Per una cultura sociale della pena di Glauco Giostra* Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2016 (L’articolo è uno stralcio dell’intervento che Glauco Giostra ha tenuto agli Stati generali sull’esecuzione penale). Puntare sulle "sanzioni di comunità" meno desocializzanti per i condannati. Si dovrebbe ricorrere alla sanzione del carcere, strutturalmente la meno idonea alla risocializzazione, solo quando ogni altra si appalesi inadeguata. E ciò dovrebbe comportare un deciso spostamento del baricentro della risposta sanzionatoria penale, oggi incentrata sulla pena detentiva, verso sanzioni di comunità, meno onerose per lo Stato e meno desocializzanti per il condannato, chiamato ad adoperarsi nella e per la collettività. Sempreché non si possa, nei casi in cui ne ricorrano i presupposti giuridici e le condizioni soggettive, intraprendere percorsi di giustizia riparativa, che rappresenta un paradigma di giustizia culturalmente e metodologicamente autonomo, in grado di sostituire al grossolano rammendo con cui la pena ricuce lo strappo del tessuto sociale provocato dal reato una paziente e delicata opera di ritessitura dei fili relazionali tra il reo, la vittima e la società. Quando il ricorso al carcere è inevitabile, l’attenzione non può limitarsi all’espiazione intramuraria della pena: la sua stessa funzione costituzionale, infatti, postula la possibilità di un graduale reinserimento del condannato nella collettività, e a questa sua "convalescenza sociale" vanno dedicati altrettanto impegno e altrettante risorse, risultando essa quasi sempre decisiva per un effettivo recupero del soggetto alle regole della comunità e un conseguente, drastico abbattimento degli indici di recidiva. Precondizione indefettibile di ogni istanza rieducativa è che la pena non consista mai, qualunque essa sia e per qualunque reato venga inflitta, "in trattamenti contrari al senso di umanità". Ogni violazione dei diritti fondamentali del condannato, che non derivi dalle restrizioni funzionali alla privazione della libertà, ne offende la dignità e preclude la possibilità che la pena svolga la sua funzione costituzionale, essendo impossibile rieducare alla legalità un soggetto illecitamente umiliato nella sua dignità di uomo. Possono rendersi necessarie limitazioni a diritti ulteriori, oltre a quello alla libertà, in considerazione di speciali esigenze di sicurezza (art. 41 bis ord. penit.), ma anche in tal caso la legittimità di queste restrizioni additive sta e cade con la loro stretta indispensabilità allo scopo. Il principio rieducativo non può mai riguardare un uomo considerato come mezzo di una strategia politica (sia essa di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo). Neppure se l’obbiettivo di tale strategia fosse la sua rieducazione: la "rieducazione d’autorità", probabilmente un ossimoro anche da un punto di vista pedagogico, lo è di certo da un punto di vista costituzionale. Il condannato va considerato come responsabile artefice della sua riabilitazione sociale. Ciò comporta che destinatario dell’offerta "trattamentale" sia un soggetto messo effettivamente nella condizione di fare scelte convinte e responsabili. Un soggetto cioè che, consapevole dei propri doveri e dei propri diritti, sappia autogestirsi nel microcosmo sociale del carcere, le cui regole di vita siano le più vicine possibile a quelli del mondo esterno. Si muove apprezzabilmente in questa direzione il regime della c.d. vigilanza dinamica, di cui si auspica una più diffusa e convinta applicazione. Frustra irrimediabilmente qualsiasi finalità rieducativa, invece, un sistema che, per regole, prassi, linguaggi, produca forme di infantilizzazione e di incapacitazione del soggetto. Il principio rieducativo postula l’offerta di un progetto individualizzato di risocializzazione: il tempo della pena non dovrebbe mai essere una sorta di time out esistenziale, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Nessuna situazione soggettiva (immigrato, senza fissa dimora, ecc.) o nessun tipo di reato commesso dovrebbe costituire di per sé esclusione dalle opportunità di recupero sociale. (…) In sintesi, la Costituzione legittima lo Stato a privare il condannato della libertà, mai della dignità e della speranza. E quel dovere di "tendere" alla rieducazione significa che la rieducazione non possa essere mai né imposta, né certa, né impossibile. Il Comitato scientifico ha cercato, ampiamente attingendo al prezioso lavoro dei 18 tavoli tematici, di prospettare linee di intervento legislativo, amministrativo, strutturale, organizzativo, formativo per realizzare una esecuzione penale che sia finalmente e pienamente in sintonia con questi principi costituzionali, naturalmente calandoli in una realtà che presenta problematiche inimmaginabili sino a non molto tempo fa. Basti un solo, importante, esempio: le nostre norme sono state concepite per una popolazione penitenziaria sostanzialmente omogenea da un punto di vista linguistico, culturale religioso. L’attuale "utenza" invece è composta per il 30 percento da stranieri, persone di lingua, di cultura e di religione diverse e "lontane", e per questo più degli altri esposti alla emarginazione ghettizzante e al rischio di radicalizzazione. La proposta del Comitato di affrontare il problema promuovendo la mediazione culturale e favorendo l’integrazione di tali soggetti nella quotidianità detentiva, peraltro in conformità con le Linee guida dettate dal Consiglio d’Europa, non si pone in contrasto con le esigenze di prevenzione del rischio. Al contrario, apre canali di conoscenza che veicolano informazioni preziose per il controllo dei fenomeni di fanatismo violento. La stessa vigilanza dinamica costituisce, in quest’ottica, un elemento di forza dal punto di vista della capacità di prevenire derive terroristiche; non mortifica, ma esalta il ruolo della Polizia penitenziaria che, opportunamente preparata, può costituire un insostituibile osservatore di prossimità, un prezioso percettore di abitudini, tendenze, evoluzioni comportamentali, atteggiamenti di proselitismo, prevaricazioni o sudditanze psicologiche. Non è la ghettizzazione ma la conoscenza la miglior alleata della sicurezza. Con tutti gli inevitabili limiti, quello che consegniamo oggi è un disegno di grande respiro e profondamente incisivo, eppure anche congenitamente fragile, se non sarà accompagnato e sostenuto da una diversa cultura sociale della pena. Il libro della riforma sarebbe facilmente scompaginato dalla prima folata allarmistica se non potesse contare sulla robusta rilegatura di un sentire sociale nuovo e sintonico. (…) Di una cosa siamo certi: la società che offre un’opportunità ed una speranza alle persone che ha giustamente condannato si dà un’opportunità ed una speranza di diventare migliore. *Glauco Giostra è presidente del comitato scientifico degli Stati generali sull’esecuzione penale Un nuovo modello di carcere contro il populismo penale di Stefano Anastasia Il Manifesto, 19 aprile 2016 Chissà se il Ministro Orlando avesse in mente una situazione pre-rivoluzionaria, come quella che indusse Luigi XVI a convocare gli Stati generali della Monarchia francese nel 1789. Certo è che una simile consultazione, da parte istituzionale, non c’è mai stata nell’esperienza italiana: circa duecento persone, rappresentative di pratiche e culture diverse, distribuite in diciotto tavoli di lavoro, per dare una prospettiva all’esecuzione penale in Italia. Non fu così nel 1975, quando l’ordinamento penitenziario fu costituzionalizzato, né nel 1986, quando - con la legge Gozzini - se ne tentò il rilancio dopo le chiusure della emergenza terrorismo. Oggi, come allora, l’intento dichiarato è quello di muovere nella prospettiva della costituzionalizzazione della pena e della decarcerizzazione. L’urgenza è stata data dalla Corte europea dei diritti umani: una sentenza-pilota ha guidato le mosse del Governo affinché l’Italia uscisse dall’aperta illegalità delle condizioni di detenzione riscontrate tra il 2009 e il 2013. È seguita una intensa attività legislativa e amministrativa orientata a ridurre la popolazione detenuta e a potenziare l’esecuzione penale esterna. Raggiunti gli obiettivi imposti dal Consiglio d’Europa, giustamente il Governo ha cercato una linea di indirizzo che potesse consolidare il nuovo equilibrio tra carcere e misure alternative alla detenzione. Da qui gli Stati generali, i cui lavori conclusivi si sono aperti ieri nel carcere romano di Rebibbia. Pendente è una delega al Governo, attualmente all’esame del Senato, per riformare integralmente l’ordinamento penitenziario. Se verrà approvata, come si dice con espressione abusata, "bisognerà riempirla di contenuti". Con questo mandato hanno lavorato i diciotto tavoli, nella gran parte orientati alla decarcerizzazione o a una pena detentiva più dignitosa, in un trasparente connubio tra i critici del carcere e i fautori della pena rieducativa. Ora le carte sono in tavola, le proposte sono nero su bianco e tocca all’autorità politica farle fruttare. Anche se qualche tavolo non intende smobilitare, gli Stati generali non si trasformeranno in Assemblea nazionale: nessuna Pallacorda è dietro l’angolo del teatro di Rebibbia. Dietro l’angolo piuttosto, e purtroppo, c’è il solito vecchio demone che ha fatto esplodere le carceri italiane nel ventennio passato: l’uso populistico della pena e del carcere, ultima riserva simbolica di una politica apparentemente priva di altri strumenti di governo della sofferenza sociale. Ancora ieri il Ministro Orlando se ne è mostrato consapevole, quando ha chiamato in causa quel convitato di pietra pronto ad alzare barricate contro ogni forma di depenalizzazione e di alternativa al carcere. Lo abbiamo visto all’opera non più di qualche giorno fa, quando una giovane donna dall’ammirevole percorso penale è stata richiusa in carcere perché sulla sua pagina Facebook comparivano foto non consone al suo status di colpevole e penitente. Sotto i colpi del populismo penale, politica e magistratura hanno oscillato pericolosamente, assecondando gli umori peggiori. Se non per fare passi in avanti, speriamo allora che le elaborazioni degli Stati generali servano almeno a questo: a non fare passi indietro, a partire dalla soluzione di singolarissimi e concretissimi casi come quello di Doina Matei. "Abbattere il muro fra carcere e società". Il ministro Orlando contro le "false verità" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2016 Declinare la "certezza della pena" in modo diverso, abbattendo il "muro" tra carcere e società, "perché non sono mondi separati"; abbandonando "il populismo e la crescente penalizzazione", perché "hanno presa nei proclami ma poca o nessuna efficacia nella realtà dei fatti"; "cambiando prospettiva", perché "il punto di riferimento dev’essere il ritorno all’esterno" del condannato. Dunque: non solo carcere - e mai più il carcere che umilia i detenuti, ne comprime i diritti fondamentali, li deresponsabilizza, aumenta la recidiva - ma soprattutto pene e misure alternative, nonché percorsi di giustizia riparativa per ricucire lo strappo consumato dal colpevole con la vittima e la società. Carcere dei diritti, misure di comunità e giustizia riparativa: da qui passa la "garanzia di una maggiore sicurezza collettiva". Anche contro il rischio "oggi drammaticamente attuale" della radicalizzazione jihadista nelle carceri. È questa la "rivoluzione" - per ora solo culturale - uscita dagli Stati generali sull’esecuzione penale, sintetizzata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nel primo dei due giorni conclusivi di quella maratona, lunga un anno e articolata in 18 Tavoli tematici composti da 200 persone (accademici, giuristi, magistrati, architetti, sociologi, medici, sportivi, scrittori, educatori, dirigenti penitenziari e poliziotti, psicologi, politici, artisti). Un’iniziativa inedita, voluta dal guardasigilli (e rivendicata "con orgoglio") subito dopo aver scavallato l’emergenza sovraffollamento, affinché da lì si potesse ripensare il carcere. Che così com’è, a tacer d’altro, costa 3 miliardi l’anno e produce un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa (il 56%, di cui il 67% tra gli italiani e il 37% tra gli stranieri). Ieri, l’Auditorium del carcere romano di Rebibbia straripava di politici, magistrati, giuristi. In prima fila il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Più tardi anche il suo predecessore Giorgio Napolitano, che al carcere ha dedicato l’unico messaggio del suo lungo mandato presidenziale (ma che ieri ha perorato la riforma delle intercettazioni). Presente anche l’Europa, con Vera Jourova, commissaria per la Giustizia dell’Ue, e Gabriella Battaini-Dragoni, vicesegretario generale del Consiglio d’Europa: entrambe hanno riconosciuto che l’Italia è diventata "un esempio" per aver ridotto il sovraffollamento (piaga europea), considerato "il principale strumento di prevenzione della radicalizzazione", che in carcere trova terreno fertile, come dimostra la storia di alcuni jihadisti autori delle stragi di Parigi. In Italia "i numeri non sono allarmanti né comparabili con quelli di altri Paesi europei - spiega Orlando: le persone coinvolte in un percorso di radicalizzazione, con diverse gradazioni di adesione, sono 360 e 500 nelle carceri minorili. Quindi, nessun allarme ma nessuna sottovalutazione". Anche qui la soluzione passa per il cambiamento del carcere: "Se non lo adeguiamo, se non lo umanizziamo, il carcere rischia purtroppo di funzionare come un fattore di moltiplicatore dei fenomeni che pretendiamo di combattere esclusivamente con il carcere" ha detto. Certo è che l’Europa, dopo gli attentati, ha sollecitato i Paesi membri a "individuare politiche che dissuadano dal ricorso al carcere come scelta punitiva principale". Per il Procuratore antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, bisogna investire nella formazione interculturale del personale carcerario, aprendo il carcere a educatori di fede musulmana preparati (ma il 41 bis è "imprescindibile"). Le proposte dei Tavoli sono confluite nel documento del Comitato scientifico coordinato dal professor Glauco Giostra. L’obiettivo è la riforma dell’ordinamento penitenziario del ‘75, già rivoluzionaria ma privata delle gambe per camminare e superata dai cambiamenti della società e della criminalità, diventate multietniche. Peraltro, le norme funzionano solo se sorrette da "un’adeguata organizzazione" e da una "omogenea e innovativa impostazione culturale" ha insistito Orlando, chiedendo a media, partiti, soggetti sociali di dedicare tempo al carcere e di non fermarsi a "verità esibite di fronte al senso comune, che verità non sono". Dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha incassato "piena e convinta collaborazione". "Sostegno pieno" anche dal presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha sottolineato che se le pene hanno un carattere deterrente, il loro "scopo è di ristabilire l’ordine personale e sociale ferito". Certo, nessuna rivoluzione è a costo zero. Se sono le "sanzioni di comunità" la nuova frontiera dell’esecuzione penale, è lì che bisogna investire per evitare "il fallimento". Già oggi le risorse oggi sono inadeguate, ha detto Francesco Cascini, capo del nuovo Dipartimento per i minori e l’esecuzione penale esterna, che gestisce 41mila misure (26mila nel 2011), implementate dalle norme su messa alla prova e lavoro di pubblica utilità, che hanno spostato gradualmente la sanzione penale dal carcere verso la comunità. L’investimento avrà un ritorno in termini di riduzione della recidiva e di sicurezza collettiva. Quindi, dice Orlando, "non è buonismo". Conviene. Oggi sfilano i ministri dell’Interno, del Lavoro, della Sanità, delle Infrastrutture, dei Beni culturali, dell’Istruzione, dell’Agricoltura. Ma chissà se - come si auguravano i detenuti invitati all’evento - si passerà mai dalle parole ai fatti. "Più sicurezza, meno carcere". Intervista al ministro della giustizia Orlando di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 19 aprile 2016 Si concludono gli Stati generali sull’esecuzione della pena che hanno visto confrontarsi decine di esperti, magistrati e operatori. Il ministro della Giustizia spiega: "Vogliamo un carcere più aperto. Dove ci sono più pene alternative minore è la recidiva. Bisogna spezzare il circuito criminale e impedire che le carceri diventino scuole di radicalizzazione". "Rispetto al sovraffollamento e alle questioni per cui ci bacchettava l’Europa siamo rientrati nei ranghi. La sentenza della Corte europea si è chiusa definitivamente con una assoluzione per l’Italia, ma non siamo assolti, dal punto di vista morale, rispetto alla finalità della pena. Quella vicenda è servita da stimolo, ma non dobbiamo pensare che archiviata quella sentenza possiamo archiviare il tema di come riformare il carcere". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è determinato a dare finalmente attuazione al dettato costituzionale e a fare degli istituti di pena dei luoghi dove si spezza il circuito criminale. A conclusione degli Stati generali dell’esecuzione penale il ministro spiega che questi mesi "hanno già prodotto un documento inviato al Csm e che le proposte sono moltissime. Si tratta di una vera e propria banca dati di progetti, di idee e di riflessioni che potrà essere utile sia al legislatore sia all’amministrazione e sia alla società". Ministro, in carcere ci sono soprattutto immigrati. C’è da temere soprattutto per quanto riguarda il terrorismo estremista? "La realtà più esposta al fenomeno di radicalizzazione è sicuramente il carcere. Per questo bisogna ripensarne il funzionamento. Mettere insieme detenuti con origini delinquenziali diverse può creare quel fenomeno di proselitismo che abbiamo registrato in Paesi dove questo fenomeno si è sviluppato prima". Quindi anche per gli stranieri pensate alle pene alternative al carcere? "Incontrando i magistrati di sorveglianza abbiamo pensato a una traduzione in tutte le lingue del vademecum per la richiesta delle pene alternative. Dobbiamo capire che non è tenendoli tutti chiusi e tutti insieme che si migliora la sicurezza. Quello che abbiamo visto nel corso degli anni è che dove si sviluppano delle pene alternative, anche per gli stranieri, c’è un abbattimento della recidiva molto significativo quindi un miglioramento delle garanzie di sicurezza per i cittadini". A Roma c’è un accordo per utilizzare alcuni detenuti nel corso del Giubileo? "Si tratta di un accordo appena siglato con il commissario Tronca per 120 detenuti che svolgeranno lavori di pubblica utilità nella città di Roma e che saranno coinvolti anche nella gestione dei servizi ai pellegrini in alcune fasi del Giubileo. Tutto questo anche per raccogliere un’indicazione simbolica che viene dall’Anno Santo. Per Roma è legata al Giubileo, ma abbiamo esteso l’iniziativa a tutto il Paese e vorremmo renderla strutturale legando la possibilità di uno sconto di pena per chi si rende disponibile a questa attività". La gente però ha paura quando si parla di far uscire dei detenuti. "Accade perché non ci si rende conto che è proprio la paura, delle volte, a generare dei muri che poi a loro volta creano circuiti delinquenziali. Se non si abbatte questa barriera il rischio è che chi è oltre ci rimanga per sempre e che non ci sia nessuna possibilità, non solo di rieducazione e recupero dal punto di vista morale, ma proprio di scardinamento dei circuiti delinquenziali. Chi si trova fuori, chi esce dal carcere e vede questo stigma così forte è oggettivamente condannato a ritornare nella condizione di partenza. Soltanto se rompiamo questo muro possiamo aspirare ad avere un miglioramento delle condizioni di sicurezza per tutti i cittadini". Qual è l’idea di fondo della riforma delle carceri? "È quella di costruire un carcere meno passivo. Attualmente molti benefici vengono accordati semplicemente se non ci sono note negative sul detenuto. Non ha rilievo se qualcuno si è messo a studiare o ha reso migliori le condizioni del carcere in cui vive o si è impegnato in qualche attività utile per gli altri. La rilevanza, per accedere ai benefici di legge, è soltanto quella di non avere fatto qualcosa, di non aver creato problemi. Questo crea - dicono gli psicologi - un processo di infantilizzazione. Quando il detenuto esce ha come unica rete relazionale quella che si è costruito dentro o attorno al carcere oppure quella preesistente di carattere criminale, con una regressione anche nella capacità di assumersi responsabilità. Noi vorremmo costruire un carcere che consenta, invece, di riconoscere le differenze di comportamento, di dare a chi merita e non semplicemente a chi non fa, di stimolare un atteggiamento attivo, anche se questo implica una serie di oneri per il carcere e anche per gli operatori". Ci sarà un aggravio economico? "Tutt’altro. Attualmente spendiamo tre miliardi di euro per l’esecuzione pensale. Ma se guardiamo bene scopriamo che, per esempio, le pene alternative consentirebbero di spendere di meno e di avere, in termini di recidiva, un abbattimento significativo". Ci sono già degli istituti pilota? "Sono contrario all’idea degli istituti pilota per una ragione molto semplice: perché poi diventano un fiore all’occhiello che autorizza tutti gli altri a rimanere come sono. Con gli Stati generali ho incontrato due volte i direttori di tutte le carceri e con loro ho condiviso l’obiettivo fondamentale di alzare la media, anche solo di un po’, di tutti gli istituti in tutto il Paese. Questo credo sia meglio di avere un carcere che funziona benissimo e tutti gli altri che funzionano come 30 anni fa". "Il carcere più sicuro è oltre le celle". Parola di ministro di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 aprile 2016 Il ministro Orlando a Rebibbia tira le somme dei primi Stati generali dell’esecuzione penale in Italia. Il presidente Mattarella applaudito e ringraziato dai detenuti. Il Guardasigilli: "Pannella troppo inascoltato". "Il carcere è un ozio senza riposo dove le cose facili sono rese difficili da cose inutili". È semplicemente una scritta che si trova spesso sulle mura dei penitenziari, ma costituisce uno dei due primati del ministro di Giustizia, Andrea Orlando. Difficile, infatti, ricordare un Guardasigilli che fosse tanto sensibile ai graffiti sui muri: "Una frase eloquente che mi ha indotto a riflettere. Una frase che mi ha condizionato e spinto ad avviare il percorso che ci ha portato sino qui", ha detto ieri il ministro Orlando aprendo, nell’Auditorium del carcere romano di Rebibbia, la due giorni che conclude gli "Stati generali dell’esecuzione penale". I primi mai tenuti in Italia: e questo è il secondo primato. A sottolineare il carattere "assolutamente inedito" dell’iniziativa, come ha fatto notare anche il capo del Dap Santi Consolo, è stata la presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che appena varcata la soglia del Nuovo complesso di Rebibbia è stato accolto da un lungo e caloroso applauso dei detenuti presenti. "Grazie di essere qui", gli hanno urlato, e il presidente si è fermato qualche istante a stringere mani e a ricambiare i saluti. Si tratta dell’evento conclusivo di un percorso di approfondimento e analisi durato circa un anno, svolto da oltre 200 esperti di varia formazione e provenienza che hanno lavorato, coordinati dal giurista Glauco Giostra, ordinario di Diritto penale alla Sapienza, attorno a 18 tavoli tematici. Dopo la cerimonia di ieri, alla presenza di tante autorità e alte cariche dello Stato, i lavori a Rebibbia proseguiranno oggi con tavole rotonde che affrontano i principali nodi del sistema penitenziario italiano e danno conto del documento conclusivo redatto con i contributi dei 18 tavoli. Gli esperti - che non significa solo magistrati, giuristi, medici, poliziotti, avvocati, psicologi e educatori, ma anche detenuti, garanti, volontari, architetti, sportivi, scrittori e attori - hanno infatti tracciato in questo anno le linee guida di una nuova e moderna esecuzione penale, disegnando un modello di carcere che fosse in linea con il dettato costituzionale e gli standard fissati dal Consiglio d’Europa, e che costituisse - come vorrebbe il ministro Orlando - il cuore del disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario da presentare in Parlamento. Una riforma necessaria perché tutto è cambiato nella società italiana - e dunque nel carcere - dal 1975 (anno in cui il legislatore rimise mano al sistema fortemente carcerocentrico dell’esecuzione penale scritto da Alfredo Rocco nel 1931) ad oggi. "L’attuale "utenza" - ha riferito il professor Glauco Giostra - è composta per il 30% da stranieri, persone di lingua, cultura e religione diverse e "lontane", e per questo più degli altri esposti alla emarginazione, ghettizzazione e al rischio di radicalizzazione". Una riforma resasi poi impellente dopo che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per trattamento inumano e degradante, quando nelle celle dei 195 penitenziari italiani erano recluse circa 70 mila persone. Oggi quel tasso di sovraffollamento si è ridotto ma è ancora sopra il limite, "al 105%", ha certificato ieri la Commissaria europea per la Giustizia Vera Jurova che ha riferito di una condizione simile a quella di "oltre la metà dei 28 Stati membri dell’Ue". Una situazione, questa, che è di ostacolo agli strumenti di mutuo riconoscimento dell’Ue, come il mandato di arresto europeo e il trasferimento dei detenuti nei rispettivi Paesi d’origine. Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ha preso parte agli Stati generali, al 31 marzo scorso i detenuti italiani erano "ben 53.495, comunque 4 mila in più rispetto alla capienza regolamentare fissata dal Dap in 49.480 posti, conteggiando tra questi anche sezioni detentive chiuse e in ristrutturazione". Ed è un sistema carcerario, quello attuale, che "costa ogni anno ai contribuenti quasi tre miliardi di euro, ma genera tassi di recidiva tra i più alti d’Europa - ha sottolineato Orlando - I detenuti che provengono da una precedente esperienza carceraria sono infatti circa il 56%; 67% tra gli italiani e il 37% tra gli stranieri". Un sistema che contribuisce alla mancanza di sicurezza, al contrario di quanto vorrebbe far credere il populismo securitario. "La recidiva di coloro ai quali è stata applicata una misura alternativa è di circa il 20%, drasticamente inferiore a quella di coloro che scontano la pena interamente in carcere", spiega Orlando. Che aggiunge: "Prevedere trattamenti individualizzati e l’utilizzo integrato di pene alternative non è un regalo ai delinquenti, come gridano gli imprenditori della paura, né la dimostrazione del lassismo dello Stato. È invece l’intelligente investimento di una società che decide di non consegnare al carcere la funzione di scuola di formazione della criminalità". Il carcere di un Paese civile non è un "cimitero dei vivi", come lo definì Filippo Turati, né "deresponsabilizzante e organizzato in modo da spingere i reclusi verso una dimensione infantile" come è ora. È invece più vicino a quello "proposto negli anni da Marco Pannella", ricorda Orlando, con i suoi "incessanti moniti su una realtà trascurata che sono stati troppo spesso inascoltati". L’applauso per il vecchio leader Radicale è risuonato di nuovo, stavolta non solo da parte dei detenuti, dentro Rebibbia. Mascherin (Cnf): "una grande detenuta… la nostra società nella cella del giustizialismo" di Errico Novi Il Dubbio, 19 aprile 2016 Siamo giunti all’evento conclusivo degli Stati generali per l’esecuzione penale. Ieri nel carcere di Rebibbia, a Roma, sono intervenuti il ministro Orlando, il presidente del Cnf Mascherin (che ha espresso il punto di vista dell’avvocatura), rappresentanti della magistratura e delle forze politiche. Il Ministro ha parlato a favore delle pene alternative e ha citato una celebre e splendida canzone di Lucio Dalla, nella quale un detenuto vede da dietro le sbarre una casa e una donna perse in mezzo al blu. "Io credo - ha detto Orlando - che ogni detenuto abbia il diritto di raggiungere quella casa, e in questi Stati generali abbiamo trovato molte ragioni per dar corpo a questa speranza". Mascherin si è detto d’accordo con Orlando e ha sostenuto che "In Italia c’è una grande detenuta: la nostra società chiusa nella cella del giustizialismo. Occorre un grande impegno culturale per liberarla". Un auditorium affollato, ai limiti del tollerabile: l’immagine di Rebibbia nella giornata clou degli Stati generali dell’esecuzione penale è di un accalcarsi non solo fisico attorno al carcere. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando riesce nel primo obiettivo: attirare l’attenzione. Il suo intervento però ha soprattutto il senso della sfida: "Dai tavoli tenuti aperti in questi mesi verranno proposte normative per la riforma dell’ordinamento penitenziario: ma le regole funzioneranno solo se saranno accolte da un’innovativa impostazione culturale". Cambiare la visione del carcere nella coscienza del Paese: è questa la missione che si danno il guardasigilli e tutti gli studiosi coinvolti nell’iniziativa di via Arenula, a cominciare dal comitato scientifico presieduto da Glauco Giostra. Sfida difficile, perché dovrà misurarsi con quella che Orlando chiama "illusione securitaria", e con la propaganda dei cosiddetti "imprenditori della paura". Nelle prima delle due giornate conclusive di questi Stati generali, ospitate nell’auditorium del carcere romano di Rebibbia, l’attenzione è tutta per la relazione del ministro, anche quella di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica è seduto in prima fila ed è chiamato in causa da Orlando come "una figura insostituibile per l’attenzione che ha più volte mostrato nei confronti di questa iniziativa e per i molti schermi che potrà aiutarci a bucare". I numeri sono il punto di partenza: "Il sistema costa ogni anno 3 miliardi di euro", ricorda il ministro della Giustizia, "a fronte di un impegno così gravoso, però, il tasso di recidiva tra è tra i più alti d’Europa: circa il 56 per cento". La strada per invertire la rotta è chiara: "Maggiore spazio alle misure alternative al carcere: tra chi sconta la pena fuori degli istituti, quel tasso scende al 20 per cento". Molto dovrà cambiare, dice il guardasigilli. L’Italia ha rimediato ai ritardi che aveva soprattutto sul fronte del sovraffollamento: lo riconoscono anche il commissario Ue per la Giustizia Vera Jurova e la vicesegretaria del Consiglio d’Europa Gabriella Dragoni Battaini, intervenute a inizio sessione. Situazione recuperata, secondo Orlando, anche grazie "alla cultura giuridica del nostro Paese. Eppure", aggiunge il ministro, "resta troppo grande la distanza tra chi ha sollecitato maggiore attenzione per il mondo del carcere e quelli che lo trattano solo con un approccio strumentale". Alla prima schiera, osserva il guardasigilli, va ascritto innanzitutto "Marco Pannella, che sono stato a trovare ne giorni scorsi: le soluzioni da lui proposte in questi anni possono essere condivisibili o meno, ma il valore del suo impegno e dei suoi moniti non si discute". E giù un applauso pieno di commozione, uno dei pochi che l’atmosfera dura del carcere consente alla platea. Torna più volte il nome di Giorgio Napolitano e quel suo appello alla "prepotenze urgenza di un provvedimento per rimediare alle condizioni dei detenuti" dell’estate di tre anni fa. Napolitano interverrà a sua volta a chiusura dei lavori, dopo il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Al quale va attribuita una delle metafore più riuscite della giornata, quella con cui chiede "l’evasione" di una "grande detenuta: la società italiana, che deve venire fuori dalla prigione dell’egoismo e della punizione a tutti i costi". Gli avvocati saranno parte attiva di quella "sinergia culturale" chiesta da Legnini per favorire una nuova consapevolezza nel Paese. All’orizzonte resta l’immagine richiamata da Orlando a fine intervento, presa da "una struggente canzone di Lucio Dalla "Una casa in riva al mare": c’è questo detenuto che vede da dietro le sbarre una casa e una donna perse in mezzo al blu. Io credo che ogni detenuto abbia il diritto di raggiungere quella casa, e in questi Stati generali abbiamo trovato molte ragioni per dar corpo a questa speranza". Armarsi di tanta passione è un bel modo, per il guardasigilli, di andare verso il nemico giustizialista, che non sarà facile da battere. Un’idea nuova di pena, contro il rischio del proselitismo in carcere di Carmine Fotia L’Unità, 19 aprile 2016 Stati generali dell’Esecuzione penale: Europa e Italia cercano strategie comuni. La prima notizia - nel giorno in cui si aprono gli Stati generali dell’Esecuzione penale, ieri nell’Auditorium del carcere di Rebibbia, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - è che questa volta l’Europa, in materia di carceri, non si presenta con l’ennesima lettera di richiamo all’Italia, ma la promuove a pieni voti. Certo il lavoro da fare è ancora moltissimo e la Commissaria Europea Vera Jourova, in conferenza stampa con il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, promette di mantenere alta l’attenzione, ma intanto approva l’azione degli ultimi tre anni che ha portato il sovraffollamento nelle carceri dal 150% al 105%. Dal 2010 ad oggi i detenuti sono passati da 67.971 a 53.495, 29.679 persone scontano la pena non in carcere: 10.000 ai domiciliari, oltre 12.000 in affidamento in prova e circa 6.500 in lavori di pubblica utilità, mentre 2.300 sono controllate con braccialetto elettronico. La condanna del Consiglio d’Europa (nota come "sentenza Torreggiani") è ormai alle spalle per ammissione della Vicesegretaria generale del Consiglio, Gabriella Battaini-Dragoni: "Con grande soddisfazione mi faccio referente delle felicitazioni del Consiglio d’Europa che lo scorso marzo ha chiuso il caso italiano per constatato adempimento di tutte le prescrizioni della Corte". La seconda notizia, non meno importante, è che tra l’Italia e l’Europa c’è piena sintonia sul modo di contrastare la radicalizzazione del terrorismo islamico che cerca di fare delle carceri un luogo di proselitismo, come ieri ha ricordato il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, secondo il quale a rischio sono i detenuti comuni di fede islamica che possono trovare nel terrorismo una risposta al fallimento dell’integrazione. Occorre monitorare dentro il carcere, ma anche dopo. Una minaccia che provoca paure e rischia di evocare nell’opinione pubblica un sentimento securitario che potrebbe frenare la riforma carceraria e una nuova idea dell’esecuzione della pena, che sono al centro degli Stati Generali. Esiste questo rischio?, abbiamo chiesto al Ministro Orlando e alla Commissaria Jourova. Entrambi rispondono di no. Intanto perché, dice il Ministro Orlando, "non è certo la minaccia di una pena più alta che può frenare un terrorista disposto a tutto". Proprio i paesi che hanno invocato le politiche di sicurezza più dure, stanno pensando di definire modalità di esecuzione della pena diverse dal carcere per i soggetti entrati nella rete della radicalizzazione. Ovviamente non è un discorso riferito ai terroristi, ma ai soggetti radicalizzati. Carceri costruite su modelli ottocenteschi rischiano di divenire il brodo di coltura dove il reclutamento diventa più facile. Occorre che il carcere non diventi occasione di proselitismo. E dunque trattamenti individualizzati finalizzati alla sanzione ma anche al recupero dei detenuti sono un modo concreto, il più utile per contrastare la radicalizzazione terrorista. Quanto ai numeri, si tratta, per quanto riguarda l’Italia, di circa 360 detenuti radicalizzati. Un numero non elevato dunque, che comunque monitoriamo. Inoltre, aggiunge, la Commissaria Europea "finché non avremo in tutti i paesi europei delle carceri dove siano rispettati standard dignitosi per i detenuti, sarà difficile che possa essere effettivamente attuato il mandato di cattura europeo", che è uno strumento cruciale nella lotta al terrorismo. Il tema al centro degli Stati Generali, a quarant’anni dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, è una nuova idea dunque dell’esecuzione penale che affronti le condizioni di vita nelle carceri, le politiche di recupero e reinserimento, le pene alternative, la professionalità di chi lavora nel carcere. Studiosi, politici, autorità religiose e istituzionali: dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, al presidente della Cei, Cardinale Angelo Bagnasco, la presidente della Rai Monica Maggioni. Si tratta, per dirla con il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Filck, di "fare entrare nel carcere la Costituzione e far entrare il carcere nella logica della Costituzione" che all’articolo 27 chiede di eseguire una pena umana e finalizzata al recupero. Si tratta anche di una sfida culturale, Orlando lo dice apertamente, nei confronti di chi usa "il carcere come elemento declamatorio, come ornamento demagogico, come puro artificio che genera paura, stupore, consenso. L’illusione securitaria ha pensato che la segregazione e l’inasprimento delle pene potesse compensare l’indebolimento dello stato sociale. Con questo armamentario si è pensato di affrontare fenomeni come la droga, l’immigrazione, la marginalità psichica, persino la miseria". Affrontato il tema del sovraffollamento, ora si tratta di sconfiggere l’altro grande male del carcere italiano: il tasso di recidiva che è tra i più alti d’Europa. Il paradigma va completamente rovesciato: "I richiami securitari hanno presa nei proclami, ma poca o nessuna efficacia nella realtà dei fatti", perché i numeri dicono che è i detenuti che usufruiscono di misure alternative al carcere tornano a delinquere molto di meno, dice il Ministro. "È fallace la convinzione che un maggior tasso di carcerazione produca più sicurezza sociale, essendo vero al contrario che l’espiazione extracarceraria della pena abbatte il tasso di recidiva", conferma Glauco Giostra, coordinatore dei 18 tavoli che hanno lavorato a definire le proposte che saranno discusse negli Stati Generali. Un lavoro importante che si avvale anche della nuova figura del garante dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, nominato a febbraio, dell’autorevole patrocinio del presidente emerito Giorgio Napolitano che, Io ha ricordato ieri, dedicò alla condizione delle carceri il suo unico messaggio al parlamento. E che registra la presenza ideale dell’uomo che più di ogni altro si è battuto per i diritti dei detenuti: Marco Pannella, citato sia da Orlando sia da Napolitano e salutato da una ripetuta e affettuosa serie di applausi. Ci sono anche elementi controversi, come quelle del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Il Procuratore Nazionale Antimafia, Roberti, ne sottolineala centralità e l’efficacia nel contrasto alla criminalità organizzata ma, lo dice Flick, pur senza volerlo abolire ci si comincia a interrogare su possibili applicazioni puramente vessatorie. Il Commissario europeo alla Giustizia Vera Jourova "priorità è combattere il radicalismo" di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 19 aprile 2016 Le cattive condizioni carcerarie in Europa sono causate soprattutto dal sovraffollamento. Più della metà degli Stati membri ha un tasso di occupazione dello spazio carcerario superiore al 100%. Quattro superano il 120%". Il commissario europeo alla Giustizia, Vera Jourova, è a Roma per partecipare a-gli Stati generali dell’esecuzione penale. L’Italia è stata sanzionata per il sovraffollamento carcerario. Ora come valuta la situazione? "Sono venuta a Rebibbia anche per vedere, coi miei occhi, come stanno le cose in un penitenziario italiano. Dal 2013 l’Italia ha compiuto notevoli sforzi per superare quella valutazione per la quale le condizioni nelle carceri italiane era disumana: da un tasso di occupazione dello spazio pari al 150%, è scesa al 105%. E so che lavora per scendere al 100%, usando misure alternative e agendo sulla prevenzione". Le strutture sono spesso fatiscenti, ma nella Ue un giorno di detenzione costa in media 95 euro. "È cosi. Ma l’Italia, insieme ad altri 11 Stati, ha chiesto alla Commissione di esaminare la possibilità di un ammodernamento tramite le risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr)". Tale possibilità esiste? "Sì. In base alle priorità di efficienza energetica del Fesr, sono disponibili fondi per installare il riscaldamento centralizzato, l’acqua calda diretta e altro ancora. Ma è possibile anche finanziare progetti per la riqualificazione professionale dei detenuti, in vista di quando torneranno nella società". A quanto ammontano quelle risorse? "Non ho ancora un’idea del budget legato alle necessità italiane, ma ne discuterò col ministro Orlando". Migliorare le condizioni carcerarie è prioritario anche per ridurre il rischio di una radicalizzazione jihadista fra i detenuti... "Già. E purtroppo sono soprattutto i giovani, magari finiti in carcere al primo reato, a essere esposti al rischio di indottrinamento". E sul web? Anche lì il rischio di proselitismo è alto. "Sto lavorando a una piattaforma informatica. A giugno potrebbe essere pronto un codice di condotta per contrastare il fenomeno delle dichiarazioni di o-dio e violenza su Internet. Aziende come Google e Facebook si stanno rendendo conto che sono parte del problema: dobbiamo giungere a un accordo con loro". La libertà di movimento dei terroristi nati in Europa e alcune défaillance investigative fanno ritenere necessaria una procura antiterrorismo Ue. Lei è di questo parere? "Va cercata una soluzione. Un Fbi europeo sarebbe una buona idea, ma di lunga realizzazione. Ritengo più agevole e rapido allargare i poteri di Europol". Il Parlamento europeo ha appena introdotto il Passenger Name Record, per monitorare gli spostamenti aerei dei pendolari dello jihad. Sicurezza e privacy sono poco conciliabili? "Dobbiamo vigilare su ciò che fanno le agenzie investigative, ma dovremmo essere anche attenti ai dati che noi stessi immettiamo in rete. Io sono cresciuta in Cecoslovacchia quando c’era la cortina dì ferro e a 25 anni ho scoperto di esser stata spiata da un conoscente. E mi sorprendo vedendo quanti giovani di oggi, cresciuti in democrazia, immettano dati a volte sensibili e privati nella rete e nei social network.". Fra quei giovani europei c’era Giulio Regeni, torturato e ucciso in Egitto. "Preferisco non commentare il caso, che ricade nelle competenze della collega Federica Mogherini". Ma c’è qualcosa che lei può fare per migliorare quella cooperazione giudiziaria? "Possiamo fare leva su sostegno e fondi quando si tratta di Paesi che negoziano l’ingresso nella Ue, come l’Ucraina. Ma non è il caso dell’Egitto, con cui i nostri strumenti sono meno stringenti e indiretti". La Corte di giustizia Ue: "condannare l’Italia, non tutela le vittime di violenza sessuale" di Paolo Fantauzzi L’Espresso, 19 aprile 2016 Una direttiva europea prevede di indennizzare i cittadini comunitari che subiscono reati violenti, indipendentemente dallo Stato in cui si verificano. Ma da noi questo discorso vale solo per alcuni casi, come il terrorismo, la mafia o l’usura. Ora il tribunale Ue potrebbe sanzionare il nostro Paese per discriminazione. Perché una vittima di mafia o usura ha diritto di essere indennizzata e chi subisce uno stupro no? Una disparità di trattamento che rischia di costare cara all’Italia: la condanna della Corte di giustizia europea, con l’accusa di discriminazione. Dal 2004, infatti, una direttiva di Bruxelles impone agli Stati membri di prevedere un risarcimento per i cittadini comunitari oggetto di reati intenzionali e violenti che non riescono a ottenerlo dall’autore, indipendentemente da dove si verificano. Tradotto: se hanno diritto alla libera circolazione nello spazio comune europeo, gli abitanti della Ue devono poter contare su leggi che li proteggano allo stesso modo ovunque si trovino. Solo che da noi non è così che funziona, ha lamentato la Commissione europea, che da cinque anni spinge Roma ad adeguarsi. In base alla legge italiana attualmente può essere risarcito chi rimane coinvolto in atti di terrorismo politico (dal 1980) o internazionale (dal 2004), chi è vittima di reati legati alla mafia (dal 1990), estorsione (1992), usura (1996), tratta di esseri (2003) o attentati all’estero (2004). Non, però, chi subisce una violenza sessuale. Così, a partire dal 2011, Bruxelles ha chiesto di sanare la mancanza, ravvisando una discriminazione. Senza successo, però: Palazzo Chigi, ai tempi del governo Monti, presentò un progetto di legge che istituiva un fondo di solidarietà per tutti i reati che avessero provocato la morte o lesioni personali gravi. Poi la fine anticipata della legislatura ha rimesso in discussione tutto e quando ha promesso all’Europa che ci avrebbe pensato il nuovo esecutivo, Roma non ha presentato nemmeno una tempistica. Troppo, a detta della Commissione, che ha deciso così di fare "causa" all’Italia. Che da parte sua si è difesa in giudizio con un’argomentazione quanto meno discutibile: la direttiva europea lascia margini di discrezionalità nella determinazione dei reati intenzionali violenti che devono essere oggetto di indennizzo. E l’abuso sessuale, è la conseguenza, ha tutto il diritto di non rientrarvi. Un ragionamento che non ha convinto l’avvocato generale del tribunale Ue che si occupa del caso, il francese Yves Bot, che nelle sue conclusioni ha chiesto di condannare il nostro Paese. Resta da vedere se anche i giudici del Lussemburgo saranno dello stesso avviso. Anche perché questa vicenda è iniziata proprio con uno stupro: quello subito da una signora di Firenze, alla quale il tribunale aveva riconosciuto 20 mila euro a titolo provvisionale da parte del suo aggressore, un pregiudicato nullatenente, senza impiego né dimora e già detenuto al momento della condanna. Per la donna, una volta uscito dal carcere, il suo aggressore non sarebbe stato in grado di pagare e sarebbe stato espulso in quanto irregolare. Così nel 2012 aveva deciso di fare causa alla Presidenza del Consiglio davanti alla Corte di giustizia europea per la mancata attuazione della direttiva comunitaria, che non garantiva - a lei come a tutte le altre vittime di abusi sessuali - un indennizzo equo e appropriato in base alle lesioni e allo shock subito. Solo che il giudice, pur riconoscendo "non manifestamente infondata" la questione della "diseguale della tutela risarcitoria", aveva rigettato la richiesta, perché la direttiva riguardava solo gli stranieri comunitari. Del resto anche i tribunali in questi anni si sono pronunciati in maniera non univoca: a Torino nel 2010 a una donna romena è stato riconosciuto il diritto all’indennizzo dallo Stato (proprio perché non italiana), mentre a una signora di Trieste nel 2013 è stato negato come accaduto a Firenze. Adesso sarà il tribunale del Lussemburgo a mettere la parola fine alla vicenda: almeno per quanto riguarda i cittadini dell’Unione europea. Legnini (Csm): pm valutati in base all’uso delle intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 19 aprile 2016 Dal vicepresidente del Csm nuovi dettagli sulle "linee guida". "Giovanni Legnini è stato anche sindaco del suo paese, Roccamontepiano, qui in provincia di Chieti. Anche ora che è vicepresidente del Csm si avverte molto il suo legame con la terra d’origine". Lucio Del Paggio, avvocato di Teramo e componente del Consiglio nazionale forense, è sul banco dei relatori al convegno "Come si comunica la giustizia", a Vasto. Siede di fianco al massimo rappresentante del Consiglio superiore. Sabato 16 aprile, nella città della costa abruzzese, si discute di immagine pubblica di giudici e pm, di Tribunali che non possono parlare solo con le sentenze, e il livello degli interventi è molto alto. Insieme con Legnini prendono la parola il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e due sottosegretari, Federica Chiavaroli e Umberto Del Basso De Caro. Il vicepresidente del Csm parla per ultimo. Parte dal fatto che "le giurisdizioni superiori sono già munite di un ufficio stampa, e in generale possiamo dire che il prestigio dei magistrati italiani passi anche per una migliore di capacità di comunicazione". Poi arriva al punto: le intercettazioni. "Abbiamo iniziato un lavoro che fa tesoro delle circolari diffuse da alcuni procuratori. Fisseremo delle indicazioni a cui i pm potranno attenersi, anche se il Csm non si può sostituire ai capi degli uffici nel fissare i metodi di lavoro". È il limite che Legnini aveva già tracciato nell’intervento di giovedì scorso in Cassazione. "Non si tratta di norme con forza di legge, ovviamente, ma di linee guida. È ormai riconosciuta l’esigenza di non rendere pubbliche conversazioni prive di elementi utili alla formazione della prova, e che per giunta contengano notizie riservate su persone non inscritte a registro. Possiamo disegnare un perimetro, dopodiché è il pm a decidere sulla rilevanza delle intercettazioni". Eppure il Consiglio superiore potrebbe riservarsi una forma di "pressione" assai efficace. "L’idea è che nelle valutazioni di professionalità e nel conferimento degli incarichi direttivi, il Csm possa tener conto del grado di adesione, da parte del magistrato, a queste linee guida". E qui di fatto il testo di Palazzo dei Marescialli si candida a non essere un mero vademecum, ma a imporsi come norma. Il fatto di giudicare i pm anche in base alla prudenza nell’uso delle intercettazioni è per ora "un auspicio", spiega Legnini. Ma l’ipotesi rende ancora più interessante il percorso iniziato dal Consiglio superiore. Tanto da farlo diventare più incisivo di qualsiasi legge delega parlamentare. Intercettazioni. Napolitano: "approvare la riforma, i tempi sono maturi" Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2016 Dopo il referendum senza quorum sulle trivelle, si riaccende la partita sulla giustizia. Il senatore alfaniano D’Ascola deposita un testo che cancellerebbe l’aumento dei tempi di estinzione del reato nei processi per tangenti. M5S: "Vogliono salvare esponenti del Pd e del governo coinvolti in scandali". Intanto il presidente emerito sollecita l’intervento sulla pubblicazione delle conversazioni citate in atti giudiziari. Passato il referendum trivelle, che non ha raggiunto il quorum, riparte l’attacco sul fronte della giustizia. Il presidente emerito Giorgio Napolitano - pochi giorni dopo l’uscita pro-astensionismo che ha acceso le polemiche - chiede di approvare subito la riforma delle intercettazioni, sul fronte della loro pubblicazione sui media, e che cessino le invasioni di campo tra magistratura e politica, neppure in nome della lotta "alla piaga purulenta della corruzione". Intanto al Senato il presidente della Commissione Giustizia Nico D’Ascola di Ap (Udc-Ncd) ha presentato un emendamento (leggi) che affosserebbe del tutto la proposta di Donatella Ferranti (Pd) mirata ad aumentare ad hoc i tempi di prescrizione per i reati di tangenti. E i parlamentari del Movimento 5 Stelle lanciano l’allarme sul blog di Grillo: "Il Governo travolto dallo scandalo Trivellopoli mette mano alla riforma della prescrizione per fare in modo che tutti i processi per reati di corruzione legati alle varie inchieste in cui sono coinvolti esponenti del Governo e del Pd (Mafia Capitale, Trivellopoli, Cara di Mineo, ecc.) si cancellino prima di giungere alla fine". Al momento, va detto, l’emendamento reca la firma del solo D’Ascola, parlamentare di maggioranza, ma né il governo né il Pd si sono ancora espressi in aula. Nei giorni scorsi, però, Repubblica ha scritto dell’esistenza di un accordo in maggioranza sull’eterna questione della prescrizione, che divide da mesi e mesi Pd e alfaniani. E l’accordo descritto prevedeva appunto la cancellazione della norma ad hoc sulla corruzione - esattamente quanto chiede l’emendamento D’Ascola - e una modifica sulla scansione dei tempi nella nuova normativa generale sulla prescrizione. Anche questa tradotta oggi in un emendamento firmato dallo stesso senatore centrista, che chiede sostanzialmente di accorciare le sospensioni della clessidra previste dopo condanne in primo e in secondo grado, per qualunque tipo di reato. La pubblicazione del retroscena ha suscitato la corsa alla smentita, sia da parte Ncd (con Enrico Costa), sia da parte Pd (con David Ermini e la stessa Ferranti). La prova del voto in Commissione, prevista in settimana, dirà chi ha ragione. "Penso che sia più che matura l’esigenza di approvare la riforma del processo penale con la norma di delega per riformare le regole e chiarire i termini di comportamento sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione", ha detto il presidente emerito della Repubblica nel suo intervento di chiusura degli stati generali dell’esecuzione penale. Poi ha allargato il campo al rapporto "cruciale" tra politica e giustizia. "Faccio un appello a tutte le forze responsabili della politica e della giustizia perché mettano un freno a quelli che sono arroccamenti, invasioni di campo, strumentalizzazioni". Poi Napolitano ha chiarito da quale parte stiano le "invasioni di campo" e le "strumentalizzazioni": "Anche il categorico impegno delle forze politiche democratiche a combattere la piaga purulenta della corruzione non può costituire motivo di violazione di principi e valori costituzionali". "Al Parlamento e al Senato", ha concluso, "raccomando di non voler lasciare sospesa ed incerta la riforma del processo penale che da troppo tempo si trascina nell’incertezza" Giuseppe Uva, dopo il colpo di spugna assolta la sorella di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 aprile 2016 Secondo i giudici Lucia Uva non ha diffamato le forze dell’ordine sostenendo la tesi del pestaggio e dello stupro in caserma. Lucia Uva è stato assolta dall’accusa di aver diffamato le forze dell’ordine perché "il fatto non costituisce reato". La sentenza, pronunciata dalla giudice Cristina Marzagalli nel pomeriggio di ieri a Varese, è arrivata una manciata di minuti dopo che la procura aveva chiesto una condanna a un anno e due mesi e una multa di 458 euro per la donna, sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo essere stato arrestato. L’imputazione riguardava delle dichiarazioni rese da Lucia nell’ottobre del 2011 alla trasmissione televisiva Le Iene e un’intervista inserita nel documentario "Nei secoli fedele" di Adriano Chiarelli: in entrambi i casi si sosteneva che Giuseppe Uva sia stato riempito di botte e stuprato nella caserma di via Saffi, dove era stato portato nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo essere stato beccato ubriaco mentre spostava delle transenne in mezzo alla strada, nel centro di Varese. Secondo i pm, queste ipotesi sarebbero "frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo". La tesi della difesa invece era tutta incentrata sullo stato emotivo di Lucia Uva durante una fase complicata delle indagini sulla morte di suo fratello. "Quelle dichiarazioni - ha detto l’avvocato Fabio Ambrosetti - erano giustificate da quanto emerso nelle perizie. Lei ha tutto il diritto di pensare che suo fratello sia stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità". Il tribunale ha accolto in pieno questa versione, e Lucia incassa così una piccola vittoria sul piano giudiziario dopo la batosta arrivata venerdì sera con l’assoluzione dei due carabinieri e sei poliziotti che erano finiti alla sbarra con l’accusa di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte di Giuseppe Uva. I legali delle divise, dopo la sentenza di ieri, hanno fatto sapere che non in futuro non cercheranno alcuna rivalsa nei confronti della sorella della vittima, "nonostante le sue pesanti e incaute affermazioni contro poliziotti e carabinieri risultati poi estranei alla morte del suo congiunto, ma comunque amplificate dai mass media e divenute una gogna ingiusta per chi svolge ogni giorno una pubblica funzione". Sette anni di indagini, tre pubblici ministeri diversi e due processi (uno ai medici dell’ospedale di Varese e un altro, più noto, ai poliziotti e ai carabinieri) conclusi con due assoluzioni piene, non sono riusciti a spiegare come sia morto Giuseppe Uva. La battaglia per la verità andrà ancora avanti, anche se è chiaro che, almeno a livello legale, la faccenda sia finita venerdì scorso con l’assoluzione delle divise: l’ipotesi che a otto anni dai fatti possano emergere nuovi elementi tali da poter riaprire l’inchiesta è più impossibile che improbabile. Le indagini non hanno portato prove, e comunque la si voglia pensare, è chiaro che ad aver perso in questa storia è soprattutto la giustizia italiana, ancora una volta incapace di venire a capo di un caso di mala-polizia. Semplicemente ieri il tribunale di Varese ha riconosciuto a una donna il diritto a gridare il proprio dolore. Non era scontato. Custodia cautelare "tempestiva" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 15924. La distanza temporale tra i fatti contestati e il momento della decisione cautelare è "tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare". Le manette, quindi, possono scattare - e fermi gli altri presupposti - solo entro un ragionevole lasso di tempo dai fatti per i quali si procede. La Terza sezione penale della Cassazione torna sul tema del carcere preventivo per dar corso alla parte più pregnante della riforma dello scorso anno (legge 47/2015), vale a dire il nuovo parametro della "attualità" della reiterazione come presupposto per la custodia anticipata (rispetto ovviamente alla sentenza di condanna diventata esecutiva). Con la sentenza 15924, depositata ieri, la Suprema corte ha annullato un provvedimento del riesame di Bologna che aveva confermato gli arresti per un presunto trafficante di droga, avallando l’ordinanza emessa dal Gip di Parma, ancora un po’ troppo ispirata ai canoni "pre-riforma". La probabilità di reiterazione dell’indagato era stata pronosticata dal giudice locale sulla base della gravità del fatto - in cui l’indagato occuperebbe una posizione stabile e dentro un’organizzazione professionale di trafficanti rivolta ad alti livelli di mercato, in aggiunta a due precedenti specifici (e a due applicazioni di misure di sorveglianza pregresse) e alla mancanza di fonti di guadagno lecite. Un quadro prognostico "classico", quindi, ma a giudizio della Terza con un importante e non emendabile vulnus: la distanza temporale dei fatti contestati, avvenuti ben 16 mesi prima della applicazione della misura. Tecnicamente, argomenta la Cassazione, al provvedimento dei giudici emiliani manca un pezzo importante di motivazione, relativa appunto al nuovo e ineludibile presupposto della "attualità" del rischio di reiterazione della condotta criminosa. Il Gip aveva liquidato la questione con la "capillare diffusione del mercato clandestino della droga nella Penisola" e il "consolidamento di una fitta rete di rapporti con fornitori e clienti da parte di chi ha così disinvoltamente operato nel settore a qualificati livelli", giudicando non sufficiente neppure il braccialetto elettronico. La Terza, richiamando precedenti non lontani in tema di attualità del pericolo di reiterazione e di scelta della misura (24478/15), ha sottolineato che "il lungo tempo trascorso dalla commissione del reato depone semmai a favore della mancanza di occasioni favorevoli alla sua reiterazione, che non può essere superata da considerazioni astratte e generiche" come quelle dell’ordinanza impugnata. L’attualità, in sostanza, è cosa diversa dalla "concretezza" del pericolo di reiterazione, perché mentre la seconda descrive "la capacità a delinquere del reo", la prima riguarda "la presenza di occasioni prossime al reato". Concetti solo apparentemente sovrapponibili, e che invece necessitano di valutazione e motivazioni differenti e differenziate. Anche i detenuti in regime di 41bis possono andare al cimitero dai familiari defunti di Gabriele Alberti Il Secolo d'Italia, 19 aprile 2016 Anche un detenuto ristretto al carcere duro del 41bis, condannato all’ergastolo per omicidi e altri reati di rilievo, aggravati dal metodo mafioso, ha diritto ad ottenere il permesso speciale di andare a pregare o a sostare in raccoglimento sulla tomba di un familiare stretto appena morto. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 15953, accogliendo il ricorso di Claudio Vitale (46 anni), condannato al carcere a vita ed esponente della Sacra Corona Unita, al quale il magistrato di sorveglianza di Cuneo, dopo un iniziale via libera a partecipare a Surbo (Lecce) al funerale del fratello morto per un malessere improvviso, aveva revocato il permesso su sollecitazione del Dap del Ministero della giustizia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva evidenziato "il grave rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica poiché la presenza del condannato in una pubblica cerimonia avrebbe creato turbamento propria nell’area geografica dove l’organizzazione criminale è più forte". Al detenuto non era stato concesso nemmeno di andare sulla tomba del fratello, a esequie avvenute, e sotto scorta. Questa decisione non è stata condivisa dalla Suprema Corte che ha fissato il principio di diritto per cui "rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’art. 30 secondo comma della Legge 26 luglio 1975, n. 254, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo ad umanizzare la pena in espiazione ed a contribuire alla sua funzione rieducativa". Ora il magistrato di sorveglianza deve rivedere il suo “no”. Prestanome senza responsabilità presunta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 15900/2016. Il giudice non può punire l’amministratore di una società per la mancata tenuta delle scritture contabili per il solo fatto che ha accettato il ruolo di "testa di legno". Non c’è, infatti, un automatismo tra la carica fittizia e la coscienza e la volontà di distruggere le scritture contabili: un reato per il quale è necessaria la prova del dolo specifico. La Corte di cassazione, con la sentenza 15900, accoglie la domanda del ricorrente e annulla con rinvio la condanna per occultamento e distruzione dei libri contabili obbligatori (articolo 10 del Dlgs 74/200) disposta nei suoi confronti. Secondo la difesa la scelta della corte d’Appello era errata, sia perché mancava il presupposto del dolo specifico sia per la manifesta inoffensività della condotta, unita all’ammontare esiguo dell’imponibile evaso, pari a 2.300 euro. Il ricorrente aveva messo a disposizione degli inquirenti una scrittura privata dalla quale emergeva il suo ruolo di "testa di legno" e si era inoltre prontamente attivato con il commercialista perché producesse le scritture contabili occultate. Il suo comportamento non aveva fatto però cambiare idea ai giudici di merito che lo avevano considerato comunque responsabile di aver contribuito a realizzare il disegno degli effettivi amministratori. Una decisione che, secondo la Cassazione, non rispetta il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, rispetto alla sussistenza del dolo specifico. Per la responsabilità, serve la dimostrazione della coscienza e della volontà da parte dell’imputato di mettere in atto le azioni censurate, unita "all’idoneità impeditiva". Il dolo specifico non può essere presunto in modo automatico, basandosi solo "sull’avvenuta realizzazione dell’elemento oggettivo del reato". Un principio del quale non avevano fatto buon uso i giudici di merito, a parere dei quali, il ricorrente pur ricoprendo un ruolo formale, non poteva ignorare di essere il diretto responsabile della tenuta delle scritture contabili e della presentazione delle dichiarazioni fiscali. La Cassazione annulla dunque la condanna a carico del prestanome perché gli elementi contro di lui non bastano. La Corte di merito dovrà trovare qualcosa di più delle presunzioni in modo da supportare "il fine specifico richiesto dalla norma penale incriminatrice". Intercettazioni telefoniche, legittimità del ricorso alla tecnica dell’instradamento Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2016 Processo penale - Prova - Intercettazione di comunicazioni svolta in Italia - Necessità di rogatoria internazionale - Non sussiste. È principio consolidato che la destinazione ad uno specifico "nodo" telefonico, posto in Italia, delle telefonate estere, provenienti da una determinata zona (cd. Instradamento), non rende necessario il ricorso alla rogatoria internazionale, in quanto l’intera attività di captazione e registrazione si svolge sul territorio dello Stato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 23 dicembre 2015 n. 50452. Processo penale - Prova - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni telefoniche - Utenze straniere - Attività di instradamento. Per ciò che concerne le intercettazioni su utenze straniere, l’attività c.d. di "instradamento", che è identica a quella di "canalizzazione dei flussi", consente la captazione di telefonate che transitano dalle centrali collocate nel territorio dello Stato italiano, e cioè attraverso i c.d. "ponti telefonici". • Corte cassazione, sezione III, sentenza 12 maggio 2014 n. 19424. Processo penale - Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni telefoniche - Tecnica dell’instradamento - Violazione delle norme sulle rogatorie internazionali - Esclusione. In tema d’intercettazioni telefoniche, il ricorso alla procedura dell’istradamento, è cioè il convogliamento delle chiamate in partenza dall’estero in un nodo situato in Italia (e a maggior ragione di quelle in partenza dall’Italia verso l’estero, delle quali è ceto che vengono convogliate a mezzo di gestore sito nel territorio nazionale) non comporta la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, in quanto in tal modo tutta l’attività d’intercettazione, ricezione e registrazione delle telefonate viene interamente compiuta nel territorio italiano, mentre è necessario il ricorso all’assistenza giudiziaria all’estero unicamente per gli interventi da compiersi all’estero per l’intercettazione di conversazioni captate solo da un gestore straniero. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 31 marzo 2009 n. 13972. Processo penale - Prove - Mezzi di ricerca della prova - Conversazioni con utenti all’estero - Ricorso alla tecnica dello "instradamento" - Necessità della rogatoria internazionale - Esclusione. In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, è pienamente legittima l’utilizzazione della tecnica del cosiddetto "istradamento", che comporta il convogliamento attraverso un gestore nazionale delle telefonate provenienti dall’estero e dirette ad una utenza italiana, ovvero in partenza da quest’ultima e diretto verso utenze estere, senza che sia necessario promuovere una apposita rogatoria internazionale, posto che l’intera attività di captazione e registrazione si svolge sul territorio dello Stato. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 28 marzo 2008 n. 13206. Processo penale - Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In genere - Telefonate concernenti un’utenza estera - Utilizzazione della tecnica del cosiddetto "instradamento" - Legittimità - Sussistenza - Necessità di ricorrere alla rogatoria internazionale - Esclusione. In tema di intercettazioni telefoniche, è legittimo il ricorso alla tecnica del cosiddetto istradamento, che comporta la destinazione ad uno specifico "nodo" telefonico delle telefonate estere provenienti da una determinata zona, senza che venga promossa un’apposita rogatoria internazionale, in quanto l’intera attività di captazione e registrazione si svolge sul territorio dello Stato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 5 marzo 2008 n. 10051. Il giusto bavaglio alle intercettazioni di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 aprile 2016 Nordio e Legnini contro la gogna mediatica. C’entrano i giornali. C’è chi dice "no" alla gogna mediatica delle intercettazioni pubblicate sui giornali. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, in un’intervista al quotidiano Libero l’ha definita "una porcheria indegna di un paese civile". Si riferiva anche a quanto accaduto con le conversazioni tra l’ex ministro dello Sviluppo Federica Guidi e il suo fidanzato che - spiega Nordio - rappresentano "un fatto privato, che avrebbe dovuto rimanere tale". Per il pm di Venezia non basta "limitare la diffusione delle intercettazioni a ciò che il magistrato ritiene rilevante per l’accusa", perché in questo modo si lasciano "troppi poteri al gip e al pm, che restano gli arbitri unici delle conversazioni che possono essere divulgate e di quelle da tenere riservate". Il punto invece, secondo Nordio, è che "le telefonate non devono essere considerate prove, ma mezzi di ricerca della prova" e per questo motivo "dovrebbero restare nel cassetto del giudice", utili come strumento investigativo "ma estranee al fascicolo processuale, e quindi non pubblicabili sui giornali". La legge, insomma, "va cambiata". Nell’attesa, prova a muoversi il Consiglio superiore della magistratura. Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, ha detto al Corriere della Sera che "i colloqui personali irrilevanti" non dovrebbero finire sulla stampa, e in tal senso il Csm sta elaborando linee guida - seppur non vincolanti - per tutte le procure d’Italia. C’è da sperare che finalmente si torni a riflettere sul tema, tenendo a mente queste considerazioni che arrivano dal mondo della giustizia. E ricordando, come fa intendere Nordio, che un giusto bavaglio esiste anche per i giornali. Non si può spacciare lo sputtanamento per libertà di stampa. Cagliari: di nuovo in cella la detenuta più anziana d’Italia. Stefanina Malu ha 83 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2016 È tornata da qualche giorno nel carcere dopo circa un mese di ricovero, la detenuta più vecchia d’Italia. Stefanina Malu ha 83 anni, soffre di gravi disturbi tra cui cardiopatia ipertensiva e aneurisma dell’aorta addominale, vive in uno stato confusionale ed è rinchiusa nel carcere cagliaritano di Uta. Si muove con una sedia a rotelle perché non è in grado nemmeno più di camminare. Non è la prima volta che va in ospedale. Alla fine del mese scorso era tornata in cella dopo quindici giorni di cure ospedaliere, perché le sue condizioni sembravano stabili. Invece è stata nuovamente ricoverata in ospedale per una bradicardia. A denunciarlo è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che con i volontari ha incontrato più volte la donna trovandola "malferma sulle gambe e assai confusa nel ricostruire fatti e situazioni, con palesi vuoti di memoria". La sua vita è un continuo spostarsi dalla cella ad un letto dell’ospedale, e viceversa. All’inizio dell’anno l’anziana signora fu ricoverata perché colta da un malore mentre faceva la doccia ed era caduta sbattendo fortemente la testa. Ma ad oggi è ancora detenuta, nonostante la sua vecchiaia e l’evidente incompatibilità con il carcere a causa delle sue gravi condizioni di salute. Nel 2009 era finita in carcere per spaccio di stupefacenti, nel 2012 aveva ottenuto i domiciliari per accudire suo figlio non autosufficiente, poi deceduto. È stata però ricondotta in carcere, perché non avrebbe tenuto un comportamento corretto. C’è un luogo comune secondo il quale si pensa che dopo una certa età non si vada più in carcere. Un luogo comune che nasce, molto probabilmente, dal buon senso. Le patrie galere creano disagi, malattie e turbe psichiche ai detenuti giovani, figuriamoci nei confronti di persone che superano i 70 anni. Eppure non sono pochi coloro che vi sono ristretti. Secondo i dati più recenti del ministero della Giustizia, su un totale di 58mila e 92 detenuti ben 3572 sono anziani. La composizione della popolazione carceraria è il riflesso della crisi sociale che stiamo vivendo. Sempre più anziani si danno al crimine, perché la necessità di superare le ristrettezze economiche può spingere a commettere reati. Si arriva così a casi drammatici ai limiti del grottesco, come quello del pensionato genovese che, per arrotondare il suo reddito, si era ridotto a custodire un chilo di cocaina per conto di una gang di spacciatori albanesi. Al di là degli episodi di cronaca, le dimensioni sociali del fenomeno sono notevoli: nel 2011, ultimo anno per cui sono disponibili i dati Istat, gli over 65 hanno commesso circa 38mila reati in Italia, con una distribuzione quasi omogenea tra Nord e Sud, a riprova del fatto che si tratta di crimini dovuti alla condizione di necessità individuale più che alla diffusione della criminalità sul territorio. Le cifre fornite dall’istituto di statistica indicano che 4mila persone in età pensionabile sono state denunciate per "minacce e ingiurie" e circa 2mila per "lesioni dolose e furti". La maggior parte, circa 16mila, però, rientra nella categoria degli altri delitti, per esempio la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda gli arresti domiciliari. Come accaduto appunto nel caso della vecchietta sarda, che dovrebbe essere accudita presso una residenza sanitaria, invece rischia di morire dentro una cella condivisa con altre due persone. L’istanza di scarcerazione presentata dal legale è stata però respinta dal magistrato di sorveglianza. Forse sarebbe il caso che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella conceda la grazia a Stefanina Malu. Sarebbe un gesto forte, che permetterebbe di affrontare uno dei tanti problemi legati al sistema giudiziario -penitenziario. Un sistema indubbiamente privo di anima ed esclusivamente vendicativo che non risparmia nemmeno una vecchietta di 83 anni. Bologna: "più educatori". Magistrato di sorveglianza il accoglie reclamo di un detenuto Ansa, 19 aprile 2016 L’amministrazione penitenziaria dovrà entro fine giugno aumentare il numero degli educatori nel carcere della Dozza, dopo che il magistrato di sorveglianza di Bologna ha accolto il reclamo di un detenuto. A fronte di una pianta organica che prevede all’area pedagogica 12 funzionari, ne risultano operativi cinque. A darne notizia è la Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, che spiega come l’ordinanza del Magistrato abbia riconosciuto "l’attualità della seria compressione del diritto al trattamento del singolo detenuto reclamante sia una generale grave insufficienza nei confronti di tutti i ristretti". Secondo il Garante "tale carenza è ancora più eclatante in rapporto alle presenze in istituto, che al 21 marzo contava 767 persone, e in particolare al numero di persone condannate in via definitiva, che sono 391, ben oltre il 50% della complessiva popolazione detenuta". Il Garante aveva segnalato, sin dal 15 settembre 2015, la grave carenza di educatori. Terni: in carcere un "Festival della cultura" in memoria di un detenuto morto suicida umbriaon.it, 19 aprile 2016 Da un evento drammatico come il suicidio di un detenuto è stato tratto lo spunto per un festival che è il completamento di un percorso. Giovanni Solinas era detenuto nel carcere di Terni quando, il 29 luglio 2015, ha deciso di porre fine alla sua vita. nella cella del carcere di Sabbione dove era detenuto. "Un evento drammatico, un suicidio - racconta Francesca Capitani, coordinatrice del "Festival della cultura" organizzato in memoria di Solinas - che ha spinto chi lo conosceva a reagire, a non abbattersi di fronte alle tragedie che si consumano nei ‘luoghì della nostra città. Ai temi della pena, della sofferenza, delle debolezze umane, un gruppo di volontari impegnati a Sabbione ha deciso di rispondere con la cultura". Il festival E così è nato il "Festival della cultura in memoria di Giovanni Solinas", in corso nella casa circondariale di Terni, dove un gruppo di persone, i ‘Condannati al volontariatò, coordinati proprio da Francesca Capitani, hanno deciso di consolidare e potenziare le attività a sostegno della funzione rieducativa della pena e presenteranno il Festival giovedì 21 aprile, a partire dalle 16.30, nella sala polivalente del Cesvol di Terni, in via Montefiorino. La cerimonia Oltre alla stessa Capitani parteciperanno Lorenzo Gianfelice, presidente del Cesvol di Terni; Chiara Pellegrini, direttrice della casa circondariale di Terni; Giorgio Armillei, assessore alla cultura del Comune di Terni; Fabio Gallo, comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale di Sabbione; Cristina Montesi, della facoltà di Economia dell’università di Perugia; Carlo Ottone, presidente dell’Asm. Le conclusioni saranno affidate a Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza. A coordinare i lavori sarà Francesca Ponticelli, dell’associazione "Condannati al volontariato". "I Condannati al volontariato" hanno attivato dieci laboratori all’interno della Casa Circondariale, che spaziano dalle attività di pedagogia teatrale e di poesia, di benessere psico-fisico, di conoscenza e di filosofia, ludico-ricreative fino alle attività volte a risolvere problematiche relative al tema delle affettività familiari. "Alcuni laboratori - spiega Francesca capitani - sono già terminati, altri sono in corso, altri saranno attivati e conclusi entro il 29 luglio 2016, giornata conclusiva del festival, a un anno esatto dalla scomparsa di Giovanni Solinas. Fondamentale è la sensibilità, la disponibilità e la collaborazione mostrata da tutto il personale della Casa circondariale di Terni". Matera: "La legalità ha un costo", il bene confiscato si finanzia con il crowdfunding di Paolo Fiore L’Espresso, 19 aprile 2016 Squalo Beach a Scanzano Jonico è diventato Lido Onda Libera. È il primo bene confiscato che raccoglie risorse con il finanziamento diffuso online. Per risorse, promozione e trasparenza. Il cambiamento si capisce già dal nome. Adesso quel pezzo si sabbia e mare di Scansano Jonico, Matera, si chiama Lido Onda Libera. Fino al 2011 si chiamava Squalo Beach ed era la base operativa del clan Scarci. È uno dei pochi lidi sequestrati e il primo bene confiscato che raccoglierà fondi attraverso il crowdfunding. La campagna è partita su Eppela e punta a raccogliere 5 mila euro. Cifra contenuta (in linea con il canale scelto). Che però testimonia una cosa: "La legalità ha un costo", dice Pino Annunziata, uno dei soci della cooperativa che gestisce il lido. "Lo scorso anno non siamo rientrati dell’investimento". Sono serviti 30 mila euro, 25 mila dei quali ottenuti con un prestito di Banca Etica. Non poco per i soci, che nella vita fanno tutt’altro. Annunziata è un medico, affiancato da un insegnante di inglese, un professore di educazione fisica e un geometra. Cui si aggiungono due ragazzi con sindrome di Down. Perché la cooperativa è promossa da Uisp (Unione italiane sport per tutti) e da Aipd (Associazione italiana persone Down), in collaborazione con Libera. I soldi sono stati necessari per mettere in regola quello che non lo era. "Il vecchio lido - spiega Annunziata - era allacciato all’acqua in modo illegale. Per metterlo a norma abbiamo dovuto fare uno scavo di 700 metri". Ed è solo uno degli esempi che, tra lavori e prassi burocratiche, ha posticipato l’apertura fino al 14 luglio. Più di mezza stagione estiva bruciata. L’obiettivo, quest’anno, è di aprire il primo giugno. E per farlo Onda Libera ha deciso di usare il crowdfunding in una delle sue forme più immediate e (per ora) di maggior successo: il reward based. I finanziatori donano e, in base alla cifra, ricevono una ricompensa: con 10 euro una giornata al lido; con 20 sdraio, ombrellone e maglietta; con 50 un posto riservato per una settimana; con 70 anche un laboratorio di auto istruzione; con 100 le settimane diventano due; con 200 si passa a un mese e con 500 all’intera stagione. Di fatto un pre-acquisto a buon prezzo. "Il nostro è un progetto inclusivo", spiega Annunziata. I 5 mila euro serviranno a migliorare l’accessibilità di disabili, bambini e anziani. Che tradotto in materiali significa nuove pedane in legno, tettoie e tendaggi più ampi, impianti video, audio e luci. Tutto costruito con il lavoro di soci, volontari e minori ospiti di strutture protette del territorio. L’idea è arrivata durante una cena tra i sostenitori del progetto. "Ci siamo chiesti quali soluzioni ci potessero essere per migliorare il lido", spiega Annunziata. A tavola c’era anche il project manager Eustachio Rubino. "Ho parlato ai gestori della cooperativa del crowdfunding e ho suggerito questa campagna". L’accoglienza è stata fredda. "All’inizio avevo delle perplessità", conferma Annunziata. "Non avevo mai sentito di un bene confiscato sostenuto dal crowdfunding. E allo stesso tempo ero un po’ scettico vista la proliferazione di questo strumento. Poi, discutendone, mi sono convinto che è il soggetto della campagna a fare la differenza. Spero che sarà efficace". "Il crowdfunding - sottolinea Rubino - può coinvolgere e allargare il bacino di utenti, incentivare attraverso un pre-acquisto e dare ossigeno alla cooperativa in una terra non facile". Ma non è solo una questione di soldi. Per Annunziata, "al di là del finanziamento c’è il messaggio". E poi "il crowdfunding è un tassello della promozione" del lido. Un po’ di pubblicità serve sempre, anche per un bene confiscato. Ma soprattutto, afferma Rubino, "i nuovi strumenti sono fondamentali per una questione di trasparenza". La stessa trasparenza che spesso manca nella gestione dei beni confiscati. "Non sempre l’affidamento ha portato ai risultati sperati". Un po’ perché "gestire un bene non è semplice". Un po’ perché inefficienza e mala-gestione fanno il resto. La trasparenza è un possibile antidoto. Anche attraverso il digitale. A oggi non esiste una piattaforma agile ed efficiente per la gestione dei beni confiscati. Sarebbe importante "integrare sistemi informatici per il loro affidamento". Quanto vale il crowdfunding - Il crowdfunding in Italia cresce, anche se si mantiene ancora su numeri risicati. In un anno, secondo il Crowdfunding Report dell’Università Cattolica di Milano, le piattaforme attive sono passate da 41 a 69. Oggi danno lavoro a 249 persone. La maggior parte (31) è basata sulla ricompensa, 13 sono quelle di donazione e altrettante di equity. Quelle con sede al sud sono appena 5. I progetti presentati nel 2015 sono stati quasi 101 mila (un numero raddoppiato rispetto al 2014). Quelli pubblicati 21.384 (anche questi in aumento, del 67%). Il tasso di successo è del 30%. Chiaro quindi che l’imbuto, dalla presentazione al finanziamento, resti assai stretto. In totale sono stati raccolti 56,8 milioni di euro. Con la ricompensa che conferma la sua vocazione ai piccoli progetti: rappresenta il 45% delle piattaforme ma il 12,5% della raccolta: 7,1 milioni. Prevalgono, di conseguenza, le campagne di piccolo taglio: in 8 casi su 10 la richiesta va dai mille ai 10 mila euro. E solo il 16% contribuisce con più di 100 euro. I progetti nella fascia di Onda Libera (tra i 3 e i 5 mila euro) sono stati 39. Di buono c’è che il crowdfunding sembra ben tagliato per iniziative come quella della coop lucana. Prevalgono infatti le campagne creative e culturali (37%) e sociali (34%). Questione di trasparenza - Parliamoci chiaro: "Il crowdfunding non è risolutivo - ammette Rubino - ma può essere un supporto". Non solo nelle campagne dagli importi ridotti, come quella di Onda Libera. "Potrebbe funzionare anche per cifre più massicce ed essere un modello virtuoso, una leva. Non solo per i beni confiscati ma anche per quelli demaniali e culturali". In questi casi la ricompensa, secondo Rubino, "è il modello migliore". Non è una donazione, ma non ha neppure le esigenze di ritorno dell’investimento tipiche dell’equity (quando la folla degli investitori rileva una quota della società in attesa di un rendimento). "Anche se non è escluso che il crowdfunding si possa integrare, ad esempio, con fondi gestiti da enti locali". Gli ostacoli non sono pochi. "Il crowdfunding - continua Rubino - non è ancora compreso appieno. Bisogna diffondere, anche negli ambienti che lottano contro la mafia, la cultura di questo strumento". E poi c’è una caratteristica che al momento rappresenta allo stesso tempo il punto debole e la forza dei progetti che non hanno il lucro come solo obiettivo: campagne di crowdfunding come questa, piccola ma dall’elevato valore, si concretizzano sul web ma è legata al territorio. Quindi ad aree piccole. Si muovono capitali ridotti ma si instaurano legami forti. "Il crowdfunding crea un focolaio ma la vera leva è la territorialità", conferma Rubino. Tutti possono partecipare, ma non si tratta di una donazione pura. Per cui l’incentivo concreto (oltre a quello civico) è il posto sotto l’ombrellone. Affittato da chi a Scansano ci vive, ci passa le vacanze, e non ha paura di prendere il sole al Lido Onda Libera. Perché la trasparenza nella gestione è anche trasparenza nella donazione. Chi contribuisce può decidere di metterci, oltre ai soldi, anche nome, cognome e faccia. Alessandria: va in scena lo Zelig dei carcerati, i reati diventano sketch di Miriam Massone La Stampa, 19 aprile 2016 "Spettacolo di evasione". Questo il nome dello show portato sul palco dai detenuti del Don Soria di Alessandria Che a maggio saranno in tournée teatrale. Non c’è il sipario, ma ad aprirsi e chiudersi ci sono le sbarre, niente maschere a staccare i biglietti, ma agenti penitenziari col mazzo di chiavi alla cintura e la pistola nella fondina. Il teatro è al Don Soria di Alessandria. Tra i 236 detenuti il regista iraniano Omid Maleknia ha scritturato i migliori, con le loro storie, di rapine, truffe, spaccio da trasformare in sketch comici: "Anni fa portai qui il cabaret: poi pensai che invece di prepararlo per i detenuti potuto prepararlo con i detenuti". Così, assieme allo scrittore Pee Gee Daniel, è nato "Spettacolo di evasione", una sorta di Zelig dei carcerati. Roberto, 28 anni, sembra un Abatantuono degli esordi: racconta di furti e banconote false con una comicità da professionista, cambia accento quando fa la parte del suo avvocato milanese, uno che a forza di "massì, tu al giudice dì sempre che va tutto bene" è la causa del suo prolungato soggiorno al Don Soria: "Dovevano essere 3 giorni, sono diventati 90". Il tempo per preparare lo show, 6 mesi di prove, 2 giorni a settimana. I magrebini imparano tutto a memoria, come Kamal, che "da piccolo tosavo le pecore e sognavo di fare il barbiere: l’ho realizzato quando mi hanno arrestato". Ora è il coiffeur dei carcerati. Entrato anni fa, nel frattempo si è sposato. Quando lo racconta al microfono i compagni di cella si piegano dalle risate: "Visto che non so scrivere ci hanno pensato loro a preparare la richiesta per il permesso premio, per la mia notte di nozze: io l’ho solo firmata". E si è ritrovato in isolamento: "Mi hanno fatto sottoscrivere "maresciallo cornuto": così resto l’unico sposo ancora in attesa di consumare". Sorriderci è esorcizzare. L’educatore Paolo Bellotti: "S’ispirano a pezzi della loro vita: l’autoironia aiuta a decontestualizzare e avviare una propria revisione critica". Sul palco, davanti agli altri compagni e agli spettatori ci sale anche Samir, romeno, 38 anni: la molla che l’ha spinto a delinquere è un’esperienza storta con un paio di ragazze in Svizzera. "Non volevo più sentirmi pezzente, cercavo soldi e belle auto". Poi arriva Fabrizio, finito a dire la fatidica frase "Fermi tutti: questa è una rapina", prendendo spunto dai film, ma in un modo così buffo che "neppure il direttore della banca ci ha creduto e i clienti mi hanno applaudito". E il marocchino Waydi: "Sapevo che in Europa si può avere tutto: lavori 11 mesi, poi vai in vacanza, puoi comprarti auto di lusso e io volevo questo". Il meccanismo però si è inceppato: "Ho comprato un paio di Nike, ho fermato uno per strada: "Se mi fai fare un giro sulla tua bici ti dò le Nike". Poi un altro: "Se mi fai fare un giro sulla tua moto ti dò la bici". E un altro ancora: "Se mi fai fare un giro sulla tua auto, ti dò la moto"". E così "mi sono trovato con 3 denunce e tanta gente che mi cercava: però oggi ho le mie Nike". Alla fine, standing ovation per la messa in scena dei pendolari detenuti: pensavano di viaggiare a scrocco, ma sono cascati nella trappola di un finto controllare, truffatore più di loro. E i carcerati ora andranno in tournee: il 27 maggio, debutto nel rinato teatro Comunale di Alessandria, fuori dalle sbarre. La Spezia: concerto in carcere "la musica e la cultura sono un diritto assoluto" di Chiara Alfonzetti cittadellaspezia.com, 19 aprile 2016 Il pianista spezzino Paolo Restani ha incantato il pubblico del concerto nella casa circondariale Villa Andreino e si prepara per il 12 maggio per la grande serata che si terrà al Teatro Civico. La musica è un diritto e Paolo Restani lo sa. Per questo motivo oggi pomeriggio ha tenuto un concerto memorabile all’interno del carcere di Villa Andreino alla Spezia in un’esecuzione appassionata e che ha lasciato a bocca aperta le decine di persone, autorità comprese, che hanno assistito alla performance. La potenza della musica rende possibile qualunque cosa, le note di un piano sono in grado di trascinare fuori da ogni luogo fisico l’ascoltatore. E Paolo Restani è riuscito a fare tutto questo, nei primi venti minuti di concerto i tasti del piano e l’apertura con Liszt sono scivolati tra le sue dita e hanno lasciato senza fiato il pubblico presente poco dopo si è sciolto in uno scroscio d’applausi. E il maestro Restani dietro ad un grande pianoforte a coda ha fatto scivolare la sua anima tra i tasti sulla scia di note malinconiche, impetuose in un religioso silenzio. Ed è proprio Paolo Restani a spiegare l’importanza di un progetto di questo genere, in attesa del 12 maggio, quando salirà sul palco del Civico per un altra importante data che lo vedrà nuovamente protagonista nella sua città natale. Le prevendite sono già aperte, stanno riscuotendo molto interesse, e potrebbe diventare realtà l’ipotesi che alcuni detenuti possano assistere al concerto in teatro. Il perché di tutto questo lo ha spiegato il maestro Restani "La musica è un diritto assoluto - ha detto -. La cultura, l’arte sono diritti per ogni persona e per me, senza retorica e falsa modestia, non c’è differenza tra suonare qui e al Carnegie Hall di New York. Può sembrare poco coerente per una persona che fa spettacolo, però non bisogna dimenticare che la musica d’arte non è spettacolo ma è sostanzialmente un profondo discorso spirituale e per questo ho accettato felicemente la richiesta di dare qualche cosa di bello oggi a chi, forse, non potrà venirmi ad ascoltare il 12 maggio al Civico. Spero che comunque possano partecipare, e lo spero perché ciò che la musica può regalare, per me è un dovere, per chi l’ascolta è un diritto assoluto". Nel carcere di Villa Andreino sono presenti 212 detenuti, un dato in linea con la media nazionale. Ognuno con la sua storia e il suo percorso e la casa circondariale spezzina in questi anni si è impegnata con numerose attività dedicate al reinserimento e non solo. Un esempio è proprio il concerto di Restani che si è tenuto questo pomeriggio. "La musica - ha detto la direttrice della casa circondariale Maria Cristina Bigi - è un veicolo di valori, una delle arti più complete e che meglio può far emergere i sentimenti e l’umanità delle persone. Noi abbiamo colto al volo questa occasione per permettere che almeno parte della popolazione detenuta potesse entrare in contatto con un grande artista. Speriamo di poter ripetere iniziative di questo tipo e speriamo che l’arte sia sempre più spesso dentro gli istituti nella convinzione che attraverso queste iniziative si porti la speranza nella vita dei detenuti. Quest’anno noi punteremo sul lavoro, per la restituzione della dignità alla popolazione detenuta perché passa proprio dalla possibilità di lavorare. L’anno scorso abbiamo aperto una ludoteca che ci sta dando molte soddisfazioni perché è un modo di tutelare i rapporti con la famiglia e i figli. Ora vorremmo intensificare le attività culturali in modo da poter dare ai detenuti l’opportunità di gestire delle attività, nella convinzione che dei processi di responsabilizzazione devono essere portati all’interno del carcere per poi avere un cammino all’esterno". Radio Carcere su Radio Radicale: "Il carcere senza giustizia" Ristretti Orizzonti, 19 aprile 2016 Ovvero il rischio di impunità per i reati commessi a danno delle persone detenute. Conversazione con il dott. Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Nuoro. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/472465/radio-carcere-il-carcere-senza-giustizia-tutte-le-difficolta-che-le-persone-detenute Migranti. Ecatombe senza traccia nel mare tra Egitto e Italia di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 19 aprile 2016 Bbc in arabo e siti parlano di 400 morti, l’Unhcr non conferma. Il prefetto Morcone dal Viminale: "Nelle prossime settimane sapremo se si è aperta una nuova rotta o si tratta di viaggi isolati". Mogadiscio è in lutto per la morte di centinaia di giovani somali diretti verso l’Italia. Il naufragio si sarebbe verificato in un punto non identificato del Mediterraneo e sarebbe costato la vita a circa 400 persone, oltre metà di lingua somala e oromo. La notizia ieri è partita dalla Bbc in arabo ed è rimbalzata anche sui media somali, tanto che - dopo le parole di Sergio Mattarella, "le tragedie del mare come questa e quella di Lampedusa un anno fa devono farci pensare" - ne ha parlato il presidente della Repubblica federale somala Hassan Sheik Mohamud. Dal palazzo supersorvegliato dove risiede quasi asserragliato, ha inviato un messaggio di cordoglio "alle famiglie dei tanti giovani somali che hanno perso i loro cari nel Mediterraneo". Fino a quel momento pareva che la prima a dare l’allarme, rilanciato alla Bbc in arabo dall’ambasciatore somalo al Cairo, fosse una donna, Fatuma Abdi Dine, residente in Egitto, che da giovedì aveva perso ogni traccia di due suoi fratelli e un altro parente, partiti per l’Italia. Visto che non chiamavano e non rispondevano al telefono, domenica la donna avrebbe contattato l’ambasciatore somalo al Cairo. Ieri sera informazioni relativamente più circostanziate sono venute da un blog in somali dove un uomo, Awaale Warsam Sandhool, ha raccontato di essere uno dei 24 sopravvissuti di un contingente di 500 persone partito da Alessandria in Egitto alla volta dell’Italia il 7 aprile. Il barcone si sarebbe capovolto il 12 aprile in acque greche. Dopo aver trascorso oltre 24 ore in acqua, soccorso dalla guardia costiera greca, l’uomo sarebbe rimasto sotto shock per cinque giorni nell’isola di Karpathos e ancora oggi non sarebbe disponibile a rilasciare ulteriori interviste dopo quella al sito Goobjoob news, legato al governo di Mogadiscio. Un altro sito di informazione somalo, Hiiran online, riferisce che tra i 400 "somali, etiopi e eritrei che speravano di raggiungere l’Italia" ne sarebbero sopravvissuti 29, salvati da non meglio precisati "soccorritori". Il sito dice che le informazioni provengono dai social media in lingua somala dove circolerebbero fotografie della sciagura e anche una lista dei "passeggeri" del barcone naufragato. Il sito indica il viaggio dall’Egitto con l’Italia come destinazione prevista, come "percorso favorito da molti contrabbandieri". E questa è la notazione più strana, visto che questa rotta - seppure esistita - finora ha sempre interessato piccoli numeri all’interno di flussi di migranti del Mediterraneo meridionale, dove la base di partenza è stata da sempre, casomai, la Libia. L’Alto commissariato Onu per i Rifugiati si è messo alla ricerca di tracce del naufragio dei 400 africani fin dalla sera di domenica, tramite le guardie costiere che sono in contatto con le tre missioni navali di rescue nel Mediterraneo: Triton, Eunavfor Med e Frontex. Ma agli uffici dell’Unhcr in Italia non risultano riscontri. "Speriamo che si tratti di un falso allarme", dice al telefono Federico Fossi. A fine marzo sono effettivamente arrivate a Crotone due barconi salpati dall’Egitto e altri sono stati intercettati il 22 febbraio e il 7 aprile su questa rotta. Tanto che Christopher Hein, del Centro italiano rifugiati, sostiene che le partenze nel Mediterraneo meridionale continuano a essere soprattutto dalla Libia ma "crescono quelle dall’Egitto". Il porto di Alessandria sarebbe quello scelto dagli scafisti. Il prefetto Mario Morcone, a capo del dipartimento Immigrazione del Viminale si mantiene prudente: "Capiremo nelle prossime settimane se si è trattato di casi isolati o se sia una nuova rotta, mi auguro che non sia così". Tra Italia ed Egitto - tra i due paesi ora è gelo diplomatico per il caso Regeni - esiste un accordo bilaterale per favorire i rimpatri delle persone che non hanno ottenuto l’asilo, diverso ma non dissimile da quello Turchia-Ue per la rotta balcanica, preferita da siriani, iracheni e afgani. Dalla Libia venivano i 108 migranti (5 donne) salvati domenica pomeriggio dalla nave Aquarius, di SoS Mediterranée nel Canale di Sicilia. A bordo del gommone, semi sgonfio, anche 6 cadaveri. Altri 33 migranti sono stati recuperati a largo di Siracusa. Il mistero del barcone fantasma rivela la "nuova" rotta egiziana di Francesca Paci La Stampa, 19 aprile 2016 Giallo su un naufragio con 400 vittime, ma nessuna nave è stata avvistata. Lo scafo sarebbe partito da Alessandria, percorso finora poco battuto. Non sappiamo se il naufragio annunciato ieri dalla Bbc in arabo sia realmente avvenuto, perché i fantomatici 29 superstiti non risultano al momento soccorsi da nessuna capitaneria in servizio nel Mediterraneo. Ma quello scafo fantasma con 400 presunti migranti del Corno d’Africa, che a detta dei familiari sarebbero salpati dalle coste alessandrine, riporta l’attenzione sulla rotta egiziana, più lunga e meno conveniente rispetto a quella libica ma tornata appetibile per i trafficanti col moltiplicarsi delle turbolenze regionali. Gli ultimi dati del ministero dell’Interno rivelano che nei primi 4 mesi del 2015 gli sbarchi di scafi provenienti dalla Libia erano stati quasi gli stessi del 2016 (22.569 a 22.664) mentre quelli pur ancora modesti dall’Egitto sono quasi decuplicati (208 a 1927). Cosa racconta il rinnovato interesse per un percorso alternativo mai del tutto abbandonato ma minoritario dalla caduta di Gheddafi e l’apertura dell’autostrada libica verso l’Europa? Innanzitutto c’è il puzzle libico che comunque si risolva non promette nulla di buono per gli scafisti, spaventati dalla prospettiva di un governo legittimo e capace di dialogare con Bruxelles quanto da una guerra che si tradurrebbe in pattuglie militari, posti di blocco, bombardamenti. C’è poi l’accordo con la Turchia che ha chiuso per ora il passaggio a Est. E c’è l’enigma dell’Egitto, dove le forze di sicurezza concentrate sul Sinai, sul confine libico e sulla repressione interna controllano meno i flussi dei migranti ma anche dove i social network rilanciano rumors di un possibile uso strumentale dei flussi da parte del regime sotto pressione internazionale. La materia è sfuggente. Prova ne sia il presunto naufragio di ieri segnalato alla Bbc da un fantomatico diplomatico somalo sulla base dei profili Facebook dei migranti. In serata né la capitaneria egiziana né quella italiana né quella cipriota avevano soccorso nessuno mentre circolava la notizia di altri 41 superstiti sbarcati nella greca Kalamata dopo aver visto annegare 500 di loro. Secondo Flavio di Giacomo dell’Organizzazione Internazionale dei Migranti il primo dei due presunti naufragi (o lo stesso?) era confuso dal principio: "Si parlava di 4 barche con un totale di 400 persone a bordo ma di solito dall’Egitto partono grosse navi da 400 o 500 passeggeri perché il viaggio dura almeno il doppio di quello dalla Libia". La traversata lunga e costosa (4 mila euro a testa) rende la rotta egiziana particolare ed è per questo che finora ha interessato solo il 15% del totale. Ci sono però segni di cambiamento, conferma una fonte che lavora nell’umanitario ad Alessandria. Nella zona si muove Ahmed Mohamed Hanafi Farraq, l’armatore egiziano già accusato dall’Italia di associazione a delinquere, ma non è l’unico. Lo scafo o gli scafi fantasma di ieri, su cui ha sollevato dubbi anche l’Unhcr, potrebbero essere la sovrapposizione di altre emergenze, i 108 soccorsi al mattino al largo di Lampedusa con i loro 6 morti o anche i 214 arrivati in serata a Pozzallo dopo la lunga traversata, quest’ ultima per l’appunto dall’Egitto. Sanders condanna muri e xenofobia: "Europa e Usa accolgano più siriani" di Paolo Mastrolilli La Stampa, 19 aprile 2016 Il senatore democratico: serve compassione, aiutare i rifugiati è un nostro dovere morale. "In America e in Europa dobbiamo superare gli ostacoli politici, come le forze della paura e della xenofobia, e fare ciò che è giusto per i rifugiati". Al ritorno dal suo viaggio lampo a Roma, Bernie Sanders commenta i temi della visita in Vaticano, conclusa con un breve incontro privato con Papa Francesco alla residenza di Santa Marta. Il senatore sta riprendendo di corsa la campagna per le primarie di New York, dove si vota domani, ma allarga le proprie riflessioni oltre i temi della conferenza sull’enciclica Centesimus Annus a cui ha partecipato, e oltre le questioni della tattica politica quotidiana. Papa Francesco sabato è stato sull’isola greca di Lesbo per affrontare la questione delle migrazioni, che rappresenta un’emergenza tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, legata alle guerre e alla povertà. Poche settimane fa, Francesco ha detto che la soluzione a questo problema non può stare nella costruzione di muri, come ha suggerito invece il candidato presidenziale repubblicano Trump. Secondo lei quale sarebbe l’approccio giusto per gestire la crisi, negli Usa e in Europa? "Io credo che abbiamo la responsabilità morale di aiutare le persone più vulnerabili tra di noi, e ci sono pochi esseri umani più vulnerabili dei rifugiati che scappano dagli orrori della guerra e della povertà. Gli sfollati costretti a fuggire dalle loro case hanno visto già abbastanza durezza, e hanno bisogno di compassione. In America, così come in Europa, dobbiamo dare del nostro meglio per superare gli ostacoli politici, incluse le forze della paura e della xenofobia, e fare ciò che è giusto. Io sostengo gli sforzi del presidente Obama per accogliere più rifugiati dalla Siria, e voglio costruire su questi sforzi". Durante l’ultimo dibattito di giovedì scorso con Hillary Clinton, lei ha messo in discussione il giudizio dell’ex segretario di Stato, quando aveva spinto per l’intervento militare che poi aveva portato al rovesciamento di Gheddafi. La Libia ora è un punto di partenza per i migranti che cercano di raggiungere l’Italia e l’Europa, e una base sempre più grande per l’Isis, che ha minacciato apertamente di colpire proprio il Vaticano. Lei cosa pensa che dovrebbero fare gli Stati Uniti per aiutare a stabilizzare il Paese, adesso che il Governo di accordo nazionale negoziato dall’Onu si è trasferito nella capitale? "Sostengo gli sforzi della comunità internazionale, ed incoraggio il popolo libico ad accettare l’esecutivo sostenuto dall’Onu, che ora è a Tripoli. Guardando al futuro, la Libia ha bisogno di un governo unificato come primo passo per affrontare le sue sfide, stabilizzare il Paese, e permettere di ricevere una maggiore assistenza internazionale. Da questo punto di vista elogio i recenti sforzi compiuti dai ministri degli Esteri europei, a cominciare dall’italiano Gentiloni, che sono andati a Tripoli per mostrare il loro sostegno al Governo di accordo nazionale. Questo esecutivo merita il pieno appoggio dell’Europa e degli Stati Uniti, che devono lavorare insieme per favorire la sua riuscita". Nel recente dibattito con Hillary Clinton lei ha detto anche che gli alleati dovrebbero fare di più per sostenere le attività della Nato. "Ho notato che gli Stati Uniti pagano circa il 75% delle spese dell’Alleanza, mentre Paesi ricchi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania usano i soldi risparmiati dalla difesa per finanziare la loro sanità e istruzione universitaria pubblica gratuita. Credo sia giusto riequilibrare questa situazione". Cosa porta con sé dell’incontro con Francesco? "Sono stato onorato di incontrarlo. È una bella persona e un uomo di pace, che emana qualcosa di speciale con la sua presenza. Da presidente, spero di poter lavorare con lui per costruire un’economia più morale". Migration compact, Berlino gela Renzi di Carlo Lania Il Manifesto, 19 aprile 2016 Al governo tedesco non piace la proposta di emettere Eurobond per finanziare il piano. Cauta anche la Commissione Ue. Il premier italiano: "Se la Merkel ha un’altra idea la dica". E nella notte i ministri degli Esteri dei 28 discutono di Libia. Parte in salita il migration compact, la proposta italiana all’Unione europea per fermare i flussi di migranti provenienti dall’Africa. A gelare Palazzo Chigi ci ha pensato ieri il portavoce del governo di Berlino, rischiando così di far alzare nuovamente la tensione tra Italia e Germania dopo lo scontro di qualche mese fa sulle banche. Questa volta lo stop è arrivato sulla proposta, contenuta nel documento informale inviato a Bruxelles, di finanziare i costi di un possibile accordo tra Ue e alcuni paesi africani attraverso l’emissione di Eurobond. Per il portavoce, Berlino "non vede alcuna base per un finanziamento comune dei debiti per le spese sostenute dagli Stati membri per la migrazione". Una doccia gelata per il governo italiano, anche se va detto che le critiche tedesche si fermerebbero qui. Più centrate sui modi per reperire i fondi necessari, dunque, che sull’idea di un nuovo patto simile a quello stipulato con la Turchia: soldi in cambio di uno stop alle partenze vero l’Europa. Il migration compact è stato uno dei punti all’ordine del giorno del consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa che finirà oggi a Lussemburgo. L’altro argomento in agenda, la Libia e il possibile via libera alla missione europea Sophia per poter operare in acque territoriali libiche, è stato oggetto della cena che c’è stata in serata tra i ministri e alla quale ha partecipato in collegamento telefonico il primo ministro del nuovo governo di Tripoli al Serraj. Come finanziare la proposta italiana è stata il nodo su cui si è maggiormente concentrata la discussione. In sé l’idea, (che prevede investimenti nei paesi africani in cambio di cooperazione su controllo dei confini, riduzione dei flussi, rimpatri e riammissioni), ha trovato l’accordo dei vertici delle istituzioni europee. Di sicuro piace al presidente del consiglio europeo Donald Tusk - che già venerdì aveva manifestato il suo consenso - che a quello della Commissione Jean Claude Juncker. "L’Ue deve gestire assieme le proprie frontiere esterne, provvedere alla protezione dei profughi, offrire vie legali a quelli che vengono in Europa e mantenere i confini interni aperti: questa è l’agenda della Commissione Juncker e siamo contenti di vedere che è anche l’agenda del governo italiano", ha detto il portavoce della commissione. Per ora i 28 hanno solo cominciato a discutere del documento, e si sa che molti sono tutt’altro che entusiasti dall’idea di accogliere profughi. Per il momento, però, il problema principale resta come reperire le risorse finanziarie necessarie, e l’idea di emettere Eurobond suscita dubbi che non sembrano essere solo tedeschi. Al di là dell’entusiasmo di rito, più di una perplessità serpeggia infatti anche in seno alla Commissione. "Abbiamo preso buona nota della proposta italiana, ma sono state formulate anche altre proposte", ha spiegato il portavoce dando così spessore al dissenso interno alla commissione. Quali proposte? A sentire i dubbi di Berlino, Matteo Renzi ha reagito al suo solito, vale a dire attaccando: "Se la Merkel e i tedeschi hanno soluzioni diverse lo dicano, ma questo è un problema che deve risolvere l’Europa tutta insieme", ha detto il premier. I tedeschi, per la verità una proposta ce l’hanno ed è quella di varare un’addizionale sulla benzina a livello europee, un’eurotassa per coprire i costi della crisi dei m migranti. L’idea è un vecchio pallino dell ministro delle finanze Wolfang Schaeuble, che a gennaio ne aveva parlato anche durante una riunione dell’Eurogruppo suscitando però numerose critiche in Germania. Proposta che sarebbe rispuntata ieri insieme a quella di creare un nuovo fondo europeo per gli investimenti nei paesi terzi per finanziare investimenti sostenibili nell’area africana, attraendo così i paesi investitori europei. Ma l’Unione europea, e in particolare l’Italia, spingono anche per arrivare al più presto a una soluzione della crisi libica. Sia per quanto riguarda lo scontro interno tra milizie e il contrasto all’Is, sua per mettere fine alle partenze di barconi cariche di migranti. Il premier designato libico Fayez Al Serraj è intervenuto al vertice dei ministri degli esteri in collegamento telefonico. La missione europea Eunavfor Med che da ottobre opera in acque internazionali fermando i barconi e mettendo in salvo i migranti potrebbe presto spingersi entro le 12 miglia libiche, ma serve prima il consenso del governo di Tripoli. In cambio del quale l’Europa è pronta a fornire addestratori per la ricostituzione delle forze di polizia e della guardia costiera libica insieme a finanziamenti da investire in progetti di sviluppo del paese. Migranti. L’Italia vuole la sua Turchia di Guido Viale Il Manifesto, 19 aprile 2016 L’accordo con la Turchia rende evidente la nera notte in cui l’Unione europea ci sta trascinando. È innanzitutto un pugnale rigirato nelle ferite aperte di decine di migliaia di profughi che nel viaggio disperato verso l’Europa intravvedono l’unica possibilità di sopravvivere a guerra e fame; per garantirsi il più elementare dei diritti umani: quello alla vita. È una risposta che viola tutte le convenzioni sottoscritte dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah. E rende evidente il cinismo di quei governanti che hanno versato lacrime di coccodrillo sopra la foto del piccolo Aylan "spiaggiato" sulle coste della Turchia, ma che da allora hanno lasciato morire non meno di 450 suoi coetanei, insieme a tanti altri adulti. Poi l’accordo di "rimpatrio" di decine di migliaia di persone senza più "patria" è una scelta di governi e politici senza cuore né cervello, lanciati all’inseguimento delle destre razziste che hanno ormai conquistato la scena in tutta l’Europa (e non solo). Una risposta con cui sperano di neutralizzarne l’avanzata, mentre non fa che rafforzarle dando loro ragione. Ma il risultato più vistoso è la legittimazione del regime di Erdogan, che lo autorizza a continuare sulla sua strada: guerra ai curdi, dentro e fuori i confini del paese, repressione di ogni libertà, a partire da quella di informazione e, soprattutto, libertà di proseguire nel sostegno all’Isis, o alle fazioni che ne prenderanno il posto se l’Isis dovrà ritirarsi; purché continuino a impedire qualsiasi riassetto pacifico in Medio oriente per contenere le forze che ostacolano la politica egemonica della Turchia sulla regione. Così Erdogan ha cominciato a "rimpatriare" in Siria, consegnandolo di fatto all’Isis un primo "lotto" di quei profughi che dovrebbe invece tutelare. Ma quell’accordo ha, e avrà sempre più, pesanti ripercussioni anche in Europa: filo spinato, soldati in assetto di guerra, muri e controlli ai confini tra uno Stato membro e l’altro per perseguire quello stesso obiettivo: difendersi dai profughi. I governi europei, corrono a erigere quei muri per scaricare sui vicini quei "flussi" perché temono che gli facciano perdere i loro elettori. Torna così all’ordine del giorno l’idea che anche L’Unione europea sia destinata a svanire. Angela Merkel, che l’ha guidata sul cammino mortifero dell’austerity, rendendola odiosa ai suoi cittadini (e i risultati si vedono) e verso questo accordo suicida con la Turchia (per sottrarsi all’accusa di non reagire contro l’"invasione" dei profughi), ne ha mostrato le conseguenze autorizzando il processo a un piccolo comico che si era preso beffe di Erdogan. È una strada segnata: per liberarsi dei profughi, fingendo di poterlo fare con un patto indecente, ci sottomette al sultano (peggio che cedere ai razzisti di Pegida: ma i risultati sono un po’ gli stessi) e lo incoraggia a disseminare di guerre i confini dell’Europa. Ce ne sarebbe abbastanza per dire basta ed esigere un’inversione di rotta sulle politiche di respingimento come sull’austerity che ha reso inospitale l’Europa sia ai profughi che a milioni di suoi cittadini. Invece Renzi rivendica l’estensione di quell’accordo a tutti i paesi da cui vengono i profughi: metà dell’Africa. "Il recente accordo Ue/Turchia - recita l’Italian non-paper inoltrato alle autorità europee - rappresenta il primo tentativo per dar vita a una cooperazione di larga scala con un paese terzo, dimostrando che è possibile utilizzare in modo innovativo strumenti e budget già esistenti". Ma l’Africa non è la Turchia, per questo il non-paper propone di affiancare agli accordi per fare i rimpatri e la guerra ai profughi (ribattezzata security), dei programmi di sviluppo e di reinsediamento (l’"aiutiamoli a casa loro" di Salvini, alibi di tutti coloro che non li vogliono vedere). Finanziati con degli eurobond (Eu-Africa bonds): uno strumento che sarebbe essenziale per riequilibrare i rapporti tra paesi membri dell’Unione Europea, ma che Renzi non ha mai osato proporre, limitandosi centellinare i decimi di punto di Pil da "strappare" alla Commissione. Ora quello strumento viene invece riproposto per "sviluppare" l’Africa (un miliardo di abitanti!) e frenare la fuga dei "migranti economici". Come fosse un giochetto. Bisogna capirlo: Renzi non ha fatto né previsto niente sui profughi quando aveva la Presidenza europea; ma ora si accorge che la politica dell’ognuno per sé, che ha lasciato crescere nei suoi due anni di governo - abbandonando, tra l’altro, la Grecia all’isolamento - gli si rivolta contro; e che quelle barriere, da Ventimiglia al Brennero e a Idomeni, hanno un solo obiettivo: lasciare che a sbrigarsela con i prossimi arrivi siano Grecia e Italia, che quelle barriere, con 18mila chilometri di coste non possono costruirle. Ma la Grecia ha come dirimpettaio la Turchia: una potenza che può gestire a suo vantaggio, e a spese dei profughi, quel patto scellerato che anche Tsipras ha finito per approvare. Ma l’Italia, chi ha di fronte? La Libia, che prima di poter gestire un patto del genere (già fatto a suo tempo con Gheddafi, e andato in fumo) dovrà subire un’altra guerra, rimandata ma ritenuta irrinunciabile. E l’Egitto, vera potenza regionale (grazie all’appoggio saudita, ma anche di Usa, Israele e diversi paesi europei: scandaloso quello della Francia) che gestisce già il flusso dei profughi del Corno d’Africa con il "processo di Khartum". Quanto basta a far dimenticare ciò che l’omicidio di Giulio Regeni sta scoperchiando. Ma dietro Egitto e Libia, e poi Algeria, Tunisia e Marocco, c’è la "seconda fila" dei paesi subsahariani da cui proviene la maggior parte dei profughi ambientali (rinominati dal non-paper "migranti economici" per poterli respingere senza problemi). Ma quei respingimenti sono una vera e propria guerra, destinata a moltiplicare e potenziare i tanti conflitti armati già in corso in molti di quei paesi martoriati. Difficile che i governi di questa Unione europea tirino fuori i soldi per finanziare un progetto che, nella loro miopia, dovrebbe "proteggere dai profughi" soprattutto l’Italia. Angela Merkel ha già detto No. Dunque, quei profughi continueranno ad arrivare: anche a costo di morti, violenze e stragi sempre più feroci tra le loro file. Ma alla moltiplicazione dei conflitti ai confini dell’Europa e del terrorismo al suo interno, del razzismo e della discriminazione nelle sue politiche, della dissoluzione di ogni solidarietà interstatuale nelle sue istituzioni l’unica alternativa sono accoglienza e integrazione: strada obbligata per permettere un futuro a una popolazione europea sempre più vecchia, l’abbandono delle mortifere politiche di austerity per fare posto a una conversione ecologica che riguardi tutta la regione coinvolta dai flussi migratori che investono il continente e la libera circolazione dei nuovi arrivati. Che sono la parte più viva e intraprendente delle comunità da cui sono fuggiti e l’unico vero agente di una cultura dell’accoglienza e di un realistico piano di cooperazione: non a uno "sviluppo" irraggiungibile e mortifero, ma alla sostenibilità; e alla pacificazione dei loro paesi di origine che la renda possibile. Terrorismo: in arrivo codice di condotta dell’Ue contro la radicalizzazione sul web Ansa, 19 aprile 2016 "Sto lavorando a una piattaforma informatica e a giugno potrebbe essere pronto il codice di condotta per contrastare il fenomeno delle dichiarazioni di odio e violenza su Internet". È l’annuncio di Vera Jourova, commissario europeo per la Giustizia, oggi in visita a Roma per l’evento conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale, presso il carcere di Rebibbia. L’iniziativa annunciata dall’esponente dell’esecutivo comunitario riguarda il contrasto alla radicalizzazione sul web, terreno di proselitismo per estremisti e di reclutamento di potenziali terroristi. La Commissione europea è consapevole di dover portare avanti questa missione coinvolgendo i colossi della Rete. "Anche le grandi aziende come Google e Facebook - spiega la titolare della Giustizia Ue - si stanno rendendo conto che sono parte del problema: dobbiamo arrivare ad un accordo con loro". La lotta al radicalismo, però, non si combatte solo sul web. Il problema è presente anche nelle carceri, dove c’è chi entra come detenuto per reati minori e magari ne esce con un indottrinamento fondamentalista e la propensione a farsi strumento del terrore. Per il contrasto di questo fenomeno sono stati istituiti "gruppi di lavoro per lo scambio di esperienze" tra gli Stati membri, ha ricordato Jourova, dal momento che tra i 28 vi sono approcci talvolta molto differenti. Ad esempio, in alcuni Paesi si punta all’isolamento dei detenuti radicalizzati, mentre in altri si spinge su iniziative che mirano al recupero sociale dell’individuo. Regeni, vicecancelliere tedesco: "Casi che preoccupano e spaventano" La Repubblica, 19 aprile 2016 Sigmar Gabriel sollecita un’indagine completa per arrivare alla verità. La sua visita segue quella di Hollande. Al Sisi: "Ciò che avviene in Egitto è un tentativo portato avanti da forze malvagie di spaccare le istituzioni dello Stato". "I casi di crescenti violazioni dei diritti umani in Egitto, casi come quello dello studente italiano, ci spaventano e ci preoccupano e danneggiano anche l’immagine dell’Egitto". Lo ha detto oggi, il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, nel corso della sua visita al Cairo, commentando il caso Regeni. La domanda è stata fatta da un giornalista egiziano nel corso di una conferenza stampa al termine di un incontro con la business community tedesca. Gabriel, riferisce ancora la stampa tedesca, ha sollecitato che ci sia un’indagine completa per arrivare alla verità. La visita di Gabriel segue quella del presidente francese François Hollande, arrivato al Cairo alla testa di oltre 60 uomini di affari, per presenziare alla firma di una trentina di accordi politici ma soprattutto economici nei campi dell’energia, infrastrutture e turismo a rinforzo di uno scambio commerciale da 2,6 miliardi di euro l’anno. Indiscrezioni dei media segnalano anche l’imminente acquisto di un satellite militare e quattro da navi da guerra per oltre un miliardo di dollari dopo gli accordi già raggiunti per 24 caccia tipo ‘Rafalè e una portaelicotteri ‘Mistral’ in arrivo quest’estate. Nella capitale egiziana anche il vicecancelliere tedesco Gabriel, forte di uno interscambio da 5 miliardi di euro, si è presentato con addirittura 120 investitori e, secondo l’agenzia Mena, ha dichiarato il sostegno di Berlino all’Egitto a livello politico ed economico dato che Sisi merita "ammirazione". E se Gabriel ha definito l’omicidio del ricercatore friulano "spaventoso e preoccupante", Hollande - accusato dagli americani del Nyt di aver tenuto finora un "vergognoso silenzio" sul caso Regeni - non ha perso tempo nel sottolineare di aver parlato con il leader egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, "dei diritti umani" inclusi i "casi del francese Eric Lang e dell’italiano Giulio Regeni". Ma Al Sisi mantiene il punto e ha ribadito ancora di "aver espresso le proprie condoglianze alla famiglia" e che "ciò che avviene in Egitto è un tentativo portato avanti da forze malvagie di spaccare le istituzioni dello Stato, istituzione dopo istituzione". In questo caso la polizia di Stato. Nel Paese nordafricano sarebbe in atto "un tentativo di allontanare l’Egitto dall’Europa", ha detto Sisi. L’ex generale egiziano a capo dei servizi segreti militari, divenuto presidente in seguito alla deposizione dell’esponente dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi, ha invitato a "non isolare l’Egitto dal contesto regionale", dove ci sono "forze malvagie che vogliono dare un’immagine falsa del Paese". L’Egitto è "desideroso di confermare" al mondo "la sua civiltà" attraverso un "concetto più ampio di libertà e di diritti umani: la libertà in Egitto è una questione fondamentale che non può essere isolata dalle garanzie di istruzione e alloggio, visti come diritti inalienabili". Nella ricerca di chi ha torturato a morte Giulio Regeni non c’è intanto nulla di nuovo. E quelle "importanti novità", annunciate da un quotidiano e attribuite al ministero degli Esteri, vengono smentite categoricamente dal portavoce. Che però non smentisce un altro passaggio delle parole a lui attribuite dai media: la richiesta "alla parte italiana di allontanare le pressioni politiche dal caso" dato che bisogna "lasciare che gli apparati competenti proseguano la loro missione". "Le relazioni forti e numerose fra i due Paesi non devono essere scosse da questo incidente", ha sostenuto il portavoce. La richiesta di allentare la pressione sull’Egitto arriva una settimana dopo la conferma del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che l’Italia, "nei prossimi giorni", valuterà quali sono le altre "misure da prendere" per ottenere una maggiore collaborazione e impegno nelle indagini sul caso dopo il richiamo a Roma per consultazioni dell’ambasciatore d’Italia al Cairo, Maurizio Massari, disposto l’8 aprile. Come evocato anche dal presidente della Commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, l’Italia potrebbe inserire l’Egitto nella ‘lista nerà dei Paesi pericolosi compilata dalla Farnesina, sconsigliandolo così come meta per i turisti e ricercatori. Israele: 1.700 detenuti palestinesi bisognosi di cure, inclusi 25 malati di cancro di Marta Bettenzoli infopal.it, 19 aprile 2016 L’Uhrc (United Health Works Committee) nella Palestina occupata ha segnalato venerdì che Israele detiene 1.700 prigionieri malati, inclusi 25 che soffrono di varie tipologie di cancro, e che necessitano urgentemente di cure mediche specializzate. La dichiarazione è arrivata in occasione del 17 aprile, Giornata dei Prigionieri Palestinesi, e rivela che le autorità israeliane non garantiscono ai detenuti i trattamenti medici necessari, fornendo loro solo pillole analgesiche, e negando loro il diritto a ricevere trattamenti specifici. L’Uhrc si è appellata alla comunità internazionale e ai gruppi locali, regionali ed internazionali di diritti umani affinché intervengano, e "salvino i prigionieri malati dalla morte lenta e dolorosa che li attende", in quanto l’autorità carceraria israeliana si rifiuta di fornire loro il basilare diritto di accedere a cure mediche specifiche. L’Uhrc si è anche appellata a varie associazioni internazionali e gruppi per i diritti legali e umani affinché denuncino le gravi violazioni di Israele nei confronti dei prigionieri, e affinché Israele si conformi alle leggi internazionali e ai trattati umanitari. Israele trattiene almeno 7000 palestinesi in 22 prigioni, centri di detenzione e di interrogatorio, inclusi sette detenuti che si trovano in prigione da più di 30 anni. Tra di loro si contano 67 donne, 400 minorenni, 6 parlamentari e ministri eletti, e 700 palestinesi, trattenuti tramite ordini di detenzione amministrativa, senza accuse né processi. Brasile: impeachment Rousseff, sentenza politica senza base giuridica di Leonardo Boff Il Dubbio, 19 aprile 2016 A guardare il comportamento dei deputati, nei tre giorni di discussione sull’ammissibilità dell’impeachment della presidente, sembrava di vedere bambini che giocano in un asilo. Urla ad ogni angolo. Cori con mantra contrari o a favore della presidente. Alcuni deputati sono entrati alla Camera mascherati. Qualcuno era vestito con la bandiera nazionale come se fosse una giornata di Carnevale. Uno spettacolo indegno di persone decenti dalle quali ci si aspetterebbe un minimo di serietà. Si facevano addirittura scommesse, come se fosse un gioco d’azzardo o una partita di calcio. Più di tutto ha causato sorpresa la figura del presidente della Camera, il presidente della sessione, il deputato Eduardo Cunha. È accusato di molti reati ed è colpevole secondo il Tribunale supremo federale: un gangster nel ruolo di giudice di una donna onesta. È necessario mettere in risalto la responsabilità del Tribunale supremo federale per aver permesso quest’atto che ci fa vergognare. Il New York Times il 15 aprile ha scritto: "Lei non ha rubato nulla, ma la sta giudicando una banda di ladri". Quale interesse segreto sta cullando la Suprema corte tanto da compiere un atto di omissione così scandaloso? Non vogliamo credere che la Corte stia partecipando a una cospirazione. Durante le dichiarazioni di voto sono successe strane cose. Si trattava di giudicare se la presidente avesse commesso un crimine di irresponsabilità fiscale nella gestione amministrativa delle finanze, base giuridica per un processo di impeachment che implica la destituzione della presidente dal suo incarico ottenuto con il voto popolare. La maggior parte dei deputati nemmeno si è riferita nella dichiarazione di voto a questa base giuridica, alle famose "pedalate fiscali" (così viene chiamato il ritocco dei conti dello Stato di cui è accusata la Rousseff n. d. t.). Invece di attenersi all’eventuale reato e alla sua descrizione, come avrebbero dovuto fare secondo giustizia, hanno colto l’occasione per riscuotere politicamente i frutti della delusione che corre nella società per la crisi economica, per la disoccupazione e per la corruzione in Petrobras. Questa insoddisfazione può essere imputata a un errore politico dlla presidente, ma non configura un reato. Come in un ritornello, la maggioranza dei deputati ha parlato invece della corruzione e degli effetti negativi della crisi. Ha parlato di "governo corrotto" quando sappiamo che un gran numero di deputati è indiziato per crimini di corruzione. Buona parte di loro è stata eletta con il denaro della corruzione politica, tenuta in piedi dalle imprese. Generalizzando, e con onorevoli eccezioni, i deputati non rappresentano gli interessi collettivi, ma quelli delle imprese che hanno finanziato la loro campagna. C’è un fatto preoccupante. È tornato, come un fantasma, il vecchio ingrediente che aiutò il golpe militare nel 1964: sono tornate le invocazioni alla religione, alla famiglia, a Dio, contro la corruzione. Decine di parlamentari, del gruppo dei deputati evangelici, hanno fatto dei discorsi di chiaro tono religioso invocando il nome di Dio. Poche volte si è offeso tanto il secondo comandamento della legge di Dio che proibisce di usare il santo nome di Dio invano. Grande parte dei parlamentari ha dedicato il voto alla famiglia, alla moglie, alla nonna, ai figli e ai nipoti, citando anche i nomi dei familiari, una spettacolarizzazione della politica di sconcertante banalità. Al contrario, quelli contro l’impeachment argomentavano la loro posizione e mostravano un comportamento decente. Si è trattato di un giudizio politico, celebrato senza alcuna base giuridica convincente. Brasile nel caos, sembra l’Italia di tangentopoli di Angela Nocioni Il Dubbio, 19 aprile 2016 Un muro d’acciaio lungo due chilometri. L’ha alzato di gran corsa la polizia federale davanti al Parlamento a Brasilia, per evitare scontri fisici tra cortei pro e contro Dilma Rousseff mentre la Camera, con 367 favorevoli, votava domenica notte il decisivo via libera al processo di impeachment della presidente. Di cos’è accusata? Di aver compiuto un ritocco nella manovra fiscale del 2015. Di essere ricorsa a una banca pubblica per far prestare al governo dei soldi, senza passare per il voto parlamentare. Una scorciatoia banale, comunissima, stra-praticata da qualsiasi governo del mondo per far quadrare i conti pubblici, si sgolano in queste ore tutti i giuristi filo Pt (Partido dos trabalhadores, partito dei lavoratori, al governo del Brasile dal 2003). Si tratta di decreti per 27.330 milioni di dollari. Secondo l’accusa quei soldi non erano a disposizione dell’esecutivo che, senza passare per il parlamento, se li procurò ritardando un pagamento a una banca pubblica. Li ha poi restituiti, ma non avrebbe dovuto farseli dare perché la legge vieta al governo prendere in prestito soldi da una banca pubblica senza previo assenso parlamentare. "Pedalata fiscale" si chiama, in gergo, questa mossa. Semmai un piccolo reato amministrativo, certo non penale, ma nemmeno di responsabilità politica, dicono i difensori di Dilma. Un ritardo nei pagamenti di un governo non equivale a un prestito, dice lei. Fatto sta che in Brasile qualsiasi atto compiuto contro "l’uso legale del denaro pubblico" è reato. Quindi tecnicamente era possibile trascinare Dilma verso il processo di destituzione. Ora la guerra si sposta in Senato. Una commissione di 21 membri dovrà scrivere un documento sull’impeachment da far votare dopo l’11 maggio all’Aula. Se approvato dalla maggioranza semplice dei senatori (41 voti), Dilma sarà allontanata dal potere per un periodo massimo di 180 giorni, durante il quale i senatori discuteranno il caso. Sarà chiamato a sostituirla nel frattempo il vicepresidente, Michael Temer, a sua volta a rischio di processo, ex alleato ora passato all’opposizione insieme a una squadretta di ministri. Per cacciare definitivamente la presidente serviranno i due terzi dei voti dei senatori. A quel punto però, tra sei mesi, il residuo capitale politico di Dilma sarà prosciugato. L’operazione per trascinarla all’impeachment è stata una abile congiura politica diretta da uno dei nemici più insidiosi del Pt, il presidente della Camera Eduardo Cunha, giudicato colpevole dal Tribunale supremo federale di aver intascato personalmente soldi nello scandalo per corruzione in Petrobras (azienda petrolifera di stato, la più grande impresa pubblica d’America). Cunha, come Temer, è del Pmdb, un grande partito centrista, peculiarità brasiliana, che governa sempre, stringendo alleanze dopo le elezioni con chi ha vinto. Cunha ha tirato la volata a Temer garantendo la maggioranza contro la Rousseff domenica notte. In cambio potrebbe ottenere un prezioso aiuto per evitare la galera. La sua regia è stata così efficace e previdente da assicurare all’opposizione un margine di voti di vantaggio più ampio del necessario. Tanto da disfare, in corsa, tutti gli accordi stretti all’ultimo minuto dall’ex presidente Lula per salvare la sua erede politica. La diretta tv dalla Camera è stata un grande show, con momenti acuti di surrealismo. I deputati hanno approfittato dei secondi riservati alla dichiarazione del voto davanti alle telecamere per salutare amici e parenti. C’è chi ha dedicato il momento storico alla moglie, chi a meu querido marido, qualcuno ai nipotini, addirittura un deputato ha gridato: "Grazie a mia zia che m’ha cresciuto!". L’impeachment è maturato in un clima rovente. Siamo in piena Tangentopoli in Brasile. Varie inchieste giudiziarie sono in corso su finanziamenti illeciti alle campagne elettorali dei principali partiti, non solo del Pt. I magistrati più esposti mediaticamente, sono acclamati dalla folla come popstar, abbracciati e benedetti per strada come fossero Caetano Veloso. Giornali e tv cavalcano l’onda e il grido "in galera subito!" rimbalza con gioia sulle reti sociali. Cosa è successo? Perché il tintinnar di manette sembra diventato musica alle orecchie di un popolo gentile, culturalmente più incline all’indulgenza, alla risata, che alla fustigazione dei peccati altrui, anche se pubblici? Prima c’è stato lo scandalo mensalão (mazzette mensili ai deputati alleati del primo governo del Pt 2003-2006) che ha condannato in via definitiva l’alta dirigenza del partito fino a sfiorare l’allora presidente Lula. Ora c’è l’operação Lava-Jato, l’inchiesta sugli appalti pilotati con sovrapprezzi nell’azienda pubblica del petrolio. Il clima è quello dell’Italia del 1992. Dilma non è accusata di nulla, ma bisogna andarsi a leggere la Bcc Brasil per trovare qualcuno che dica "finora non ci sono nemmeno suggestioni nelle carte che possano accusare Dilma di qualche comportamento criminale" (Matthew Taylor, Brazil Institute, American University). È necessario comprare l’edizione brasiliana dello spagnolo El Paìs per vedere scritto in cronaca che "lo stesso Lula è stato accusato dal principale informatore del caso sui sovraprezzi in Petrobrás di conoscere tutta la trama della storia. Ma non c’è nessuna prova". Quel "Mas não há nenhuma prova" solitamente scolora nei giornali brasiliani, in tv poi scompare proprio. Una notizia che dà l’idea dell’aria che tira: il giudice Wagner Carvalho Lima, dello stato di San Paolo, ha citato tempo fa in una sentenza la liberazione di nove imputati della Operação Lava Jato, come motivazione per dare la libertà provvisoria a venti persone rinchiuse nel Centro di detenzione preventiva accusate di riciclaggio di denaro. Le parole della sentenza riportate dal tg Bom Dia Brasil della tv O Globo: "In un paese in cui i componenti di un’organizzazione criminale che ha rubato miliardi a un’impresa di patrimonio nazionale sono a casa per decisione del Tribunale supremo federale - ha scritto il giudice - non posso giustificare la detenzione di chi, proporzionalmente, ha causato un male minore alla società, anche se si tratta di un male molto grave". Con tanti saluti alla presunzione di innocenza. L’inchiesta Lava Jato, quella che dà i titoli ai tg, è cominciata prima delle ultime presidenziali. La formazione del nuovo governo e le nomine dei ministri, sono state cadenzate dalle fughe di notizie sull’inchiesta. Dilma non faceva in tempo a sussurrare il nome di un candidato, che se lo ritrovava il giorno dopo sui giornali nelle pagine della giudiziaria. Tutto ciò avviene nel bel mezzo di una situazione economica difficile, con il paese in piena fase di deindustrializzazione e venticinque milioni di ex poveri che, appena tirato un piede fuori dal fango grazie a piani sociali mirati e piogge di finanziamenti pubblici al consumo, si ritrovano scivolati di nuovo nella miseria. La situazione è politicamente aperta. Non improbabile la chiamata anticipata alle urne che, nonostante la crisi economica e la debacle di Dilma, potrebbe convenire anche al Pt. Cioè a Lula, che resta il capo supremo del partito e rimane il grande ostacolo per i piani di ritorno al potere della destra brasiliana. Alla fine di una notte sfiancante, dopo tre giorni di maratona a sostenere con urla le bandiere del "Dilma sì" "Dilma no", davanti al muro d’acciaio di Brasilia all’alba di ieri gli opposti cortei si sono scatenati in una partita di pallavolo. Il Burundi è sull’orlo di una guerra civile, lontano dagli occhi del mondo di Emma Graham-Harrison Internazionale, 19 aprile 2016 Il Burundi confina con il Ruanda e condivide una composizione etnica simile a quella del paese teatro del genocidio. Thierry vuole parlare, ma si blocca al ricordo dei colpi e delle coltellate accompagnati dalla voce di suo padre che implorava di aver salva la vita, prima che uomini dal volto coperto lo facessero a pezzi. Si rinchiude in se stesso, freddo e piccolo su un’umida panca di legno in Tanzania. L’inferno si trova a un paio di chilometri di distanza, al di là di un fiume, nel paese che fino a due ore fa era la sua patria. "Il sangue scorre ovunque in Burundi, le cose stanno così", racconta il giovane agricoltore, arrotolandosi i pantaloni e una manica della camicia per mostrare tagli e lividi. Ha chiesto di cambiare il suo nome per proteggere i familiari che si trovano ancora in Burundi. Profugo all’età di 27 anni, è solo una delle tante vittime di una crisi che ha costretto più di 250mila persone all’esilio e che adesso minaccia la fragile stabilità di una regione con un tetro passato di genocidi. I racconti di chi è fuggito sono pieni di torture, aggressioni, rapimenti e omicidi. "Voglio dimenticare tutto del Burundi, anche i nostri nomi", dice un altro giovane, crollato a terra davanti a un centro di registrazione per i profughi. Per metterla in salvo, ha trasportato dall’altra parte del fiume sua sorella di sedici anni, incinta in seguito a uno stupro. Si sono lasciati alle spalle la tomba di un’altra sorella, uccisa l’anno scorso da un proiettile sparato da un soldato. Mentre in Burundi cresce la violenza e circolano voci insistenti sulle milizie dell’opposizione che si starebbero addestrando nei paesi vicini, i sopravvissuti avvertono che il governo, nel timore di perdere il potere, sta facendo ricorso alla stessa velenosa propaganda etnica che ha alimentato le guerre nel paese e il genocidio nel vicino Ruanda. Eppure il mondo sembra non accorgersene. A quanto pare la comunità internazionale non percepisce l’urgenza di fermare l’implosione del Burundi e, secondo le organizzazioni umanitarie, ancora meno di fornire cibo e rifugio alle vittime. Ci hanno preso i soldi, ci hanno picchiati e poi ci hanno chiesto: "Non appoggiate il presidente?". "Il nostro paese è sull’orlo della guerra e noi ci sentiamo dimenticati", dice Geneviève Kanyange, un’esponente del partito al potere che ha trascorso settimane in clandestinità prima di riuscire a fuggire in esilio. "Se non ci aiuteranno presto, potrebbe essere troppo tardi". La violenza è esplosa l’anno scorso, quando il presidente Pierre Nkurunziza, un ex insegnante di educazione fisica, comandante di una milizia e devoto cristiano rinato, ha annunciato di voler mettere da parte la costituzione e candidarsi per un terzo mandato. Il suo annuncio ha provocato un tentativo di colpo di stato, proteste di massa e una repressione che si è trasformata in uno stato permanente di violenza. Nel 2016, in media, un migliaio di persone al giorno sono fuggite oltre il confine con la Tanzania, secondo le cifre fornite dalle agenzie umanitarie attive nella regione. Questi esuli hanno raggiunto gli altri 250mila che avevano trovato rifugio in Tanzania, Ruanda, Uganda e Repubblica Democratica del Congo alla fine dell’anno scorso, in campi profughi drammaticamente sovraffollati e senza cibo a sufficienza. Secondo quanto riferito da un portavoce delle Nazioni Unite, un appello per raccogliere fondi ha racimolato solo un decimo del necessario. Gran parte dei profughi ha viaggiato di notte, attraverso boscaglia e foreste, per evitare le milizie che danno la caccia ai possibili disertori, definiti traditori. Alcune delle persone che riescono a intercettare vengono rispedite indietro con un avvertimento, ma molti vengono aggrediti e uccisi. "Ci hanno preso i soldi, ci hanno picchiati e poi ci hanno chiesto: ‘Non appoggiate il presidente?’", racconta Kigeme Kabibi, una trentenne madre di cinque figli che ha cercato di scappare la prima volta dopo che avevano sparato a suo marito e, come quasi tutti i profughi del Burundi, ci ha chiesto di essere identificata con uno pseudonimo nel timore di rappresaglie per aver parlato con la stampa straniera. Al secondo tentativo è riuscita ad arrivare in Tanzania percorrendo strade secondarie. Nei campi profughi della Tanzania - A quanto pare il governo spera che, se riuscirà a fermare l’esodo dei profughi, la comunità internazionale - già distratta - preferirà ignorare i problemi interni al Burundi. I controlli sono così severi che decine di migliaia di persone a rischio hanno preferito nascondersi all’interno del paese, nelle foreste o nelle abitazioni di amici, piuttosto che rischiare di superare il confine. A quelli che riescono a oltrepassare il confine, la Tanzania offre solo una protezione minima. La penuria di fondi e la marea di nuovi arrivi fanno sì che i campi profughi siano affollati, le razioni di cibo raramente consentono più di un pasto al giorno e un alto numero di donne e bambini sono vittime di aggressioni sessuali. Fabian Simbila è un operatore sanitario che ha conosciuto Thierry e la sua famiglia presso un minuscolo centro di registrazione alla frontiera. Può fornire aiuto per le emergenze mediche e offrire coperte per ripararsi dal freddo, ma non ha cibo per le famiglie che hanno camminato a volte per giorni con lo stomaco vuoto. "Arrivano di sera e non hanno niente da mangiare fino al giorno dopo, quando verranno accolti nei campi profughi ufficiali", racconta. "È difficile, provo pena per loro. Ma cosa posso fare?". Decine di persone arrivano ogni giorno, e il suo modesto salario non basta a procurare razioni per tutti quanti. La fame patita in Tanzania è comunque per molti un cambiamento in positivo rispetto ai pasti consumati nel terrore in patria. "Stanotte forse riuscirò persino a dormire di nuovo", dice Jacques, un contadino di 21 anni scappato con i genitori da un villaggio nella provincia di Ruyigi, al confine. Non mangiava da più di 24 ore, ma alla sua famiglia non importava, dice. "Non volevo rivivere le cose che avevo visto da bambino", ha detto, riferendosi alla lunga guerra civile, finita nel 2005. "Catturano i giovani, li accoltellano e li picchiano, e violentano le donne. Non ne possiamo più di vedere gente morire come capre. Poi mio padre è anziano, e ci ha implorato di partire adesso, perché non sarebbe stato in grado di scappare nel caso di una crisi improvvisa". È molto più difficile far uscire le notizie dalla campagna. I fatti accadono lontano dalle telecamere. La testimonianza dei profughi provenienti dalle campagne come Jacques è importante perché le aree rurali del Burundi sono talmente povere e mal collegate che gli attivisti spesso hanno solo un’idea molto vaga delle violenze in atto. Nella capitale Bujumbura e nelle altre città principali una rete di simpatizzanti usa gli smartphone per divulgare di nascosto informazioni sulle uccisioni e le sparizioni, rischiando moltissimo, secondo quanto racconta l’avvocato e attivista Lambert Nigarura. Nei villaggi di uno dei paesi più poveri del mondo ci sono pochi telefoni, connessioni a internet e collegamenti con reti di attivisti, e questo significa che chi vuole rendere pubbliche le violenze deve affidarsi a metodi più antiquati e rischiosi. "È molto più difficile far uscire le notizie dalla campagna; i fatti accadono lontano dalle telecamere", afferma Nigarura, ricordando una serie di aggressioni segnalate tramite lettera. "Gli osservatori sono solo in alcune aree, perciò se succede qualcosa mentre si trovano lì, lo veniamo a sapere. Se succede invece da un’altra parte, non ne sappiamo nulla". Gli abitanti delle campagne sono anche tagliati fuori dalle notizie sulla portata della crisi nazionale. Le televisioni sono sempre più rare fuori dalle città e il governo lo scorso maggio ha chiuso tutte le stazioni radio indipendenti del paese. La più famosa, Radio publique africaine, è stata perfino colpita da un missile, per rafforzare il messaggio. Le stazioni radio di stato sopravvissute diffondono propaganda, non informazioni. "Nel villaggio la gente veniva ammazzata ma alla radio non si sentiva niente", racconta Fabrice, 54 anni, che ha deciso di partire con la moglie e i dodici figli dopo che suo cognato è stato rapito di notte. Non si aspettano di rivederlo, hanno già chiamato la prigione locale e gli agenti hanno detto loro che non si trova lì. Mentre i villaggi si svuotavano lentamente, la famiglia aveva ritardato la partenza perché, come la maggior parte delle persone che si trovano nei campi profughi, sanno che è un viaggio di sola andata. "Appena sanno che siamo qui, prendono automaticamente la nostra terra", aggiunge Fabrice. "Non potremo mai più tornare". Come fermare la guerra. I suoi timori sono confermati dalle organizzazioni umanitarie che prevedono di dover sostenere i profughi burundesi per molti anni, anche se le violenze dovessero cessare nel giro di pochi mesi. "Non vedo alcuna prospettiva né desidero tornare in Burundi. Questa è un esilio grave e probabilmente lungo", riferisce il presidente dell’International rescue committee David Miliband. "Secondo me dobbiamo prepararci al peggio, ossia a una crisi della durata di diversi anni con persone che continueranno ad arrivare". Miliband parlava dopo aver visitato il campo di Nyarugusu, in Tanzania, attualmente il terzo campo profughi del mondo per dimensioni, una baraccopoli che si estende in modo irregolare e ospita più di 150mila persone che hanno perso tutto. Gli esiliati più fortunati, che dispongono di soldi o di parenti disposti a prenderli con sé, sono finiti per la maggior parte nella capitale ruandese Kigali, dove giornalisti, attivisti e politici raccolgono le informazioni fatte uscire di nascosto dal Burundi e discutono su come richiamare l’attenzione sulla crisi e porre fine alle violenze. La maggior parte teme l’escalation militare e crede che una forza di pace internazionale sia la migliore speranza per evitare la guerra. Tra i campi profughi e gli esiliati sparsi qua e là, tuttavia, c’è un numero sempre maggiore di sopravvissuti arrabbiati e addolorati che vogliono tornare con un fucile in mano. "Vorrei poter tornare indietro e combattere, ma non so dove arruolarmi", dice un esiliato segnato dalle cicatrici delle torture in una prigione governativa, che ha chiesto di essere chiamato Billy Ndiyo per proteggere i parenti rimasti in Burundi dopo la sua fuga. Ndiyo è stato fortunato, perché un parente ricco e influente è riuscito a comprare la sua libertà. Ndiyo faceva l’autista prima della crisi. Poi il caos economico gli ha fatto perdere il lavoro. L’estate scorsa, mentre andava a comprare il pane, è stato catturato per strada da alcunimiliziani. Non si era mai interessato di politica e ritiene di essere stato sequestrato per il solo fatto di essere un giovane in una zona considerata una roccaforte dell’opposizione. Condotto in una villa alle spalle di un complesso militare che, secondo quanto riferito da alcuni attivisti, viene utilizzata come prigione, Ndiyo è stato ammanettato, picchiato e ferito in faccia con un’arma da taglio. "L’ha presa e mi ha colpito proprio sotto l’occhio, urlando: ‘Non osare guardarmì. Ho alzato una mano per cercare di fermare il sangue ma lui ha continuato, poi mi ha colpito in testa e all’altra mano con un coltello. C’era sangue dappertutto, e l’ultima ferita mi ha fatto svenire". È rinvenuto in una minuscola cella dove altri otto prigionieri sfiniti, alcuni vicini di casa nel quartiere in cui viveva, gli hanno detto che di sicuro non sarebbe uscito vivo da lì. Ben presto ha capito il perché. "Quella stessa notte sono venuti a prendere due prigionieri. Hanno detto loro: ‘Venite, abbiamo trovato un posto adatto a voì e da allora nessuno li ha più visti. La notte dopo sono venuti a prenderne un altro. Piangeva e cercava di opporre resistenza, perciò hanno cominciato a colpirlo con un coltello sotto i nostri occhi". Ndiyo è stato fortunato, perché un parente ricco e influente è riuscito a comprare la sua libertà e a mandarlo immediatamente oltre il confine. I suoi compagni di cella, dice, sono di sicuro tutti morti. È difficile verificare le storie di molti profughi, a causa dell’instabilità in Burundi e della stretta sui visti d’ingresso. Le storie raccontate da persone provenienti da diverse parti del paese mostrano schemi ricorrenti di violenza e tortura. Molti di coloro che sono stati detenuti o uccisi in una prigione governativa affermano di essere stati prelevati in strada da forze di sicurezza e milizie che sostenevano di essere a caccia di ribelli. Questi raid sono diventati così comuni che in alcune aree i giovani se ne stanno rinchiusi in casa a volte per intere settimane. L’altra forma ricorrente di violenza è stata messa in atto nel corso di irruzioni nelle case, di solito con la scusa di cercare armi illegali. "Vengono a casa tua se pensano che appartieni a un partito politico d’opposizione e dicono di cercare fucili. Anche se non ne trovano, portano via tutti e nessuno sa dove vanno a finire", racconta Fabrice. I responsabili delle violenze. Quelli che hanno ucciso il padre di Thierry lo accusavano di appartenere a un gruppo ribelle, anche se l’anziano era sopravvissuto agli anni della guerra civile senza prendere in mano un’arma. "Mio padre li implorava: ‘Non ho un fucile. Se anche mi consegnaste il vostro, non saprei come usarlò". Altre forme di tortura vanno dall’uso di armi da taglio da parte delle forze di sicurezza per squarciare e accoltellare ad atti ancora più raccapriccianti. Molti hanno raccontato di miliziani che hanno legato dei secchi d’acqua al pene degli uomini e li hanno costretti ad alzarsi e abbassarsi, facendo sì che il peso strappasse loro i genitali. Gli autori di molte atrocità sono uomini mascherati di cui non si conosce l’identità. Un gruppo che ricorre più volte nei racconti degli abusi è il temuto settore giovanile del partito al potere, gli Imbonerakure, "quelli che vedono lontano" in lingua kirundi. Il gruppo è nato dallo scioglimento della stessa milizia da cui ha avuto origine il partito al potere. Gli Imbonerakure sarebbero anche coinvolti nel tentativo di trasformare questo scontro in un conflitto etnico. Il Burundi confina con il Ruanda e condivide una composizione etnica simile a quella del paese teatro del genocidio del 1994, che continua ancora oggi a proiettare lunghe ombre di vergogna e paura. Come il Ruanda, anche il Burundi ha assistito a feroci guerre genocide tra hutu e tutsi. Un accordo di pace ben calibrato aveva messo fine all’ultima guerra nel 2005 ed era riuscito a disinnescare molte tensioni, creando un equilibrio etnico nell’esercito, nel governo e perfino nelle aziende di proprietà dello stato. Gruppi come quello degli Imbonerakure sono esterni a queste strutture di potere formali e le indeboliscono. L’esercito è già diviso. Il mese scorso un alto ufficiale dell’esercito ritenuto vicino a Nkurunziza è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre leggeva un avviso su una bacheca all’interno di una caserma. "Membri dissidenti e lealisti dell’esercito si uccidono tra loro. Questo determina un rischio altissimo", dice Richard Moncrieff, analista esperto di Africa centrale presso l’International crisis group. "Se pensiamo alla storia del Burundi, ci accorgiamo che il rischio di atroci violenze di massa è molto alto". Con il governo che predica odio, il Burundi corre il rischio di spaccarsi ancora di più lungo linee di divisione etnica e un esercito in guerra con se stesso potrebbe trascinare il paese in una nuova guerra civile.