiccagioni hanno fatto arrivare ad almeno 32 il numero delle persone giustiziate dall’inizio della scorsa settimana, mentre i rappresentanti europei si trovavano in visita a Tehran. Tre dei prigionieri giustiziati erano donne. Secondo alcune notizie giunte dall’Iran, il regime dei mullah giovedì ha impiccato cinque uomini e due donne nel carcere di Birjand, Iran nord-orientale. Il regime fondamentalista iraniano sabato ha impiccato tre prigionieri in un carcere di Rasht, Iran settentrionale, mentre la responsabile della politica estera dell’Unione Europea Federica Mogherini si trovava a Tehran per creare importanti legami commerciali tra l’UE e il regime. Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Cnri) mercoledì ha dichiarato in un comunicato che il trend in crescita delle esecuzioni "volto ad intensificare il clima di terrore per prevenire l’espandersi delle proteste nei vari strati della società, in particolare durante un periodo di visite di alti rappresentanti europei, dimostra che le pretese di moderazione non sono altro che un’illusione per questo regime medievale". Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e le Politiche di Sicurezza, si trovava a Tehran sabato insieme ad altri sette commissari dell’UE, per discutere con gli esponenti del regime di commercio ed altri ambiti di collaborazione. Il suo viaggio è stato duramente criticato da Mohammad Mohaddessin, Presidente del Comitato Affari Esteri del CNRI che ha detto: "Questo viaggio, che si svolge nel mezzo di un’ondata di esecuzioni di massa, di brutali violazioni dei diritti umani e delle sfrenate attività guerrafondaie del regime nella regione, calpesta i valori sui cui l’UE è stata fondata e che la Mogherini dovrebbe difendere e promuovere". Amnesty International, nel suo Rapporto Annuale sulla Pena di Morte pubblicato il 6 Aprile e che riguarda il 2015, scrive: "L’Iran ha messo a morte almeno 977 persone nel 2015, rispetto alle 743 dell’anno precedente". "Solamente in Iran è avvenuto l’82% di tutte le esecuzioni registrate in Medio Oriente e Nord Africa", ha detto questa organizzazione per i diritti umani. Ci sono state più di 2.300 esecuzioni durante la presidenza di Hassan Rouhani. L’Inviato Speciale delle Nazioni Unite sulla Situazione dei Diritti Umani in Iran, a Marzo ha annunciato che il numero delle esecuzioni avvenute in Iran nel 2015 è stato più alto che in qualsiasi altro degli ultimi 25 anni. Rouhani ha esplicitamente appoggiato la pratica delle esecuzioni quali esempi dei "comandamenti di Dio" e delle "leggi del parlamento che appartiene al popolo". Norvegia: Breivik vince causa contro Stato, in carcere violati i suoi diritti umani di Andrea Tarquini La Repubblica, 21 aprile 2016 La Corte distrettuale di Oslo non ha ritenuto violato il diritto alla vita privata e familiare del detenuto. Ma ha condannato lo Stato soprattutto per i cinque anni di isolamento a cui è stato sottoposto. Breivik sarà risarcito delle spese legali sostenute: 331mila corone. È una sentenza che farà discutere e dividerà il mondo. La giustizia norvegese, con la sentenza emessa oggi pomeriggio, ha dato in buona parte ragione ad Anders Behring Breivik, il neonazista massacratore di 77 persone. Breivik aveva fatto causa allo Stato norvegese, denunciando "condizioni di detenzione inumane". La corte, presieduta dalla giudice Helen Andenaes Sekulic, gli ha dato ragione su questo punto, decidendo che le autorità dovranno al terrorista un indennizzo di 330mila corone norvegesi, cioè circa 35mila euro, per i cinque anni trascorsi in stretto isolamento. Il tribunale ha invece rigettato il secondo punto denunciato da Breivik e dei suoi avvocati, cioè il divieto seppur non assoluto di contatti verso l’esterno. Nel luglio del 2011 Breivik, vestito in nero con un’uniforme paramilitare, armato di tutto punto, prima seminò la morte nel centro della capitale Oslo, facendo saltare in aria il palazzo che ospita i più importanti uffici del governo con potenti cariche esplosive. Poi con un gommone raggiunse l’isola di Utoya, dove era in corso la festa estiva della gioventù del partito laburista (socialdemocratico) allora al governo. Spacciandosi per poliziotto, radunò tutti nello spiazzo centrale e cominciò a uccidere ragazze e ragazzi, molti dei quali minorenni, sparando all’impazzata col fucile a pompa e una potente pistola. Poi si accanì a dare il colpo di grazie alla nuca alle vittime ferite ma ancora non morte. Solo dopo, col cellulare chiamò la polizia: "Sono il comandante Breivik, la mia missione contro il veleno della società multiculturale è compiuta, mi arrendo, venitemi a prendere". 69 giovani erano a terra assassinati dalle sue pallottole. Per ore, le forze di sicurezza avevano brancolato nel buio pensando a un attentato islamista in centro, e dopo le poche chiamate disperate sui cellulari ricevute da Utoya da chi cercava di scampare al massacro faticò persino a cercare elicotteri delle forze armate per raggiungere l’isola. Nell’estate 2012 Breivik fu condannato a 23 anni di reclusione, con possibile prolungamento della pena se è o sarà giudicato particolarmente pericoloso. Da allora è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Skien, due ore da Oslo. Nella sua causa allo Stato Breivik, divenuto nel frattempo esplicitamente neonazista (all’udienza generale si era presentato in nero salutando col braccio teso davanti alle telecamere) ha denunciato il totale isolamento, il frequente obbligo di portare manette, le frequenti perquisizioni. Per informazione del lettore: Breivik vive a Skien non in un’angusta cella bensì in un trilocale di 31 metri quadrati diviso in stanza letto, stanza palestra e stanza lavoro, più angolo cucina e servizi. Dispone di tv playstation e di un computer senza allacciamento a internet. La corte ha stabilito che comunque il suo totale isolamento viola l’articolo 3 della convenzione europea sui diritti umani. Ha invece decretato che vista l’alta pericolosità del detenuto, eroe brutale della galassia neonazista mondiale, i duri limiti ai suoi contatti e corrispondenza non sono in contraddizione con l’articolo 8 della stessa convenzione. Tanto più che egli aveva cercato più volte di stabilire contatti con terroristi neonazisti in altri paesi europei, persino scrivendo lettere d’amore a Beate Zschaepe, la leader e unica sopravvissuta del partito armato neonazi tedesco Nsu attualmente sotto processo a Monaco per l’assassinio in anni di dieci stranieri e di una poliziotta. La Norvegia ha scelto in modo estremo di mettersi in discussione, in nome dei suoi principi di Stato di diritto i cui valori sono validi anche per i nemici che lo vogliono distruggere. Ma la sentenza farà discutere a lungo, ovunque. Norvegia: l’assassino dei 77 ragazzi che per lo Stato è vittima di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 21 aprile 2016 Anders Breivik è ufficialmente una vittima. I cinque anni di isolamento ai quali è sottoposto il massacratore nazista di 77 civili inermi ledono il suo diritto a un’equa detenzione. I giudici di Oslo hanno applicato l’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che vieta la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. Eppure, Breivik dispone di un appartamento di trentuno metri quadrati con palestra, servizi, televisore e computer. Egli versa in una condizione detentiva che, in molti altri Paesi, sarebbe persino considerata invidiabile. Si potrebbe, dunque, sostenere che si tratta solo di una questione di misura. I giudici norvegesi sono di manica più larga, considerano illecito ciò che altrove è la norma. Così ragionando, il principio fissato dalla Cedu sarebbe salvo, e l’errore andrebbe cercato nella sua applicazione. Ma la sensazione, nello scorrere i commenti che in queste ore si infittiscono, è che sia proprio il principio a risultare indigesto. Il fatto è che questa vicenda rinfocola l’attualissimo dibattito sul rapporto che avvince sicurezza e pena, repressione e diritti dei condannati. Con l’ulteriore precisazione che si tratta di questioni proprie degli stati democratici, e in particolare di quelli europei: dove regnano dittatori e cacicchi - e anche in qualche grande nazione fuori d’Europa-le questioni criminali si regolano con metodi assai più sbrigativi. È tipico, invece, dell’Europa democratica, il tentativo di uniformarsi a uno standard comune che interpreta in modo multiforme il rapporto fra sicurezza e pena. Le democrazie europee non ammettono la pena di morte, e in molti casi (inclusa la Norvegia) nemmeno l’ergastolo. Le democrazie europee considerano la pena uno strumento difensivo, secondo la tradizione, ma anche propulsivo, perseguendo, attraverso il trattamento carcerario e le misure alternative alla detenzione, la rieducazione del condannato e il suo reinserimento sociale. È una strada angusta e impopolare, ma è la strada che le democrazie hanno scelto dopo un frastagliato percorso lungo centinaia di anni: inutile, anzi, dannoso infierire sul corpo del prigioniero, se il fine è il suo riscatto. Ma Breivik è un’altra storia. Non si può, con Breivik, spendere l’argomento della "pena dolce" come strumento di rieducazione, perché Breivik non è pentito, non ha chiesto perdono, ha rivendicato i suoi crimini. Breivik è un assassino protervo che non aspira a nessuna rieducazione. Breivik è, a tutti gli effetti, un indifendibile nemico della democrazia. Perché, allora, la democrazia, invece di trattarlo coi guanti, non si limita a difendere sè stessa da uno come lui? Sul web intervengono, in queste ore, cittadini esasperati: Breivik porta alla luce il lato oscuro della democrazia. O quello stupido. Ma i giudici di Oslo non sono nè oscuri nè stupidi. Essi hanno giudicato Breivik ignorando consapevolmente chi è Breivik. Lo hanno spersonalizzato. Era ciò che chiedeva loro la legge, e si sono doverosamente adeguati. Davanti a loro è comparso un individuo che, qualunque fosse stato il suo passato, lamentava una condizione del suo presente. L’hanno esaminata, questa condizione, e hanno deciso che era illegale. Si sono assunti la responsabilità di una decisione che è parsa a tanti bizzarra, persino sconsiderata. E l’hanno adottata nel pieno rispetto della legge. È in questa spersonalizzazione che risiede il valore più alto della decisione dei giudici di Oslo. Breivik, da un lato, perde la sua qualifica di "mostro", e i giudici decidono liberi dalla valutazione morale che, c’è da immaginare, dentro di sè avvertivano acuta e dolorosa. Dall’altro lato, la sentenza finisce per non riguardare più Breivik, che del resto si è mostrato indifferente alla giustizia nel suo complesso. No. Il vero oggetto di questa sentenza è la democrazia stessa. A Olso è stata riaffermata, contro ogni clamore, la validità del principio universale che vieta di trattare in modo inumano anche il peggior prodotto dell’evoluzione della specie umana. Ed è su principi come questo che si sono costruite le democrazie: dando ragione a Breivik, in definitiva, la democrazia non solo si è difesa da Breivik, ma ha riaffermato la sua signoria. Stati Uniti: "ConBody", così un gruppo di ex detenuti allena mezza New York di Francesca Magnani La Repubblica, 21 aprile 2016 Coss Marte, ventottenne di origine dominicana, uscito di prigione apre una palestra lì dove un tempo spacciava coca. "ConBody" (da convict, prigioniero) è ora uno dei luoghi più cool di New York dove andare ad allenarsi: 1.400 corsi, tre ex detenuti a tenerli. E Coss è perfino tornato in prigione, ma solo per allenare i suoi ex compagni detenuti. Due anni fa, in un parchetto della Lower East Side, la zona di Manhattan a est di SoHo e a sud dell’East Village (Larry Clarke ci ha girato Kids e Harry ci ha incontrato Sally nella celebre scena dell’orgasmo - da Katz’s Deli, per la precisione) un gruppo di amici si allenava facendo push-up al ritmo della voce di Coss Marte, un ventottenne di origine dominicana che allora era appena uscito di prigione: "Un passante si è fermato a guardarci e dopo poco è corso al bancomat e mi ha offerto 200 dollari per allenarsi per un mese con noi. Da lì è nata l’idea di aprire una mia palestra. Sfortunatamente in Usa se hai un passato da carcerato moltissime possibilità ti sono precluse. Ma in quel momento ho avuto un’illuminazione: perché non fare dello svantaggio in cui mi trovavo la vera attrazione del mio business?". ConBody, il nome viene dalla parola "convict", prigioniero, è nato così, proprio all’angolo dove Coss Marte vendeva cocaina ed eroina. Ora è il CEO della palestra e ha portato la sua formula in vari carceri degli Stati Uniti, inclusa Rikers Island: "Entrando lì da uomo libero avevo paura. Era strano camminare dalla parte delle guardie e sentire il rumore delle porte di ferro che si chiudevano. Ora che ho cambiato vita la mia missione è motivare gli altri. Che serva a cambiare strada o a perdere peso, per me è un successo". Jenn Shawn è la co-proprietaria di ConBody, e ti accoglie calorosamente nel piccolo spazio di Broome Street (accanto al tempio cinese) che in questi giorni sta registrando il tutto esaurito: "Trecento, quattrocento persone alla settimana passano di qui, offriamo 140 classi la settimana. All’inizio tutti sono intimiditi, ma dopo la prima lezione quasi tutti acquistano l’abbonamento mensile illimitato". L’allenamento dura 45 minuti, un bootcamp semplice ma ad alto impatto: una sequenza di piegamenti, squat, jumping jacks e corsa sul posto organizzati variando forma, ritmo e ripetizioni in modo da renderli efficaci al massimo. Le otto classi giornaliere, di 12 persone, oggi a mezzogiorno erano già quasi tutte sold out. Siamo riusciti a infilarci in quella delle sette. L’insegnante è Sultan Malik e si comincia con una serie di flessioni a ritmo di rap. A un certo punto la musica si interrompe e gli studenti, grati della pausa, si fermano. Ma il trainer incalza con un sorriso: "Ho passato 14 anni in galera, di cui sette in isolamento: per ventitre ore ero chiuso in un box all’interno di un box. Detto ciò… credi di poter sopportare 45 minuti di cardio?". La prospettiva di Sultan Malik non fa una piega e ti riporta coi piedi per terra. Mentre si muove per la sala incitando e correggendo l’allineamento, impartendo i suoi ordini e dando energia e incoraggiamento, è difficile immaginare cosa può aver davvero vissuto in prigione. Le undici ragazze in leggings Gap e Lululemon (più un unico ragazzo) annuiscono e ricominciano l’allenamento con maggior fervore. Hanno pagato 25 dollari per passare 45 minuti in un basement (la cantina newyorkese) spartano chiuso da una porta di ferro le cui sbarre ricordano una cella. Alla parete c’è un murale con una rete di filo spinato, e dopo la prima lezione i nuovi studenti si fanno una foto per instagram che ricorda una foto segnaletica. Ma queste piccole trovate di marketing non rendono meno serio o fruttuoso l’allenamento fisico. Sultan fa parte di una piccola squadra in espansione organizzata da Coss, spacciatore da quando aveva 13 anni, a ventitre arrestato al culmine del suo business: la vendita di droga gli dava un giro d’affari di 2 milioni di dollari l’anno. "Nei sette anni che ho passato in prigione il mio corpo è cambiato radicalmente: ero diabetico e sovrappeso e i medici della prigione mi avevano dato sei mesi di vita. Mi sono rifiutato di morire in gabbia, e ho cominciato ad allenarmi nella mia cella di cinque metri quadri, sfruttando solo il mio peso. In cella bisogna essere creativi, per i sollevamenti e le flessioni usavo tutto quello che avevo a disposizione, il materasso, la panca, anche la tazza del water! In pochi mesi ho perso 32 chili, e gli altri prigionieri hanno cominciato a chiedermi di allenarsi con me. A un certo punto tra 20 di noi avevamo perso in tutto quasi mezza tonnellata". Il workout di ConBody ha un alto impatto emotivo: è impossibile non pensare a disciplina e disperazione tra le sbarre. "Mind over matter! Con la mente si può andare oltre i limiti del corpo" dice Sultan in classe battendo un cinque. "Mica posso rimanere nell’Ombra" mi ha detto al termine della lezione, quando gli ho chiesto come si sentiva ad essere rifiutato da tutte le palestre e i datori di lavoro della città in quanto ex-con, "Sono qui per ispirare le persone. Certo mi fa soffrire che la società ci consideri degli scarti. Ma questo non mi impedirà di avere successo". Beve un sorso d’acqua e poi via, col gruppo delle 8, 12 ragazze in calzini, a ritmo di rap.