Un anno dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: ancora 90 internati di Sara De Carli Vita, 1 aprile 2016 Sono ancora aperti quelli di Montelupo Fiorentino (Toscana), con 40 internati; Reggio Emilia con 6; Aversa con 18, Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia) con 26: questi i numeri dati da Franco Corleone, recentemente nominato dal Governo commissario per il superamento degli Opg. È passato un anno dal 31 marzo 2015, giorno in cui, per legge (la n. 81 del 2014), gli ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia hanno chiuso. In realtà oggi ci sono ancora 4 OPG aperti, con 90 persone internate illegalmente. A dare i dati più recenti è Franco Corleone, commissario nazionale per il superamento degli Opg, nominato dal Governo a febbraio. "C’è un’accelerazione in corso e nei prossimi mesi il quadro sarà diverso: attendiamo a breve l’apertura di Rems in Abruzzo, Piemonte e Calabria, mentre in quelle di Veneto e Toscana verrà aumentata la capienza. Questo accelererà la chiusura degli Opg Aversa, prevista entro due mesi, e di Reggio Emilia, nel giro di qualche settimana. L’auspicio, se si prosegue in questa direzione, è di chiudere gli OPG nel giro di sei mesi. Alla fine di tutto questo percorso, avremo 30 Rems ma servirà un monitoraggio attento per verificare che qui non si riproduca una logica manicomiale", ha detto. Gli OPG ancora aperti sono quelli di Montelupo Fiorentino (Toscana), con 40 internati; Reggio Emilia con 6; Aversa con 18, Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia) con 26. Le regioni più lente a realizzare le Rems (ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o più restie a prendere in carico i propri cittadini sono state Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto, per cui infatti è scattato il commissariamento. All’inizio del percorso che ha portato alla scelta di chiudere per legge gli Opg, erano circa 1.300 le persone internate; un anno fa, alla data della chiusura, erano 689 le persone presenti, meno della metà. In questo anno circa 550 persone sono state traferite nelle Rems e un centinaio rimesse in libertà. Nelle Rems, afferma StopOpg, sono oggi ristrette 230 persone, mentre altre 220 sono in realtà nella Rems di Castiglione delle Stiviere, che però "ha solo cambiato targa, "trasformandosi" da Opg in Rems", accusano. StopOPG ha organizzato un incontro pubblico per oggi pomeriggio a Roma e tre appuntamenti all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino per il 5, il 6 e il 12 aprile. "Crediamo che il modo migliore di ricordare questo anniversario, fuori da ogni retorica e anzi con un preciso intento operativo, sia quello di ribadire quello che abbiamo scritto in questi giorni a Governo e Regioni indicando le priorità al Commissario per il superamento degli OPG", scrivono. Le priorità del Commissario, secondo StopOpg devono essere due: procedere, prioritariamente e con la massima urgenza alla presa in carico da parte dei servizi dei territori di appartenenza delle persone ancora internate negli Opg, e non necessariamente per un loro trasferimento nelle Rems; agire, nel rispetto del mandato ricevuto circa adempimento delle prescrizioni della legge 81/2014, per garantire che le misure alternative alla detenzione siano la norma e non l’eccezione. In questi mesi i rappresentanti di StopOpg hanno visitato tutte le Rems attive, trovandovi spesso situazioni che ripetono la logica custodiale degli Opg, seppure in piccoli numeri e dimensioni: sbarre, filo spinato, guardie giurate armate, poca o nessuna possibilità di attività esterne alla struttura per gli internati... Ci sono però anche esperienze di Rems più "aperte", inserite all’interno di altre strutture per la salute mentale, in stretto collegamento con la rete dei servizi sociali e sanitari e con il territorio di appartenenza, con un rapporto collaborativo e dialettico con la magistratura. "StopOpg ha fissato la sua attenzione sulle Rems proprio per evitare che i "vecchi contenitori" manicomiali (gli Opg appunto) siano sostituiti con nuovi luoghi, le Rems, sicuramente più accoglienti e decorosi, ma pur sempre con un uguale mandato. La sfida quindi è di ridurre in modo significativo il numero di posti di Rems per applicare invece misure di sicurezza alternative alla detenzione, come previsto dalla legge 81/14 e fare sì che le Rems siano tarate sempre di più su una funzione terapeutica riabilitativa e non custodialistica", dicono. Occorre inoltre vigilare affinché le Rems non vengano utilizzate impropriamente, come sta invece accadendo: "è indispensabile e urgente l’approvazione di un atto che impedisca o quantomeno renda eccezionale l’invio delle persone in misura di sicurezza provvisoria in Rems. Questo uso improprio delle Rems, come l’invio di detenuti dal carcere con l’applicazione di una misura di sicurezza, sta ritardando la chiusura degli Opg". Gli ex manicomi criminali che non si riescono a far chiudere di Lidia Baratta linkiesta.it, 1 aprile 2016 A un anno dalla data di chiusura prevista dalla legge 81, quattro Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono ancora aperti. Avrebbero dovuto chiudere definitivamente il 31 marzo 2015. Ma sono ancora aperti. A un anno di distanza dalla data fissata per la chiusura, in Italia esistono ancora quattro Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Con ben 90 internati dietro le sbarre. Lo denuncia il comitato StopOpg, che da anni si batte per la chiusura degli ex manicomi criminali. A Montelupo Fiorentino ci sono ancora 40 internati, a Reggio Emilia sei, ad Aversa 18, a Barcellona Pozzo di Gotto 26. L’Opg di Secondigliano, a Napoli, è stato chiuso solo a dicembre 2015. Mentre quello di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, per anni unico esempio virtuoso d’Italia, ospita 220 pazienti e per il momento ha solo modificato la targa fuori, cambiandola da Opg in Rems, le residenze regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dovrebbero sostituire definitivamente gli ex manicomi criminali. Prima della chiusura, i sei Ospedali psichiatrici giudiziari italiani coprivano macro-aree composte da più regioni. La legge 81 del 2014 prevede invece che i pazienti autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere, siano curati nei territori di residenza. Nelle Rems appunto, di cui le regioni avrebbero dovuto dotarsi entro il 31 marzo 2015. Per la costruzione di queste strutture sono stati stanziati 170 milioni di euro, ma l’anno scorso una regione su due allo scoccare dell’ora X si è fatta trovare impreparata. Finché davanti ai ritardi di Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto, a febbraio 2016 il consiglio dei ministri ha nominato Francesco Corleone commissario unico per il superamento degli Opg. Di fatto, commissariando le sei regioni ritardatarie. A Montelupo fiorentino ci sono ancora 40 internati, a Reggio Emilia sei, ad Aversa 18, a Barcellona Pozzo di Gotto 26. Nella maggior parte dei casi, le regioni inadempienti hanno chiesto ospitalità per i propri internati alla struttura di Castiglione delle Stiviere. Prima della chiusura degli Opg, i pazienti in provincia di Mantova erano 120, oggi ce ne sono 100 in più. In altri casi sono stati stretti accordi con altre regioni o con strutture private per ospitare temporaneamente i propri pazienti. Il problema, dicono da StopOpg, è che oggi i magistrati continuano a inviare le persone in misura di sicurezza provvisoria nelle Rems, anziché privilegiare le misure alternative alla detenzione con percorsi di riabilitazione e di cura. E infatti le presenze nelle Rems continuano ad aumentare. Anche perché è in voga l’abitudine di mandare in queste strutture pure i detenuti del carcere che hanno problemi mentali. E anche questo, spiegano dal comitato, "sta ritardando la chiusura degli Opg". Prima della chiusura degli Opg, i pazienti a Castiglione delle Stiviere erano 120, oggi ce ne sono 100 in più. Nei mesi scorsi, i membri di StopOpg hanno visitato diverse Rems, dal Friuli alla Sardegna, dalla Campania al Lazio. In alcune, dicono, prevale la logica carceraria, con sbarre, filo spinato, e guardie giurate armate. A Pontecorvo, nel Lazio, le finestre hanno sbarre, le porte delle stanze da letto hanno l’oblò per guardare all’interno, sono chiuse di notte e non apribili dall’interno. E il giardino è circondato da una grande recinzione carceraria. Stessa cosa a Maniago, Friuli, dove la terrazza è ricoperta da una recinzione di vetro blindato. In molti casi, gli internati provengono dalla libertà e non dagli Opg, "a testimonianza che la magistratura di cognizione non sta applicando la legge 81 del 2014 laddove prevede la misura detentiva in Rems come extrema ratio", dicono dal comitato. I progetti di riabilitazione mentale sono rari. E spesso, come accade a Capoterra, in Sardegna, vige il divieto per gli internati di svolgere attività all’esterno delle strutture. Altre Rems, invece, risultano più "aperte", inserite all’interno di altre strutture per la salute mentale, in collegamento con la rete dei servizi sociali e sanitari. Come a Maniago e Mondragone, dove le persone internate si mescolano e si integrano con le altre persone, usano gli stessi luoghi, fanno le stesse attività, si rivolgono agli stessi operatori. Ed escono, anche se accompagnati, dalla struttura. Solo nelle due Rems dell’Emilia Romagna, a Parma e Bologna, le presenze sono al di sotto dei posti programmati dalla Regione Emilia Romagna nell’unica struttura prevista a Reggio Emilia. E diversamente dalle altre regioni, gli internati provenienti dalla libertà (e non dagli Opg) sono pochi. "La sfida", dicono da StopOpg, "è ridurre in modo significativo il numero di posti di Rems per applicare invece misure di sicurezza alternative alla detenzione, come previsto dalla legge 81 del 2014. E fare sì che le Rems siano tarate sempre di più su una funzione terapeutica riabilitativa e non custodialistica". Il rischio che si trasformino in nuovi Ospedali psichiatrici giudiziari, mascherati sotto altro nome, c’è. Riforma della giustizia in arrivo: come distinguere i cambiamenti reali e gli apparenti di Renato Balduzzi Avvenire, 1 aprile 2016 Le due Commissioni ministeriali incaricate di elaborare proposte di riforma rispettivamente delle norme su ordinamento giudiziario e geografia giudiziaria e sull’organizzazione e il funzionamento del Csm sono prossime a presentare al ministro della Giustizia le relazioni finali dei loro lavori. La valutazione del loro contenuto è ancora prematura, sia perché si tratta di testi in fase di perfezionamento e che sono stati ufficialmente anticipati soltanto nelle grandi linee, sia perché una loro compiuta e utile valutazione richiede la conoscenza di quanto verrà trasfuso in specifici articolati normativi: qui conteranno i dettagli, non soltanto per il motivo che in essi sovente si nasconde (se non il diavolo!) l’intenzione profonda dei promotori, ma soprattutto in quanto abbiamo a che fare con temi largamente affrontati nella discussione pubblica, la cui reale portata innovativa va pertanto rinvenuta e soppesata proprio nella considerazione dei profili puntuali e particolari. Pur con questa necessaria premessa, può essere utile condividere alcuni criteri di valutazione dei cambiamenti che saranno proposti. In primo luogo, va letta e ricostruita con attenzione la situazione di partenza su cui intervenire e le cause delle disfunzioni riscontrate, chiedendosi se e quali di esse abbiano realmente origine nelle disposizioni normative che si vogliono cambiare, per non correre il rischio di modificare regole "innocenti". Sembra una cautela ovvia, ma, storicamente, è proprio qui che inciampano tanti aspiranti riformatori. In secondo luogo, in presenza di proposte con forte impatto sulla situazione esistente (come normalmente sono quelle che incidono sulla distribuzione di procure e tribunali), bisogna distinguere, a fronte di prevedibili critiche e ostilità, tra quelle determinate da preoccupazioni "corporative" e quelle davvero motivate da possibili conseguenze negative sul servizio giustizia. Per scongiurare le tentazioni di cambiamenti apparenti, se non dannosi, un buon criterio di fondo potrebbe consistere nel valutarli alla luce dei princìpi costituzionali di fondo, due in particolare: quello per cui il giudice è soggetto soltanto alla legge e quello per cui i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni. Sono princìpi che appaiono, sempre più, espressione di una saggezza senza tempo, e per ciò stesso rara e cara. Pronti nuovi tagli agli uffici giudiziari e riforma dell’ordinamento giudiziario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2016 Nuovi tagli per gli uffici giudiziari. Riorganizzazione delle procure (comprese quelle generali). Riforma dell’accesso in magistratura, del tirocinio, della mobilità, del conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, delle incompatibilità e dell’ineleggibilità dei magistrati. Ma anche revisione delle modalità di partecipazione dei magistrati ai consigli giudiziari, delle valutazioni di professionalità delle toghe, del trasferimento d’ufficio e degli illeciti disciplinari (compreso il procedimento). La commissione Vietti, istituita presso il ministero della Giustizia, ha concluso i lavori e consegnato al ministro Andrea Orlando un denso articolato di delega. Un pacchetto di proposte ad ampio raggio che spazia da una fase due della geografia giudiziaria (che già allarma gli avvocati) a una riscrittura di elementi chiave dell’ordinamento giudiziario. Sul primo punto resta confermata la volontà di procedere alla riduzione dei distretti di Corte d’appello, tendenzialmente su base regionale, ma sono possibili anche accorpamenti tra Regioni visti i ridotti bacini di utenza di alcune, alla soppressione delle sezioni distaccate e alla conseguente, ulteriore, riduzione, degli uffici di primo grado. Risultato da ottenere attraverso una miscela di ingredienti: estensione territoriale, della popolazione amministrata, indice delle sopravvenienze e dei carichi di lavoro, specificità territoriale del bacino di utenza, situazione infrastrutturale e tasso d’impatto della criminalità organizzata. Oltre a una task force di magistrati da utilizzare negli uffici in maggiore sofferenza, vengono proposte misure riguardanti la specializzazione dei magistrati con la costituzione di sezioni specializzate distrettuali in una o più materie. Al Csm viene fornito uno strumento per realizzare anche nel futuro sezioni specializzate distrettuali su una o più materie, anche asimmetriche sul piano nazionale, fondate sui flussi e sulle esigenze dei territori. Per quanto riguarda le procure si restringe l’area di discrezionalità del procuratore capo, prevedendo tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento sono di natura automatici e rendendo vincolante l’assegnazione della delega al procuratore aggiunto o in sua mancanza, ad altro magistrato per la cura di specifici settori di affari. Rafforzato il ruolo di coordinamento e vigilanza del Procuratore generale della Cassazione, che, per favorire l’adozione di criteri organizzativi omogenei e funzionali da parte dei procuratori della Repubblica è chiamato a coordinare periodiche riunioni tra i procuratori generali presso le Corti di appello con la formulazione di linee guida organizzative da trasmettere al Csm per l’approvazione. L’accesso in magistratura viene riformato attraverso la riscrittura della disciplina delle scuole di specializzazione, la previsione di accesso diretto all’esame per chi ha ottenuto almeno 28/30 negli esami di diritto costituzionale, diritto privato, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, diritto processuale penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo, e un punteggio di laurea non inferiore a 108/110, fra le tre prove scritte viene poi inserita anche la redazione duna sentenza. Sulle valutazioni è stata mantenuta la scansione quadriennale ma ne è aggiunta un’altra dopo la settima nei casi in cui il magistrato non sia stato già positivamente valutato in occasione della presentazione della domanda per altro incarico. Agli elementi di valutazione sono state aggiunte le segnalazioni, sempre di fatti specifici, provenienti dall’ufficio giudicante o requirente corrispondente e dall’ufficio competente per le impugnazioni. Nel trasferimento d’ufficio viene ammessa una procedura d’urgenza con garanzia del contraddittorio e introdotta un’applicazione temporanea per i casi di incompatibilità temporanea. Lotta al terrorismo, per il coordinamento delle informazioni serve più Europa politica di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 1 aprile 2016 Un maggiore scambio di informazioni tra intelligence a livello europeo è un principio giusto, ma il proposito risulta soltanto declamatorio o velleitario se non si compiono passi in avanti nell’integrazione comunitaria. Dopo le stragi di Bruxelles, da parte di dirigenti politici italiani si sono moltiplicate le dichiarazioni favorevoli a un maggiore scambio di informazioni tra intelligence a livello europeo. Il principio è giusto, ma il proposito risulta soltanto declamatorio o velleitario se non si compiono passi in avanti nell’integrazione comunitaria. Se l’Unione europea resta ancorata al modello intergovernativo voluto dai governi europei in questi anni è difficile aspettarsi enormi progressi. Per cooperare di più occorre almeno seguire il modello delle "collaborazioni rafforzate" su singoli campi tra gruppi di Stati, cogliendo l’urgenza del momento come occasione per aumentare sia l’intesa politica sia le sintonie tra articolazioni dei Paesi disponibili. Condividere le informazioni significa mettere in comune uno dei valori più preziosi dei quali dispone un servizio segreto. Se non vengono adottate accortezze, significa accrescere i rischi per agenti, infiltrati e fonti coperte che le hanno procurate. In certi casi, pregiudicare l’esistenza di interi rami di un servizio. Si è visto che cosa ha prodotto un’eccessiva condivisione di informazioni, neanche tutte segrete, alcune semplicemente riservate, all’interno di un solo stato: quando qualunque funzionario della diplomazia statunitense aveva diritto di accesso ad archivi estesi, è bastato poco per far arrivare parte del contenuto a Wikileaks. Bradley Manning era un analista di grado basso nell’intelligence militare mentre nel 2010 scaricava un universo di materiali da una rete informatica classificata. A poco più di vent’anni, fornì al sito di Julian Assange oltre 700 mila file governativi statunitensi, tra i quali relazioni di diplomatici, resoconti su combattimenti, documentazioni su detenuti. Rivelazioni che si sono propagate nel mondo in poche settimane e hanno determinato trasparenza. Lampi di trasparenza, certo, favoriti da un modo di lavorare molto aperto, democratico. Ma le fughe di informazioni che non dovevano diventare notizie hanno anche causato tensioni internazionali e leso il prestigio di una potenza mondiale. È improbabile che un servizio segreto metta a disposizione di un concorrente, per quanto alleato, tutti i suoi "scoop" conquistati nell’ombra. A meno che non si abbia la certezza di giocare nella stessa squadra, e consapevoli di poter essere chiamati a rispondere a un’autorità comune. Frequenti sono gli scambi di informazioni tra due Paesi o gruppi ristretti di Paesi. Gli Stati Uniti ne hanno di sistematici con Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e anche con e tra alcuni partner europei non ne mancano. Occorre tuttavia tenere presente un paio di caratteristiche del mondo dei servizi: una configurazione in compartimenti che spesso devono essere impermeabili tra essi stessi, l’abitudine a spiarsi l’un l’altro (quanto ne rideva Francesco Cossiga quando raccontava di rapporti ormai archeologici tra Sismi e Sisde, italiani). Walter Laquer, studioso della Georgetown University, ha reso in parte l’idea nel descrivere le diffidenze tra altri servizi americani e Cia a fine anni Quaranta: "Il presupposto che una organizzazione burocratica avrebbe condiviso volontariamente le informazioni che raccoglieva con un’altra era contro tutte le regole della politica burocratica, e il concetto che un organismo militare facesse lo stesso con uno civile era ancor più assurdo" (Un mondo di segreti. Impieghi e limiti dello spionaggio, Rizzoli 1986). Per quanto il mondo sia cambiato, alcuni riflessi condizionati restano. A livello comunitario la condivisione di analisi di servizi di Stati europei ha seguito, con ancora più timidezza, il lento e insufficiente sviluppo delle strutture per la politica estera e di sicurezza e difesa comune. Affonda le sue radici negli anni Settanta, nel Trattato di Amsterdam del 1997, nel Consiglio europeo di Colonia del 1999. Il Trattato di Lisbona in vigore dal 2009 ha messo l’ufficio che se ne occupa alle dipendenze dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Oggi il centro chiamato Eu-IntCen (Eu Intelligence Analysis Center) fornisce innanzitutto analisi di intelligence a Federica Mogherini e ai presidenti di Consiglio e Commissione europea. Uno dei suoi ritratti ufficiali mette però con onestà le mani avanti: "Eu-IntCen non è un’agenzia operativa e non ha alcuna capacità di raccolta. Il livello operativo dell’intelligence è responsabilità degli Stati membri. Eu IntCen si occupa solo di analisi strategiche". Basta saperlo: condividere intelligence tra Paesi europei non è un gioco di società. Molte di quelle informazioni si acquisiscono con un gioco per sua natura sporco. E quando si gioca duro occorre giocare in una squadra sola. Condividere intelligence vuol dire più integrazione politica. Non la stessa di adesso, non meno. Abusi in divisa. Cosa è successo a Dino Budroni sul Gra? di Giuliano Santoro Il Manifesto, 1 aprile 2016 Al via il processo d’appello per l’uccisione di Budroni, colpito dalla pistola di un agente. "La verità è più difficile da ottenere, se la controparte indossa una divisa": Claudia Budroni ha perso suo fratello Dino una notte d’estate di cinque anni fa. Con grande dignità e un groppo in gola è comparsa ieri alla Camera, per una conferenza stampa assieme agli attivisti di Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa e al deputato di Sinistra Italiana Daniele Farina. Il fatto risale al 30 luglio del 2011. Dino aveva quarant’anni. Correva sul Grande raccordo anulare, alle sue spalle una pattuglia. Venti chilometri prima, all’inizio della corsa in auto, l’uomo era davanti l’abitazione della sua ragazza, nel quartiere di Cinecittà. Lì si era reso colpevole di quello che il dossier di Acad definisce "un brutto caso di danneggiamento di porte e cancelli, di sms minacciosi e di disturbo della quiete pubblica. Crimini che non prevedono la fucilazione immediata". Invece, alla fine di un rocambolesco inseguimento, nei pressi dello svincolo di via Nomentana, Budroni venne colpito da un proiettile che gli trapassò il polmone e il cuore. Era inerme, disarmato, non poteva fuggire. Secondo la ricostruzione dei legali della sua famiglia ha guardato negli occhi l’agente che lo ha colpito, allora ventottenne. Lunedì prossimo comincia il processo d’appello al poliziotto che ha sparato, dopo che il primo grado è finito con un’assoluzione. La sentenza venne duramente contestata dal pubblico ministero che aveva chiesto la condanna per omicidio colposo. Per la pubblica accusa, la "ricostruzione del fatto" che ha portato all’assoluzione è "contraddittoria e in alcuni punti superficiale". Nel corso della conferenza stampa, l’avvocato Fabio Anselmo ha fatto ascoltare le registrazioni delle discussioni tra gli agenti e i militari dei carabinieri. Voci che aprono squarci di verità e gettano forti dubbi sulla sentenza di primo grado. Attorno ai Budroni c’è aria di accanimento. L’uomo era stato denunciato nel 2010, con l’accusa di aver "rubato" la borsa alla sua ex compagna. L’oggetto venne ritrovato in casa sua assieme ad un fucile e una balestra. Con determinazione quantomeno sospetta, oltre che di dubbio valore legale, Budroni è stato condannato (da morto) a due anni e un mese di reclusione per rapina e detenzione illegale di armi. Mentre chi ha sparato il colpo che lo ha ucciso è stato assolto. Come se non bastasse, i suoi familiari denunciano che la tomba di Dino Bubroni è stata danneggiata per sette volte nel corso di questi anni. L’indignazione dell’opinione pubblica, assieme alle competenze necessarie a ribaltare le perizie e discutere sentenze già scritte, è elemento imprescindibile di questo tipo di campagne. Serve a bucare il muro di gomma dell’impunità e ad accendere i fari della comunicazione. Anche per questo, nei giorni scorsi 10 mila manifesti sono comparsi sui muri della capitale. Hanno ricordato ai romani quest’ennesima storia di abuso in divisa. È l’ennesimo pezzo dell’"anomalia italiana" che solo un paio di settimane fa ha interessato un’audizione al Parlamento europeo, durante la quale Acad ha presentato un dossier assieme ad alcuni dei parenti delle vittime degli abusi polizieschi. "Questa vicenda me ne ricorda una milanese - riflette Daniele Farina. Era il 1986 quando Luca Rossi venne ucciso da un agente della Digos. Da quella tragedia nacque un Libro Bianco intitolato "625", tante erano fino al 1989 le morti causate dalla Legge Reale e dalle legislazioni d’emergenza in vigore in Italia. Tante altre ce ne sono state successivamente, come quella di Dino Budroni. Non sono vicende isolate, c’è una relazione tra di esse. Ci sono metodologie e pratiche da correggere". Petrolio, appalti e l’sms del compagno. Così la ministra Guidi si è dimessa di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 aprile 2016 La chiave della storia è nell’sms che Gianluca Gemelli invia al dirigente della Total Giuseppe Cobianchi il 13 dicembre 2014: "Le confermo che Tempa Rossa è stata definitivamente inserita come emendamento del governo nella legge di stabilità. Buon we. Gianluca". Il governo ha dunque dato il via libera, l’affare si può concludere. Il decreto del governo - Per i magistrati di Potenza è la prova che l’imprenditore "riusciva, per il proprio tornaconto personale e per la buona riuscita dei propri affari, ad utilizzare il ruolo istituzionale ricoperto dalla propria compagna, il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi". Ma non solo. Perché l’ordinanza di arresto dei dirigenti dell’Eni svela come il progetto da realizzare in Puglia fosse in realtà finito all’attenzione di vari membri del governo, tanto che Guidi parla di un accordo con la responsabile per le Riforme Maria Elena Boschi. E negli atti processuali emerge anche il ruolo del sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, che si mette a disposizione di uno degli imprenditori indagati e di alcuni amministratori locali promettendo assunzioni. "Passa l’emendamento" - Entrare nel progetto "Tempa Rossa" per Gemelli - titolare della società "Its Srl" e "Ponterosso Engeneering" - è di vitale importanza. La sua compagna lo sa bene, ma nonostante il suo interessamento, l’emendamento al decreto "Sblocca Italia" che può fornire il via libera, viene bocciato il 17 ottobre 2014. Lei comunque non si arrende. E il 5 novembre, in una telefonata intercettata, lo rassicura: "Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Mariaelena (il ministro Boschi, specificano gli investigatori) quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte". Lui si informa se riguarda i suoi amici della Total: "Quindi anche coso, vabbè i clienti di Broggi". Lei conferma: "Eh certo, capito? Te l’ho detto per quello". "Boschi ha accettato" - Gemelli a questo punto informa i suoi interlocutori, i dirigenti della Total che devono concedergli i subappalti, e all’ingegner Cobianchi dice: "La chiamo per darle una buona notizia... si ricorda che tempo fa c’è stato casino, che avevano ritirato un emendamento... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, pare che ci sia l’accordo con Boschi e compagni... che pare... siano d’accordo tutti...perché la Boschi ha accettato di inserirlo... è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! mi hanno chiamato adesso... e quindi siamo a posto!". Cobianchi mostra soddisfazione: "Mi sta parlando di Taranto? Vabbè intanto la ringrazio dell’anticipazione, speriamo vada a finire così". Anche nei giorni successivi Gemelli "dimostra una conoscenza approfondita delle dinamiche che regolavano le decisioni che avrebbero dovuto essere assunte in seno al Parlamento perché afferma: "Ci stanno provando, ci stanno provando, mi creda, c’è da leggere, ci sarà da leggere lo Sblocca Italia che dovrebbe andare oggi alle sei. Hanno messo la fiducia e quindi speriamo che esce fuori, perché ci sono le correzioni fino all’ultimo secondo. Non si sta capendo niente, mi creda, non si sta capendo nulla"". Riunione dal ministro - Le trattative politiche e imprenditoriali sono evidentemente serrate. Il 19 novembre Cobianchi informa un amico di quanto è accaduto. Annotano gli investigatori: "Fa cenno ad una riunione presso il Ministero per lo Sviluppo Economico (rilevano i chiari riferimenti, alla presenza oltre che del Ministro, anche del sottosegretario Simona Vicari). Nel corso della conversazione, Cobianchi rappresentava che Nathalie (Nathalie Limet, amministratore delegato Total ndr) aveva rappresentato al Ministro il problema su Taranto, e che quest’ultimo aveva riferito che avrebbe convocato le Regioni Basilicata e Puglia per risolvere il problema. Il 26 novembre successivo, commentavano ancora i due, si sarebbero tenute due distinte riunioni, prima con Eni e poi con Total. Cobianchi affermava che il Ministro avrebbe detto che li avrebbe messi ad un tavolo e li avrebbe "stanati". A tal proposito Cobianchi aggiungeva che Pittella era favorevole alle estrazioni". Renzi e Pittella - Il riferimento è al presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella. Del suo ruolo Gemelli parla in una conversazione con Cobianchi. È scritto nell’ordinanza: "Gemelli si soffermava sul ruolo politico assunto da Pittella, e sui contatti "forti" che il fratello di questi, europarlamentare (Gianni ndr), aveva con l’attuale Premier Renzi. E affermava: "ma lui tramite il fratello che è al Parlamento europeo, eccetera, ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che...(ride ndr)... che altri non ci arriverebbero, ma comunque! Speriamo che comunque funzioni questo Sblocca Italia, si sblocca un pochettino tutto, perché guarda che... gli ultimi investimenti che ci sono in Italia sono i vostri, cioè è inutile che stanno andando a guardare a destra e a sinistra... cioè, gli unici investimenti sono quelli sul petrolio e ce li avete voi... poi se vogliamo far fallire il nostro Paese, andiamo avanti così...". Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto a distanza di tempo anche insieme alla propria compagna, il Ministro Guidi Federica, allorché i due avevano appreso da terze fonti la notizia delle indagini in corso da parte della Procura che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori da costui ottenuti in Basilicata)". Le dimissioni di Federica Guidi scelta senza alternative di Antonio Polito Corriere della Sera, 1 aprile 2016 Non potendo smentire la telefonata intercettata, in cui garantisce al convivente che sta per passare un emendamento a suo favore nella legge di Stabilità, Federica Guidi non aveva alternative: doveva lasciare. È infatti venuta meno innanzitutto a un dovere di riservatezza, fornendo informazioni privilegiate: già questa una leggerezza molto grave. Ma soprattutto ha usato il suo potere di pubblico ufficiale quantomeno sapendo di favorire il fidanzato. A sua volta il convivente è accusato di aver utilizzato quell’aiuto per farsi dare un appalto da Total. Più conflitto di interessi di così, è difficile immaginarlo. E questo indipendentemente dall’esito dell’inchiesta giudiziaria della Procura di Potenza, della quale vedremo la robustezza. I pm hanno infatti ipotizzato per Gianluca Gemelli, l’imprenditore convivente del ministro Guidi, il reato di "traffico di influenze illecito", una norma recentemente importata nel nostro diritto dalla controversa legge Severino del 2012. Se si aggiunge che l’affare in questione riguarda lo stoccaggio a Taranto del petrolio estratto in Basilicata a Tempa Rossa, progetto da tempo contestato dagli ambientalisti e dal Comune, che si rivolse anche al Tar per bloccarlo (perdendo), si capisce l’estrema delicatezza politica del caso. Tra l’altro esploso nel clima già rovente del referendum sulle trivelle, che sempre di estrazione di petrolio tratta, seppure in mare. La vicenda è insomma un brutto colpo all’immagine del governo. L’opposizione sta già cavalcando il caso Guidi per lanciare un attacco diretto a Renzi, accusato di essere a capo di un "governo d’affari". E il progetto Tempa Rossa viene accostato a Banca Etruria come esempio di questo presunto "affarismo". Pesa il fatto che nella telefonata Federica Guidi dice al suo fidanzato che l’emendamento passerà se anche il ministro Boschi sarà d’accordo. E l’emendamento è passato. Di qui la richiesta, politicamente molto più insidiosa, che si dimetta anche Maria Elena Boschi. Bisogna però dire che quest’ultima è la titolare dei Rapporti con il Parlamento e tutti sanno che, soprattutto quando si tratta della legge di Stabilità, qualsiasi norma entri nel maxi-emendamento su cui il governo mette la fiducia non può passare senza essere autorizzato prima da quel ministro. In più lo stesso Renzi, qualche mese prima a Taranto, aveva pubblicamente sostenuto il progetto per i suoi effetti positivi sull’occupazione. Per dimostrare una responsabilità personale della Boschi, bisognerebbe dunque dimostrare che era consapevole dell’interesse al provvedimento da parte del fidanzato della sua collega. Cosa possibile, ovviamente, ma tutta da provare. Nel caso di Federica Guidi questa consapevolezza è invece fuori discussione. Renzi non ha dunque potuto avere esitazioni. Se è caduto Lupi, la cui vicenda era molto meno grave, doveva cadere anche Guidi. E se non cadeva subito Guidi, diventava più difficile difendere Boschi. Fin dalla sua nomina nel governo, del resto, la ministra dello Sviluppo economico era stata inseguita dal sospetto del conflitto di interessi, a causa del fatto che è lei stessa un’imprenditrice, figlia di uno dei più importanti imprenditori italiani, Guidalberto. Alla fine è stato il conflitto di interessi del compagno, invece che il suo, a perderla. "Indottrinato dalla ‘ndrangheta". Il Tribunale toglie il figlio al boss di Gaetano Mazzuca La Stampa, 1 aprile 2016 La decisione per "spezzare il ciclo che trasmette ai più giovani l’appartenenza ai clan". A Reggio Calabria in quattro anni allontanati 30 minori appartenenti a famiglie mafiose. Antonio, il nome è di fantasia, ha appena 15 anni. Da mercoledì sera non dorme più nella sua casa in un paesino della Piana di Gioia Tauro. Fino al compimento dei 18 anni vivrà in una struttura comunitaria lontano dalla sua famiglia e dalla Calabria. Lo ha deciso il Tribunale dei minori di Reggio Calabria che ha disposto la decadenza della potestà genitoriale. Il quindicenne, infatti, è figlio di un boss della ‘ndrangheta calabrese. Un personaggio di primo piano nello scacchiere della criminalità organizzata, un capo bastone in grado di condizionare pesantemente ogni attività, non solo economica ma anche amministrativa, nella Piana di Gioia Tauro. Antonio era praticamente un bambino quando il padre iniziò la latitanza che si è conclusa solo qualche mese fa. Un criminale ricercato per anni, così pericoloso che il suo nome figurava nella lista del ministero dell’Interno. Lo hanno trovato nascosto in un bunker nelle campagne non lontano dal suo paese e adesso si trova in un carcere di massima sicurezza. Nel frattempo il figlio 15enne è finito all’attenzione della Procura per i minorenni di Reggio Calabria per uno di quei reati definiti "spia", sintomatici di un indottrinamento mafioso. Finire in carcere, nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato il "destino ineluttabile" di Antonio. Da qui sono iniziati gli accertamenti degli inquirenti che hanno portato al provvedimento di allontanamento del quindicenne per la "prioritaria esigenza di offrire al minore un modello educativo alternativo, diverso da quello fino al momento proposto dagli stretti familiari, ispirato ai sub-valori della cultura ‘ndranghetista". Una misura che il Tribunale calabrese, l’unico in Italia, usa ormai da quattro anni e ha riguardato trenta ragazzi nati in famiglie mafiose e che mira a spezzare il ciclo che trasmette di padre in figlio l’appartenenza ai clan. A eseguire la decisione dei giudici sono stati gli agenti della polizia della Questura di Reggio Calabria guidata da Raffaele Grassi. La mattina del 30 marzo si sono presentati a casa del boss. Un’operazione complessa a cui hanno preso parte anche gli operatori dell’ufficio servizi sociali per i minori del ministero della Giustizia. Tutto si sarebbe svolto senza tensioni. L’adolescente è stato quindi trasferito in una struttura fuori regione dove "sarà affidato - assicurano dalla questura reggina - alle cure e alle attenzioni di operatori professionalmente qualificati a trattare problematiche simili a quelle riscontrate nel giovane". Ci resterà per i prossimi tre anni, fino a quando compirà di 18 anni, e potrà riprendere il percorso scolastico. Antonio adesso ha l’opportunità di crearsi una nuova vita in cui il carcere o la morte violenta non siano le uniche alternative possibili. "La speranza - ci dice il questore Grassi - è che adesso il minore abbia la possibilità di scoprire una realtà diversa rispetto a quella in cui è vissuto fino adesso, che abbia occhi nuovi per scorgere gli altri colori del mondo". La Cassazione chiede alla Consulta di bloccare la Corte Ue sulla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2016 Corte di cassazione, Sezione Terza penale, informazione provvisoria n. 2 del 2016. Si rafforza la tesi contraria alla disapplicazione della disciplina nazionale in materia di prescrizione. La Cassazione ha reso noto ieri, con informazione provvisoria relativa a una decisione della Terza sezione, di avere chiamato in causa la Corte costituzionale per verificare l’obbligo per il giudice italiano di non applicare il Codice penale in materia di durata dei termini di interruzione della prescrizione per le rilevanti frodi Iva. La questione era già stata sottoposta alla Consulta dalla Corte d’appello di Milano, nel settembre scorso, a pochi giorni dalla sentenza della Corte di giustizia europea che ha dato origine alla vicenda. Per prima volta così la Corte costituzionale potrebbe azionare i contro-limiti in materia penale per vanificare le conseguenze di una decisione della Corte Ue. Nell’informazione provvisoria, prassi inconsueta per le pronunce di una sezione semplice, ma applicata proprio per la rilevanza della questione, la Cassazione spiega che "letto l’articolo 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Tfue), nella parte che impone di applicare l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, Tfue, dalla quale - nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 8 settembre 2015, Causa C-105/14, Taricco - discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di Iva, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli articoli 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, Costituzione". Una lunga conclusione in "giuridichese", le motivazioni della quale saranno note tra qualche tempo, per dare sostanza alle perplessità della Cassazione che mette in evidenza come la disapplicazione del Codice penale sul punto ha immediati effetti negativi per l’imputato. Con un processo che si sarebbe estinto per effetto della prescrizione e che invece sarebbe destinato a proseguire. Di qui la sollecitazione alla Corte costituzionale per l’applicazione dei controlimiti che vanificherebbero uno dei cardini della cooperazione, quello che vede la disciplina comunitaria, nell’interpretazione datane dalla Corte Ue, prevalere su quella nazionale. Una questione che oltre a un suo peso specifico, pure assai rilevante e relativo alla materia penale tributaria, ne riveste così anche uno più generale. Nel nuovo falso in bilancio comprese anche le valutazioni di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2016 Il falso in bilancio "valutativo" non è stato abrogato dalla riforma del 2015. Resta in piedi come delitto punito dall’articolo 2621 del Codice civile, ancorché amputato del riferimento alle valutazioni, ogni volta che l’impresa si sia "discostata consapevolmente e senza darne adeguata giustificazione" dai criteri di valutazione fissati dalle norme civilistiche e dalle prassi contabili generalmente accettate, "in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni". Questo è il verdetto pronunciato ieri pomeriggio dalle sezioni unite penali della Cassazione, sul presupposto che il bilancio è il documento contenente tutte le valutazioni sulla vita dell’impresa e sui "fatti materiali" che la riguardano. Pertanto, è impossibile privare di rilevanza penale questa essenziale dimensione valutativa dei conti annuali. La valutazione non può trasformarsi in una scommessa o in pronostico ma dev’essere rigorosamente ancorata ai criteri generalmente riconosciuti in questa materia. Chi voglia disancorarsene deve darne una spiegazione articolata. Si chiude così una brutta pagina politica scritta con la legge n. 69 del 2015, di riforma del falso in bilancio, tanto attesa per il suo significato di rottura politica con il passato quanto imbarazzante per le incertezze prodotte nelle sue prime applicazioni. Incertezze non certo ascrivibili ai capricci dei giudici ma alla precisa scelta del legislatore di demandare proprio ai giudici il compito di stabilire il confine tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che non lo è. Una supplenza a pieno titolo, insomma. Le sezioni unite hanno di fatto restituito credibilità al governo, quanto agli obiettivi perseguiti dalla riforma, ma, soprattutto, gli hanno evitato la responsabilità di un colpo di spugna sui processi in corso, e persino su quelli già conclusi con una condanna definitiva per falso valutativo. Questo, infatti, sarebbe stato l’esito di un verdetto che avesse confermato l’interpretazione della parziale abrogazione del falso valutativo, basata, peraltro, sul dato testuale della nuova norma. Un esito che nessun decreto legge postumo avrebbe mai potuto evitare. L’incertezza prodotta dalla riforma del 2015 è fotografata dalle quattro sentenze che si sono alternate sul nuovo articolo 2621 del Codice civile che, quanto alle false comunicazioni sociali, non contiene più l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni". Un’amputazione frutto di un emendamento governativo ambiguo mai illustrato in Parlamento e quindi fonte di dubbi sulla permanenza o meno del "falso valutativo" nel perimetro della punibilità. Due sentenze della Cassazione (n. 33774/2015 e 6916/2016) hanno sostenuto la parziale abrogazione del reato, mentre altre due hanno detto il contrario (la n. 890/2015 e un’altra depositata l’altro ieri). La Procura generale presso la Cassazione, invece, ha sempre sostenuto la linea della "continuità normativa" tra la precedente e la successiva formulazione. Ma tant’è: le continue oscillazioni interpretative hanno reso urgente l’intervento delle sezioni unite per stabilire, una volta per tutte, se dopo la riforma Renzi il "falso valutativo" sia ancora reato. L’udienza si è svolta ieri mattina e il collegio (presieduto dal primo presidente Gianni Canzio e composto dai giudici Fumo, Conti, Fidelbo, Vessichelli, Ramacci, Diotallevi, Fiale, Bianchi) ha letto il verdetto nel pomeriggio, diffondendo la seguente "informazione provvisoria": "Il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo all’esposizione o all’omissione di fatti oggetto di "valutazione", sussiste se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente si discosti da tali criteri consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni". I criteri sono contenuti negli articoli del Codice civile (2423-2435-ter), integrati dai principi contabili nazionali emanati dall’Organismo italiano di contabilità (Oic) nonché dai principi contabili internazionali Ias/Ifrs recepiti da una direttiva europea. Tra l’altro, il ricorso ai principi contabili favorisce la dimostrabilità e la percorribilità ex post del percorso valutativo seguito, nell’eventualità di un vaglio giudiziale in caso di impugnazione del bilancio e di azioni di responsabilità verso gli amministratori fondate su irregolarità contabili. Insomma, le sezioni unite non si sono fatte condizionare né si sono impiccate alla formulazione letterale della norma "galeotta" ma hanno seguito un’interpretazione sistematica, l’unica, aveva detto in udienza la Procura generale, "costituzionalmente orientata", ovvero rispettosa degli articoli 41 e 42 della Costituzione. Seguendo questo percorso, la Corte ha potuto ricostruire "il senso" della norma che ha tenuto per mesi con il fiato sospeso il mondo politico e dell’economia. Dal giudice di pace la "tenuità" del fatto non si applica di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 13093/2016. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del codice penale, introdotto dal dlgs 28/2015) non si applica ai procedimenti davanti al Giudice di pace. In tali processi "bagatellari" può trovare spazio solo la diversa e specifica "esclusione della procedibilità" prevista dalla legge istitutiva del Gdp (dlgs 274/2000). La Quinta penale della Cassazione con la sentenza 13093/16, depositata ieri, ripercorre tutte le tappe più recenti dell’incrocio tra le due distinte procedure, dal precedente della Sezione feriale (38876/15) alla decisione della Corte costituzionale 25/15 che ammette un utilizzo "discrezionale", da parte del legislatore, della tenuità del fatto (legittimando in quel caso la mancata previsione dei benefici della "tenuità" per l’omicidio colposo stradale). La questione torna d’attualità grazie all’impugnazione del Procuratore generale di Roma contro la sentenza del giudice di pace di Palestrina che aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti di un imputato quarantenne. Secondo la Quinta, che ha disatteso le stesse conclusioni del sostituto procuratore generale d’udienza, il ricorso è fondato per un dato testuale: il giudice di pace dispone di una "tenuità" propria (l’articolo 34 del dlgs 274/2000) che è sostanzialmente diversa da quella introdotta lo scorso anno nel Codice penale. Il fatto, per il Gdp, "è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato". Il Gip, invece, può avallare il non doversi procedere per i reati puniti fino a 5 anni di carcere quando "per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo,(...) l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale". Presupposti diversi, ambiti diversi e ruoli delle parti processuali diversi nei due istituti, argomenta la Quinta, non consentono un’indebita sovrapposizione. Tantopiù che, in fase di discussione parlamentare della legge sul Gdp, la Commissione giustizia della Camera aveva sottolineato l’opportunità di coordinare le due "tenuità", invito però caduto nel vuoto. Il fascicolo, per una prevedibile nuova e corretta "esclusione della punibilità" torna così al Gdp di Palestrina. Campania: "I diritti umani dei detenuti", forum al Consiglio Regionale pupia.tv, 1 aprile 2016 Come garantire una dignità che deve essere propria degli esseri umani anche all’interno degli istituti penitenziari italiani? Questo uno degli interrogativi che ha portato il forum nazionale dei giovani a istituire un gruppo di lavoro sulla situazione carceraria ed a elaborare un report che sarà presentato in tutta Italia nei prossimi mesi. Il primo appuntamento di questo tour si è tenuto nella sede del Consiglio regionale della Campania, alla presenza del presidente del consiglio regionale Rosa D’Amelio, dei consiglieri regionali Gianpiero Zinzi, Enzo Maraio e Bruna Fiola, dei componenti del gruppo di lavoro Luigi Iorio e Virgilio Falco e della Garante dei detenuti, Adriana Tocco. "Nell’ultimo decennio", afferma il coordinatore del gruppo di lavoro, l’avvocato Luigi Iorio, "l’aumento della popolazione penitenziaria italiana ha generato un forte sovraffollamento degli istituti di pena che ha contribuito ad un notevole deterioramento delle qualità della vita dei detenuti, già provati per le condizioni di limitata libertà. In un passato recente in una cella, dove sarebbe previsto il soggiorno di soli due detenuti, ve ne alloggiavano normalmente sei e, nel peggiore dei casi, otto. Questa condizione ha favorito il proliferare di malattie, una vera e propria emergenza sanitaria anche per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere. Situazione che ha visto condannare l’Italia dalla Cedu". "Nell’ultimo periodo - continua Iorio - le cose sono certamente migliorate. Il sovraffollamento carcerario degli ultimi decenni ormai sembra attenuato anche grazie agli interventi recenti del ministro della giustizia Andrea Orlando e dall’intervento dalla suprema Corte costituzionale che ha cassato una legge restrittiva come la Fini-Giovanardi. Attualmente sono 52.846 i detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.504 posti a disposizione nei 195 carceri nazionali. Altro dato su cui ci siamo soffermati è sulla percentuale di stranieri sulla popolazione carceraria che è del 32 per cento. In Europa ci si ferma al 14 per cento. Altro capitolo, quello che riguarda i minori". "I detenuti presenti negli Istituti Penali per Minorenni al 28 febbraio 2015 sono 407, di cui 168 (il 41 per cento) stranieri - spiega Iorio. Tra i detenuti presenti, 175 in attesa di giudizio, vale a dire circa il 43 per cento del totale. Infine vi è la spiacevole problematica legata alle mamme detenute. Ci sono bambini che scontano la pena insieme alle loro madri. Notizia positiva è la chiusura degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari istituiti in Italia a metà degli anni settanta con il fine di sostituire i vecchi manicomi criminali. Purtroppo però non tutte le nuove strutture denominate Rems sono funzionanti". Per il futuro, sottolinea Iorio, "occorre abolire il reato di immigrazione clandestina e intensificare la possibilità del rimpatrio dei detenuti stranieri nel proprio paese di origine. Serve poi sollecitare le regioni e i comuni capoluogo a nominare più celermente i garanti dei detenuti; prevedere delle attività formative all’interno delle carceri che offrano l’opportunità di acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro: si pensi semplicemente, ad esempio, all’insegnamento della lingua inglese o dell’informatica". "Dal punto di vista dell’esecuzione della pena - conclude il coordinatore - occorre porre l’attenzione sulla carenza di magistrati di sorveglianza, tale carenza limita i diritti dei detenuti e le loro istanze, materia di pertinenza del Csm, implementare la vigilanza dinamica, colloqui educativi e migliorare ancor di più le condizioni di vita dei detenuti come affermato nei motivi della sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del gennaio 2013. Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, informata ai valori costituzionali e in linea con le risoluzioni internazionali migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di soffrire una doppia pena: quella sociale che si somma a quella penale". Campania: la Garante dei detenuti "tre metri cubi di aria e visite mediche chimera" di Giancarlo M. Palombi Metropolis, 1 aprile 2016 Report sullo stato di salute delle strutture carcerarie campane. Adriana Tocco: "Sono oltre 3 mila i detenuti in esubero". Se fosse una fotografia, i toni sarebbero quelli del bianco e nero. Sfumature di grigio ancora lontane dal colore. Eppure in Campania la situazione delle carceri sembra far registrare un primo timido miglioramento. Il dettaglio emerge dalla relazione illustrata dai componenti del Forum Nazionale dei Giovani, un dossier frutto di tre anni di lavoro e di elaborazione dei dati. A puntualizzare i dati sul fronte campano, la garante dei detenuti, Adriana Tocco, e i consiglieri regionali Gianpiero Zinzi, Enzo Maraio e Bruna Fiola. "Situazione penitenziaria", "Prospettive future", "Contesto europeo" e "Conclusioni" i punti del report. Un tema, quello delle carceri, spiega Luigi Iorio, coordinatore del gruppo di lavoro "spinoso e dimenticato dalla politica perché il tema dei diritti umani e delle carceri fa poco consenso". La situazione "nazionale e quella regionale - prosegue - è in netto miglioramento rispetto al passato quando la Sentenza Torreggiani portò l’Italia in infrazione a seguito della condanna della Ue. Una situazione migliorata a seguito delle due ultime riforme, quella del Governo Letta e del Governo Renzi, ma sulla quale ancora molto c’è da fare". Tra le priorità, segnala ancora l’avvocato e coordinatore del gruppo di lavoro, "migliorare la condizione delle carceri e soprattutto nominare il garante dei detenuti in tutte le città metropolitane e in tutti i capoluoghi d’Italia". Proprio come ha fatto la Campania con la nomina di Adriana Tocco che ha spiegato come in regione la situazione sia molto migliorata con una riduzione del numero dei detenuti e con uno spazio loro assegnato "non inferiore ai 3 metri quadri, come del resto in tutta Italia". Il maggior problema spiega ancora Tocco "è la salute perché per i detenuti è molto difficile ottenere visite specialistiche e ricoveri in ospedale che spesso spingono gli stessi detenuti ad intraprendere lo sciopero della fame con il conseguente aggravarsi delle condizioni di salute". Al momento - si legge nel report - "su tutto il territorio nazionale le strutture penitenziarie accolgono una popolazione pari a 52.S46 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49504 posti a disposizione nei 205 carceri nazionali", un esubero di 3.342 detenuti. Veneto: l’Ulss 6 coordina progetto regionale di prevenzione del suicidio in carcere vicenzapiù.com, 1 aprile 2016 Sono circa 50 ogni anno i suicidi nelle carceri italiane, e il problema non riguarda solo il nostro Paese naturalmente: il tasso di suicidi in carcere è ovunque elevato e costante nel tempo, superiore a quello della popolazione in generale. La capacità del sistema sanitario e del sistema penitenziario di integrarsi, di approfondire la conoscenza del fenomeno e di adottare strategie di prevenzione costituisce dunque un obiettivo prioritario. Anche l’Oms ha fornito fin dal 2007 alcune importanti indicazioni per la prevenzione del fenomeno, tra le quali due in particolare possono costituire il punto di partenza per creare una comune sensibilità di chi opera in carcere e migliorare la comprensione del disagio dei detenuti. La prima riguarda l’organizzare di corsi specifici di addestramento (e di aggiornamento) per il personale di Polizia Penitenziaria e per gli operatori sanitari, per aiutarli a riconoscere i detenuti a rischio suicidio; il secondo suggerimento tocca invece i temi della comunicazione e dello scambio di informazioni tra il personale sanitario e penitenziario sui soggetti a rischio. Su queste basi, con delibera del 2013, la Regione Veneto ha finanziato un progetto di Prevenzione del Suicidio in Carcere e negli Istituti Minorili, affidandone il coordinamento sul piano scientifico all’Unità Operativa Sanità Penitenziaria dell’Ulss 6 Vicenza. Dopo due anni di lavoro, i risultati vengono presentati oggi a Vicenza, in occasione di un convegno rivolto a tutti gli operatori del sistema penitenziario regionale. "Si tratta di un progetto di grande rilievo - sottolinea il dott. Salvatore Barra, direttore dei Servizi Sociali e della Funzione Territoriale dell’ULSS 6 - sia per la delicatezza del tema, sia per la complessità dell’ambiente sul quale si è intervenuti, che come noto è sottoposto a pressioni molto forti in termini di numero di detenuti rispetto alle caratteristiche delle strutture, difficoltà delle situazioni personali dei detenuti e complessità nell’attuazione di efficaci percorsi di recupero. Con questo lavoro portiamo un contributo importante, anche nell’ottica di uniformare i protocolli di prevenzione tra i diversi istituti di pena". Gli obiettivi del progetto - Obiettivo del progetto era in particolare migliorare le conoscenze del personale che opera in carcere sul rischio suicidio e i comportamenti autolesionisti in genere, monitorandone allo stesso tempo le condizioni di stress lavorativo. Parallelamente, l’iniziativa era finalizzata alla costituzione di un gruppo di "esperti facilitatori" composto da personale sanitario e penitenziario che - dopo la fase formativa - collabori attivamente nella stesura e attuazione di un piano di prevenzione nei vari istituti di pena della regione e più in generale sia di riferimento per successive iniziative all’interno delle varie strutture. I fattori di rischio - "All’interno dell’ambiente carcerario - spiega il dott. Stefano Tolio, responsabile dell’U.O. Sanità Penitenziaria dell’Ulss 6 Vicenza e coordinatore del progetto - c’è davvero una grande concentrazione di possibili fattori di rischio. Ad esempio il fatto di avere alle spalle esperienze di abbandono o violenze nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza, piuttosto che l’essere affetti da disturbi antisociali e manifestare comportamento border line, fino alle patologie psichiatriche vere e proprie, in primis la depressione. Anche i disturbi cognitivi possono essere un fattore significativo, sia quelli congeniti sia quelli acquisiti, magari a seguito di una lunga storia di tossicodipendenza. Un altro tema molto sentito è la solitudine, per quei detenuti che non hanno al di fuori del carcere un nucleo familiare o comunque un contesto sociale di riferimento. E vi è poi il problema della dipendenza dalla droga. Anche la posizione giuridica può essere un fattore significativo: risultato più a rischio ad esempio i soggetti che sono appena entrati in carcere o al contrario quelli che sono in carcere già da molti anni e hanno davanti a sé ancora un tempo molto lungo di detenzione, così come a rischio risultano essere i detenuti ancora in attesa di giudizio. Questi sono tutti fattori di rischio riconosciuti in letteratura ed è facile intuire come in un carcere, per una serie di situazioni, si ritrovino in una concentrazione del tutto fuori dall’ordinario, al punto di poter dire che risultano a rischio di suicidio tra il 50 e il 60% dei detenuti". Il ruolo degli operatori - A fare la differenza, nel concretizzarsi o meno di questi fattori fino alle estreme conseguenze, è l’ambiente. "Il carcere - sottolinea ancora il dott. Tolio - può esasperare o contenere questo rischio e va sottolineato come questa sia una responsabilità che tocca tutti gli operatori". Partendo da questa premessa, il progetto regionale di prevenzione ha quindi voluto intervenire proprio sull’elemento ambientale, ovvero sul personale che opera nelle carceri. Monitoraggio e formazione degli operatori - A questo scopo è stata condotta una ricerca preliminare sugli operatori al fine di indagare, mediante un questionario con risposte volontarie e anonime, la condizione di chi lavora all’interno delle carceri venete e la loro opinione personale sul suicidio. Al questionario ha risposto un campione molto ampio, data la delicatezza del tema: circa 360 operatori sui 1.600 dipendenti del sistema carcerario regionale. "I risultati hanno confermano tutta la difficoltà di svolgere questo lavoro, come evidenziato dagli elevati livelli di stress riscontrati. Livelli che risultano maggiori in particolare, come prevedibile, tra chi ha un’esperienza lavorativa ancora ridotta o al contrario è più vicino alla pensione". La seconda fase del progetto ha visto l’organizzazione di una specifica attività di formazione e prevenzione rivolta direttamente al personale penitenziario e sanitario, mediante incontri nelle singole carceri per approfondire i fattori di rischio del suicidio e para-suicidio e il riconoscimento dei soggetti con un’elevata probabilità di compiere gesti autolesionisti. Valle d’Aosta: il Difensore civico "grave assenza direttore per il carcere di Brissogne" Ansa, 1 aprile 2016 "Il problema più grave del carcere di Brissogne (Aosta) è la mancanza di un direttore titolare del carcere che fa sì che il Garante venga percepito come punto di riferimento esclusivo per tutte le problematiche carcerarie". Lo ha detto il difensore civico della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, facendo il punto sull’attività svolta come Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. L’istituto penitenziario valdostano ha una popolazione carceraria di 169 unità a fronte di una capienza di 181 posti, con circa 100 detenuti stranieri. "La verità - spiega - e che sono stati fatti diversi interpelli, ma nessuno vuole trasferirsi in Valle d’Aosta". Altra lacuna lamentata da Formento Dojot è la carenza di personale socio-assistenziale ("Ci sono solo due assistenti sociali part-time, una delle quali con contratto in scadenza") e la difficoltà di reperire risorse per avviare progetti di recupero delle persone. "Le attività del panificio e della lavanderia all’interno del carcere proseguono tra alti e bassi - ha spiegato il Garante - e a breve partiranno altri due progetti, uno per la cura delle aree verdi e l’altro di orientamento professionale. Non si deve pensare al carcere come a una struttura punitiva, l’esempio deve diventare l’istituto di Milano Bollate, un carcere modello con custodia attenuata che vede il coinvolgimento di tutti i detenuti nelle attività, con una grande attenzione alla loro situazione e la conseguente responsabilizzazione degli individui". Ferrara: i Radicali "la magistratura di sorveglianza ha sospeso i colloqui con i detenuti" estense.com, 1 aprile 2016 L’allarme dai Radicali, in visita in via Arginone. E Zamorani chiede più percorsi di reinserimento lavorativo. "Da quasi due anni la magistratura di sorveglianza ha sospeso i colloqui con gli avvocati e i detenuti nelle carceri: è un problema molto grave a livello di diritti civili". Questo è l’allarme lanciato dai Radicali di Ferrara, che questa mattina si sono recati nella casa circondariale di via Arginone per una visita della struttura, assieme al garante dei detenuti Marcello Marighelli, all’avvocato Alessandra Palma e alla consigliera comunale Pd Ilaria Baraldi. Una visita da cui secondo lo storico leader dei radicali ferraresi Mario Zamorani emerge un sostanziale miglioramento nelle condizioni dei detenuti, ma che si scontra con i problemi di disponibilità della magistratura di sorveglianza e con un approccio generale ancora poco efficace sul piano della rieducazione e del reinserimento sociale. "Le carceri sono finalizzate alla rieducazione - afferma Zamorani, ma in Italia salvo rari casi questo non avviene". E il risultato traspare dai numeri: "In Norvegia, dove il sistema carcerario è completamente diverso da quello italiano - continua il radicale - la percentuale di recidiva (persone che tornano a delinquere una volta terminata la pena, ndr) è inferiore al 20%, mentre in Italia viaggia attorno al 70%. La rieducazione conviene soprattutto a chi sta fuori dal cercare e bisogna raggiungerla anche attraverso strumenti e percorsi di reinserimento lavorativo". Su questo fronte la situazione ferrarese è migliore rispetto a quella di altre case circondariali italiane, anche grazie alla normalizzazione del numero di detenuti (scesi negli ultimi due anni a circa 330, dopo aver toccato anche le 550 presenze nel 2012) che rende meno caotico il lavoro della polizia penitenziaria e di tutti gli organi di sorveglianza. "Rispetto ad altre visite passate - afferma l’avvocato Palma - abbiamo notato dei progressi: oggi ci sono alcuni corsi professionali già avviati e altri in preparazione. Continua però a esistere un problema con la magistratura di sorveglianza, che in questo momento va al rallentatore. Siamo di fronte a ritardi anche di 6 mesi per l’accoglimento di istanze urgenti: è un problema serissimo e che comporta una situazione di paralisi". La consigliera comunale Ilaria Baraldi dal canto suo punta a portare una delegazione dei partiti ferraresi tra le mura di via Arginone per avviare un confronto più diretto con i detenuti: "I percorsi di reinserimento lavorativo possono passare anche attraverso strumenti come i corsi di formazione professionale. Qui ci sono persone che cercano di costruirsi una seconda possibilità ed è giusto che la città conosca la loro situazione". Bologna: aggressore tassista morto in carcere, trovata droga nella sua cella Il Resto del Carlino, 1 aprile 2016 Una piccola dose di eroina, nascosta dietro un letto a castello. Sentiti i detenuti che erano in cella con l’uomo. C’era della droga, una piccola dose di eroina, nella cella dove era rinchiuso insieme ad altri detenuti Carlo Bellotti, il tossicodipendente 54enne che venerdì notte aveva aggredito un tassista con un martello. Bellotti è stato trovato morto domenica mattina: secondo i primi risultati dell’autopsia si è trattato di un arresto cardiaco. Saranno gli esami tossicologici e istologici, attesi nelle prossime settimane, a togliere l’ultimo alone di dubbio sulla morte di Carlo Bellotti, il 54enne di origini ferraresi ma senza fissa dimora deceduto la notte di Pasqua in carcere dopo essere stato arrestato, il giorno prima, per avere aggredito un tassista con una piccozza. L’autopsia eseguita mercoledì sera sul corpo di Bellotti dall’anatomopatologa Sveva Borin ha identificato l’arresto cardiaco come causa della morte. Ciò che deve essere chiarito, però, nell’ambito dell’inchiesta per omicidio colposo a carico di ignoti aperta dal pm Michele Martorelli, è se l’arresto cardiaco sia stato indotto dall’eventuale assunzione di stupefacenti. Nell’ambito degli accertamenti, infatti, è stata rinvenuta nella cella di Bellotti, che condivideva con due stranieri, una dose di eroina nascosta dietro a un letto a castello. I due compagni di cella sono già stati sentiti e avrebbero riferito di aver fumato solo sigarette la sera prima. Ulteriori accertamenti sono stati disposti anche su un farmaco trovato in cella e che in un primo momento era parso metadone. "Purtroppo non è da escludere che in carcere circoli della droga - afferma il coordinatore provinciale della Uil Polizia Penitenziari Domenico Maldarizzi. Il personale è sempre meno, mezzi tecnologici non ne abbiamo, così come le unità cinofile vengono sporadicamente a Bologna". Sondrio: dimissioni del Garante dei detenuti, interviene il Provveditore Pagano La Provincia di Sondrio, 1 aprile 2016 Il professore Francesco Racchetti si dimette e il provveditorato regionale della Lombardia gli chiede di tornare sui suoi passi. Varca i confini comunali e anche quelli provinciali il "caso" del garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale che martedì ha rimesso il mandato durante il consiglio comunale di Sondrio, a fronte "dell’impossibilità nello svolgere il proprio ruolo dopo l’arrivo a Sondrio della nuova direttrice del carcere Stefania Mussio". Ricevuta la comunicazione circa le dimissioni dall’incarico, il provveditore Luigi Pagano "non ritenendo ammissibile disperdere il valore delle azioni congiuntamente intraprese" ha chiesto a Racchetti di rivedere la propria posizione "in virtù della cooperazione da tempo offerta, a vario titolo, tanto nelle attività promosse a sostegno delle persone detenute e del loro rientro in società, quanto nella costruzione di un rapporto proficuo tra l’istituto penitenziario di Sondrio e la comunità cittadina". Proprio perché il lavoro del garante non vada perso, il provveditore regionale ha fissato un incontro con Racchetti a Milano, il 6 aprile "per esaminare la situazione e valutare congiuntamente possibili soluzioni atte a garantire il pieno rispetto dei reciproci ruoli". Milano: i frutti del "Progetto Sicomoro", un laboratorio di scrittura del carcere di Opera 7giorni.info, 1 aprile 2016 Dal laboratorio di scrittura del carcere di Opera, ecco l’elaborato "Sette Anime" di F.P. dedicato alle 7 giovani studentesse italiane morte in un incidente in catalogna. Peschiera Borromeo, la cittadina Elisabetta Cipollone da molto tempo collabora al progetto "Sicomoro" con il carcere di Opera. In Italia, l’Associazione PFIT ha cominciato a sviluppare diversi programmi per la rieducazione dei carcerati: primo fra tutti proprio il Progetto Sicomoro. Esso punta ad un inserimento nella realtà carceraria che non si fermi a considerare la deriva morale e culturale del detenuto, ma parta dalla sua condizione di uomo a cui offrire una possibilità di vero riscatto e di proficuo reinserimento nelle nostre comunità civili. I carcerati incontrano le vittime, confrontandosi in un percorso di reciproca immedesimazione e conoscenza. I detenuti svolgono inoltre alcuni laboratori, ad esempio di scrittura, e spesso riservano piacevoli sorprese, come nel caso dello scritto di F.P. "F.P. è un detenuto - spiega la madre della giovane vittima della strada Andrea De Nando - con il quale lo scorso anno avevo affrontato tutti gli incontri di giustizia riparativa del Progetto, F. che per me è ora un amico con il quale ci confrontiamo spesso per via epistolare, chiede di rendere pubblico questo suo scritto e, per me, Mamma di Vittima della Strada, è stato particolarmente emozionante ricevere una così alta espressione di solidarietà e di empatia verso coloro che perdono la loro vita nelle stragi stradali". Di seguito l’elaborato dal titolo "Sette Anime": "Sette anime (Catalogna, 21 marzo 2016). All’imbrunire di questo primo giorno di primavera osservo il cielo dalla griglia del mio spazio metallizzato. Penso al tepore dei giardini di marzo, ai campi appena sbocciati e a un’altra stagione da vivere dietro le quinte. Poi uno schiaffo ferisce il mio cuore. Gli occhi fissano alla televisione sette fiori prematuramente strappati a una terra impoverita. Mi chiedo: "Perché piango?". Non vi conoscevo, non sapevo nulla delle vostre vite. Eppure sono qui a scrivere di voi. Penso a chi non si rassegnerà mai a non sentirsi più chiamare "Papà", "Mamma"; sentirsi sussurrare "Ti voglio bene"; incrociare il vostro sorriso; gradire il tatto delle vostre mani; inabissarsi nel colore dei vostri occhi; apprezzare il peso di un corpo che riempiva le case al ritorno da una breve vacanza. Come affrontare adesso la quotidianità? Stanze, armadi pieni d’indumenti, pareti imbastite di foto invocheranno le vostre presenze mentre il tempo si fermerà per la memoria. Si cercherà dai vostri radiosi profili di coronare un inutile sogno: ascoltare due parole… "Sono qui"… per capire che era solo un incubo. Quando invece proprio l’incubo era all’inizio. E dopo questa Santa Pasqua non vi saranno resurrezioni. Sette anime: eravate lì solo per iniziare a costruire il vostro credo, realizzare il cielo degli ideali. Ma da oggi troppo presto siete lassù ad accompagnare per l’eternità chi vi ha dato la vita, stimate, amate. Appunto, l’eternità: un mare nel quale un detenuto, ma pur sempre un uomo, un padre, ha versato una lacrima d’inchiostro intriso di dispiacere per voi. Elisa V., Lucrezia, Elena, Francesca, Serena, Elisa S. Valentina… Sette angeli, Sette anime che saranno lì a ricordarmi di voi quando alzando gli occhi al cielo ammirerò i sette colori dell’arcobaleno. F.P. a nome del Laboratorio di lettura e scrittura creativa della Casa di reclusione di Milano-Opera". Milano: corso di formazione sul pluralismo religioso per agenti di Polizia penitenziaria di Francesco Morrone agensir.it, 1 aprile 2016 Oltre 150 agenti della polizia penitenziaria che lavorano nelle carceri della Lombardia, in particolare in quelle di Milano, parteciperanno a un seminario di tre giorni incentrato sul dialogo interreligioso e sulla libertà di culto. L’iniziativa, promossa dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria insieme alla Caritas ambrosiana, è stata presentata negli uffici del carcere milanese di San Vittore. I drammatici attentati di Bruxelles e Parigi hanno confermato ancora una volta come i fenomeni di radicalizzazione non abbiano per forza di cose le loro radici nelle moschee; occorre invece interrogarsi sul rapporto tra "manovalanza" del terrorismo, carcere e ambienti legati alla criminalità. In questo senso allora gli istituti di pena diventano spesso un luogo dove l’estremismo religioso può trovare terreno fertile per i futuri terroristi. È per questo motivo che a Milano è nata un’iniziativa rivolta alle guardie carcerarie di alcuni istituti penitenziari, affinché possano approfondire il tema del pluralismo religioso. Oltre 150 agenti della polizia penitenziaria che lavorano nelle carceri della Lombardia, in particolare in quelle di Milano, parteciperanno a un seminario di tre giorni incentrato sul dialogo interreligioso e sulla libertà di culto. L’iniziativa, promossa dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria insieme alla Caritas ambrosiana, è stata presentata ieri negli uffici del carcere milanese di San Vittore. Alla conferenza stampa di presentazione hanno partecipato i rappresentanti delle principali comunità religiose, a conferma che il radicalismo è una questione che non riguarda soltanto l’Islam, ma anche tutte le altre religioni. Oltre a Caritas ambrosiana, infatti, sono partner dell’iniziativa la diocesi di Milano, la Comunità ebraica di Milano, la Comunità religiosa islamica italiana e l’Università del Sacro Cuore. Fanatismo. "In Lombardia, su un totale di 7.826 detenuti, 3.630 sono stranieri - ha affermato Francesca Romana Valenzi, direttrice dell’Ufficio detenuti e trattamenti del Provveditorato della Regione Lombardia. In pratica stiamo parlando del 46,38%. Perciò non basta riflettere sull’immigrazione e sui fenomeni religiosi del proselitismo: bisogna anche iniziare a coinvolgere gli agenti attraverso un vero percorso di formazione". Nel nostro Paese sono più di 200 i detenuti sotto osservazione perché possibili estremisti, perciò non stupisce la scelta di fornire agli operatori dell’istituzione carceraria tutti gli strumenti necessari a comprendere le diverse sensibilità. Non solo per prevenire atteggiamenti tendenti al fanatismo, ma anche per evitare che i soggetti più a rischio si lascino attrarre dai predicatori che usano i luoghi di detenzione come terreno di conquista. "La conoscenza delle diverse pratiche religiose deve entrare a far parte del bagaglio di competenze degli operatori che prestano servizio negli istituti - ha detto monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, carità, azione e missione sociale e presidente di Caritas ambrosiana. Il carcere accoglie persone di tutte le etnie e di tutte le religioni ed è fondamentale che proprio questo luogo diventi un laboratorio di integrazione dove si sperimentano l’integrazione e il rispetto della diversità". Dimensione religiosa. Alla presentazione dell’iniziativa, oltre a mons. Bressan, erano presenti il rabbino David Sciunnach e Hamid Di Stefano, membro della Comunità religiosa islamica italiana. Proprio quest’ultimo, ha voluto ribadire l’importanza di studiare la religione che, come indicato dall’ordinamento penitenziario, è uno dei fattori del reinserimento sociale a cui deve puntare l’esecuzione della pena. "Come la storia degli attentatori dimostra, i fenomeni di radicalizzazione non nascono nelle moschee, ma nelle criminalità - ha spiegato Hamid Di Stefano - e visto che proprio in carcere arrivano persone che provengono da percorsi criminali, è su questo luogo che dobbiamo rivolgere il nostro sguardo". Il corso, rivolto agli oltre 150 agenti della polizia penitenziaria degli istituti della Lombardia, partirà il 6 aprile e sarà tenuto da un gruppo di docenti di differenti fedi e culture. Tra questi, figura anche Paolo Branca, islamista, professore di lingua e letteratura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e collaboratore della diocesi per il Servizio ecumenismo e dialogo. Proprio Branca, che aprirà il seminario con una lezione dal titolo "Esperienza religiosa e maturazione umana", ha ribadito più volte l’importanza di usare l’arma delle conoscenza contro ogni tipo di radicalizzazione. "Capire meglio le diverse culture, così come le religioni, è diventato un esercizio sempre più necessario - ha detto durante la conferenza - specialmente in questo periodo, in cui la fede è percepita come qualcosa di negativo, perché associata a violenza e radicalismo. Ma la dimensione religiosa, al contrario, è un elemento positivo e rappresenta il principio fondamentale alla base di tutte le comunità". Lecce: carcere di Borgo San Nicola, appello del Sappe "stop alle visite mediche esterne" Corriere del Mezzogiorno, 1 aprile 2016 Il sindacato della polizia penitenziaria scrive al prefetto e rievoca il pericolo di fuga dei detenuti scortati fuori i penitenziario. Struttura è dotata di costose apparecchiature. Il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, lancia l’allarme su quanto accade nel carcere Borgo San Nicola di Lecce, da dove i detenuti continuano ad essere trasferiti nelle strutture sanitarie esterne, malgrado il penitenziario sia stato dotato di costose apparecchiature mediche e diagnostiche. Pilagatti, che chiede l’intervento del prefetto di Lecce, Claudio Palomba, rievoca l’evasione dell’ergastolano Fabio Perrone, scappato dall’ospedale Vito Fazzi il 6 novembre scorso mentre si stava sottoponendo a un esame endoscopico. Perrone, che era detenuto a Borgo San Nicola, fu poi catturato il 9 gennaio 2016. "Nonostante i tragici eventi del novembre scorso, con l’evasione del detenuto Perrone dall’ospedale di Lecce, che tanta paura ha generato nell’opinione pubblica, a tutt’oggi l’Asl di Lecce continua a tenere atteggiamenti quantomeno superficiali - osserva Pilagatti - nel trattare la materia della sanità penitenziaria e il ricorso a strutture esterne per curare i detenuti. Infatti, a tutt’oggi, giacciono inutilizzate presso il carcere di Lecce apparecchiature sanitarie costate centinaia di migliaia di euro che potrebbero essere utilizzate per curare i detenuti senza che questi escano dal penitenziario. Tutto ciò non sarebbe possibile poiché tali apparecchiature già pronte per funzionare, non posso essere utilizzate poiché l’Asl non manda i tecnici per mettere a norma di legge tutti gli impianti". Il Sappe, dunque, chiede l’intervento del prefetto Palomba per sbloccare la situazione. L’urgenza di mettere in funzione le apparecchiature, secondo lo stesso sindacato, "è anche determinata dal fatto che, dopo i gravi fatti accaduti nel mese di novembre 2015, in cui le visite di detenuti all’esterno per visite specialistiche e ricoveri urgenti si ridussero drasticamente con circa 80 uscite nel mese di dicembre, il trend è di nuovo aumentato in maniera preoccupante con circa 127 accompagnamenti nel mese di febbraio per esplodere a marzo con circa 180 tra visite e ricoveri". Numeri, questi, che non consentirebbero più di predisporre scorte adeguate per l’accompagnamento di detenuti nelle strutture sanitarie esterne, "considerata la grave carenza di poliziotti penitenziari in servizio presso il penitenziario di Lecce che allo stato attuale, sarebbe di circa 200 unità, nonché sottoporre il personale in servizio a turni di lavoro massacranti e non più sopportabili". Il Sappe, nella lettera inviata al prefetto Palomba, sottolinea come tale situazione rivesta "grande importanza sia per la sicurezza del carcere di Lecce, che per quella dei cittadini". Pesaro: alla Biblioteca San Giovanni presentazione del libro "Abolire il carcere" viverepesaro.it, 1 aprile 2016 Alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro, il primo aprile 2016, alle ore 21.15, la presentazione del libro con agli autori Stefano Anastasia e Valentina Calderone. Un evento della Primavera della Legalità, organizzato da Antigone Marche e Ufficio del Garante regionale per i diritti di detenuti. Se si vuole più sicurezza e legalità, bisogna mettere in dubbio l’efficacia delle carceri. Non un controsenso, ma un’affermazione precisa da cui sono partiti il senatore Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Federica Resta e Valentina Calderone per scrivere il libro "Abolire il carcere". Il volume, che intende dimostrare come le carceri ad altro non servano se non a produrre crimini e criminali e a tradire i principi fondamentali della Costituzione, viene presentato il primo aprile 2016, con gli autori Anastasia e Calderone, alle ore 21.15 alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro. Un’iniziativa che si inserisce all’interno del cartellone di eventi della ‘Primavera della Legalità’ e che è stata voluta e organizzata dall’associazione Antigone Marche e dall’Ombudsman regionale, Andrea Nobili. "Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area del carcere - scrivono gli autori - Nel nostro Paese, chi ruba in un supermercato si trova accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima". Di fatto, quindi, non si crea maggiore sicurezza, ma più persone che, una volta uscite dal carcere, si troveranno senza reali alternative alla delinquenza e al crimine e che, perciò, tenderanno a ricommettere reati e a ritornare il prigione. "La detenzione in carceri sovraffollati e fatiscenti deve essere abolita - scrivono ancora gli autori - e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini e il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi drasticamente disatteso". Ecco il significato della giornata di domani. Porsi delle domande e riflettere insieme sull’efficacia di un sistema che riguarda tutta la società. Isernia: World Theatre Day… anche in carcere, iniziativa prevista per il 7 aprile isernianews.it, 1 aprile 2016 Anche il carcere di Isernia coinvolto nella giornata internazionale che celebra l’importanza del teatro. Anche per questo 2016, la Casa circondariale del comune pentro sarà coinvolta nella "Terza edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere". L’evento si terrà in data 7 aprile 2016 presso la sala teatro del carcere di Isernia alle ore 10:00. Come specifica una nota del dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, "tale iniziativa, ufficializzata nel 2014, riflette a livello nazionale la Giornata Mondiale del Teatro (World Theatre Day), istituita dall’Istituto Internazionale del Teatro presso la sede Unesco di Parigi, oggi alla 54esima edizione". Un impegno lodevole e che già ha riscosso un ampio successo considerato che sono ormai numerose "le Compagnie teatrali attive nelle carceri italiane, in quanto l’attività teatrale rappresenta uno strumento utile per i ristretti, da un punto di vita culturale e riabilitativo di crescita personale". Non a caso, continua la nota, "la Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ha potuto rilevare con un monitoraggio nazionale che i laboratori teatrali sono presenti in tutto il territorio nazionale con una percentuale che supera il 50% degli Istituti e con una durata nel tempo superiore a dieci anni per il 33% dei laboratori stessi. Le attività teatrali registrano un’alta valutazione sotto il profilo trattamentale e una ricaduta positiva sul clima dell’istituto". Nello specifico caso di Isernia, qui è attiva la "Compagnia Teatrale Cast di Isernia (Salvatore Mincione Guarino e Giovanni Gazzanni), impegnata da anni nel Progetto Arte Libera, laboratorio teatrale cui partecipano con grande entusiasmo e motivazione un nutrito numero di detenuti. Il percorso di crescita personale ed evoluzione psicologica dei ristretti, previsto come obiettivo della pena e unica garanzia di sicurezza sociale, come inteso dall’art.1 dell’O.P e dall’art.27 della Costituzione, è fortemente promosso dall’arte teatrale che trova in carcere piena condivisione e promozione". Per giovedì 7 aprile, quindi, "i detenuti del suddetto Laboratorio si esibiranno, in un esilarante spettacolo dal titolo: "Questa sera…il varietà", in cui troveranno piena espressione le risorse e le competenze psicoaffettive positive dei partecipanti, utili alla ri-costruzione, in senso eticamente valido e socialmente congruo della loro identità". Il petrolio, le armi e la globalizzazione delle tangenti di Vincenzo Comito Il Manifesto, 1 aprile 2016 Scandalo Unaoil e dintorni. A livello internazionale il settore petrolifero, quello delle costruzioni (dighe, ponti, strade) e quello militare, sono notoriamente investiti almeno da molti decenni da vasti fenomeni corruttivi e appare certamente molto difficile vincere dei lavori in certi paesi senza passare da qualche intermediario, in genere al riparo in qualche paradiso fiscale europeo. La notizia di queste ore è quella che una società monegasca, la Unaoil, controllata dalla famiglia Ahsani, di origine iraniana, assicurava delle commesse nel settore dell’Oil & Gas a molte imprese di paesi occidentali ed orientali mediante il versamento di tangenti. I paesi di localizzazione delle stesse sono molti e vanno dall’Iraq all’Iran, alla Libia, al Kuwait, al Kazakhstan. L’Unaoil smentisce l’esistenza di fenomeni corruttivi, affermando che si trattava di normali intermediazioni commerciali e anche molte delle imprese e delle persone tirate in ballo smentiscono il loro coinvolgimento. Noi naturalmente non conosciamo la verità dei fatti che sono apparentemente emersi da una inchiesta effettuata dai giornalisti di Huffington Post e di Fairfax Media. Ma che nel settore circolino molte tangenti è cosa di conoscenza comune. Anzi, a livello internazionale, il settore petrolifero, quello delle costruzioni (dighe, ponti, strade) e quello militare, sono notoriamente investiti almeno da molti decenni da vasti fenomeni corruttivi e appare certamente molto difficile vincere dei lavori in certi paesi senza passare da qualche intermediario. Sembra che le percentuali più elevate vengano pagate nel campo delle forniture militari, che presentano in genere dei margini più interessanti, anche se quello dell’energia fa certamente la sua bella figura in questa classifica. Il livello delle tangenti varia poi, anche notevolmente, da paese a paese e sono note le percentuali standard da pagare per ogni tipo di affare. Si sa, ad esempio, che tradizionalmente in Libia bisognava versare più soldi che, poniamo, in Siria. Sembra poi che le entrate vadano in certi casi alla coalizione che governa un paese, in altri invece a singoli uomini di potere (ministri e sottosegretari, funzionari, amanti). Le società intermediatrici di solito sono collocate in Stati in cui è facile muoversi (ad esempio, in Europa, a Monaco, in qualche città svizzera, nel Lussemburgo). Esse, di solito formalmente gestite da una persona o da una famiglia, sono poi in realtà compartecipate da soci occulti dei vari paesi interessati. Tutto questo ci ricorda, più in generale, come opera e riesce a crescere e a guadagnare dei soldi una fetta consistente del business mondiale. È soprattutto il settore delle forniture all’industria dell’Oil & Gas che sembra interessato alla vicenda. Bisogna ricordare che esso lavora con un alto livello di decentramento produttivo, affidando ad imprese terze attività quali la costruzione degli oleodotti, quella delle piattaforme, il trasporto del carburante via mare, l’esplorazione dei nuovi pozzi, i programmi informatici e così via e che i progetti nel settore sono a volte di dimensioni molti importanti, sino a diverse decine di miliardi di dollari; sono così presenti nel comparto imprese di grande rilievo, tra cui la nostra Saipem, che pure non è tra le più grandi. Se leggiamo l’elenco delle imprese toccate dallo scandalo troviamo delle vecchie conoscenze, dalla Halliburton, l’azienda di servizi cui era interessato l’ex-vice presidente Usa Cheney e che risultò a suo tempo impastoiata nelle vicende della guerra all’Iraq, la già citata Saipem, che si è trovata altre volte coinvolta in fatti di questo genere, la Rolls-Royce, le tedesche Man Turbo e Siemens (un altro episodio che contribuisce a demolire l’immagine di serietà delle imprese di quel paese), la cinese Sinopec e così via. Siamo alla globalizzazione delle mazzette. Lo scandalo appare in qualche modo insolito non tanto per le dimensioni degli affari ma per il largo numero di entità coinvolte. Bisogna comunque ricordare che, mentre va apprezzata la capacità investigativa dei giornalisti che hanno fatto lo scoop, appare plausibile che esso sia stato molto agevolato da qualche "gola profonda" che non era molto contenta di come si stavano svolgendo le cose; probabilmente non per scrupolo morale, ma perché forse non aveva ricevuto una fetta adeguata della torta. Ricordiamo come anche in Italia la vicenda "mani pulite" fu portata avanti da bravi magistrati ma essi furono messi sulla pista giusta da una moglie tradita. Una cosa simile è accaduta qualche anno fa con le vicende della Finmeccanica. Accordo o no, il business migranti non si ferma di Emanuele Confortin Il Manifesto, 1 aprile 2016 Malgrado l’intesa Ue-Ankara il flusso dalla costa turca alle isole greche torna a crescere. E gli affari sulla pelle dei profughi si moltiplicano. Parla uno dei trafficanti di Izmir: "Siamo come una grande azienda. Con barche più grandi e prezzi più alti ora faremo rotta anche sull’Italia. Ma tutto è nelle mani di Bruxelles". In appena 24 ore, tra martedì e mercoledì mattina le autorità greche hanno registrato 766 nuovi sbarchi, in gran parte sull’isola di Lesbo. Quasi il quadruplo rispetto a lunedì, quando altri 192 migranti avevano solcato l’Egeo raggiungendo le isole elleniche. Se ancora serve dirlo, è la dimostrazione dell’inutilità dell’accordo Ue-Turchia per ridurre il traffico di esseri umani in partenza dalla costa turca. Risultato incautamente celebrato nei giorni scorsi dalla Commissione europea, rallegrata dal passaggio di soli 1000 migranti in una settimana, rispetto ai 2000 al giorno dell’ultimo bimestre. Tuttavia, nessuno degli analisti si è preso la briga di distogliere lo sguardo dalle cifre evidenziate nei file, per mettere il naso fuori dalla finestra e riflettere sulle condizioni meteo, pessime, che per una settimana hanno spazzato l’Egeo, dalla costa turca ad Atene. Di fatto, appena il vento è calato rendendo le acque navigabili, i gommoni hanno ripreso ad annaspare in mare carichi di sventurati, salpati dalle spiagge disseminate tra Cesme e Ayvalik. "Non si possono fermare", ribadiscono con il cipiglio di chi la sa lunga gli abitanti di Basmane, il quartiere in cui operano i trafficanti a Smirne, in Turchia. Mentre ieri è stato reso noto dalla Commissione europea il respingimento in Turchia dei primi 500 migranti giunti via mare dopo il 20 marzo. Lo spostamento avverrà lunedì 4 aprile, in linea con i tempi e i modi stabiliti dal deal, e riguarda siriani che non hanno avanzato richiesta di asilo in Grecia, poi afgani e pachistani. Tornando a Basmane, nel cuore di Smirne, abbiamo intervistato un personaggio chiave del traffico di migranti verso le isole greche. Abu Muhammad sembra l’uomo della porta accanto. Cinquant’anni circa, viso disteso segnato da una vecchia cicatrice che contorna lievemente la parte destra, tra l’occhio e l’orecchio. Mani e unghie curate, mosse a scatti ritmando una dialettica piuttosto spiccia. Indossa un abito elegante di tessuto pettinato blu su camicia bianca aperta al collo. Dice di provenire da Mardin, nel sud del paese, ma mente. Mente sul nome, su tutto. L’appuntamento è organizzato da un ragazzo curdo (fidato) fuggito a Smirne dalle violenze del sudest. Servono quasi quattro ore prima dell’ok, ma ci siamo. "Avete venti minuti", informa il nostro tramite indicandoci una minuscola utilitaria parcheggiata lungo Fevzi Pasha boulevard, in vista della stazione ferroviaria di Basmane. Abu Muhammad ci accoglie all’interno con una stretta di mano. Si presenta come trafficante di basso rango, ma anche qui pare che menta. È il vertice di una delle prime quattro organizzazioni di Smirne dedite al traffico di migranti verso le isole greche. Questi gruppi non collaborano tra loro, ma riescono a non farsi la guerra, del resto c’è abbastanza disperazione da gonfiare le casse di tutti. Abu Muhammad non ha mai parlato con la stampa fino ad ora, pertanto sceglie il profilo basso. "Un pezzo grosso non girerebbe con quest’auto", spiega, ma mente. Da qualche parte nei dintorni ha lasciato la sua vera auto, un fuoristrada blindato che tutti conoscono da quelle parti, i procacciatori sguinzagliati a Basmane e i poliziotti. Meglio non dare nell’occhio. Come per un manager di azienda, anche a lui capita di aver bisogno della stampa. Per annunciare nuovi piani, o per dar senso a un momento di cambiamento. E di questo si tratta. Dopo l’accordo Ue-Ankara il clima sul litorale di Smirne è cambiato. Bisogna distogliere gli occhi da qui, far decantare la situazione per riprendere con la roulette delle attraversate sull’Egeo, cui molti restano aggrappati a due mani, arricchendosi. Mentire è la soluzione migliore. Di vero nelle parole di Abu Muhammad ci sono i numeri, la strategia e le prospettive del business per il futuro. Inizia sentenziando la "fine di tutto", per smentirsi poco dopo, quando annuncia nuove vie, destinate a "molta gente". Si presenta con un profilo basso, poi afferma di non riuscire a "gestire tutto da solo", di aver bisogno di collaboratori. Ad ogni modo il tempo è poco, le domande si susseguono a raffica. Come cambia il business dopo gli accordi tra Unione Europea e Turchia? "Il 99% è perso. Basta, ormai è tutto finito". Ma nei giorni seguiti all’accordo ci sono stati molti attraversamenti. Come si spiega? "Si è vero, ma la polizia sicuramente li fermerà, mentre prima diceva che non è affar suo e lasciava passare". Significa che ora la polizia interviene di più? "Prima era facile, adesso c’è una forte copertura da parte degli agenti". Si dice che verranno aperte nuove vie per l’Europa, più lunghe, costose e pericolose. È vero? "L’altra via è verso l’Italia e Atene. Costerà 6.000 dollari su Atene, 7 o 8.000 dollari verso l’Italia. Con barche grandi". Queste barche saranno posizionate in acque internazionali? "Con delle piccole barche i migranti verranno portati verso le barche grandi a largo. Oppure le barche grandi attraccheranno in porti dedicati, isolati, distribuiti un pò ovunque sulla costa, da Antalya a Istanbul". Prevedete molta gente? "Si, molta gente". Il network dell’organizzazione di cui parliamo è qui a Izmir o è più esteso? "È come una grande azienda. Non posso gestirlo da solo, ho gente che mi aiuta in Siria, anche in Grecia. Mando parte delle persone in partenza all’uno o all’altro. Poi ci sono persone da Egitto, Afghanistan, Marocco. Se non ci fossero state il business non sarebbe mai partito". Quante persone avete fatto passare in un anno? "In tutto circa 80mila persone. Quest’anno non ho lavorato molto in quanto molte persone sono morte a causa di trafficanti poco affidabili, criminali senza cura per la sicurezza. Ma se uno conosce il proprio lavoro non viene ucciso nessuno in mare". Lavora ancora o no? "Sì, ho lavorato pure quest’anno ma poco, per paura del governo perché se muore qualcuno dei passeggeri andiamo in galera per anni". Come si dividono i soldi tra i vari membri del business? "Per esempio se il boss principale per la Grecia chiede 5.000 dollari per il passaggio sulle barche grandi e io porto delle persone, prendo 1.000 dollari a persona. Se invece io prendo una barca grande e la riempio di passeggeri, allora io sarò il boss. Chi ha i soldi può gestire il business". Chi sono esattamente i trafficanti? "La maggior parte di loro lavorava per il governo, poi hanno perso il lavoro e si sono messi in questo business. Ma ci sono anche ingegneri, avvocati, ufficiali pubblici, poliziotti". L’accordo UE-Turchia durerà a lungo o è momentaneo? "Tutta la questione è nelle mani dell’Europa. Se Bruxelles vuole, durerà, altrimenti sarà interrotto". Amnesty: "Migliaia di rimpatri forzati dalla Turchia in Siria" La Repubblica, 1 aprile 2016 "Rifugiati siriani espulsi da gennaio". Lunedì via ad accordo Ue. Intanto sono sbarcati a Salerno 545 profughi, arrivati dal Canale di Sicilia. Da metà gennaio la Turchia ha rimpatriato con la forza circa 100 rifugiati siriani al giorno, tra cui anche donne e bambini. Lo denuncia Amnesty International, alla vigilia dell’avvio lunedì dell’accordo di riammissione con l’Ue. L’Ong ha raccolto le testimonianze di numerosi siriani in Turchia, soprattutto nelle province di confine, cui in molti casi è stata anche negata la registrazione che attribuisce lo status di protezione temporanea, necessario per accedere ai servizi minimi, dalla sanità all’educazione. Intanto sono sbarcati a Salerno 545 migranti a bordo della nave commerciale norvegese Siem Pilot. Tra i profughi recuperati e salvati in mare a Sud del Canale di Sicilia ci sono 41 minori, tra cui anche 4 donne incinte. Non si segnalano casi seri di patologie per i migranti che arrivano prevalentemente da Eritrea, Somalia, Bangladesh, Siria. A bordo sono stati riscontrati 5 casi di scabbia. Segnalati per la prima volta sulla nave anche egiziani tratti in salvo in mare. L’unità di crisi insediatasi in Prefettura ha coordinato le operazioni di identificazione e accoglienza. Il Comune di Salerno presterà assistenza ai 41 minori. Solo mercoledì sono stati salvati 2.800 migranti nel Canale di Sicilia. "Con senso di accoglienza e dello Stato puntiamo prima di tutto a mettere in sicurezza il territorio per accogliere al meglio queste persone - dice il prefetto di Salerno, Salvatore Malfi - siamo pronti a fronteggiare qualsiasi evenienza. Salerno in vista di altre situazione di sbarchi è pronta a fare la sua parte come sempre ha fatto". Saranno 180 i profughi che resteranno in Campania, mentre 100 verranno smistati in Basilicata, 100 in Molise, 60 nel Lazio e i restanti in regioni del nord. Si tratta del dodicesimo sbarco di migranti a Salerno dall’estate del 2014. Bruxelles, sugli immigrati ecco la stretta securitaria di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 1 aprile 2016 Dopo gli attentati, in Belgio arriva la stretta legislativa, in chiave securitaria, sugli immigrati. Il governo di centrodestra (il cui premier Charles Michel sarebbe stato nel mirino degli jihadisti) ha approvato un disegno di legge fortemente voluto dal segretario di Stato all’immigrazione, Theo Francken, del Partito nazionalista indipendentista fiammingo. Le nuove norme prevedono che chi decide di andare a vivere in Belgio da un Paese extraeuropeo dovrà firmare un contratto che lo impegna a integrarsi nella società, a rispettare i suoi usi e costumi, a imparare la lingua e a denunciare ogni atto che possa essere legato al terrorismo. In caso contrario, è prevista l’espulsione dal Paese. Il testo verrà consegnato, nella propria lingua, a tutti coloro che decidono di soggiornare in Belgio per più di 30 giorni. Firmandolo ci si impegna a rispettare le libertà di culto, opinione, di orientamento sessuale, si condanna il terrorismo e ci si impegna a denunciare qualunque atto di cui si venga a conoscenza che possa avere un legame con il terrorismo. Inoltre, la polizia, su richiesta della procura che sta indagando sugli attentati, ha chiesto agli abitanti di Bruxelles, soprattutto ai commercianti, di conservare le immagini delle strade registrate dalle telecamere private tra il 15 e il 31 marzo. "Per quanto riguarda in particolare gli esercizi commerciali, si richiede di conservare anche le immagini all’interno oltre ai dati relativi agli acquisti", si legge nel comunicato consegnato ai negozianti. Chi farà le spese della psicosi terrorismo, cavalcata dalle destre europee, saranno dunque ancora una volta i migranti, nonostante le indagini puntino decise su un altro fenomeno: quello di cittadini belgi (al massimo con doppia nazionalità), radicalizzatisi, finiti a combattere in Siria e che ora portano la guerra nel loro Paese. L’ultimo arresto è quello di Reda Kriket, un foreign fighter belga, nel cui appartamento di Argenteuil, nella periferia parigina, sono stati ritrovati cinque kalashnikov e quasi due chili di Tatp, il perossido di acetone che è una sorta di marchio di fabbrica dell’Isis europea. Secondo gli inquirenti l’arresto di Kriket avrebbe sventato un altro attentato. Alla ricerca degli altri componenti la cellula terrorista, polizia ed esercito belgi hanno effettuato un blitz nel quartiere di Rodenburg a Courtrai. Nel frattempo, le autorità belghe hanno dato l’assenso all’estradizione di Abdeslam Salah in Francia, con il "pieno consenso" di quest’ultimo, mentre aspettano la decisione della Corte d’appello di Salerno che questa mattina dovrà decidere se estradare o meno l’algerino Djamal Eddin Ouali, arrestato sabato scorso a Bellizzi (nella piana del Sele) perché ritenuto in contatto con la cellula degli attentati di Parigi e Bruxelles (sarebbe coinvolto in un traffico di documenti falsi). Il quarantenne immigrato, riconosciuto dopo essere andato con sua moglie all’ufficio immigrazione della Questura di Salerno, per chiedere il permesso di soggiorno per entrambi, è rinchiuso in isolamento nel carcere di Fuorni e, riferisce il suo avvocato Gerardo Cembalo, è "molto provato ed estremamente preoccupato per la moglie che aspetta un bambino". "Si professa completamente estraneo ai fatti e mi ha detto di essere un onesto lavoratore", ha detto ancora il legale, che ha spiegato come "lui in Belgio si occupava perlopiù della vendita via internet di capi di abbigliamento che acquistava a stock, secondo le migliori offerte, per poi rivenderli perlopiù in Algeria". L’arresto di Ouali ha messo in subbuglio la comunità di immigrati locale. Non si crede alla sua colpevolezza e hanno destato perplessità pure le modalità spettacolari dell’arresto, per strada e in pieno giorno. Germania: "scioperare in galera", è nato il Sindacato confederale dei detenuti nagazzetta.it, 1 aprile 2016 In Germania i detenuti si sono organizzati sindacalmente, ci racconta il fenomeno Joerg Nowak, un ricercatore dell’Università di Kassel. Negli ultimi mesi è circolata anche in Italia la notizia che in Germania sono in corso degli scioperi in numerose prigioni dove i detenuti (tedeschi e stranieri) si sono organizzati sindacalmente. Abbiamo chiesto a Joerg Nowak, un ricercatore dell’Università di Kassel che si occupa dell’argomento e segue da vicino la situazione, di spiegarci quanto sta accadendo, certi che si tratti di un fenomeno destinato a diffondersi anche altrove viste le condizioni del lavoro penitenziario in tutta Europa. In Italia, stando agli ultimi dati dell’Associazione Antigone, le mercedi (ossia i salari nel gergo del carcere), che per legge devono essere pari ad almeno due terzi di quelle esterne, sono ferme ai primi anni Novanta e si aggirano intorno ai 2 € e mezzo l’ora. Come è nato il Sindacato tedesco dei detenuti? "Il Sindacato confederale dei detenuti (GG/BO) è stato fondato nel maggio del 2014 da due detenuti (un tedesco e uno straniero) nel carcere giudiziario di Berlin-Tegel. Da allora è cresciuto fino a raccogliere circa 800 tra iscritti e iscritte in una quarantina di carceri, compresa una sezione in Austria. L’inizio è stato segnato da diverse forme di repressione e di ritorsione da parte delle amministrazioni penitenziarie (blocco della corrispondenza, isolamento degli attivisti). Nel frattempo Oliver Rast, uno dei fondatori, è tornato in libertà, ed è oggi alla guida delle iniziative di lotta. Il sindacato si muove su una linea rivendicativa - estendere anche al lavoro carcerario le condizioni salariali e le norme assicurative vigenti in Germania e garantire il diritto di sciopero - e su una linea informativa: rendere note a un’opinione pubblica del tutto disinformata le condizioni lavorative discriminatorie esistenti in prigione. Per questo la GG/BO ha fondato il giornale trimestrale Outbreak, reperibile anche in rete, che non offre solo informazioni sulle iniziative e i dibattiti interni in corso ma cerca anche di creare collegamenti con le agitazioni sindacali esterne". Come sono le condizioni di produzione nelle carceri tedesche? "In Germania su circa 66.000 ristretti 41.000 sono impegnati in attività lavorative, gli altri 20.000 sono malati o in pensione. Circa il 28% sono detenuti stranieri (dati Eurostat 2015) e sono proporzionalmente presenti nel Sindacato. In 11 dei 16 Länder federali vige l’obbligo del lavoro. I detenuti percepiscono un salario orario tra 1,50 e 2 €: il salario minimo in Germania è di 8,50 €. Le condizioni nelle carceri tedesche, che sono sempre più spesso enti cogestiti da Stato e da privati, non rispettano dunque le convenzioni stabilite dall’ILO (L’agenzia delle Nazioni Unite a tutela delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori in materia di prison labour/forced labour), che prevedono che i detenuti siano pagati direttamente dalle imprese e con salari adeguati ai normali standard di mercato. Di fatto, la prigione è oggi il luogo dove si sperimentano le più diverse forme di liberismo lavorativo a basse garanzie. I detenuti hanno un’assicurazione che copre la disoccupazione, ma non sono integrati nel sistema pensionistico. Poiché dal punto di vista giuridico non sono considerati "prestatori d’opera", non godono del diritto di sciopero e non possono organizzarsi sindacalmente. Come in altri paesi europei, i detenuti sono impiegati, oltre che nella manutenzione e nel funzionamento delle carceri stesse (lavoro intramurario domestico alle dipendenza dell’amministrazione penitenziaria), nella produzione di manufatti per enti pubblici (dai ministeri alle scuole) e banche, oppure lavorano per imprese private, in particolare per grandi industrie come Siemens, Mercedes Benz e Bmw (lavoro intramurario o extra-murario per imprese esterne). In questi ultimi anni le prigioni tedesche si sono trasformate in vere e proprie fabbriche gestite secondo criteri manageriali: vengono prodotte componenti delle lavatrici Miele e articoli da giardinaggio per Gardena, alcune organizzazioni di Pronto Soccorso fanno lavare le loro uniformi alle lavanderie dietro le sbarre". Che forma assumono - possono assumere - gli scioperi in carcere? "I due scioperi indetti nel dicembre 2015 e nel marzo di quest’anno nel carcere giudiziario di Butzbach erano in forma di sciopero della fame e di astensione dalle ore d’aria. Durante uno sciopero della fame il lavoro deve essere obbligatoriamente sospeso per motivi di ordine medico. Un altro tipo di astensione dal lavoro sarebbe equivalso a una rivolta e avrebbe condotto a dure misure repressive. Nello sciopero di dicembre, il primo giorno più di cento detenuti hanno rifiutato il cibo, lo sciopero della fame è stato poi proseguito per dieci giorni da una decina di detenuti. A marzo, già al primo giorno il portavoce degli scioperanti aderenti al sindacato è stato trasferito in un altro carcere a Darmstadt. Il segretario del Sindacato, Mehmet Aykol, è stato messo di fronte alla scelta tra continuare l’attività sindacale o rinunciare alle misure alternative per le quali aveva maturato il diritto. Ha optato per la prima ipotesi. A un altro scioperante sono state dilazionate cure mediche urgenti. È inoltre impossibile dare notizie delle agitazioni durante il loro svolgimento. Ciò nonostante, nel caso dello sciopero di dicembre, la rete informativa è riuscita a funzionare comunque e a far sapere delle agitazioni agli attivisti e all’opinione pubblica esterna che sostengono le iniziative. Gli scioperi tedeschi, ponendo l’accento sull’iniquo trattamento del lavoro penitenziario, ripropongono in forma amplificata la questione di quelle che vengono considerate le forme trattamentali-rieducative privilegiate e mettono in evidenza tutta la problematicità della loro attuazione nel rispetto dei diritti civili dei detenuti". Stati Uniti: Guantánamo si sta svuotando, in via di trasferimento altri 10 detenuti di Stella Spada ilgiornaleditalia.org, 1 aprile 2016 Obama vorrebbe chiudere il supercarcere entro la fine del suo mandato ma i repubblicani sono contrari. Il Washington Post lo aveva anticipato ed ora sembra sia arrivata anche la notifica da parte del Pentagono al Congresso degli Stati Uniti: nei prossimi giorni dieci detenuti attualmente rinchiusi nel supercarcere di Guantánamo verranno trasferiti in due Paesi (non ci sono dettagli sulla destinazione). Degli 800 detenuti che nel 2002 erano rinchiusi nel famigerato Camp X Ray, base statunitense situata nella baia cubana di Guantanamo, ne sono rimasti 91. In proposito il portavoce del Pentagono Gay Ross non ha rilasciato commenti, limitandosi a sottolineare che "l’amministrazione è impegnata a ridurre il numero dei detenuti e a chiudere il carcere in modo responsabile". Dal canto suo il presidente Obama appare molto determinato a perseguire l’obiettivo di chiudere il carcere di massima sicurezza entro la fine del suo mandato, nel 2017. Messico: "Il guardiano per procura" dei migranti bambini in fuga dal Centro America La Repubblica, 1 aprile 2016 Lo documenta Human Rights Watch in un rapporto di 151 pagine pubblicato oggi. Si fugge dal cosiddetto "triangolo del Nord": El Salvador, Guatemala, Honduras. Un flusso migratorio in aumento e in parte indotto dal sostegno finanziario degli Stati Uniti per creare un "filtro" nel territorio messicano. I bambini del Centro America, in fuga da minacce di ogni sorta dal "triangolo del Nord", costituito da El Salvador, Guatemala, Honduras, affrontano ostacoli incredibili nella domanda di asilo in Messico: Lo documenta Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. Il rapporto è di 151 pagine, s’intitola "Porte chiuse: le mancanze del Messico per proteggere i rifugiati del Centro America e dei minori migranti" e documenta le notevoli differenze tra la legge e la prassi quotidiana messa in atto dalle autorità messicane. Secondo la legge, il governo offre una protezione a coloro che devono affrontare i rischi per la loro vita o la sicurezza se fossero rispediti nei loro paesi di origine, nello stesso tempo però meno dell’1 per cento dei bambini che vengono fermati dalle autorità di immigrazione messicane sono riconosciuti come rifugiati. Le interviste che denunciano. Human Rights Watch ha intervistato 61 bambini e più di 100 adulti arrivati in Messico da El Salvador, Guatemala, Honduras. sono stati ascoltati anche funzionari del governo, rappresentanti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), l’agenzia dell’Onu per i rifugiati e rappresentanti di organizzazioni non governative. I risultati raccolti giungono in un momento in cui il numero dei bambini senza documenti, arrestati dalle autorità messicane appare nettamente in aumento. Rinchiusi nelle celle di sicurezza sono stati più di 35.000 bambini nel 2015, quasi il 55 per cento in più rispetto al 2014, e 270 per cento in più rispetto al 2013. I "guardiani delle frontiere Usa per procura". Si tratta di aumenti - commenta HRW - in parte legati alla impennata del sostegno finanziario fornito dal governo degli Stati Uniti per spostare in Messico il "filtro" dell’immigrazione. Misure che ricordano assai da vicino quelle adottate dall’Europa rispetto alla Turchia. L’incarico di "guardiano per procura" da parte del Messico ha avuto inizio da metà 2014, quando un numero record di centroamericani, compresi i bambini non accompagnati e numerose famiglie con bambini, cominciarono ad arrivare negli Stati Uniti, per effetto delle incontrollabili violenze delle bande che scorrazzano indisturbate nei paesi dell’America Centrale, appunto nel cosiddetto "triangolo del Nord": El Salvador, Guatemala, Honduras. Ragazzini arruolati nelle bande. Molti dei bambini intervistati da Human Rights Watch hanno detto di essere stati costretti ad unirsi alle bande, spesso sotto la minaccia di morte rivolta a se stessi o ai familiari. Le ragazzine, neanche a dirlo, sono costrette a scappare dal loro paese per il rischio (se non la certezza) di essere aggredite o violentate dagli uomini armati di queste formazioni di delinquenti che controllano senza nessun tipo di controllo interi territori. Altri bambini hanno dato poi raccontato di persone - adulti o adolescenti - rapiti e detenuti a scopo di estorsione. Gabriel R., 15 anni, honduregno - ad esempio - ha riferito a Human Rights Watch: "ero a scuola e un giorno alcuni componenti di una banda mi hanno avvicinato dicendomi che dovevo far parte della loro banda. Mi hanno dato tre giorni di tempo per decidere. Se avessi rifiutato l’offerta mi avrebbero ammazzato. Me lo hanno detto così, senza mezzi termini. Ha lasciato per il Messico. Prima dello scadere dei tre giorni". Il diritto elementare dei bambini di essere protetti. "Il governo degli Stati Uniti, che ha fatto pressione sul Messico per fermare il flusso migratorio dei centroamericani - ha sottolineato Michael Bochenek di HRW - dovrebbe anche fornire finanziamenti aggiuntivi per migliorare e ampliare la capacità del sistema di accoglienza messicano, per trattare le domande di asilo e fornire sostegno sociale per i richiedenti asilo nel rispetto delle sue norme nazionali e di quelle internazionali sui diritti umani. Mettere i bambini di fronte alla scelta se rimanere per mesi in stato di detenzione o essere restituiti al rischio di violenze nel proprio paese d’origine - ha concluso Bochenek - viola le elementari norme internazionali a tutela dei diritti umani. Sia il Messico e gli Stati Uniti devono lavorare assieme per fornire cure e protezione adeguate per i bambini in fuga dai pericoli in America Centrale".