Carcere, gli impegni di Orlando di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2016 "La percezione siamo noi". Si riassume in queste parole il primo impegno politico assunto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando a conclusione della due giorni sugli Stati generali dell’esecuzione penale nell’Auditorium del carcere romano di Rebibbia, dove ieri hanno sfilato i ministri del Lavoro Giuliano Poletti, della Sanità Beatrice Lorenzin, dell’Istruzione Stefania Giannini e dell’Interno Angelino Alfano. Ed è anche a lui - e a chi, dentro e fuori la maggioranza di governo, usa la "percezione della insicurezza" come argomento per non cambiare prospettiva politica, che si rivolge il guardasigilli. "Il primo punto su cui dobbiamo lavorare è il rapporto con l’opinione pubblica, che molto spesso è sottoposta a sollecitazioni: il carcere viene usato come strumento di propaganda e di paura. Bisogna superare le paure, spesso legate più alla realtà percepita, di cui dobbiamo tener conto, ma ricordando che spesso la creiamo noi. Dobbiamo quindi spiegare che il carcere è necessario e serve a realizzare sicurezza, ma a patto che sia un carcere dove il tema non è solo segregare ma anche costruire un percorso che sia condizione per una reintegrazione sociale". Abbattere la recidiva "conviene ai detenuti ma anche alla società, perché abbiamo bisogno di carceri che siano strumenti contro il crimine e non scuole di formazione della criminalità pagate dai contribuenti". Dunque, bisogna "investire in sicurezza" ma nella direzione giusta, non com’è stato fatto finora. Anzitutto potenziando il settore dell’esecuzione penale esterna, quella delle "misure di comunità" verso le quali deve progressivamente spostarsi la sanzione penale e che i sindaci dovrebbero utilizzare di più. "I cittadini vi ringrazieranno quando vedranno i giardini puliti dai detenuti" dice Orlando. Che promette di investire in questo settore - la nuova frontiera dell’esecuzione penale - "almeno 10 milioni di euro". Investire, investire, investire è stato il leit motiv della giornata, dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio ("Le prospettive indicate dagli Stati generali hanno bisogno di risorse, di organici, di misure appropriate, di investimenti") al presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida ("Occorrono risorse vincolate agli scopi perseguiti"). Anche Poletti parla di investimenti, nel lavoro dei detenuti, che ha effetti positivi sulla riduzione della recidiva. "Poco più del 2% è impiegato presso imprese private" aveva ricordato la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti (Pd) e Poletti ammette che va fatto di più. "Non dobbiamo guardare a questo dato di bilancio solo nella colonna delle spese ma valutare se una spesa è un investimento e produce, in prospettiva, delle economie" dice, purché "si evitino le sperimentazioni: noi siamo interessati a costruire progetti. l’Italia è un Paese spettacolare in questo senso: quando non ci sono i soldi si dice "proviamo" e si fa con 10 euro quello che si dovrebbe fare con 100. Non bisogna provare ma cominciare a fare". È la giornata dei ministri ma anche dei detenuti. Prendono la parola in tre, due dei quali "giovani adulti", come Daniel, romeno, 19 anni, che in un italiano impeccabile confessa: "Sono emozionato. L’ultima volta che sono stato davanti a un microfono mi hanno condannato". Ad ascoltarlo, ammirata e divertita come la platea che lo applaude, c’è anche la Giannini, che rinnova "l’impegno gigantesco" preso con Orlando per estendere e rendere effettivo il diritto allo studio dei detenuti: "A giorni lanceremo un bando con risorse specifiche per il coinvolgimento di 1000 giovani ristretti, tra i 15-25 anni, che saranno formati professionalmente per riallacciare il filo con la vita. L’altro impegno è intensificare il processo di integrazione, portando la scuola in carcere. Questo significa avere strumenti speciali, tecnologia, biblioteche". Lorenzin dice che la "telemedicina sarà la vera risposta per la salute in carcere, e consentirà di assicurare la massima assistenza, anche nei casi di urgenza". Ricorda che il rischio di suicidio dei "nuovi giunti" è del 53% e che è più alto tra le donne e gli italiani. "Apriremo una fase di prevenzione" promette, ricordando anche che nella Legge di stabilità sono stati stanziati 400mila euro per uno screening mirato sulla popolazione carceraria". Orlando è in prima fila, attento sia durante le tavole rotonde sia quando "cala" nell’Auditorium il videomessaggio di Checco Zalone, testimonial pop del carcere che rieduca: "Mi auguro che si votino i politici perché sono stati in carcere, così il cittadino dice: è stato rieducato, quindi lo voto. Mentre ora sappiamo che è il contrario: uno prima viene eletto e lì viene diseducato e va in carcere...". Poletti e Lorenzin se la ridono. In serata anche l’attrice Valeria Golino offre una testimonianza, "perché il carcere siamo tutti noi". Tocca ad Alfano. "Non c’è antagonismo tra sicurezza e l’offerta di una nuova chance al detenuto" assicura, aggiungendo che "il nostro sistema ha trovato un punto di equilibrio, senza violare il dolore della vittima". Sponsorizza il lavoro in carcere, perché abbatte la recidiva, quindi "è un investimento per la sicurezza della società"; insiste sull’"ammodernamento delle carceri" e ricorda che con Orlando sta lavorando al monitoraggio della radicalizzazione. "Abbiamo arrestato e espulso più di un soggetto grazie al contributo delle comunità islamiche che hanno segnalato le mele marce. Bisogna separare chi prega da chi spara". Contrario a "passi indietro" sul 41 bis (il carcere duro), fa sapere che è stato finanziato un nuovo stok di braccialetti elettronici. Poi parla della "percezione esterna di sicurezza", alimentata dai media che, nonostante le statistiche sull’abbattimento dei reati, prediligono la cronaca nera. "Tuttavia, se per via legislativa dessimo l’impressione di lassismo - avverte - daremmo il via alla giustizia privata come risposta alla percezione di insicurezza perché i cittadini direbbero che lo Stato li ha lasciati soli". Riforma dell’esecuzione penale, adesso anche il Governo ci metta "la faccia" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2016 Un progetto ambizioso che però non si concilia con l’annunciato pacchetto sulla sicurezza urbana che introduce nuovi reati e aumenti di pena. Senza nulla togliere alla simpatia e all’efficacia del videomessaggio di Checco Zalone inviato agli Stati generali sull’esecuzione penale per bucare il disinteresse di media e opinione pubblica sul carcere, dispiace non aver visto comparire sul telo bianco calato nell’Auditorium del carcere di Rebibbia (anche) la faccia del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Avrebbe dato all’iniziativa voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando una prospettiva politica forse più certa. Sarebbe stata un’assunzione di responsabilità, diretta e del governo, per una nuova politica penale e del carcere. Un atto di "coraggio", insomma. Quel coraggio evocato da Orlando lunedì, davanti al Presidente della Repubblica, che proprio nei momenti di "preoccupazione per la sicurezza individuale e collettiva" distingue la buona politica da quella che cavalca il populismo, la demagogia, la crescente penalizzazione e, soprattutto, "verità, che tali in realtà non sono" ma servono ad acquisire il consenso popolare. L’assenza di Renzi in video o anche solo con un tweet certamente non indebolisce la carica fortemente innovativa degli Stati generali né toglie credibilità agli impegni assunti dal guardasigilli per "cambiare prospettiva": più risorse, in particolare per implementare le "misure di comunità" (Orlando promette 10milioni entro l’anno), pene alternative al carcere, giustizia riparativa, protocolli su lavoro e sanità in carcere, formazione della polizia penitenziaria. Non è poco. Così come non è poco parlare di carcere con parole nuove, cosicché si respiri un’aria diversa. Purché tutto questo, però, trovi coerenza e stabilità nell’azione di governo e non si frantumi, in tutto o in parte, contro il muro dell’emergenza di turno. Lo ha detto bene il coordinatore degli Stati generali Glauco Giostra: "Il libro della riforma sarebbe facilmente scompaginato dalla prima folata allarmistica se non potesse contare sulla robusta rilegatura di un sentire sociale nuovo e sintonico". La folata allarmistica, peraltro, sembra già alle porte. È quella sulla sicurezza urbana, rilanciata nei giorni scorsi dal premier, che ha promesso per maggio "una legge sulla sicurezza nelle città". Si tratta del ddl del governo (ma già circolano voci di un possibile decreto) annunciato mesi fa, poi accantonato e adesso riemerso, che contiene nuovi reati contro il degrado urbano e pene più alte per furti e rapine, misure contro ambulanti che vendono prodotti contraffatti (soprattutto immigrati), i writer, i parcheggiatori abusivi. Insomma, la versione renziana dei ben noti "pacchetti sicurezza" che rispondono alla "percezione di insicurezza dei cittadini" a colpi di codice penale. Se così fosse, sarebbe l’esatto contrario della direzione emersa negli Stati generali. Peraltro, ieri a Rebibbia, il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha indirettamente giustificato questa politica della sicurezza con uno strano ragionamento: pur ribadendo che nel 2015 i reati sono diminuiti come mai negli ultimi anni, ha aggiunto che la percezione esterna di insicurezza resta e non va sottovalutata. Quindi ha messo in guardia da norme che possano dare l’impressione di un "lassismo" del governo, perché l’effetto sarebbe quello di aprire la strada a forme di giustizia privata. Sembra la premessa politica anche di nuove norme penali sulla sicurezza. Quelle messe a punto dai tecnici del Viminale e già a Palazzo Chigi, che dovrebbero avere il concerto del ministero della Giustizia. Che cosa farà Orlando? Finora, il governo Renzi aveva resistito alla tentazione dei pacchetti sicurezza, anche se non sono mancati, in questi due anni, cedimenti al populismo, sia per rincorrere la Lega e il Movimento 5 Stelle, sia per assecondare le pulsioni più securitarie esistenti nell’Ncd ma anche nel Pd (dall’omicidio stradale alla mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina). Perciò non è neanche da escludere che durante questi due giorni degli Stati generali Orlando abbia parlato anche al suo partito, per richiamarlo a un’ispirazione genuinamente garantista. "La percezione siamo noi" ha ricordato il ministro, rivendicando il ruolo della politica nell’orientare l’opinione pubblica, ma non in base alle paure bensì ai fatti, alla razionalità, ai valori in gioco. Finora, governo e maggioranza hanno dato alla "percezione" un peso diverso a seconda dei reati, minimizzandone la portata nel caso della corruzione, ampliandola invece per i reati di strada, la cosiddetta microcriminalità. Che è poi quella che affolla le patrie galere, dando al carcere sempre lo stesso volto della discarica sociale. Un volto che gli Stati generali chiedono di cambiare, quanto meno rinunciando al carcere come unica e reiterata risposta alle paure collettive, tanto più se il carcere non offre prospettive di reinserimento sociale. A Orlando il merito di aver aperto la strada. Al governo, ora, l’onere di percorrerla senza cedimenti. Soldi per le carceri, la sfida di Orlando di Errico Novi Il Dubbio, 20 aprile 2016 Chiusi gli Stati generali, restano i nodi dell’informazione e delle risorse. Due giorni di dibattiti sul carcere, due grandi questioni che restano sul tavolo: l’informazione e gli investimenti. Gli Stati generali dell’esecuzione penale vanno in archivio con la seconda giornata dell’evento conclusivo, tenuto nel carcere di Rebibbia. Il ministro della Giustizia ascolta soprattutto, per poi trarre le conclusioni dopo otto ore di interventi: al tono appassionato del suo discorso d’esordio fa da contraltare la consapevolezza che il difficile viene ora. Da una parte si dovrà promuovere maggiore apertura tra i cittadini sui temi delle misure alternative e delle condizioni dei detenuti, dall’altra serviranno molte risorse per favorire l’azione più invocata di tutte: dare lavoro ai carcerati. Quadro a cui fa da sfondo un sistema penitenziario migliorato ma non del tutto in equilibrio. Tra i molti interventi di ieri il più impietoso è quello dell’ex deputata radicale Rita Bernardini: "Il problema sovraffollamento superato? Non proprio: ci sono almeno 70 istituti in cui siamo ancora ben oltre i limiti. Una situazione che di recente ho trovato riprodotta in scala nelle carceri abruzzesi: alcune sono mezze vuote, altre scoppiano". C’è carenza di organico in tutte le categorie: "Scarseggiano educatori, psicologi, ma ora siamo al paradosso che mancano anche i direttori. Dietro i ritardi nel colmare le posizioni di vertice potrebbe nascondersi una tendenza alla militarizzazione". Quella prefigurara mesi fa da Nicola Gratteri. Bernardini chiude col tema più delicato, l’informazione: "Bello l’intervento del direttore Rai Monica Maggioni, dove si firma?... Magari sarebbe utile se il servizio pubblico desse più spazio ai temi trattati qui". Una ferita aperta. Lo ricorda il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli: "Dobbiamo abbattere il muro che impedisce di comprendere il mondo della detenzione". Ma in questi Stati generali "ci siamo spesso sentiti come una setta segreta", dice Riccardo Polidoro, che guida l’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali. "A quest’evento conclusivo abbiamo avuto capi di Stato, un commissario europeo: speriamo di riuscire a squarciare anche il velo della rilevanza mediatica". Polidoro ammette che al tavolo di cui è stato componente ha dovuto "cedere qualcosa sul 41 bis: noi penalisti ne chiedevamo l’abolizione tout court, almeno sono state eliminate le preclusioni assolute". Gli avvocati devono fare i conti con l’irremovibilità uguale e contraria di Angelino Alfano, ministro dell’Interno: "Sono contro ogni attenuazione". Orlando lo ascolta pensoso. Anche Alfano però spinge per il lavoro nelle carceri: "Più ce n’è, meno recidiva si riscontra tra chi esce". Giuliano Poletti è sulla stessa linea: "Nessun giudice può infliggere a un detenuto la pena di sentirsi inutile". Principio realizzabile se ci saranno "risorse, organici, investimenti", come ricorda il primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio. E qui Orlando gioca tutta la sua sfida: cambiare così tanto l’idea del carcere da convincere Renzi a metterci soldi sopra. Carcere e sicurezza, Orlando ad Alfano: "Stop all’industria della paura" di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 aprile 2016 Conclusi gli Stati generali dell’esecuzione penale. Scontro tra le due anime del governo bipartisan sulla "realtà percepita" nel Paese e il populismo penale. Responsabilizzazione di chi ha compiuto un reato, educazione e rieducazione, giustizia riparativa, affettività, relazione con il territorio, misure alternative al carcere, cura della salute psicofisica. Oppure, invece: enfasi della paura e della insicurezza percepita nel Paese, inasprimento delle pene, maggiore carcerazione, nuova edilizia penitenziaria. Nel giorno conclusivo degli Stati generali dell’esecuzione penale, a Rebibbia, è emersa tutta la distanza tra le due diverse anime del governo bipartisan. Quella che ancora è possibile, almeno quando si parla di riforma del carcere e dei modi di dare corso ad una pena. Due approcci diametralmente opposti, sia dal punto di vista normativo che culturale. Il Guardasigilli Andrea Orlando, tirando le somme di due giorni di interventi istituzionali e di relazioni sul lungo percorso che ha coinvolto per un anno oltre 200 esperti riuniti in 18 tavoli tematici, lo dice chiaramente rivolgendosi al ministro dell’Interno intervenuto poco prima: "Comprendo Alfano, capisco che dobbiamo tenere conto della realtà percepita, ma anche noi stessi creiamo la paura, che è a monte del circolo vizioso: deresponsabilizzazione, cattivo risultato del trattamento, recidiva. È compito nostro, delle istituzioni, spezzare questo meccanismo perverso. Non certo facendo finta che i problemi non ci siano, ma evitando che qualcuno li inventi e ci costruisca sopra una campagna politica. Se vogliamo investire in sicurezza dobbiamo capire che la segregazione è necessaria ma non sufficiente". Non certo inaspettatamente, invece, il ministro Alfano ha ribadito due o tre punti imprescindibili per il centrodestra, anche a costo di contraddire gli analisti che hanno lavorato agli Stati generali. Per esempio la convinzione che il carcere così com’è ha prodotto "nel 2015 il minor numero di reati commessi negli ultimi dieci anni e il minor numero di omicidi". E che l’abbattimento della recidiva si ottiene non con misure alternative al carcere, come sostiene il ministro di Giustizia, ma solo con il lavoro ai detenuti, che pure compare tra i primi due punti della riforma tratteggiata da Orlando. Dunque per Alfano è "assolutamente strategico per la sicurezza" agevolare l’imprenditoria in carcere, assieme alla costruzione di "nuovi edifici" penitenziari. E infine, mai e poi mai, giura il titolare del Viminale, "un’attenuazione né tecnica, né simbolica" del 41 bis, il regime duro che vieta ai detenuti che lo subiscono perfino "di dipingere, di tenere foto superiori ad una certa dimensione o di cucinare", come ricorda l’ex pm Gherardo Colombo. Un solo punto di accordo, quindi, condiviso anche dal ministro Poletti: "L’occupazione dei detenuti è strumento essenziale di rieducazione". Però occorrono risorse perché, ha spiegato il ministro del Lavoro, si tratta di "un investimento dagli effetti positivi" e "non solo una spesa". Anche la titolare del Miur, Stefania Giannini, da Rebibbia promette di contribuire a un nuovo processo rieducativo portando "la scuola in carcere". Mentre la ministra Beatrice Lorenzin constata che in cella ci si ammala e non si viene curati, che il 40% dei detenuti soffre di malattie psichiche e il 22,8% di dipendenze; esalta le potenzialità della telemedicina e promette "una fase di prevenzione" contro il rischio suicidio dei nuovi giunti, che "è al 53%". "Rompere l’isolamento" di chi sconta una pena, è recluso o lavora in carcere è il primo passo per creare sicurezza. Ne è convinto Orlando, ma alla fine non può che constatare la scarsa copertura mediatica dell’evento, "anche con mezzo governo" invitato a Rebibbia. E nessuna copertura del servizio pubblico, anche se tra le relatrici c’era la presidente Rai, Monica Maggioni. Intervista a Santi Consolo (Dap): "più che direttori, voglio grandi imprenditori" Vita, 20 aprile 2016 Dopo la chiusura dei primi Stati Generali dell’esecuzione penitenziaria intervista al capo dell’amministrazione penitenziaria. Si è chiusa ieri nel carcere di Rebibbia la due giorni degli Stati generali dell’esecuzione penale". I primi mai tenuti in Italia. Qualche giorno fa invece il XII rapporto di Antigone sulle condizioni detentive in Italia aveva riacceso l’allarme sul sovraffollamento. Vita fa il punto con Santi Consolo, capo dell’amministrazione penitenziaria dal dicembre 2014. Partendo da un tema che gli sta molto a cuore: il ruolo dei direttori, che non dovranno più concepirsi esclusivamente come guardiani dei loro penitenziari, ma come veri e proprio imprenditori. Lei ha parlato di "piccoli imprenditori". In che senso? Se ho detto piccoli imprenditori è perché forse avevo in mente il dinamismo nei piccoli istituti. Però vorrei dei grandi imprenditori, perché recuperare alla società civile delle persone detenute è un successo enorme al di là dei vantaggi economici. L’idea di fondo che già abbiamo in parte realizzato con il 2015 è che ciascun direttore, in collaborazione con tutto il personale amministrativo e con la Polizia penitenziaria che in questo versante sta dando un validissimo aiuto, cominci a capire come dentro ogni istituto possa impegnare in attività lavorative e produttive i detenuti. E la risposta per il 2015 è stata buona. Con la sola Cassa delle Ammende abbiamo approvato quasi 270 progetti a fronte di circa 400 presentati. In questo modo abbiamo dato lavoro a 1.400 detenuti in più. Oggi il 29% dei detenuti lavora. I detenuti impegnati nella gestione quotidiana degli istituti sono circa 10.700 però poi ci sono detenuti che svolgono anche attività nelle nostre colonie agricole e detenuti impegnati nei laboratori: falegnamerie, calzaturifici, sartorie e tipografie. Il problema è l’entità delle somme da destinare al pagamento degli stipendi : queste somme non sono bastevoli allo stato e tanto più in futuro visto che vorremmo ulteriormente implementare queste attività. Che, fra l’altro, consentono economie di scala importanti. Per esempio? Pensiamo alla produzione di pasta o di pane. In ogni carcere c’è una domanda costante di questo genere di bene. Io dico: se noi ci mettiamo nelle condizioni di produrre in proprio senza comprare da fuori risparmiamo risorse che possiamo orientare all’acquisto dei macchinari necessari e alla formazione dei detenuti che in questo modo imparerebbero un lavoro. Perché allora non pensare anche a vendere i vostri prodotti all’esterno? Non credo sia fattibile in questo momento. servirebbero competenze amministrative di cui non disponiamo e non credo ci siano i margini per poter procedere a nuove assunzioni. C’è un carcere che secondo lei può essere un modello in questo senso per come lei immagina questo sistema? Di modelli ce be sono diversi: penso Bollate, di cui si parla spesso, ma anche Sant’Angelo dei Lombardi è un ottimo punto di riferimento. Chi lo ha visitato sa che quasi non sembra di essere in carcere. L’ultimo rapporto di Antigone rivela come sia i tassi di affollamento carceraria abbiano di nuovo cominciato a crescere. Già oggi siamo ben oltre i limiti di legge. È preoccupato? Su questo fronte ci dobbiamo intendere. Se noi facessimo delle proporzioni con i parametri medi che adottano in Europa, avremmo un numero di posti detentivi pari o superiore alle persone che sono effettivamente ristrette nei nostri istituti. Detto questo le posso dire che noi monitoriamo a livello centrale queste presenze e cerchiamo - nel rispetto dei vincoli di territorialità dei detenuti - di perequarle su tutto il territorio nazionale. Rispetto alle stanze dedicate al pernottamento è possibile che in qualche occasione vi siano spazi un po’ inferiori rispetto ai parametri che rigorosamente ci siamo dati, però quello che conta - e che anche a livello giornalistico andrebbe evidenziato - è che abbiamo attuato tante iniziative di custodia aperta che consentono la permanenze fuori dalla stanza per un periodo di 8-10 ore nell’arco della giornata. Abbiamo attuato e garantito questo modulo custodiale al 95% delle persone ristrette nei nostri istituti. Durante il giorno si sta fuori, si fa altro, ci si muove. Poi se si dorme in uno spazio un po’ più ristretto dove comunque sono garantiti areazione e servizi igienici adeguati penso che queste siano condizioni che spesso si riscontrano anche nelle abitazioni private di ogni cittadino. Ancora oggi negli Opg risultano 90 internati. È un dato che le torna? A fine marzo a me risultavano 84 internati (ma meglio chiamarli pazienti) dei quali 26 provvisori (24 uomini e 2 donne): per cui siamo già a un numero nettamente inferiore a quello che avevamo inizialmente al momento della entrata in vigore della legge. L’obiettivo è consegnarli alle Rems man mano che si rendono operative. Entro quando arriveremo a zero internati? Questa previsione non posso farla perché la realizzazione delle Rems dipende dalle Regioni e non dalla nostra amministrazione. Secondigliano però l’abbiamo già chiusa mentre Aversa dovrebbe chiudere entro fine mese. Queste strutture saranno riconvertire in carceri a custodia attenuata con una particolare attenzione a quelli che possono essere i nostri detenuti con una qualche disabilità mentale. L’obiettivo è creare strutture d’eccellenza. Carceri, si riaccende il dibattito sul 41bis di Francesco Grignetti La Stampa, 20 aprile 2016 Il ministro Alfano: non si torna indietro. Manconi guida i favorevoli all’attenuazione. Si parla di carcere, nel carcere. E non è solo autocelebrazione. Il dibattito lungo due giorni che si intitola "Stati generali dell’esecuzione penale", a Rebibbia, organizzato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è entrato anche nel vivo di alcune questioni delicate. Sul carcere duro, ad esempio, il famoso 41 bis, sono da registrare posizioni molto divergenti. Il ministro Angelino Alfano, ad esempio, è fermissimo nel dire che indietro non si torna. "Sono stato firmatario di varie forme di inasprimento del 41 bis: non me ne pento e sono contrario a forme di attenuazione. Non credo ci siano molte altre strade per evitare che i boss possano mandare messaggi all’esterno". Di 41 bis si è parlato molto, nel corso degli Stati generali. "Deve tornare a essere - dice Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione camere penali - quello che era: un blocco nelle comunicazioni con la criminalità esterna. Non una pena suppletiva". Ne hanno ragionato anche gli esperti del Tavolo tematico n. 2, dedicato alla "Vita detentiva", che sulle attenuazioni al 41 bis si sono drammaticamente spaccati. I dirigenti dei penitenziari si oppongono infatti a ogni revisione che possa pregiudicare l’obiettivo di impedire contatti con l’esterno; non così i magistrati di sorveglianza, i volontari umanitari, i garanti per i diritti dei detenuti. Uguale spaccatura si ravvede tra le posizioni di Angelino Alfano ("Con il massimo riguardo alle attenzioni umanitarie di chiunque, sono contrario a qualsiasi attenuazione del 41 bis, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista simbolico") e quelle del dem Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato. Pochi giorni fa, infatti, la "sua" Commissione ha spiegato in dettaglio che cosa è oggi il 41 bis. "Alle pareti non è possibile tenere fotografie o altre immagini... Vi sono una serie di restrizioni materiali che i detenuti, in tutte le carceri, hanno evidenziato. La possibilità dell’uso del fornelletto a gas solo durante il giorno e il divieto di cucinare i cibi, che possono solo essere riscaldati, rappresenta per molti una forte limitazione. Così come l’impossibilità di accedere al sopravvitto. Molti si lamentano del numero ridotto di canali tv disponibili in cella e del numero limitato di libri (fino a tre volumi alla volta) e di riviste che si possono tenere (i giornali sono solo nazionali, quelli locali non sono ammessi). Molti hanno segnalato una serie di problemi legati alla corrispondenza: a volte le lettere arrivano ma vengono consegnate a distanza di giorni, oppure non vengono spedite tempestivamente. Riguardo alla privacy, la presenza di telecamere in cella e a volte anche nei bagni e la possibilità per gli agenti di sorvegliare in qualsiasi momento il bagno da uno spioncino vengono percepite come una forte intrusione". Ebbene, la commissione presieduta da Manconi auspica una modulazione diversa del 41-bis. E soprattutto dopo avere riscontrato che vi sono detenuti che rimangono sottoposti al regime speciale fino al giorno precedente l’uscita dal carcere. "Ciò appare davvero irragionevole, poiché vuol dire che nel giro di 24 ore una persona passa dal rappresentare un pericolo per la comunità al punto da richiedere un particolare regime di detenzione, a essere totalmente inoffensiva tanto da poter essere rimessa in libertà. Nel rispetto del principio della progressività del trattamento penitenziario, si raccomanda pertanto che sia garantito la cessazione dell’applicazione del regime di 41-bis per un tempo congruo in prossimità del fine pena". Posizioni inconciliabili, pare, perché Alfano resta contrario a qualunque concessione, per ragioni sostanziali, e anche simboliche. Renzi attacca i tribuni del giustizialismo "l’avviso di garanzia non è una condanna" di Giuseppe Lami Il Dubbio, 20 aprile 2016 "Io sono per la giustizia e non per i giustizialisti. Credo nei tribunali, non nei tribuni. Rispetto le sentenze dei giudici, non le veline che violano il segreto istruttorio". Sono le sette della sera quando Matteo Renzi interviene a tutto campo nell’Aula del Senato dove è in corso la discussione sulle due mozioni di sfiducia contro il suo governo presentate da 5 stelle e Forza Italia. "Questo Paese ha conosciuto pagine di barbarie legate al giustizialismo. Un avviso di garanzia, strumento a tutela dell’indagato, è stato trasformato per anni in una sentenza mediatica definitiva", attacca il premier, che non rinuncia a dare una stoccata ai grillini: "L’avviso di garanzia non è mai una condanna. E se devo essere giudicato vengo giudicato dai magistrati con le sentenze, non dai blog con una password". Come da copione, vanno a vuoto i tentativi di disarcionare il governo Renzi. Le due mozioni di sfiducia presentate. Anche se mentre scriviamo non sono ancora noti numeri della votazioni, si tratta del secondo successo in tre giorni per il presidente del consiglio. Che dopo il fallimento del referendum può godersi in santa pace anche il panorama desolato delle opposizioni in Parlamento. I 5 stelle dovranno cambiare strategia per impensierire Matteo Renzi. Dovranno almeno evitare di esporsi troppo in battaglie già perse, per scongiurare il rischio irrilevanza politica. Forza Italia, da parte sua, ha scelto una posizione defilata. I senatori azzurri hanno sì provato a movimentare la giornata con una propria mozione, ma sembrava più un atto d’ufficio più che un tentativo convinto. Ma le opposizioni non si danno per vinte, concentreranno tutti gli sforzi per la battaglia decisiva: il referendum costituzionale di ottobre, che proprio ieri ha incassato il via libera ufficiale grazie alle firme raccolte in Parlamento. Il dibattito in Aula. La mozione pentastellata è incentrata sul caso Tempa Rossa (lo scandalo che ha portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi), su temi ambientali e sui conflitti d’interessi che riguarderebbero vari esponenti dell’esecutivo. Per questo "chiedo all’aula del Senato di votare la presente mozione per esprimere la sfiducia al sistema governo nel suo complesso", dice un appassionato Vito Petrocelli dai banchi grillini, chiamando in causa molti rappresentati del governo. "A cominciare dall’astro, il presidente del consiglio Matteo Renzi, passando da tutti i pianeti che gli ruotano attorno quali i ministri Boschi, Alfano, Padoan. Fino ad arrivare ai pianetini, come il viceministro Bubbico. E per terminare con gli asteroidi, gli ultimi della fila, come il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo". Di tenore diverso la mozione di Forza Italia e Lega. Pur partendo dagli stessi episodi di cronaca ricordati dai 5 stelle, la sfiducia delle destre è sfumata su motivazioni politiche più generali: economia, lavoro, sicurezza, immigrazione. Tra gli alfieri della maggioranza si schierano i verdiniani di Ala. Interessante anche l’intervento degli alfaniani. Bruno Mancuso, ad esempio, prova a ricordare a Renzi quelle che sono le vere priorità del governo: il ponte sullo Stretto. "Abbiamo superato i tabù vetero comunisti, come l’articolo 18 e l’Imu sulla prima casa, superiamo anche questo tabù vetero ambientalista". Intercettazioni: i giornalisti guidano il fronte contro Renzi e Orlando di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 aprile 2016 Si prepara la battaglia sulla giustizia. Dopo tanti rinvii forse è la volta buona. Ieri in Senato il Presidente del Consiglio ha lanciato i tre squilli di tromba. Non è la prima volta, è vero. Ma stavolta gli sarà difficile tornare indietro. Anche perché ha usato un vocabolario molto forte. Ha parlato di "barbarie giustizialista", come aveva fatto giorni fa - proprio sulle colonne di questo giornale - il sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore. Il primo scontro sarà sulle intercettazioni. L’esito è incerto. Non è chiarissimo nemmeno quali siano le forze in campo. C’è un pezzo di magistratura, schieratissimo, che si batte col coltello e l’anima tra i denti perché non sia cambiato niente nella attuale disciplina, anzi sia resa ancora meno rigorosa. E questo pezzo di magistratura - che è quello contro il quale ieri si è scagliato Renzi - è appoggiata da quasi tutto il mondo del giornalismo. Che definisce "legge bavaglio" qualunque misura che disciplini la materia e che limiti le possibilità di gogna. Poi c’è un altro settore della magistratura - quello più moderno e meno giustizialista - che vorrebbe invece introdurre delle limitazioni anche abbastanza consistenti, ma si candida a decidere lei quali, e soprattutto ad avere poi il monopolio del controllo su intercettazioni e uso delle intercettazioni. Infine c’è il governo, orientato a riformare e limitare la divulgazione delle intercettazioni, ma che fin qui si è mostrato impaurito dalla forza del fronte opposto. Il fronte dei conservatori, a sorpresa, non è guidato dai magistrati ma dai giornalisti. Ieri lo ha detto - sollevando scandalo - una magistrata che è intervenuta al "Salone della Giustizia" (una manifestazione che si svolge a Roma). Ha sicuramente ragione. La magistratura sul tema è divisa, anche perché la maggioranza dei magistrati si rende conto che c’è un problema di costituzionalità (lo ha rilevato giorni fa il procuratore capo di Firenze, Creazzo): le intercettazioni, e a maggior ragione la loro divulgazione, contrastano in modo aperto con l’articolo 15 della Costituzione, e di conseguenza possono essere usate solo in circostanze straordinarie e per evidenti e solide ragioni di indagine. Proibire la divulgazione di pezzi di intercettazioni che non siano "prove di reati", o che riguardino persone estranee al delitto, o che contengano informazioni su abitudini personali, sesso, rapporti privati, religione o altri affari personali, non è mettere il bavaglio alla stampa ma rispettare la Costituzione. Al sistema dell’informazione italiano, però, della Costituzione interessa poco. O piuttosto interessano molto solo alcune parti: non quelle che riguardano i diritti individuali e i diritti umani. Considerati un po’ anticaglie. Ieri "Il Fatto Quotidiano", che ha assunto la guida del fronte giornalistico anti-riforma, titolava a tutta pagina, in prima, contro Napolitano e Renzi. Il titolo diceva: "Premiata ditta Giorgio & Matteo, ora trivellano le intercettazioni". Nel sommario si rendeva chiarissima la denuncia: "L’obiettivo è lo stesso ribadito dal premier dopo l’inchiesta di Potenza: via dagli atti, e dunque dai giornali, tutte le telefonate che non contengano reati". La richiesta dei conservatori è quella di cambiare l’articolo 15 della Costituzione (per la verità, formalmente non è mai stata formulata questa richiesta, ma è sottintesa, e comunque inevitabile se si vuole evitare una riforma). Dice l’articolo 15: "La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge". È partendo da questo articolo, e dalla necessità di rispettarlo, che il vicepresidente del Csm Legnini nei giorni scorsi aveva promesso un intervento per fermare il fango mediatico. Specie dopo l’affare Guidi e la divulgazione di chiacchiere e pettegolezzi sulla sua vita privata. "Sulle intercettazioni pm intangibili, la colpa è solo dei giornalisti" di Errico Novi Il Dubbio, 20 aprile 2016 Queste le "conclusioni" del dibattito sulla riservatezza al Salone della giustizia. Sulle intercettazioni si gioca una partita molto simile a quella della responsabilità civile dei magistrati. Stesso schema, ma probabilmente sarà diverso l’esito: stavolta le toghe dovrebbero mettere il risultato al sicuro. Un indizio viene dal dibattito d’apertura al Salone della giustizia, evento in corso da ieri a Roma, su "Nuove frontiere della riservatezza". Prende la parola il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, la figura che vorrebbe spingere quelle frontiere un po’ più in là: ricorda come "si possano portare tutte le istanze di questo mondo, ma sul tema degli ascolti c’è un nucleo intangibile: il giudizio di rilevanza di un colloquio è affidato esclusivamente al magistrato inquirente. È una prerogativa che non si può mettere in discussione". Giusto: lo dice il Codice. E allora però viene da chiedersi dove possa fondarsi un giudizio espresso nello stesso dibattito da un’altra relatrice, la vicepresidente del Garante per la Privacy Augusta Iannini, secondo la quale "anche sui giornalisti che pubblicano le trascrizioni ricade una importante responsabilità". Non è chiarissimo quale sia. Il Codice dà tutto il potere al pm. E per ora non è in vista una riscrittura di quelle norme: l’unica riforma sarà realisticamente nelle linee guida in arrivo dal Csm. Ma se il potere di scelta ricade solo sugli inquirenti, perché mai non dovrebbe essere un magistrato a rispondere dell’eventuale violazione del segreto d’indagine? Se lo chiede l’Ncd, che nei giorni scorsi ha sollecitato il guardasigilli Andrea Orlando a inserire nella riforma degli ascolti la figura di un "garante" delle intercettazioni. Al momento però il governo non può toccare palla: la legge delega è ferma in commissione al Senato, dove dovrà completarsi un nuovo ciclo di audizioni, nonostante Montecitorio avesse già fatto la propria indagine conoscitiva. Anche dal Salone della giustizia viene insomma un segnale, peraltro da un rappresentante istituzionale come la dottoressa Iannini, che è innanzitutto un magistrato. Il segnale è che l’autonomia e il potere delle Procure in materia di ascolti resta appunto intangibile. E che al massimo bisognerà tenere meglio a bada i cronisti. Che poi è quanto ha perfidamente concesso Piercamillo Davigo in una delle sue prime interviste da presidente Anm: "Se proprio volete cambiare qualcosa, inasprite le pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa". Naturalmente il problema resta, anche per i magistrati. Legnini ieri mattina è intervenuto anche a Repubblica tv: "Penso che i casi di abuso nella trascrizione, nella divulgazione, siano molto limitati", ha detto, "il problema è che fanno rumore, questi casi". Da qui l’esigenza per il Csm di tracciare delle linee guida. A cui i pm non saranno proprio "costretti" ad attenersi. Ma il vertice di Palazzo dei Marescialli, nei giorni scorsi, ha ipotizzato una qualche conseguenza per gli inquirenti poco attenti alle norme sull’inutilizzabilità delle conversazioni "sensibili". Quei pm potrebbero pagare la loro disinvoltura quando il Consiglio superiore dovrà sottoporli a valutazioni di professionalità, "anche al fine di conferire incarichi direttivi". Sembra già qualcosa, rispetto al nulla della riforma silenziata in Parlamento. Ma qui si compirebbe quello che il ministro della Giustizia, due anni fa, riuscì a evitare sulla responsabilità civile: l’individuazione del Csm come unico giudice degli errori delle toghe. Prima che quella riforma arrivasse al clou dell’esame in Parlamento, l’Anm chiese a Orlando di dirottare verso la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli tutti gli errori dei magistrati, che avrebbero dovuto essere valutati solo come illeciti disciplinari. Il guardasigilli disse no, perché al Csm "il peso delle correnti è ancora eccessivo". Adesso, fa notare un esponente del Pd impegnato sui temi della giustizia, quel meccanismo rischia di essere introdotto per le intercettazioni. "E anzi gli eventuali abusi dei pm possono diventare un’arma proprio nelle mani delle correnti che, anziché punire i responsabili, la userebbero per definire rapporti interni e scelte di carriera". Il rischio c’è. Come quello che ad essere additati quali artefici dell’indebita diffusione dei brogliacci restino solo gli avvocati. O al massimo i giornalisti. Intervista al pm Giuseppe Cascini: "sulle intercettazioni la riforma segua le Procure" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 aprile 2016 Il pm di Mafia capitale avverte: "La vera emergenza è la corruzione". E aggiunge: "Nella delega il rischio di limitare l’uso degli ascolti". "Un legislatore davvero interessato a garantire la riservatezza dei cittadini senza indebolire il contrasto all’illegalità diffusa, dovrebbe recepire le soluzioni adottate dalle Procure" ha scritto su Questione Giustizia (la rivista telematica delle "toghe rosse" di Magistratura democratica) il pubblico ministero romano Giuseppe Cascini, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e rappresentante dell’accusa nel processo a Mafia capitale. Che dovrebbe contenere, in concreto, la legge? "Disposizioni che prevedano espressamente di non inserire nelle trascrizioni le intercettazioni irrilevanti. La soluzione tecnica più adeguata resta comunque l’udienza stralcio, in cui i brogliacci di tutte le conversazioni sono a disposizione delle parti ma senza la possibilità di farne copia, come previsto per l’ascolto dei nastri dalla Procura di Roma, e il divieto della loro diffusione prima della decisione del giudice su ciò che è utile al processo e ciò che non lo è". Dunque esiste un’emergenza intercettazioni? "La vera emergenza è la corruzione, con tutto ciò che comporta in termini di concorrenza violata, aumento dei costi delle opere pubbliche, scarsa qualità dei servizi. Il problema è il degrado etico della funzione pubblica, non l’indagine che lo fa emergere. Ma i disegni di legge accumulatisi finora fanno sorgere il sospetto che la tutela della privacy sia solo un pretesto per limitare lo strumento investigativo delle intercettazioni". Un sospetto basato su che cosa? "Se ne discute da anni, e da anni vengono ignorate proposte di soluzioni ragionevoli. Di qui il dubbio che qualcuno preferisca che a ogni indagine nasca un caso sul quale riaprire il dibattito, con l’obiettivo di arrivare a una legge che incida su un mezzo d’indagine divenuto indispensabile, prima che sulla diffusione delle conversazioni irrilevanti". Pure la legge delega in discussione al Senato alimenta questo dubbio? "Sì, perché contiene una delega al governo talmente indefinita che chi volesse potrebbe non limitarsi a occuparsi di privacy. Non dico che è la volontà di chi ha scritto il testo, ma quel testo può offrire spazio perché questo accada". Però che esista un problema di riservatezza violata lo dicono tutti, o quasi. "Il problema è oggettivo, perché le intercettazioni consentono di scoprire reati ma fanno anche emergere fatti privati che non dovrebbero essere diffusi. Di qui la decisione di alcune Procure, tra cui quella in cui lavoro, di studiare le contromisure con le ormai note circolari, per individuare un punto di equilibrio tra l’accertamento dei reati e la riservatezza delle persone coinvolte, indagati compresi". Come giudica le recenti intercettazioni tra l’ex ministro Guidi e il suo fidanzato? "Senza entrare nel merito di singole indagini, alcune conversazioni rimarranno sempre border line; se il pm e il giudice le ritengono rilevanti per descrivere il contesto, o la personalità di un inquisito, saranno inserite nei provvedimenti e quindi diffuse". Quindi le circolari e l’eventuale riforma possono incidere fino a un certo punto. "Esattamente. Ma oltre a indicare procedure per evitare la fuoriuscita delle intercettazioni su vicende personali, possono aiutare il giudice a porre maggiore attenzione sul tema della privacy, contribuendo a instaurare una nuova cultura in chi deve decidere". Qual è la principale differenza tra le soluzioni escogitate a Roma e a Torino? "A Roma si è detto alla polizia giudiziaria di non trascrivere nulla di irrilevante nei brogliacci, e nei casi dubbi di rivolgersi al pm; a Torino è il pm a chiedere la distruzione degli atti non necessari dopo l’analisi di tutto il materiale trasmesso. In un caso si interviene a monte, nell’altro a valle, e ciascuna soluzione ha pregi e difetti. Bisognerebbe trovare la sintesi migliore". Chiusura degli Opg. I malati psichiatrici che sono pericolosi ma restano in libertà di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 aprile 2016 Le nuove strutture senza posti e accoglienza in crisi, pm in difficoltà. Regioni inadempienti sulle strutture sanitarie e liste d’attesa nelle poche Rems esistenti. A Milano altri quattro casi di "senza posto" in 15 giorni. La magistratura non sa più dove metterli perché non c’è più posto nel posto dove per legge dovrebbe metterli: altri quattro casi di "senza posto" in 15 giorni ad esempio a Milano, e già oggi se ne prepara un quinto, quello di un uomo non giudicabile per l’"incapacità di intendere e volere" un sequestro e un tentato omicidio e l’incendio a suo dire ordinatigli dai microchip nemici che sente nel cervello. La lista d’attesa di cui nessuno parla - È una lista d’attesa di cui nessuno parla, quella delle persone con disturbi psichiatrici tali da farle ritenere "non imputabili" ma nel contempo "socialmente pericolose", per le quali la legge non ammette la custodia in carcere o i domiciliari in ospedale, ma "misure di sicurezza detentive" eseguibili unicamente nelle "Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza": strutture sanitarie delle Regioni, che in base alle leggi del 2012 e 2014 devono in teoria sostituire i 6 vecchi Opg-Ospedali psichiatrici giudiziari (ex Ministero della Giustizia) chiusi il 31 marzo 2015 dopo 2 proroghe. In teoria: perché, invece, in pratica spesso le Rems, disattendendo l’ordine dei pm, non accolgono le persone inviate in misura di sicurezza provvisoria, ma adducono di non avere più disponibilità (come Castiglione delle Stiviere che dichiara di aver già in carico 220 pazienti contro 160 posti teorici), e indicano a distanza di settimane la data alla quale ipotizzano di poter forse "programmare" un posto libero (tipo il 10 maggio per misure di metà aprile). In 98 nello strano limbo - Puntuale parte ogni volta un vorticoso carteggio tra Procure-Rems-Ministeri-Regioni, ciascuno in cerca del pezzo di carta che formalmente lo esenti da responsabilità. E intanto, nell’attesa del posto Rems, restano nel limbo della libertà queste persone non processabili di solito per lesioni, maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale o tentati omicidi, valutate pericolose dagli psichiatri negli atti, spesso dipendenti da droghe o alcol, prive di famiglia e lavoro e casa che possano contenerne la patologia psichiatrica, e del tutto indisponibili ad accettare di sottoporsi a cure: un limbo nel quale al 31 dicembre 2015 permanevano almeno 98 persone. Alle quali sommare la cifra invece oscura dei non imputabili che, trovandosi in carcere quando sono nel contempo scarcerati e sottoposti a misura di sicurezza in Rems, ma non venendo poi presi in carico dalle Rems prive di posto, nell’attesa restano in carcere senza titolo (70 casi la stima l’anno scorso in Italia, l’ultimo nell’infermeria di San Vittore da 8 giorni). La Rems più virtuosa: Castiglione delle Stiviere - Sugli psichiatri delle Rems, sui magistrati e sugli operatori penitenziari si scaricano così tutte le incongruenze di una legge in sé saggia, ma dissennatamente fatta entrare in vigore prima che le inadempienti Regioni mettessero mano alle strutture e risorse per attuarla. Se infatti è stato sacrosanto porre fine all’esperienza talvolta disumana di alcuni Opg, era già chiaro che la loro chiusura avrebbe avuto senso solo se simultaneamente accompagnata dall’apertura da parte delle Regioni di un numero adeguato di Rems. Molte Regioni invece non le hanno aperte, altre hanno sottodimensionato i posti, tanto che il governo nell’ottobre 2015 ne ha diffidate parecchie. Se il sistema non è scoppiato subito nel 2015 è solo perché la Rems più all’avanguardia sotto il profilo terapeutico, cioè l’ex Opg mantovano di Castiglione delle Stiviere con 300 operatori, è diventata l’ammortizzatore di tutti i pazienti convogliati lì dal Dap (Giustizia) a causa dell’assenza di Rems nelle loro Regioni di provenienza. Omissione d’ufficio - Ma arrivata a un livello di presenze (315) ingestibili e incompatibili con la qualità della terapia da fornire ai pazienti, la Rems di Castiglione (che oggi cura da sola quasi la metà dei 455 ospiti di tutte le poche Rems italiane al costo medio di 40.000 euro annuo per paziente) d’intesa con la Regione Lombardia ha iniziato a opporre liste d’attesa ai pm che bussano per eseguire misure di sicurezza. E ogni volta parte così una "guerra tra poveri", di cui si comincia a cogliere l’eco in un provvedimento ieri della Procura di Milano che, nel prendere atto dell’indisponibilità della Rems, aggiunge l’inciso "fatta salva l’individuazione di condotte penalmente rilevanti nel rifiuto", e sembra così non escludere in futuro l’eventuale reato di omissione d’atto d’ufficio. Tutti fanno finta di niente - Gli psichiatri delle Rems tendono peraltro a ritenere inappropriate per eccesso le misure di sicurezza disposte dai giudici nelle Rems, e tendono a suggerire ai pm soluzioni temporanee alternative, come ricoveri in reparti ospedalieri o servizi psichiatrici territoriali di diagnosi e cura: soluzioni però o giuridicamente impercorribili o tempisticamente improponibili per pm alle prese con persone che in ogni momento potrebbero far male a chi hanno a fianco. Tutti fanno finta di niente, eppure tutti lo sanno. Anche l’"Organismo di coordinamento del processo di superamento dell’Opg" presieduto presso il ministero della Salute dal sottosegretario Vito De Filippo. E anche il Parlamento, informato il 22 gennaio 2016 dalla Relazione dei ministeri della Salute e della Giustizia: "A causa dell’indisponibilità di posti letto nelle Rems attive sul territorio nazionale, non hanno potuto trovare posto nelle Rems neanche tutte le persone che erano in stato di libertà quando i magistrati hanno disposto misure di sicurezza detentive". Discriminatorio affermare che "i Rom sono la feccia della società" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2016 Tribunale di Milano - Ordinanza 19 aprile 2016. È discriminatorio affermare che "i Rom sono la feccia della società". Lo ha stabilito la I Sezione civile del tribunale di Milano, ordinanza 19 aprile 2016, condannando Gianluca Bonanno, europarlamentare della Lega Nord, a risarcire 6 mila euro a ciascuna delle due associazioni - Asgi e Naga - che hanno agito a tutela dell’etnia offesa. Per il giudice Anna Cattaneo, infatti, la frase gravemente offensiva, ripetuta per ben quattro volte durante la trasmissione televisiva "Piazzapulita" in onda sulla rete "La7", non poteva considerarsi espressa nell’esercizio delle funzioni di parlamentare avendo come "unica finalità la denigrazione e l’offesa". In primis il tribunale affronta la questione della legittimazione ad agire, escludendo dal procedimento una signora di etnia rom che si riteneva offesa personalmente dalla affermazioni diffamatorie e discriminatorie del politico. Per il giudice, però, l’affermazione non poteva ritenersi riferita "immediatamente nei confronti della ricorrente" ma era rivolta "genericamente alla collettività rom e costituisce pertanto un’ipotesi di discriminazione collettiva", ai sensi dell’articolo 5 comma 3, del Dlgs 215/2003. In queste ipotesi, prosegue il testo, "la legittimazione ad agire nell’interesse della collettività rom non spetta a qualsiasi soggetto appartenente a tale categoria, bensì è rimessa dalla legge alle associazioni o agli enti individuati sulla base delle finalità programmatiche perseguite ed inseriti in un apposito elenco approvato con decreto Ministeriale". Ciò che ha comportato il riconoscimento della legittimazione per l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e l’Associazione Volontaria di Assistenza Socio-sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti (Naga). Riguardo poi alla questione dell’immunità, pure sostenuta dal parlamentare, il tribunale ha affermato che secondo la giurisprudenza della Corte Ue "l’opinione deve essere stata espressa "nell’esercizio delle funzioni", ciò che presuppone necessariamente l’esistenza di un nesso tra l’opinione formulata e le funzioni parlamentari". Non solo, la Cassazione ha chiarito che il nesso funzionale non possa riconoscersi quando, come nel caso di specie, "le parole utilizzate non siano espressione di opinioni politiche, seppur manifestate con toni aspri e duramente critici, ma abbiano come unica finalità la denigrazione e l’offesa, dovendosi certamente ritenere che l’uso del turpiloquio trascenda in ogni caso dai contenuti riconducibili all’attività parlamentare (Cassazione n. 35523/2007; Corte costituzionale n. 249/2006 che ha chiarito che "l’uso del turpiloquio non fa parte del modo di essere delle funzioni parlamentari"). Arrivando al merito, la domanda è fondata in quanto l’utilizzo del termine "feccia" è "offensiva e umiliante, poiché il paragone con un elemento spregevole quale la "feccia" è tale da mortificare, e dunque offendere, la dignità dell’etnia rom; in secondo luogo, tale affermazione è idonea a creare un clima ostile e intimidatorio nei confronti della collettività rom, veicolando l’idea negativa che tale collettività costituisca la "parte peggiore della società" e che, in quanto tale, rappresenti una minaccia per la società medesima". Infine, "gettando discredito sul popolo rom, è idonea a ingenerare infondate distinzioni su base sociale del tutto estranee e contrarie ai precetti della Carta costituzionale". Né può giustificarsi l’utilizzo dell’espressione con "l’atmosfera surriscaldata" della trasmissione, che anzi ne costituisce una conseguenza, considerato anche che il politico chiamato dal conduttore a scusarsi ha declinato l’invito. Il giudice dunque ha condannato l’eurodeputato a pubblicare, a sue spese, intestazione e dispositivo dell’ordinanza sul "Corriere della Sera" ed a risarcire a titolo di danno non patrimoniale - "per aver visto frustrato l’oggetto della propria attività e le finalità perseguite" - con 6mila euro ciascuna delle due associazioni. Nella quantificazione, conclude il provvedimento, si è tenuto conto "dell’elevato contenuto discriminatorio delle affermazioni, della loro portata diffamatoria e denigratoria, della reiterazione per ben quattro volte della frase offensiva, del fatto che le offese sono state pronunciate nel corso di una trasmissione televisiva in onda su di una importante emittente televisiva, con un buon indice di ascolto (4-5% di share ) in prima serata". Al Pm la prova dell’illiceità dei patrimoni di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 19 aprile 2016 n. 16111. Spetta all’accusa, quando dispone il sequestro preventivo allargato ai fini di confisca, dimostrare la sproporzione dei beni nella disponibilità dell’indagato. Ed è sempre onere del pubblico ministero, più a monte, calcolare l’entità dei depositi bancari su cui applicare le garanzie di legge, non potendo ribaltare questa attività - anche per semplici ragioni operative - sul soggetto che subisce il provvedimento cautelare. La Sesta penale della Cassazione (sentenza 16111/16, depositata ieri) ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il tribunale di Catanzaro aveva confermato il decreto preventivo del Gip locale nell’ambito di un’indagine preliminare per traffico di droga. Il provvedimento ablativo aveva riguardato la ditta individuale dell’indagato, compresi i beni aziendali, oltre ai conti correnti bancari dello stesso e dei familiari più stretti, in applicazione della legge 356/1992 (articolo 12-sexies: "è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica"). Secondo la Sesta, i giudici calabresi hanno in sostanza ribaltato i presupposti della legge 356, peraltro ponendo l’indagato di fronte a una probatio impossibile: il sequestro dei conti aveva di fatto escluso nel modo più assoluto il titolare e i suoi familiari dall’accesso al rapporto bancario. I presupposti del sequestro allargato, ricorda la Corte, sono la mancata giustificazione della provenienza delle risorse sospette, e in secondo luogo la loro sproporzione rispetto alla capacità di reddito dell’indagato. Se è vero che la provenienza non può che essere giustificata dal detentore della ricchezza, non altrettanto può dirsi della sproporzione "che va valutata in quanto la stessa risulti positivamente, non potendosi dunque far gravare sulla parte nei cui confronti è emesso il provvedimento ablatorio l’onere di fornire preventivamente la prova contraria". In sostanza la presunzione di illegittima provenienza, che fa scattare l’onere probatorio a carico della parte interessata, presuppone che sia accertata la sproporzione tra guadagni e patrimonio. Ma l’accertamento del patrimonio resta totalmente a carico della pubblica accusa. Spiare una casella mail è accesso abusivo a sistema informatico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale sentenza 31 marzo 2016 n. 13057. Va sanzionato per accesso abusivo a sistema informatico chi si intromette nella mail altrui per prendere visioni dei messaggi in questa contenuti. La casella di posta elettronica rappresenta infatti un "sistema informatico" protetto dall’articolo 615 ter del Codice penale. A questa conclusione approda la Corte di cassazione con la sentenza n. 13057 della Quinta sezione. La pronuncia ha così confermato la condanna di 6 mesi inflitta al responsabile di un Ufficio di Polizia provinciale che, approfittando della sua qualità e dell’assenza di un assistente nello stesso ufficio, si era introdotto in due occasioni nella casella di posta elettronica di quest’ultimo, e, dopo avare preso visione di numerosi documenti, ne aveva scaricati due. Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva contestato che ci fosse stato un accesso a un "sistema informatico", per l’inesistenza di un sistema coincidente con la posta elettronica. Infatti, secondo la linea difensiva, il "sistema informatico" rilevante sulla base dell’articolo 615 ter del Codice penale era quello dell’ufficio, al quale era possibile accedere con password non personalizzate, mentre la casella personale di posta rappresentava un’"entità" estranea alla nozione prevista dal Codice penale. Un a posizione però del tutto confutata dalla Cassazione. Che mette invece in evidenza come la casella mail rappresenta "inequivocabilmente" un "sistema informatico" rilevante per l’articolo 615 ter del Codice penale. La Corte ricorda che nell’introdurre questa nozione nel nostro ordinamento, il legislatore ha fatto evidentemente riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo dell’economia, della tecnica e della comunicazione, "essendo stato mosso dalla necessità di tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale, rese possibili dalla sviluppo della scienza". Pertanto, sottolinea ancora la sentenza, il sistema informatico inteso dal legislatore non può essere costituito che dal "complesso organico di elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che compongono un apparato di elaborazione dati". In questo senso si esprime anche la Convenzione di Budapest che pure era stata richiamata a sostegno della tesi difensiva. E allora la casella di posta non è altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o informazioni di altra natura (video, messaggi) di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider. E l’accesso a questo spazio di memoria rappresenta senz’altro un acceso a sistema informatico di cui la casella è un semplice elemento. Così, se in un sistema informatico pubblico sono attivate caselle di posta elettronica protette da password personalizzate, allora quelle caselle costituiscono il domicilio informatico proprio del dipendente stesso. L’accesso abusivo a queste caselle concretizza così il reato disciplinato dall’articolo 615 ter del Codice penale, "giacché l’apposizione dello sbarramento, avvenuto con il consenso del titolare del sistema, dimostra che a quella casella è collegato uno ius excludendi di cui anche i superiori devono tenere conto". I detenuti non sono appestati di Checco Zalone Il Dubbio, 20 aprile 2016 Questo è il testo del messaggio inviato da Checco Zalone agli Stati generali del carcere che si sono conclusi ieri a Rebibbia. Buon giorno a tutti, io sono stato contattato dal ministro Orlando per partecipare a questo evento, purtroppo non posso esser lì. Ne ricevo tante di richieste di partecipazione a eventi. Questo ministro mi è stato simpatico perché mi ha detto che sta cercando di parlare di detenzione e di problemi legati alla detenzione nelle trasmissioni televisive ma non se lo caca nessuno, perché dice che non fa audience e quindi gli chiudono le porte. E mi è stato simpatico il ministro Orlando... Poi sono andato su wikipedia a vedere la faccia che sinceramente non lo avevo presente... Lo saluto, saluto tutte le autorità presenti in questa manifestazione. Che cosa posso dire? Come dare il mio apporto? All’inizio non volevo fare questo video, poi mi sono ricordato che io sono una persona anche non stupida e che ho studiato diritto costituzionale e ho preso un voto alto. C’era scritto, all’articolo 27, che la detenzione deve avere anche una funzione rieducativa. Purtroppo noi sappiamo che non è così. Noi tendiamo ad allontanare le persone che hanno subito una condanna, come fossero macchiati a vita. Non dovrebbe essere così. Io mi auguro che un giorno un ex detenuto possa entrare in una banca ed essere ricevuto dal direttore che gli dice: "Ah lei è stato in carcere, le do il mutuo, perché lei è rieducato". O, che ne so, che si votino i politici perché sono stati in carcere. Perché il cittadino dice: "Questo è stato in carcere quindi è rieducato e io lo voto". Mentre adesso sappiamo che è il contrario: prima uno viene eletto e lì viene diseducato e va in carcere. Nella speranza che il mondo un giorno possa cambiare, io volevo esprimere la mia vicinanza a quante persone soffrono nelle condizioni non agevolissime in cui si trovano nelle carceri. Ho iniziato la mia carriera facendo proprio un personaggio che salutava gli amici della casa circondariale di Taranto e di Trani con l’augurio di una presta libertà. Era il cantante neo melodico, l’unica figura vicina a voi. E lo rifaccio: saluto le case circondariali di tutta Italia con l’augurio di una presta libertà e una mitragliata di baci. Vi voglio bene, ciao a tutti. Carceri, lezione del prof. Checco Zalone di Carmine Fotia L’Unità, 20 aprile 2016 Quattro fotogrammi restano particolarmente impressi alla fine degli stati generali dell’esecuzione penale, dopo decine di interventi, testimonianze, proposte. L’italiano perfetto di Daniele l’emozione di Filomena, due giovani detenuti rumeni che hanno ottenuto il diritto al lavoro esterno; l’augurio di una "presta libertà" a tutti i detenuti nel geniale italiano sgangherato di Checco Zalone. Checco si ricorda di aver studiato Diritto costituzionale e impartisce una bella lezione ai giornaloni, ai Tg, ai tanti soloni, commentatori, indignati a tempo pieno in difesa della Costituzione che non spendono né un secondo del loro prezioso tempo né una riga dei loro pensosi commenti a raccontare come in questi due giorni si sia cercato con fatica e passione di affermare una nuova idea della pena in linea con quanto, afferma il Professor Zalone, prescrive l’articolo 27 della Costituzione. Il quarto fotogramma è la dignità di Sabina Rossa, parlamentare dem e figlia del sindacalista genovese assassinato dalle Brigate Rosse, e le sue straordinarie parole: "Il giorno che hanno concesso la libertà condizionata a colui che era stato condannato per l’assassinio di mio padre non ho provato rabbia, ma l’ho vissuto come un gesto di civiltà". Non è semplice trovare l’equilibrio tra riforme necessarie e torsione giustizialista dell’opinione pubblica. Per questo c’è chi, come Rita Bernardini, storica esponente radicale che ha preso l’eredità delle battaglie di Marco Pannella, la guardia non l’abbassa mai e impietosamente sottolinea il gap tra le intenzioni annunciate e la realtà: è vero che diminuisce il sovraffollamento delle carceri ma non omogeneamente in tutte; c’è carenza di psicologi, assistenti sociali, persino di direttori. Tocca al ministro Orlando rassicurare: questi stati generali non sono un momento di ricerca sospeso nel vuoto, dice. Tiene la barra dritta, conferma di voler puntare sulle pene alternative e prende un primo concreto impegno: 10 milioni di euro per rafforzare gli uffici dell’esecuzione penale esterna. E chiede ai tavoli che hanno preparato gli Stati Generali l’indicazione di misure concrete che possano essere applicate subito. Il ministro torna poi sull’informazione: c’è stata, dice con un eufemismo, "un’ attenzione mediatica contenuta. Il circolo mediatico della paura cadrebbe se cadessero certi stereotipi". Ma da dove nasce questa torsione mediatica? Disattenzione, sciatteria, cinismo? Certamente c’è tutto questo, ma c’è qualcosa di più grave: veicolata dalla semplificazione oscena della propaganda populista e securitaria si è insinuata nell’opinione pubblica un’idea vendicativa e medievale del carcere e della pena. I social network diventano il patibolo dell’esecuzione del reo, i talk-show il palcoscenico dell’urlo, una certa politica il contenitore delle peggiori pulsioni. Gli stati generali dell’esecuzione penale hanno avuto il coraggio di affermare invece una visione del tutto opposta. Non solo più umana, ma anche più efficace nel produrre maggiore sicurezza. Sono i dati e i fatti che ce lo dicono: più misure alternative, più lavoro esterno, più giustizia riparativa, più percorsi individualizzati significa meno recidiva e perciò più sicurezza per la società. È il ministro Alfano a ricordare come tutti questi istituti abbiano funzionato, pur essendo indicato nel governo come quello più sensibile a certe paure dell’opinione pubblica, (e infatti difende a spada tratta l’ergastolo e l’immodificabilità del 41 bis). Sarebbe bello e necessario trovare il modo di comunicare tutto questo, ingaggiando, nelle rete e nei media, una vera e propria battaglia culturale attraverso una diversa narrazione del carcere e della pena; magari, lo suggerisce Gherardo Colombo, potrebbe cominciare il servizio pubblico. Che so?, un Porta a Porta con Sabina Rossa invece di Salvo Riina, un talent che veda come protagonisti Daniele e Filomena. Conosco già la risposta: sono temi ostici, non tirano, non li guarderebbe nessuno. Mi permetto di dissentire: film e documentari americani, da Dead Man Walking, alle inchieste filmate di Oliver Stone e Michael Moore; o film come quelli interpretati da Valeria Golino (ieri ospite a Rebibbia) dedicati a Miranda Miserere, direttrice di carcere suicida (Come il vento) e a una giovane detenuta suicida (Giulia non esce la sera) dimostrano invece che tutto si può raccontare, se lo si sa fare. Intanto, insieme al Professor Checco Zalone alla cui sapienza ci inchiniamo, mandiamo "una mitragliata di baci" a tutti i detenuti. Emilia Romagna: la Garante "il sistema celle aperte è un processo irreversibile" telestense.it, 20 aprile 2016 Il sistema celle aperte in carcere è un processo irreversibile ma è necessario utilizzare anche più strumenti di monitoraggio e controllo. A dirlo è Desi Bruno, garante dei detenuti in Emilia-Romagna che auspica una soluzione nelle tensioni che si sono innescate nel carcere di Ferrara. Il sistema a celle aperte avviato dopo la sentenza Torreggiani della Corte europea sul sovraffollamento è "un processo irreversibile, sia pure da contemperare con le richieste di tutela del personale che opera in carcere, anche con l’ausilio di idonei strumenti di monitoraggio". A sostenerlo è Desi Bruno, Garante regionale dei detenuti, che chiede "una soluzione positiva e nel pieno rispetto dei diritti di tutti" per il carcere di Ferrara. Un monito che arriva dopo la protesta dei sindacati di polizia penitenziaria Osapp e Sappe che una decina di giorni ha hanno chiesto la rimozione del comandante, imputandogli un "atteggiamento troppo permissivo nei confronti dei detenuti". La Garante regionale ha visitato il carcere di Ferrara in occasione di un convegno a sostegno del programma europeo di giustizia penale. Un’occasione anche per incontrare la direzione del carcere insieme al Garante comunale, Marcello Marighelli che invece era intervenuto a sostegno del comandante, entrando in contrasto quindi con il Sappe e Osapp. I sindacati avevano denunciato pubblicamente "difficoltà oggettive molto gravi nella gestione dei detenuti, in particolare dopo la sentenza Torreggiani" che "dal 2013 ha consentito la circolazione dei detenuti nel carcere", sollecitando invece "regole più incisive per gestire meglio i detenuti" e per "la sicurezza degli agenti", chiedendo altrimenti "la sostituzione del comandate". Il carcere di Ferrara ospita 326 detenuti, di cui 126 stranieri e 231 condannati in maniera definitiva. "Il sistema a celle aperte, spiega Bruno che si dice attenta alle ragioni dei sindacati, impegna tutti "ed ha bisogno di essere compreso anche dagli stessi detenuti, chiamati ad uno sforzo di maggior responsabilità, a cui si deve consentire però di non oziare ma di avere in carcere un tempo produttivo e di miglioramento della propria personalità, con il fine anche di ridurre la recidiva ed avere maggiore sicurezza sociale". Sicilia: finalmente Crocetta ha nominato il Garante dei detenuti di Laura Arconti (militante radicale) Il Dubbio, 20 aprile 2016 Il viaggio attraverso le Regioni, con l’obiettivo di verificare la situazione dei Garanti dei diritti che appartengono alle persone detenute in custodia dello Stato, viaggio partito dalla Sicilia verso il Nord del Paese, subisce oggi uno stop ed un ritorno sui propri passi. Era il 12 aprile, martedì, e il primo numero del "Dubbio" ospitava la parte introduttiva del mio Dossier sui Garanti Regionali: l’indomani la "foto di una babele" puntava il faro sulla Sicilia, da quasi tre anni priva del Garante, messa alla gogna da una serie di inspiegabili contraddizioni legislative e da un grave ritardo negli adempimenti prescritti, con costi ingiustificati gravanti sul bilancio regionale. La Sicilia non ha quelle pastoie burocratiche o politiche che spesso impediscono la nomina di funzionari là dove la legge istitutiva prescrive che la scelta venga effettuata per elezione con maggioranze qualificate: secondo l’art. 33 della legge regionale n. 5 del 19 maggio 2005, successivamente integrata in parte con l’art. 16 della legge regionale n. 18/2/2008, il mandato viene affidato dal Presidente della Regione con proprio decreto. Era dunque soltanto la volontà del Presidente Crocetta, a bloccare la nomina: e neppure si potrebbe pensare che il ritardo fosse dovuto a motivi finanziari, poiché dal primo gennaio 2012 l’incarico di Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti è espletato a titolo onorifico. E non è certo per avarizia che il garante non veniva nominato, mentre i due uffici restavano aperti, a Palermo e a Catania, inoperosi ma costosissimi, continuando a correre gli stipendi ed i relativi contributi del personale (un dirigente, quattro funzionari, tre istruttori e un assistente) che dal settembre 2013 sono semplicemente pagati per non lavorare. Il primo ottobre 2014 il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo di Emanuele Lauria che esordiva così: "Vuole sapere cosa facciamo durante il nostro turno di lavoro? Ci giriamo i pollici, tre ore in senso orario e tre in senso antiorario..." e commentava la sintesi, fulminante, appartiene a Gloria Cammarata, funzionario direttivo dell’ufficio che non c’è. Lo stesso articolo, più avanti, riferiva: il dirigente della sede di Catania, Salvatore Sciacca, ha una visione appena meno pessimistica: "Il problema esiste, è sotto gli occhi di tutti. Noi ci limitiamo ad attività ordinaria: non possiamo certo andare nei penitenziari o rispondere alle lettere dei detenuti". L’ex Garante, il senatore Salvo Fleres dichiarò sempre a Repubblica: "I carcerati che non possono affidarsi a una figura come il garante, emanazione dello Stato, si rivolgono alla mafia". Questa era la situazione in Sicilia quando il neonato quotidiano "Il Dubbio" iniziava la pubblicazione a puntate del mio Dossier sui Garanti Regionali, e il 13 metteva in pagina la parte riservata dal Dossier alla Regione Sicilia: non era stato possibile darsi una spiegazione plausibile di questa storia paradossale. Ebbene, proprio il 13 aprile il Governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, con un improvviso "motu proprio" ha nominato il Garante regionale nella persona di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Fiandaca è stato componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura militare e successivamente del Consiglio Superiore della Magistratura ordinaria. Attento studioso della criminalità organizzata, ha presieduto commissioni di inchiesta ministeriali per le riforme. Dal 1998 al 2001, nominato dal guardasigilli Oliviero Diliberto, è stato presidente della commissione di studio istituita dal ministero di Grazia e Giustizia per il riordino e la riforma della legislazione in materia di criminalità organizzata. È stato componente della Commissione Pisapia per la riforma del Codice Penale (2006). Dal giugno 2013 è presidente della commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per elaborare una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, fra le quali la più importante è un manuale di diritto penale in quattro volumi scritto con Enzo Musco, mentre uno dei più recenti è il saggio "La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa" scritto dal professor Fiandaca in collaborazione con l’altro docente dell’Università palermitana Salvatore Lupo. (Edizioni Laterza 2014). Infine il professor Fiandaca è noto per la sua frequente partecipazione a Convegni di stretto argomento giuridico. Siamo dunque di fronte a una personalità di alto livello, ed è ciò che occorre in Sicilia, perché il senatore Fleres, che è stato il primo Garante per sette anni fino al 16 settembre 2013, ha lasciato il ricordo di un garantista attento ai bisogni degli ultimi della società, che non si è risparmiato nelle visite in carcere anche durante le cosiddette "feste comandate" e negli interventi creativi per il recupero alla vita civile dei detenuti: non sarà facile per il suo tardivo successore reggere il confronto, anche a causa delle sue molteplici attività. Concludiamo qui l’aggiornamento sulla Regione Sicilia con una nota sorridente: nel sito del ministero Giustizia l’elenco dei Garanti ? che fino al 12 aprile recava ancora per la Sicilia il nome della dottoressa Maria Antonietta Bullara già rapidamente fatta decadere con un articolo della legge di stabilità 2016 ? è stato prontamente aggiornato il 14 aprile. Peccato che il nome del nuovo Garante regionale sia stato storpiato in "Fiandanca". Incidenti ministeriali. Sardegna: detenuto per droga eletto Consigliere regionale, lo stop dalla Prefettura cagliaripad.it, 20 aprile 2016 Avviato dalla Prefettura di Cagliari l’iter per la sospensione del consigliere regionale della Sardegna ed ex sindaco di Buddusò, Giovanni Satta, in carcere perché coinvolto nell’inchiesta sul traffico internazionale di droga in Costa Smeralda. Avviato dalla Prefettura di Cagliari l’iter per la sospensione del consigliere regionale della Sardegna ed ex sindaco di Buddusò, Giovanni Satta, in carcere perché coinvolto nell’inchiesta sul traffico internazionale di droga in Costa Smeralda. Non si è neppure atteso il giuramento dell’esponente dell’Uds, di fatto bloccato dal giudice che gli ha impedito di lasciare il carcere di Bancali per prendere possesso delle sue nuove funzioni. Ora il percorso, che dovrebbe concludersi in due mesi, prevede che il prefetto comunichi gli atti al presidente del Consiglio il quale, sentiti il ministro per gli Affari regionali e il ministro dell’Interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione, con una durata massima di 18 mesi. Nel momento in cui arriverà il decreto, la Giunta delle elezioni dovrà indicare il sostituto di Satta. Secondo i primi calcoli, al suo posto dovrebbe entrare Manuele Marotto, primo dei non eletti nella lista Uds nella circoscrizione Gallura alle elezioni regionali del 2014. Bologna: il Progetto "Semi di libertà" rivolto ai detenuti della Dozza Bologna2000.com, 20 aprile 2016 Nuove collaborazioni e nuove opportunità per i detenuti della casa circondariale della Dozza, grazie al progetto Semi di libertà, che prevede il recupero della serra del carcere per la formazione professionale sull’agricoltura biologica e urbana rivolta ai detenuti, affidata a Cefal in collaborazione con alcuni docenti della Scuola di Agraria, e l’avvio dell’attività di impresa all’interno della quale occupare i detenuti, a cura della cooperativa Pictor, per la produzione agricola di piante tradizionali e aromatiche destinata al consumo interno ed alla vendita sul mercato. Tutte le coltivazioni avranno certificazione biologica. Verrà inoltre costruito un impianto fotovoltaico per garantire la massima autonomia dal punto di vista energetico dell’ambiente destinato a vivaio. La convenzione quadro per il progetto Semi di libertà è stata siglata martedì 12 aprile tra Comune, Casa Circondariale Dozza, Università di Bologna, associazione Il Poggeschi per il carcere, Cefal, cooperativa sociale Pictor e associazione Streccapogn. Si tratta di un percorso innovativo, al via in questi giorni fino al dicembre 2018, che grazie alle collaborazioni in rete tra pubblico e privato consente ai detenuti coinvolti l’acquisizione di abilità professionali utilmente spendibili sia all’interno del carcere nella fase detentiva, sia nella comunità locale dopo la scarcerazione. Il Comune, che svolge politiche di integrazione sociale e di reintegro nella società dei detenuti, promuove il progetto per consentire ai detenuti, attraverso la formazione ed il lavoro, elementi fondanti di ogni percorso riabilitativo, l’acquisizione di conoscenze e competenze utilmente spendibili all’interno della comunità locale nella fase post-detentiva. In particolare l’Ufficio del Garante si impegna nella gestione delle relazioni di rete con enti e istituzioni del territorio al fine di coinvolgere ulteriori soggetti anche del terzo settore in una prospettiva di offerta di risorse e opportunità esterne di sostegno al progetto. L’assessore alla Legalità, Nadia Monti sottolinea che: "Il risultato raggiunto rappresenta un significativo cambiamento nel sistema sanzionatorio. L’attività di lavoro volontario e gratuito resa all’interno di enti pubblici o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, come abbiamo già potuto sperimentare grazie ai Lavori di pubblica utilità e alla cosiddetta "Messa alla prova", permette di promuovere un risarcimento sia concreto che di carattere simbolico verso la società ed inoltre di favorire i necessari percorsi di risocializzazione. L’impiego in lavori di pubblica utilità costituisce un valore aggiunto per la collettività e il territorio per ristabilire una relazione di maggiore credibilità e fiducia fra soggetti in fase di riabilitazione e società esterna, evitando l’emarginazione, che è il terreno più fertile su cui si innesta il rischio della recidiva, e favorendo il reingresso positivo nella comunità in un’ottica di umanizzazione della pena, di recupero al sociale del soggetto e di prevenzione del rischio di recidiva. Con questo progetto abbiamo attivato veri e propri percorsi lavorativi volti ad insegnare un’attività pratica che in futuro potrà tornare utile agli stessi detenuti". Oristano: la denuncia di Caligaris (Sdr) "un ergastolano non vede i familiari da 3 anni" La Nuova Sardegna, 20 aprile 2016 Se da una parte, il carcere si apre all’arte, dall’altra resta ermeticamente chiuso non solo - e si può comprendere - per i detenuti, ma anche per i loro familiari. È il caso di un detenuto barese, Nicola Solazzo di 51 anni, che, come denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo diritti riforme". "Recluso da circa 20 anni, ergastolano, attualmente detenuto nel carcere di Massama, non vede i familiari dall’ottobre del 2012. Nonostante le diverse istanze di trasferimento, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria gli nega l’opportunità di incontrare i parenti, impossibilitati ad affrontare il viaggio in Sardegna anche con un temporaneo avvicinamento per effettuare qualche colloquio". Secondo l’associazione si tratta di "un caso emblematico di mancato rispetto del principio della territorialità della pena e del recupero sociale che fa riflettere". Solazzo ha inviato una lettera all’associazione: "Non sto chiedendo la libertà - ha scritto, dopo aver illustrato le difficili condizioni dei parenti più prossimi e la prolungata assenza di colloqui - ma solo di vedere la mia famiglia perché questa non è detenzione ma una vera tortura per me e per i miei familiari". Maria Grazia Caligaris sottolinea che "Nel nostro Paese, l’opportunità per un detenuto di scontare il suo debito il più possibile vicino al proprio ambiente di origine è stato sancito per contemperare due aspetti inscindibili: quello giuridico, e quello sociale, rispettoso dell’equità e appartenenza. La Costituzione - sottolinea Caligaris - stabilisce infatti che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. Ciò vale anche per gli ergastolani. Nel caso specifico si tratta di trovare il modo di mettere la famiglia nelle condizioni di raggiungere il proprio parente considerando che per raggiungere la Sardegna non basta un treno ma occorre affrontare un viaggio lungo e costoso". Foggia: "L’altra possibilità", viaggio dentro al carcere tra sofferenza e voglia di riscatto Redattore Sociale, 20 aprile 2016 Le foto di Giovanni Rinaldi e le interviste di Annalisa Graziano per raccontare in una mostra e in un libro le storie di persone detenute nell’istituto penitenziario di Foggia. Un progetto del Csv, sostenuto dalla Fondazione Banca del Monte. Non è solo un reportage sul mondo penitenziario la mostra "L’altra possibilità". Immagini e testi raccolti in parallelo dal fotografo Giovanni Rinaldi e dalla giornalista Annalisa Graziano, pubblicati in un volume che accompagna la mostra, diventano un viaggio dentro e oltre il carcere, nelle storie di donne e uomini ristretti nella casa circondariale di Foggia e al lavoro in strutture che accolgono persone in esecuzione penale esterna. Il progetto è stato realizzato dal Centro Servizi al Volontariato di Foggia, che promuove da tempo le attività dell’associazionismo negli Istituti Penitenziari di Capitanata, grazie alla collaborazione della Casa Circondariale e dell’Uepe di Foggia, ma anche di associazioni, cooperative e comunità del territorio, con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia, presieduta da Saverio Russo. Nella prefazione al volume, lo scrittore marchigiano Angelo Ferracuti, sottolinea che "l’intreccio tra reportage di scrittura e quello fotografico non cede mai alla spettacolarizzazione del disagio o del male ". E così - scrive ancora - sfogliando il volume, conosciamo "Antonio il bibliotecario, quello che scrive pietà con tre t, Suada e le donne della sezione femminile, sappiamo che ci sono dei bambini, di cui si intravede solo la presenza, vediamo le cuoche Carla e Lucia, il giardiniere Giuseppe, il suo aiutante Mario che ha rifiutato i domiciliari restando in carcere per guadagnare il poco che gli serve per assistere la sua compagna gravemente malata" e tanti altri ancora. "L’idea di questa pubblicazione e della mostra ad essa collegata - racconta il Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - è nata nel cortile della Casa Circondariale di Foggia. Con i direttori dell’istituto penitenziario e dell’Uepe Foggia si discuteva dell’importanza delle attività del trattamento per i detenuti e per i soggetti in esecuzione penale esterna. Ma anche del ruolo svolto dalle associazioni di volontariato e del terzo settore nei luoghi ristretti e nei percorsi di reinserimento sociale all’esterno. Si è quindi pensato di raccontare alla città, attraverso i volti e le storie di queste persone, realtà spesso sconosciute, ma che fanno parte della nostra comunità. Storie di speranza, di occasioni perdute, di sofferenza e pentimento e di voglia di riscatto. E storie di volontari che, spesso, per queste persone rappresentano il dono della seconda possibilità". La mostra rimarrà aperta fino al 29 aprile 2016, dal lunedì al sabato, dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 17.00 alle 20.00. (spa) "La città marcia", di Bianca Stancanelli. Mafia, storia sotterranea di una nazione recensione di Riccardo Mazzeo Il Manifesto, 20 aprile 2016 Bianca Stancanelli ricorda in questo libro le parole pronunciate da Goethe nel 1787, undici giorni dopo il suo arrivo a Palermo: "Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto" (La città marcia: racconto siciliano di potere e di mafia, Marsilio, pp. 271, euro 16). L’autrice conosce intimamente il tema di cui si occupa: siciliana, aveva iniziato giovanissima a fare la giornalista nella sua regione e si è occupata di mafia con grande fervore ricevendo anche l’Aquila d’oro al Premio Estense nel 2003 per il libro su Don Puglisi pubblicato da Einaudi. Il giornale per cui lavorava, L’Ora, è lo stesso dove il fratello di Tullio De Mauro, Mauro, pubblicava formidabili scoop, e Mauro De Mauro scomparve improvvisamente nel 1970. Il protagonista del libro, Giuseppe Insalaco detto "Peppuccio", entra in scena proprio dopo la scomparsa di Mauro De Mauro, facendo visita a sua moglie Elda in vece del ministro Restivo. La signora De Mauro è irritata che il ministro, amico di famiglia, non sia venuto di persona. Ma è un segno tangibile: il mistero della sparizione di De Mauro non si scioglierà mai. L’interesse dell’autrice per Peppuccio Insalaco dipende innanzitutto dalla sua funzione di cerniera fra il potere mafioso e quello politico: sindaco di Palermo per soli 101 giorni nel 1984, verrà ucciso nel 1988 dopo la fine del maxiprocesso che aveva dispensato molti ergastoli ai mafiosi. Leoluca Orlando dirà all’autrice che è stato ucciso "con il consenso dei salotti politici palermitani": aveva deciso di fare una rivoluzione, di cambiare lo stato delle cose, ed è stato tolto di mezzo; la tragedia è che i mafiosi sono stati colpiti, i mandanti politici no; e che la vicenda sia stata minimizzata, svalutata, affossata anche materialmente proprio perché aveva rischiato di far trapelare la verità. Nel penultimo capitolo Stancanelli descrive "il contrasto tra le raggelanti testimonianze di ex sindaci, ex consiglieri comunali - la città bianca che parla dell’anima nera della politica, che dice cose enormi in un’aula di tribunale - e il silenzio di giudici, pubblici ministeri, avvocati". Davanti a loro sfilano il sindaco Leoluca Orlando, l’ex capogruppo del Pci Simona Mafai, la pediatra Elda Pucci, con testimonianze da brivido, e la Corte non fa una piega: saluta e ringrazia. La ricognizione di Stancanelli è doviziosa e avvincente e sottolinea lo stridore fra la vita tutta in superficie dei paninari del "continente" e quella remota, umbratile e inchiavardata della mafia siciliana: "Negli sgargianti anni Ottanta, che si esaltano nella religione dell’apparire e celebrano gli yuppies, il denaro, lo scialo e lo spreco, la mafia dei Ganci, di Riina, pratica un vivere sottotraccia, un navigare sotto il pelo dell’acqua, tra palazzine popolari, orti e giardini di periferia, stalle e pollai". Una mafia ricchissima di denaro e di risorse che però sceglie di vivere nel deserto dei nascondigli pur di detenere ed esercitare il potere. L’affresco di Bianca Stancanelli fa emergere il "come" la Sicilia abbia influenzato e influenzi la vita del nostro Paese, ma anche sulle analogie che si scorgono fra la pentecostale cultura della morte così incistata in una mafia ossificata, trincerata e corrotta e lo stile altrettanto rigido, corrotto ed esangue di alcuni Paesi musulmani. Se molti paesi arabi non avessero avuto funzionari così desolatamente corrotti sarebbe forse stato meno difficile mettere in figura la loro ventura, l’ingiustizia che li caratterizza. Peraltro, sia la mafia sia i potentati come l’Egitto spesso si avvalgono della svalutazione di una vittima della mafia o della politica per porre l’enfasi sulla miseria morale o materiale di chi è morto e allontanare i riflettori dalle vere cause della sua sventura. Quando Stancanelli racconta del poveraccio che aveva assistito per caso al ritorno degli assassini della strage di Portella della Ginestra, "lupara in spalla e mitragliatrice sottobraccio" ed era stato poi ucciso, la motivazione fornita dall’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza, delitto d’onore poiché l’uomo era "donnaiolo" e "pederasta attivo", richiama alla mente le pretestuose accuse mosse al nostro Giulio Regeni, torturato e ammazzato in Egitto, secondo cui sarebbe morto a causa delle sue frequentazioni sessuali o per storie di droga. Insalaco, comunque, e il suo desiderio mai sopito di fare la cosa giusta in onore del padre carabiniere che amava, costituisce anche la testimonianza della libertà ineliminabile che esiste in ciascuno di noi anche nelle circostanze più avverse. Stancanelli cita Anatomia di un istante, di Javier Cercas: "Borges dice che "qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è"". L’autrice chiosa: "E se il tutto di cui lo credevano capace era il piegarsi e servire, il tutto di cui divenne capace fu la ribellione" Panama Papers: chi ha legalizzato i paradisi fiscali, in Europa e nel mondo di Riccardo Petrella Il Manifesto, 20 aprile 2016 Una volta che l’indignazione e la collera si saranno calmate, la cronaca sarà dominata dai processi (eventuali) contro i personaggi famosi coinvolti (politici, del business, dello sport, del cinema). Molti degli accusati riusciranno a dimostrare, grazie a consiglieri ed avvocati, che hanno i soldi puliti. I Panama Papers diffusi riguardano 11,5 milioni di dossier di evasione fiscale menzionati nei documenti trafugati della società panamense Mossask Fonseca, specializzata nella creazione di società offshore, e relativi a più di 214.000 società create tra il 1977 ed il 2015. Mossak Fonseca è una delle società fra le più importanti del settore (quarta mondiale), non la sola. Nessuno sa con precisione quante società offshore sono state create in totale negli ultimi 50 anni. Ci vorranno decenni prima che tutti gli evasori fiscali nascosti dietro i nomi fittizi delle società offshore siano anno identificati, accusati, processati. I veri colpevoli sono e restano le centinaia di governi e di parlamenti che nel corso degli anni hanno approvato leggi e regolamenti per legalizzare i paradisi fiscali, luoghi le cui giurisdizioni hanno permesso a chiunque d’installarsi legalmente nel loro ambito senza avere l’obbligo di dichiarare il loro reddito e quindi di pagare le tasse sul reddito. Il vero scandalo è che i legislatori del mondo abbiano potuto legalizzare l’illegale. Come si fa a condannare e punire i legislatori ed i governi, la cui immunità è garantita dal concetto di "responsabilità collettiva"? Ricordate cosa rispose nel settembre 2014 al Parlamento europeo, Claude Juncker, il candidato alla nomina a Presidente della Commissione europea, proposto dal gruppo politico più forte del Parlamento europeo, il Ppe, con l’accordo del secondo gruppo politico più importante, i S&D? Fu accusato di aver firmato, allorché era primo ministro del piccolo stato del Lussemburgo (pubblicamente riconosciuto come uno dei paradisi fiscali maggiori al mondo), un accordo segreto con 341 imprese che avrebbero pagato meno di 1% di tasse nel Lussemburgo. Centinaia di milioni di euro sottratti al fisco europeo. Non negò i fatti, disse che si trattava di una pratica seguita da tutti gli Stati e che quindi era una pratica lecita ammessa da tutti. I paradisi fiscali convengono a tutti i detentori di capitali, soprattutto privati, compresi i piccoli risparmiatori (attraverso le banche cui hanno affidato i loro soldi). Dai Panama papers, emerge che la sola Unicredit ha creato più di 800 società offshore. Gli Stati, dal canto loro, da almeno trent’anni, fanno a gara per diminuire le tasse alle imprese. Cosa c’è di meglio per uno Stato che diventare un paradiso fiscale? Gli Stati affermano che la riduzione delle tasse sulle imprese è benefica per la competitività internazionale (sui prezzi) delle loro imprese e quindi per l’economia nazionale. La competitività delle imprese multinazionali che non pagano le tasse fa approfittare unicamente i loro azionisti. Le briciole vanno alla gente comune. La priorità è l’eliminazione della legalità dei paradisi fiscali (e del segreto bancario). I governi ed i parlamenti che oggi si scandalizzano, devono dichiarare illegali tutti i paradisi fiscali senza ricorrere all’alibi secondo il quale ogni Stato non può agire da solo (falso) e che occorre giungere ad un accordo internazionale tra tutti gli Stati coinvolti (puro sotterfugio per non agire). Le iniziative prese dall’Ocse nel 2014 in materia di regolazione dei paradisi fiscali (mi riferisco alla Tiea - Tax Information Exchange Agreement), in linea con il Fatca degli Usa (Foreign Account Tax Compliance Act) sono solo dei tentativi cosmetici di purificare la legalizzazione dell’illegale, centrati su maggiori informazioni fornite ai poteri pubblici da parte delle società offshore e lo scambio di dette informazioni tra i paesi. Secondo queste iniziative, non ci sono più paradisi fiscali, ma soggetti che hanno sottoscritto il Tiea (quasi tutti i famosi paradisi fiscali della black list in circolazione da anni l’hanno fatto) e quelli che non hanno sottoscritto (sono rimasti una piccola decina di cui Panama). Con i tempi che corrono la lotta sarà sempre più dura e non sarà facile, per esempio, lanciare una mobilitazione mondiale di lungo corso per l’eliminazione dei paradisi fiscali. Eppure, occorre bombardare di e-mail i rappresentanti eletti, fare costante pressione sui parlamenti in maniera capillare, organizzare manifestazioni... perché, se non si eliminano ora i paradisi fiscali, quando? Canapa legale, al via raccolta firme per una legge popolare di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 20 aprile 2016 Inizia ufficialmente oggi in tutta Italia la raccolta firme sulla Legge di iniziativa popolare per la regolamentazione legale della cannabis e dei suoi derivati. Promossa dai Radicali e dalla Associazione Luca Coscioni e sostenuta da un vasto schieramento di associazioni, da Forum Droghe ad Antigone, dalla Società della Ragione alla Cild, passando per la Coalizione per la legalizzazione, la campagna vuole portare il dibattito sulla legalizzazione della marijuana nelle piazze delle nostre città. Dichiaratamente "a sostegno dell’azione parlamentare dell’inter-gruppo per la legalizzazione della cannabis", il testo sul quale dovranno essere raccolte almeno 50.000 firme differisce però in alcuni punti non irrilevanti da quello presentato con la prima firma di Roberto Giachetti. Le differenze sono di particolare interesse perché contribuiscono a farne una proposta più avanzata, e se vogliamo anche più libertaria e liberale, rispetto a quella dell’inter-gruppo. Una proposta che tiene conto del dibattito avviato nella società civile in questi mesi, e quindi anche delle proposte nate all’interno del gruppo di associazioni che si riconoscono nel Cartello di Genova. In primo luogo, all’articolo 1, viene definita la liceità dell’uso di sostanze, ribaltando finalmente l’impianto legislativo di stampo proibizionista. Una proposta questa già contenuta nella legge di modifica del 309/90 elaborata dal gruppo di lavoro della Società della Ragione e depositata alla Camera dei deputati da Filippo Fossati. Per la coltivazione personale la competenza passa dai Monopoli all’assessorato all’Agricoltura regionale. Una modifica di competenza che è più significativa per quel che riguarda la produzione a fini commerciali: salta infatti il monopolio di Stato previsto dal testo dell’inter-gruppo, e viene invece introdotto un sistema di autorizzazioni, con il coinvolgimento dei Comuni per quanto riguarda la localizzazione dei locali per la vendita al dettaglio. Per quel che riguarda il trattamento fiscale la cannabis viene assimilata ai tabacchi, e viene anche definita la destinazione delle risorse derivanti alla vendita: 10% per finanziamenti di campagne informative e per programmi terapeutici e riabilitativi ed il resto suddiviso fra attività di previdenza sociale, assistenza sociale, riduzione delle imposte e incentivi all’occupazione, finanziamenti di investimenti produttivi e infine per la riduzione del debito pubblico. Ricordiamo che stiamo parlando, secondo gli studi più recenti di una cifra compresa tra 4 e gli 8 miliardi di euro all’anno (vedi Marco Rossi, 6° Libro Bianco sulla legge sulle droghe). Mentre i Gasparri e i Giovanardi insistono nella caccia alle streghe, come dimostra l’esilarante interrogazione parlamentare sulla composizione della delegazione italiana ad Ungass 2016, finalmente aperta a tutta la società civile (e non solo agli amici proibizionisti), in Italia il tema della regolamentazione legale entrerà finalmente nel dibattito pubblico, a partire dalle piazze delle nostre città. Certo pare difficile che il Parlamento che sta per licenziare le Unioni Civili in quanto "formazioni sociali specifiche" possa legiferare sulla legalizzazione della cannabis. Come del resto appare improbabile che a New York in questi giorni si possano registrare significativi cambiamenti. Ma sarà importante il dibattito nel Paese per obbligare il Parlamento a discutere una proposta seria, ragionevole e condivisa di regolamentazione legale della cannabis, così come sarà decisivo il ruolo delle Ong perché la prossima Ungass nel 2019 sia disponibile a una rivisitazione delle politiche sulle droghe nel mondo. Una proposta su cui confrontarsi con i cittadini e sulla quale costruire consenso già dalle prossime settimane. Egitto: la polizia uccide per un tè, rivolta al Cairo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 aprile 2016 Un venditore di strada colpito al cuore da una pallottola, la folla si lancia contro i poliziotti. Un altro caso di ribellione, dopo gli slogan "Pane e libertà" cantati venerdì vicino Tahrir. Domani il segretario di Stato Kerry va da al-Sisi. Ucciso per un bicchiere di tè, è subito rivolta: l’uccisione a sangue freddo di un venditore di strada e il ferimento di due passanti da parte di un poliziotto egiziano hanno portato in strada centinaia di persone. Immagini che riportano alle origini delle primavere arabe in Nord Africa e ai suicidi in piazza di giovani venditori oppressi da povertà e repressione. Ieri Il Cairo è stato teatro di un omicidio che svela di nuovo la perdita di quel rigido controllo che il regime di al-Sisi ha stretto sulla popolazione. Dopo la manifestazione di massa di venerdì, i sit-in delle famiglie dei giornalisti in prigione, articoli che sulla stampa pro-governativa e non svelano le contraddizioni interne del governo egiziano, gli scontri di ieri potrebbero fare da miccia di accensione di nuove rivolte. Tutto è cominciato da un litigio sul prezzo di un bicchiere di tè: tre poliziotti hanno aggredito verbalmente il venditore, riporta il generale Amer, capo della polizia del distretto di New Cairo, e uno dei tre ha aperto il fuoco. Il venditore di strada è morto sul colpo, centrato al cuore da una pallottola. L’agente Zeinham Abdel Razek è stato arrestato, ma ormai la rabbia era esplosa: una folla di circa 200 persone si è lanciata sull’auto della polizia, l’ha ribaltata e distrutta, ha picchiato un poliziotto per poi bloccare la strada al grido di "La polizia è criminale, il Ministero dell’Interno è criminale". Secondo un testimone presente sul luogo degli scontri, in un’intervista alla Reuters, le forze di sicurezza hanno circondato la zona e arrestato cinque persone, mentre familiari della vittima colpivano i poliziotti con delle pietre. Quelle pietre simboleggiano il crescendo di rabbia che investe la popolazione egiziana a cinque anni dalla rivoluzione che aveva fatto immaginare un futuro di democrazia e partecipazione politica. L’escalation di tensioni va in parallelo con le brutalità della polizia, che forte dell’impunità di cui gode stringe la morsa sui cittadini: a febbraio un poliziotto aveva ucciso un tassista, a novembre Ismailiya e Luxor erano state infiammate dalle proteste per la morte in una sola settimana di tre detenuti. Fino allo sdegno locale e internazionale per la barbara uccisione di Giulio Regeni. Alla violenza dei servizi di sicurezza si aggiungono fame e disoccupazione, una crisi economica che al-Sisi cerca di risolvere con prestiti internazionali e accordi commerciali con i paesi europei. Ma non sono passati inosservati, venerdì intorno ad una Piazza Tahrir blindata e inaccessibile, gli slogan cantati dai manifestanti: "Pane e libertà", le stesse parole che risuonavano nel gennaio del 2011 e che fecero collassare il regime trentennale di Mubarak. "Quanto successo oggi è l’inizio di un movimento popolare contro le decisioni di al-Sisi - ha detto ad al-Monitor l’attivista Ahmed Abdullah - Abbiamo cominciato a rompere le barriere della paura e della disperazione". Una spinta, quella della rivoluzione del 2011, che forse al-Sisi sperava di aver soffocato prima mostrandosi come il liberatore dal pericolo islamista e poi usando il pugno di ferro. Ma le rivoluzioni sono processi lunghi, complessi, e quella egiziana non è mai giunta alla sua fine: i tentativi di annichilimento delle aspirazioni libertarie e democratiche non riescono nel loro intento. E il 25 aprile, anniversario della liberazione del Sinai, il popolo egiziano promette di tornare di nuovo in strada. Per ora al-Sisi ha dalla sua il sostegno della comunità internazionale che a condanne di facciata abbina fruttuoso rapporti economici. Il fine settimana ne è stato un esempio chiaro: prima il presidente francese Hollande è tornato a casa con 30 accordi commerciali e 18 memorandum d’intesa in tasca; poi il vice cancelliere tedesco Gabriel ha aperto la strada a collaborazioni militari lungo il confine tra Egitto e Libia. Oggi tocca a John Kerry, segretario di Stato Usa, impegnato in questi giorni in un tour nelle corti degli alleati mediorientali. Al Cairo incontrerà il presidente e il ministro degli Esteri Shoukry con cui discuterà di questioni di sicurezza regionale, la minaccia del terrorismo di matrice islamista che tiene a galla il golpe egiziano. Siria: quei barili bomba che per il presidente Bashar al-Assad non esistono di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 aprile 2016 Eccoli di nuovo, quei barili bomba che il presidente siriano Bashar al-Assad continua a negare contro ogni evidenza. I barili bomba sono armi rudimentali quanto mortali realizzate con barili di petrolio, taniche di benzina o bombole del gas riempiti con materiale esplosivo, carburante e frammenti metallici e sganciati da elicotteri o aerei. Sono, per loro natura, armi imprecise che non dovrebbero mai essere usate nei pressi di insediamenti civili. Sono stati filmati e fotografati, quei maledetti ordigni, innumerevoli volte ma c’era, fino a ieri, qualcosa che non si era ancora visto: immagini girate tra il 2014 e la fine di febbraio di quest’anno dagli abitanti di Daraya, la città alla periferia della capitale Damasco sotto assedio e, per l’appunto, sotto i barili bomba dal novembre del 2012. Secondo i dati raccolti dal Consiglio locale della città assediata, tra gennaio 2014 e febbraio 2016 le forze governative siriane hanno sganciato su Daraya circa 6.800 barili bomba. I danni e le distruzioni causati sono massicci. "Pochi", al confronto, i morti e i feriti tra la popolazione civile: almeno 42 vittime, tra cui 17 bambini, e 1.200 civili feriti. Ma questo numero è contenuto solo perché i civili sono ormai allenati a correre verso i rifugi non appena viene visto in lontananza un elicottero. Del resto, la maggior parte degli abitanti di Daraya è fuggita anni fa e vi rimane ora solo una piccola parte della popolazione originaria, non più di 8.000 persone. Sebbene non vi siano stati più attacchi coi barili bomba dal 26 febbraio, giorno in cui è entrata in vigore la parziale "cessazione delle ostilità", Daraya ha continuato a essere colpita dall’artiglieria siriana e i civili rimasti in città sono sempre senza elettricità, con scarso cibo e scorte di medicinali insufficienti. Gli operatori sanitari non hanno forniture minimamente adeguate per affrontare la crisi umanitaria in atto. L’unico ospedale da campo rimasto in funzione nella città assediata è stato colpito 15 volte dalle forze governative. L’Ufficio medico di Daraya ha inviato ad Amnesty International gli elenchi di oltre 100 tipi di medicinali, forniture e attrezzature di cui c’è urgente bisogno, tra cui antibiotici, antidolorifici, anestetici, disinfettanti e altro materiale per pulire, brande e barelle da ospedale e macchinari per la dialisi ed esami diagnostici. Secondo un rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite al Consiglio di sicurezza e nonostante ripetuti solleciti da parte delle stesse Nazioni Unite, il 26 marzo (un mese dopo l’inizio della "cessazione delle ostilità") il governo siriano non aveva ancora garantito l’accesso degli aiuti umanitari in almeno sei aree sotto assedio, tra cui Daraya e alcune zone della Ghouta orientale. Amnesty International auspica che queste orrende testimonianze filmate spingeranno la comunità internazionale a sollecitare ulteriormente il governo siriano affinché garantisca immediato accesso a quegli aiuti umanitari indispensabili per salvare vite umane a Daraya e in tutte le altre aree sotto assedio. Tunisia: tortura, presentato all’Onu il rapporto periodico interris.it, 20 aprile 2016 Il dossier riguarda le misure adottate in base all’adesione alla Convenzione del 1988. La Tunisia presenta oggi a Ginevra davanti al Comitato contro la Tortura delle Nazioni Unite (Cat) il suo rapporto periodico sulle misure adottate in base agli obblighi derivanti dall’adesione nel settembre 1988 alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Il Comitato instaurerà dunque con la delegazione governativa tunisina un dialogo su temi fondamentali al riguardo come la durata del fermo di polizia, i diritti dei detenuti alla difesa e alla salute, l’indipendenza del sistema giudiziario, le procedure di espatrio, asilo ed estradizione, le violenze nelle carceri, la sovrappopolazione carceraria ed altri, per poter valutare, una volta sentiti anche i rappresentanti delle Ong operanti in Tunisia, in quale modo il Paese mette in atto la Convenzione Onu. Il Comitato presenterà poi le sue osservazioni finali al Palazzo delle Nazioni di Ginevra il 13 maggio prossimo, insieme ad altri paesi attualmente sotto esame come Francia, Arabia Saudita, Turchia, Filippine ed Israele. Ricordiamo che il parlamento tunisino nel marzo scorso ha eletto la Commissione nazionale per la prevenzione della tortura, dando piena operatività alla legge contro la tortura n. 43 del 2013, allineata sugli standard internazionali in materia. Questo organismo, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria, ha una serie di compiti di prevenzione sorveglianza e controllo dei casi di tortura e violenza negli istituti di detenzione del Paese. La Commissione formata da sei personalità della società civile, tre medici, due professori universitari, due avvocati, due giudici in congedo, e uno specialista in diritti dell’infanzia, ha anche il compito di diffondere una cultura della legalità tra le forze dell’ordine, raccogliere dati e compiere ricerche. La messa in atto di questa Commissione è stata fortemente voluta dalle numerose organizzazioni internazionali che spesso in Tunisia hanno denunciato casi di abusi e tortura da parte delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini detenuti a vario titolo.