Come si costruisce il mostro Il Mattino di Padova, 18 aprile 2016 Doina Matei ha riempito, per la seconda volta, a quasi dieci anni di distanza dall’omicidio con l’ombrello, le pagine di cronaca dei giornali, e per la seconda volta è stata letteralmente massacrata per delle fotografie troppo sorridenti che ha postato su Facebook, mentre era in semilibertà, cioè usciva dal carcere per andare a lavorare e vi faceva ritorno la sera. Usiamo il passato "usciva", perché ora Doina è di nuovo rinchiusa, in attesa di una decisione del magistrato. Lo scandalo di un sorriso Ho conosciuto Doina qualche anno fa, quando mi ha scritto dal carcere di Perugia, e il suo più grande desiderio era riuscire in qualche modo a ricostruire il rapporto con i figli e cercare di sostenerli anche economicamente. Sono riuscita ad aiutarla, trovandole un lavoro a Venezia, e così, con quella per lei preziosa offerta di lavoro, ha ottenuto la semilibertà. Il mostro che stanno descrivendo in questi giorni NON ESISTE. E non esisteva nemmeno quando Doina ha ucciso: lei era allora una ragazza giovanissima già con una vita disastrata, due figli, uno avuto a quattordici anni, in un Paese poverissimo dove garantire un’esistenza dignitosa alla propria famiglia era quasi impossibile. E così è arrivata in Italia, e anche qui non ha fatto una gran vita, finché un giorno nel metrò a Roma ha avuto uno scontro con una ragazza italiana, di quelli che avvengono ogni giorno quando reagiamo aggressivamente se qualcuno magari solo ci urta, o ci passa davanti in una coda, o ci sgomita in un autobus affollato. Quel gesto dell’alzare l’ombrello per difendersi, e non mi interessa qui di dire una cosa impopolare, ma sono certa che è stato istintivo e non voluto, e Doina comunque mille volte ha chiesto perdono. Certo se l’avessi qui davanti le direi che ha fatto una leggerezza a postare quelle foto, ma ugualmente sono convinta che il suo è davvero un peccato veniale, e che una ragazza che non ha mai avuto una vera giovinezza, è facile che cada nella trappola dei social network. Perché quando una persona inizia un percorso di reinserimento nella società, dopo aver passato anni della sua giovinezza in galera, la solitudine, la difficoltà a costruirsi delle relazioni diventano pesanti da affrontare, e Facebook rappresenta una specie di compagnia, un modo per non sentirsi troppo soli. Ma qualcuno riesce davvero a capire che nove anni di galera non sono uno scherzo? Provate a immaginare il giorno più brutto della vostra vita, e moltiplicatelo per nove anni, e forse capirete che dopo tutta quella sofferenza una giornata al mare e un sorriso non offendono nessuno. Io non so cosa deciderà nei prossimi giorni il magistrato di Sorveglianza, che per ora ha interrotto la semilibertà di Doina, ma di persone in semilibertà ne ho viste tante, e non credo che Doina sia indegna di una misura così importante per lei e per i suoi figli. Il percorso di rientro nel "mondo libero" di una persona che ha commesso reati è complicato, e non può essere perfetto, interromperlo per qualche fotografia che senso avrebbe? Non riesco a dire che capisco la rabbia del padre della ragazza uccisa, capisco il dolore, come si fa però a chiedere la pena di morte per una giovane donna che ha fatto un gesto sbagliato, ma che è andato ben al di là delle sue intenzioni? Quanto a quella parte della società che ha contribuito in questi giorni a costruire il mostro, penso che sia triste vivere con tanta cattiveria sociale dentro, e che la fortuna più grande che ci possa capitare è di essere capaci di desiderare una giustizia dal volto mite per tutti. Ornella Favero, volontaria L’odio distrugge, logora, intossica prima di tutto chi lo prova Ed ecco che come sempre una parte dell’informazione irrompe nel sistema della giustizia cercando di sostituirsi ad esso, e questa volta condannando il sorriso di una ragazza. La ragazza in questione è Doina Mattei, ma forse prima del suo sorriso era conosciuta di più come "la Killer dell’ombrello", ora, per una semplice fotografia postata su internet che la ritrae al mare sorridente, i media le danno nome e cognome per condannarla una seconda volta. Mi piacerebbe porre una domanda ai conduttori di La zanzara di Radio 24, che hanno colto la palla al balzo per intervistare Giuseppe Russo, padre di Vanessa, la ragazza uccisa. Vorrei sapere se dopo aver rispolverato il dolore di un padre e dato voce a quell’odio, forse comprensibile, che prova un genitore di fronte alla morte della figlia, credono di aver fatto il loro lavoro d’informazione nello spirito giusto. Non voglio giudicare le dichiarazioni di Giuseppe Russo, quando chiede che per fatti come questi venga introdotta la pena di morte, anche se questa sua affermazione credo che sia davvero inconcepibile, tanto più dopo che Papa Francesco nella città del Vaticano ha abolito anche l’ergastolo dichiarandolo una pena di morte nascosta. Ma il dolore di una vittima nessuno può metterlo in discussione, invece, secondo me, dovremmo mettere in discussione la campagna mediatica che molte volte viene fatta quando persone che hanno commesso un reato provano a ricostruirsi una vita. È molto facile dire "hanno sbagliato e non meritano una seconda possibilità", è semplice ragionare nella direzione di quella frase squallida che molto spesso si sente sia nella società che dai media "bisogna chiuderli e buttare la chiave", è fin troppo semplice ragionare in questi termini senza cercare di capire come un fatto come questo della ragazza rumena ha segnato la vita di molte persone. Doina Mattei, prima della concessione della semilibertà, ha fatto un percorso, che è stato giudicato idoneo per usufruire prima dei permessi e poi appunto della semilibertà, ma oggi, che riprova a riprendersi in mano la vita con la consapevolezza di ciò che ha fatto nove anni fa, viene mandata al massacro per un sorriso postato su Facebook, affermando che era un sorriso di vittoria. Ma in tutta questa vicenda esiste un vincitore? A mio parere non esistono mai vincitori in eventi tragici come questi. Tutti hanno perso, ma è giusto mettere davanti a tutti Vanessa che per dei futili motivi ha perso la vita e questa è una ingiustizia, poi la sua famiglia che è stata condannata a vivere nel dolore per aver perso una figlia, e però c’è pure Doina. Anche lei ha perso e anche in lei qualcosa si è spento per sempre. La consapevolezza di aver tolto la vita a una persona segna in maniera indelebile la propria vita, ma questa vita respira ancora, Doina ha ancora un cuore che batte, vogliamo condannarla per questo? Vogliamo privarla della possibilità di ricostruirsi un futuro? Vogliamo condannarla per un sorriso o per una foto in riva al mare? È molto triste pensare che i media a volte per riempire una prima pagina condannano prima che la giustizia faccia il suo corso, oppure che facciano pressione a magistrati facendogli sentire il peso di una decisione che dovranno prendere. Sono convinto che i magistrati siano in grado di essere razionali e decidere con la professionalità che li contraddistingue, ma ho già visto molti casi di magistrati messi sulla graticola per delle decisioni prese che andavano contro i media o contro il desiderio di vendetta che una parte di società chiede alzando la voce. È una linea molto sottile confondere la giustizia con la vendetta e molto spesso ci si aggrappa alla giustizia cercando esclusivamente una vendetta. L’odio distrugge, logora, intossica chi lo prova, non chi gli ha fatto del male. Mi auguro che il magistrato di Sorveglianza comprenda che Doina, se le è stato concesso un beneficio è perché ha fatto e continua a fare un percorso che rispecchia quello che la nostra Costituzione sancisce con l’art.27, spero che queste fotografie non vengano interpretate come un affronto nei confronti della vittima, ma esclusivamente un voler provare a riprendersi la vita in mano. E sono sicuro che non ci sia nessun desiderio di dimenticare il male che si è fatto, questa consapevolezza è già una grossa condanna. Lorenzo Sciacca Più della spada poté la penna di Bruno M. (redazione di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2016 "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Così recita l’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana. Ritenuta da tanti una delle più belle Costituzioni del mondo. Scritta da persone che avevano provato sulla propria pelle la sofferenza della detenzione durante il regime fascista, e non è un caso che la stessa Costituzione non sancisce affatto che la detenzione è l’unica pena possibile. Purtroppo però molte, troppe persone ritengono che la pena detentiva deve essere l’unica pena possibile e la rieducazione è solo una questione formale che nella realtà non viene in alcun modo applicata. La mia riflessione oggi parte dall’analisi di una vicenda reale che ha visto protagonista Marino Massimo De Caro. Massimo, così viene chiamato dagli amici, è stato condannato a 7 anni di reclusione per Peculato all’interno della vicenda della Biblioteca dei Girolamini di Napoli. Nel suo caso l’attenzione mediatica è stata fortissima, forse anche troppo. A 5 anni di distanza dai fatti molti media continuano ad occuparsi della vicenda mentre è in corso a Napoli un processo che lo vede imputato per la devastazione e il saccheggio della Biblioteca, anche se per i media lui di quella devastazione è già sicuramente colpevole. Io non voglio difendere Massimo, lo farà lui nel processo, e soprattutto non è mio compito. Così come non voglio mettere in discussione la sentenza che lo ha condannato a 7 anni. Vorrei però raccontarvi la mia esperienza personale con Massimo. Dopo aver passato circa 18 mesi in custodia cautelare in carcere, di cui 8 in una cella punitiva, Massimo viene mandato agli arresti domiciliari per motivi di salute. Qui decide di dare un senso alla pena e di impegnarsi a costruire una vita nuova. Si iscrive, e si laurea, a Scienze politiche per i diritti umani all’Università di Padova e, nell’ambito dello stage previsto dal corso universitario, viene a fare volontario presso la redazione di "Ristretti Orizzonti". Questo è il momento in cui la mia vita incrocia quella di Massimo. Durante lo stage è sempre disponibile e attento, lavora, fa proposte e cerca di impegnarsi nel mondo del volontariato legato al carcere. Mi racconta la sua esperienza detentiva e mi dice che vuole dedicare la sua "seconda vita" agli ultimi, ai detenuti. E proprio con questo spirito comincia a parlarmi del progetto di una Mostra su Galileo Galilei organizzata e gestita da detenuti. Gli sembra l’occasione di dare un senso alle parole della "giustizia riparativa": con i suoi gesti Massimo ha ferito il mondo della cultura ed ora vuole impegnarsi a "fare" cultura. Mi è sembrata una bella idea. Anche con questa stella polare in mente Massimo consegue poi una Laurea Magistrale, sempre a Padova, in Scienze Storiche, proprio con una tesi su Galileo Galilei. Consegue poi all’Università di Roma un Master in Comunicazione estetica e museale così come sta conseguendo con l’Accademia pontificia "Regina Apostolorum" un Master in Scienza e Fede. Troppo studio, forse? Purtroppo il Magistrato di Sorveglianza di Verona non l’ha autorizzato ad iscriversi al Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Padova. Racconto tutto questo per indicare che l’idea della Mostra su Galileo è stata sempre un’idea fissa di Massimo come forma di riscatto non sua, ma dei molti detenuti che avrebbe voluto coinvolgere. Durante i suoi studi Massimo ha continuato, e continua ancora oggi, a collaborare con la nostra redazione e devo dire che sono stato felice quando mi ha raccontato che il Presidente dell’Associazione "La Fraternità", Francesco Sollazzo, e la Diocesi di Verona hanno creduto nel suo progetto ed hanno deciso di promuovere la Mostra. Ancora più interessante è che la Diocesi di Verona è una delle parti offese dai comportamenti di Massimo. Ma forse, proprio il perdono insieme all’occasione di dare parole concrete all’idea di giustizia riparativa, sono la vera applicazione, o meglio dovrebbero esserlo, dei principi costituzionali che in questo anno giubilare della misericordia, da Papa Francesco proprio dedicato anche ai detenuti, diventano un’unica cosa. Tutto bene allora, questo è un commento a qualcosa che finalmente ha funzionato nel nostro sistema giudiziario? Purtroppo invece no. Sul quotidiano "L’Arena" di Verona viene pubblicato un articolo che "denuncia" la presenza di Massimo, che stava lavorando alla Mostra, in alcuni locali, non dentro badate bene, ma insistenti nella stessa Piazza dove si trova la Biblioteca Capitolare di Verona. La cosa che a me pare incomprensibile sono le parole del Presidente della Fevoss (Federazione dei Servizi socio-sanitari) Alberto Dal Forno che dichiara che il volontariato fatto da Massimo De Caro "è una offesa per quei volontari che fanno dell’onestà la propria ragione di vita". Queste affermazioni sono secondo me gravi perché condannano, non Massimo, ma tutti i detenuti ed ex detenuti che hanno fatto, e che fanno tutti i giorni, del volontariato lo strumento di reinserimento sociale, proprio come previsto dalla Costituzione. Ma queste parole sono ancora più gravi perché dette da chi ha affermato che "fare del bene aiuta a star bene". Ebbene gentile Alberto Dal Forno le sue parole hanno contribuito a far revocare a Massimo il permesso di lavorare a questa Mostra. Forse avrebbe dovuto dichiarare che "fare del male aiuta a star bene". Eppure quella mostra non era più solo l’idea di Massimo e dei promotori, ma nel frattempo aveva visto l’importante sostegno scientifico di università italiane e straniere, che ne avevano colto il valore scientifico oltre che sociale. Le parole del volontario e quelle del giornalista dell’Arena sono state il motivo alla base della revoca dell’autorizzazione al lavoro di Massimo da parte del Magistrato di Sorveglianza, revoca che poi ha significato anche affossare la Mostra e togliere una opportunità a quei molti detenuti che sarebbero stati coinvolti. Sono convinto che i Magistrati di Sorveglianza non si facciano condizionare dalla stampa, ma basino le loro convinzioni ed atti solo sulla legge, sul comportamento dei detenuti e sulla nostra Costituzione, come mai allora in questo caso è stato deciso di revocare l’autorizzazione ed affossare la Mostra motivando questa decisione a partire da un articolo di giornale? Vorrei solo ricordare a questo "volontario" che il vero senso del volontariato è eliminare gli ostacoli che impediscono di avere le stesse opportunità per tutti. Forse aver creato le condizioni affinché questi ostacoli fossero messi anziché rimossi è un po’ un tradimento del volontariato. La pena si sconta fuori. Dagli Stati generali un nuovo modello di esecuzione penale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 18 aprile 2016 Il rapporto tra permanenza in carcere ed esecuzione penale esterna è sceso da 4 a 1 ad 1 a 1. "Oggi per ogni detenuto in carcere, ce n’è un altro in esecuzione penale esterna", riferisce il ministro della Giustizia Andrea Orlando alla vigilia della conclusione degli Stati generali dell’Esecuzione penale prevista oggi e domani (18 e 19 aprile, ndr) a Roma nell’Auditorium della Casa circondariale Nuovo Complesso di Rebibbia "Raffaele Cinotti". Una due giorni dedicata a "un nuovo modello di esecuzione penale per superare lo stigma che lo grava", così definito dal processual-penalista Glauco Giostra che ha coordinato il lavoro del Comitato scientifico degli Stati generali: 18 tavoli con duecento partecipanti che si sono riuniti in questi mesi elaborando proposte di riforma e documenti di sintesi a tema, uno per ogni tavolo in attesa della riforma dell’ordinamento penitenziario oggetto della delega all’esame del Parlamento. Il professore, da dieci anni ordinario di procedura penale all’Università La Sapienza di Roma, si è espresso a favore dell’esecuzione penale esterna: "Vogliamo rispettare i diritti dei detenuti offrendo di più ma pretendendo anche di più. "La nostra è oggi una visione meno carcero-centrica nella convinzione suffragata da studi e dati alla mano, che l’espiazione non in forma carceraria della pena, abbassi drasticamente i livelli di recidiva perché più carcere non deve più voler dire più sicurezza. Sappiamo che chi è dentro, prima o poi ne uscirà ed è con questa evidenza che dobbiamo fare i conti. Se è fallita la riforma penitenziaria del 1975, è perché non ha trovato a suo tempo i luoghi e le persone adatte a recepirla", considera, "ma ora abbiamo almeno un modello di riferimento verso cui far convergere le azioni. Il carcere non può essere la soluzione dei problemi ma è invece un problema sociale da affrontare tutti insieme". Per Francesco Cascini, capo dipartimento Giustizia minorile, "si tratta di una delle poche volte in cui la politica fa un investimento a lungo termine", concorde anche Santi Consolo del Dap - Dipartimento amministrazione penitenziaria: "Se dall’interno delle strutture penitenziarie, creiamo con le misure alternative delle opportunità lavorative al detenuto, gli diamo la possibilità di scegliere una via di riscatto". Nella giornata di oggi, primo giorno di dibattito istituzionale, alla presenza straordinaria del presidente della repubblica e dei rispettivi capi dipartimento Santi Consolo del Dap e Francesco Cascini per la Giustizia minorile e di Comunità, parleranno oltre a Glauco Giostra, coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali, il ministro della Giustizia Andrea Orlando e due rappresentanze internazionali dal Consiglio d’Europa alla Commissione europea. Il 19 aprile, dopodomani, sarà invece l’occasione per affrontare il tema della riforma dell’Ordinamento penitenziario oggetto della delega parlamentare. Seguiranno tre tavole rotonde partecipate rispettivamente dal mondo delle professioni coinvolte nell’opera di riprogettazione a più livelli della realtà carceraria, dagli addetti ai lavori dell’esecuzione penale: magistrati, giuristi, magistrati di sorveglianza fi no a più ministri e sottosegretari del Governo Renzi iscritti a parlare prima delle conclusioni sugli sviluppi dell’iniziativa che trarrà il ministro Orlando. E a dimostrazione del nuovo corso che il Ministero ha voluto imprimere al settore, c’è oggi la testimonianza dei detenuti del carcere di Opera che hanno voluto formulare le loro proposte per contribuire al dibattito. Per il ministro Orlando serve "una redistribuzione dei pesi tra carcere ed esecuzione penale esterna, converrebbe in termini di costi e recidiva dando alla pena un carattere restitutivo che finora non ha mai avuto". La chiave di tutto è il lavoro per "rendere la pena non solo certa ma utile", ha detto il ministro chiedendo aiuto al mondo della comunicazione per far passare il concetto di un carcere non più come una realtà oscurata dalla società ma con lei integrata perché capace di darle un contributo. Carcere, quella città nascosta che quasi mai rieduca di Margo Giorgetti Famiglia Cristiana, 18 aprile 2016 Attualmente sono 52.846 i detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.504 posti in 195 carceri nazionali. L’isolamento praticamente totale del detenuto dalla vita pubblica non ha avuto effetti positivi ai fini del buon recupero della persona. Occorre mettere chi è "dentro" in condizione di non scontare una doppia pena: quella della condanna legale e quella, una volta libero, del rifiuto sociale. Perché quest’ultimo è terreno fertile per i tanti casi di recidività. "Il carcere è una città nascosta, molto spesso, al centro delle nostre città. Una città nascosta che non si guarda con piacere. Un luogo costruito per non avere rapporti con l’esterno". Luisa Prodi (vice presidente del Centro Nazionale del Volontariato) parla al Festival del Volontariato di Lucca di un tema tra i più scottanti nella rassegna di incontri in programma. Non potrebbe essere diversamente, considerata la situazione drammatica delle carceri italiane. l sovraffollamento carcerario degli ultimi decenni sembra si stia attenuando anche grazie agli interventi recenti del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dall’intervento dalla suprema Corte costituzionale che ha cassato una legge restrittiva come la Fini-Giovanardi. Attualmente sono 52.846 i detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.504 posti a disposizione nei 195 carceri nazionali. Altro dato non trascurabile è la percentuale di stranieri facenti parte della popolazione carceraria circa 32% delle presenze totali. In Europa l’incidenza straniera si ferma al 14%. Capitolo particolarmente delicato e drammatico è quello riguardante i minori. I detenuti presenti negli Istituti penali per minorenni, prendendo i dati del 2015, sono 407, di cui 168 (il 41%) stranieri. Tra i detenuti presenti, sono 175 quelli in attesa di giudizio, vale a dire circa il 43% del totale. Altro settore particolarmente problematico è quello relativo alle mamme detenute bambini che scontano la pena insieme alle loro madri. "L’isolamento praticamente totale - continua Luisa Prodi - del detenuto dalla vita pubblica, dalle persone esterne, ha avuto effetti positivi, utili, ai fini del buon recupero della persona e del suo reinserimento nella società? A detta degli esperti in materia, sembra di no. L’efficacia sembra molto bassa. La legge, che chiede nello stesso tempo di punire e riinserire il detenuto, non ha funzionato con questo modello". Le statistiche ci trasmettono un’alta percentuale di recidivi tra coloro che escono dagli istituti di pena. Il carcere molto spesso cronicizza e/o peggiora la situazione culturale di un detenuto. Un cambiamento nel modello detentivo e di recupero sembra ormai assolutamente necessario. È già iniziato il percorso tra chi opera a stretto contatto con il mondo delle carceri, per ripensare la forma, il modo, il come scontare una pena, per poter far rientrare una persona nella società con strumenti nuovi. "La misura penale - aggiunge la Prodi, deve essere affiancata da misure rieducative e riassociative che includano l’aumento dell’inclusione sociale. Occorre un cambio di prospettiva culturale che permetta di investire più risorse verso percorsi formativi che incentivino misure di vario tipo su percorsi con esecuzione penale esterna". Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di scontare una doppia pena: quella data dalla sua condanna legale e quella, una volta libero, del rifiuto sociale. Quest’ultimo è terreno fertile per i tanti casi di recidività. Il ministro Orlando: "Il carcere non è la cura della miseria" di Lorenzo Fazio Il Secolo XIX, 18 aprile 2016 Alla Spezia, il ministro ha fatto il punto sul percorso di riflessione durato un anno e articolato in 18 tavoli di lavoro tematici ai quali hanno partecipato 200 esperti. A 2 giorni all’evento che concluderà gli Stati generali dell’Esecuzione penale, il ministro spezzino Andrea Orlando (Giustizia) ha fatto il punto sul percorso di riflessione e approfondimento, durato un anno e articolato in 18 tavoli di lavoro tematici ai quali hanno partecipato 200 personalità, avendo come tema portante la ridefinizione di una dimensione della pena nel quadro dei diritti e delle garanzie che punti al reinserimento dei detenuti e la costruzione di una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa sia per chi vi lavora sia per chi vi è ristretto. Il 18 e 19 aprile saranno illustrate le relazioni prodotte dai gruppi di lavoro e le proposte elaborate: presenzierà il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Nella stessa occasione, Orlando ha detto che il carcere deve avere una dimensione riabilitativa: non può risolvere i problemi della droga o della miseria. C’è - ha contestato - chi vorrebbe mandarci i mendicanti. Per il ministro, si deve invece spingere sulle pene alternative: da 19mila - ha detto - siamo saliti a 41mila detenuti con esecuzione penale esterna. Poi, l’ammissione di un problema serio: siamo il paese che spende di più per l’esecuzione penale, ma con la recidiva più alta in Europa. Il diritto penale - ha accusato - è utilizzato troppo spesso in modo simbolico. La toga che vuole l’Italia pura non usa l’incenso ma le manette di Stefano Zurlo Il Giornale, 18 aprile 2016 "In Italia non ci sono troppi detenuti, ma troppe poche carceri". Piercamillo Davigo sta tutto in queste parole, sempre in bilico fra suggestione e provocazione. Da Mani pulite in poi il presidente dell’Anm ha un unico credo: non esistono innocenti, solo colpevoli da incastrare a tutti i costi. Le sue massime, poco importa se vere o verosimili, costituiscono ormai un genere letterario. Una grammatica chiara: molti arresti, pene alte, zero pietà. Più detenuti e meno gente in giro. Il magistrato lombardo è in prima linea da una vita e non ha mai cambiato il suo metro di giudizio. Così tutti gli appiopparono una frase che in realtà fu pronunciata per la prima volta da Giuliano Ferrara: "Rivolteremo l’Italia come un calzino". Battuta disconosciuta e però perfettamente calzante sul Davigo-pensiero. Sempre un metro avanti, sempre paradossale, sempre urticante e spiazzante. Era così ai tempi del Pool, quando gli fu attribuito un altro adagio - in compartecipazione con Marco Travaglio, come ha annotato sulla Stampa Mattia Feltri - "non ci sono innocenti, ma colpevoli ancora da scoprire". Oggi, vent’anni e passa dopo, non è più pm ma giudice, non è più a Milano ma a Roma, non sta più in tribunale ma in Cassazione. E però tutti questi sono dettagli, la sostanza è immutata. Quando c’è da polemizzare lui non si tira indietro, sempre sicuro di sé, con la sua visione dell’universo in bianco e nero. Senza tante sfumature. Così se Renzi accusa i pm di Potenza perché non arrivano a sentenza, toccando uno dei tanti nervi scoperti dell’azione giudiziaria, lui replica tranchant: "È colpa della prescrizione". Una spiegazione che fa felici girotondini, grillini e giustizialisti doc, ma che convince solo a metà. "La verità - spiega al Giornale un collega di Davigo - è che le cause di questa lentezza sono molteplici, ma un aspetto non può essere trascurato, anche se non se ne parla mai: ci sono pm che vogliono fare le inchieste, ma non i processi. In aula, a dibattimento, mandano magari un collega che non sa nulla di quello che è successo in precedenza e che deve ricominciare da capo". Davigo non coltiva questo dubbio o non lo manifesta. È troppo innamorato di se stesso e impegnato a difendere il ruolo, anzi la missione che la legge gli ha affidato. A maggior ragione adesso che è diventato il potente presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il temuto sindacato delle toghe tricolori. Dal palco della sua notorietà, il magistrato cita come esempio di inchiesta addirittura eroica quella su Abu Omar e i servizi segreti che a suo tempo aveva provocato scintille fra poteri e fra l’Italia e gli Usa. No, lui va dritto per la sua strada e tributa la standing ovation ad Armando Spataro, altro peso massimo della magistratura italiana, oggi procuratore a Torino. Allo stesso modo taglia con un colpo solo nodi aggrovigliati da un quarto di secolo. Interviene a gamba tesa sulle intercettazioni, oggetto di una querelle interminabile, più lunga di Beautiful. "È sufficiente - è la presa di posizione, disarmante, del neopresidente dell’Anm - la legge sulla diffamazione. Il resto è superfluo". Dove, oltre allo snobismo di chi neanche prende in considerazione le questioni sollevate da più parti, quel che conta è il non detto, per lui sottinteso: quando si captano con cimici e microspie le conversazioni altrui non serve fare gli schizzinosi. L’intercettazione è come il maiale: non si butta via niente. Quando l’ormai ex ministra Federica Guidi dice al fidanzato: "Mi hai trattato come una sguattera del Guatemala", e quelle parole così private e intime finiscono in pasto sulla tavola di milioni di italiani, quella per lui non è una violazione possibile della privacy, ma la spia di una relazione che interessa molto al magistrato, perché potrebbe illuminare il reato su cui s’indaga, in quel caso il traffico di influenze, lo sciagurato illecito introdotto qualche anno fa nel nostro codice. Conclusione: quelle parole possono essere divulgate senza problemi perché aiutano a dipanare la rete criminale. Certo, i politici s’inalberano e parlano un giorno sì e l’altro pure di invasione di campo. Lui li lascia strepitare e di fatto replica riproponendo sempre lo stesso concetto: i giudici applicano le norme che i partiti hanno scritto. Se quelle leggi non vanno bene, basta riscriverle. Dove il non detto questa volta è lo scalino, alto, che separa i giudici dal Palazzo. I magistrati, nella concezione aristocratica del Pool, hanno il compito di purificare la società. Manca l’incenso, ma ci sono le manette. E c’è la corazza foderata con l’acciaio dell’autostima di chi si ritiene parte di una élite che non deve chiedere permessi o lasciapassare a nessuno. Da questo punto di vista se Di Pietro era un super poliziotto, Davigo è il magistrato più magistrato che sia mai passato nella cittadella di Porta Vittoria. Attenzione: tirare in ballo le toghe rosse o quelle azzurre sarebbe fuorviante. La sacralità della toga non ha nulla a che fare con le categorie della destra o della sinistra; no, la toga, secondo questo schema, sta da un’altra parte, più in alto. E non deve contaminarsi con queste dinamiche. Per la cronaca Davigo non è mai stato di sinistra; di sinistra nel Pool era Gherardo Colombo che poi ha lasciato la magistratura, è entrato nel cda della Rai ed è arrivato fino quasi a candidarsi a Milano come sindaco per la sinistra radicale. Davigo semmai era ed è di destra, ma la sua destra non si trova nella geografia del Palazzo. I suoi riferimenti sono lontani nel tempo: Cavour, il barone Ricasoli, la scrivania di Quintino Sella. È la destra storica, zero chiacchiere e tanto rigore. Mito più che realtà. E però per lui che è nato a Candia Lomellina, Lombardia piatta come un’ostia che un tempo era agganciata al Piemonte sabaudo, lo Stato dev’essere puro e smacchiato come un vestito, inflessibile con chi lo svilisce. L’unica ambizione di chi ne fa parte, dal magistrato al burocrate fino al funzionario, è quella di indossare la giubba del re, insomma dimostrare zelo e fedeltà. Fino a farne un programma di vita e il titolo di un saggio sulla corruzione. Se Di Pietro attaccava i Craxi e i Forlani con la bava alla bocca, il pane di Davigo, nella stagione gloriosa del Pool, erano i finanzieri che si erano venduti. È lui a contestare per la prima volta l’associazione a delinquere ai militari colti con le mani nel sacco e a perquisire il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Una profanazione. Secondo lui un atto necessario per un Corpo che dovrebbe essere immacolato. Torniamo sempre lì: estirpare il male, al fonte battesimale delle procure. E colpire le amnesie e le titubanze dei governi, Berlusconi o Renzi non fa differenza. Così Davigo bolla il nuovo presidente del Consiglio: definisce l’esecutivo "poco dialogante", liquida con una punta di fastidio l’uscita sulle troppe ferie dei magistrati. E, conversando con Repubblica, invoca gli agenti sotto copertura ammirati negli Usa dove ha scoperto i test di integrità: poliziotti coperti che offrono denaro ai politici: "Chi lo accettava veniva arrestato". Un modello che lui porterebbe subito in Italia. Legnini (Csm): "nelle intercettazioni le frasi personali non devono uscire" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 aprile 2016 Parla il vice del Csm: "Presto offriremo indicazioni alle Procure su buone prassi". L’elaborazione di linee guida parte da circolari dei procuratori di Roma, Torino, Napoli e Firenze "L’attività legislativa è insindacabile. Mi pare che i magistrati non abbiano valicato il limite". Vicepresidente Giovanni Legnini, vuole spiegarci che cosa sta facendo il Consiglio superiore della magistratura a proposito di intercettazioni telefoniche? "La settima commissione sta elaborando linee guida per indicare a tutte le Procure italiane "buone prassi" assumendo il contenuto delle importanti e positive circolari emanate dai procuratori di Roma, Torino, Napoli e Firenze, dalle quali può evincersi che a legislazione vigente è possibile conciliare l’utilizzo necessario di uno strumento investigativo essenziale con i diritti alla riservatezza e di cronaca, costituzionalmente garantiti". Dunque si tratta di semplici consigli ai pubblici ministeri? "Qualcosa più di un consiglio e qualcosa in meno di una disposizione obbligatoria, giacché il potere organizzativo e di direzione di una Procura spetta per legge al capo dell’ufficio e quello di valutazione della rilevanza di un’intercettazione al pm titolare dell’indagine. Ma che esista un problema relativo alla trascrizione, allegazione agli atti e diffusione dei contenuti di colloqui estranei ai tema d’indagine, mi pare incontestabile". Si dice ogni volta che vengono coinvolte personalità politiche, soprattutto se non inquisite, da ultimo con l’indagine di Potenza. Quali intercettazioni, secondo lei, non dovevano uscire? "Il rispetto del diritto alla riservatezza per colloqui privati non rilevanti vale per tutti, non solo per i politici. Ciò che in ogni caso non dovrebbe essere pubblicato sono i colloqui personali irrilevanti". Se i pm di Potenza li hanno inseriti nei provvedimenti, c’è da ritenere che li considerassero rilevanti. "Ripeto che la valutazione spetta agli inquirenti, è una loro prerogativa essenziale. I pm di Potenza certamente avranno fatto le loro considerazioni tuttavia, letto da chi come me non conosce gli atti, qualche colloquio pubblicato sulla stampa mi è sembrato appartenere alla sfera intangibile dei rapporti personali". Ma se i rimedi sono già nelle leggi vigenti, come dimostrano le circolari, perché parlare ancora di riforma delle intercettazioni? "La decisione su questo spetta al governo e al Parlamento. Sulla legge in discussione al Senato il Csm ha espresso un parere sostanzialmente positivo pur sottolineando la genericità dei principi di delega. Peraltro il testo approvato dalla Camera non contiene alcuna limitazione, ma anzi misure per rendere più snello l’utilizzo delle intercettazioni. La nostra iniziativa non è in contraddizione con un’eventuale riforma". Ai pm di Potenza il premier Renzi ha contestato di indagare su una legge di cui ha rivendicato la paternità. Lei che ne pensa? "Mi pare che lo stesso Renzi abbia chiarito quanto intendeva dire. Che l’attività legislativa sia insindacabile lo stabilisce la Costituzione e questo è un principio che va rigorosamente rispettato al pari di quello dell’autonomia della magistratura. Per quel che è possibile comprendere dalle iniziative dei pm, mi sembra che il limite non sia stato valicato e che nessuno abbia mai messo in discussione tale principio costituzionale dettato nell’interesse dei cittadini". Renzi ha anche sfidato i magistrati a concludere i processi prima della prescrizione, ma la riforma su quel tema sembra caduta nel dimenticatoio. "Che la riforma sia necessaria è fuor di dubbio. Il Csm ha già fornito un parere favorevole a bloccare il decorso della prescrizione dopo la condanna di primo grado, e il disegno di legge del governo in parte va in quella direzione". Evidentemente non è considerato una priorità come le intercettazioni. "Entrambi sono temi che dovrebbero essere affrontati per trovare soluzioni efficaci e risolutive". L’indagine di Potenza ha messo in luce il nuovo reato di traffico di influenze, che molti già contestano. Lei come lo valuta? "Chiunque ha svolto attività parlamentare conosce l’ingorgo di rappresentazioni di interessi in alcune circostanze, e questo in una democrazia è naturale e legittimo. Il problema non è ciò che accade nel procedimento legislativo, che resta insindacabile, ma semmai ciò che si muove all’esterno, dove in teoria è possibile rinvenire attività illecite penalmente rilevanti. Ho fiducia nella grande professionalità dei magistrati italiani e nella loro capacità di interpretare correttamente la nuova fattispecie di reato". E il Csm riuscirà a scegliere il miglior procuratore di Milano? Dopo il voto in commissione già si parla di mercato tra le correnti. "La commissione ha indicato, in tempi del tutto fisiologici, tre candidati di altissimo profilo. Ho letto ricostruzioni molto fantasiose circa trattative e scambi che non ci sono. Basta riflettere sul fatto che per tale importantissima Procura sono in campo tre magistrati che appartengono alla stessa area politico-culturale. Io sono stato e sono tra i primi a sostenere che bisogna arginare la degenerazione correntizia, e anche per questo il Csm si è dato regole nuove". Le state rispettando? "Rispetto al passato la durata media di una nomina si è dimezzata: da oltre un anno siamo passati a sei mesi, ed è un dato che rivendico anche in considerazione di un carico di lavoro senza precedenti; in 18 mesi abbiamo varato quasi 300 nomine. Quanto al merito delle scelte, i ricorsi al Tar contro le nostre decisioni si sono anch’essi più che dimezzati, e per oltre il 70 per cento dei casi le nostre decisioni sono state confermate. Credo di poter dire che stiamo procedendo nella direzione giusta anche se resta molto da migliorare per rendere le scelte più comprensibili e condivise". Parla Carlo Nordio "Noi giudici incapaci di fare autocritica. Basta inventare reati" di Pietro Senaldi Libero, 18 aprile 2016 "È vero, noi magistrati oggi siamo meno popolari rispetto a vent’anni fa, - rimarca Carlo Nordio, procuratore capo di Venezia - e la responsabilità è anche nostra. Il paradosso però è che si sorvola sui nostri peccati e ci si accusa di mali di cui non abbiamo colpa". Mi interessa di più sapere quali colpe attribuisce a voi toghe. "La magistratura sindacalizzata, quella che parla e fa notizia, è sempre stata autoassolutoria e conservatrice. Attribuisce tutti i mali della giustizia al sistema senza mettersi in discussione e si è sempre opposta a ogni riforma liberale: ha bocciato perfino quella della Bicamerale di D’Alema". Con il nuovo presidente dell’Anm, Davigo, la musica non sembra destinata a cambiare. "Non sottoscrivo la sua uscita in difesa delle intercettazioni, E abbiamo idee diverse sulla separazione delle carriere e sull’obbligatorietà dell’azione penale. Ha fatto bene invece a rispondere al premier per difendere la categoria dall’accusa di lavorare poco. Abbiamo una produttività doppia rispetto ai magistrati francesi". Il suo è stato un esordio puntuto verso il governo: si profila un nuovo scontro politica-magistratura? "Mi auguro di no e credo che non ci siano i presupposti. Mancano le leggi ad personam e i primi ministri indagati, e anche la polemica ha toni meno accesi. Però è inutile nascondere che ci sono elementi di problematicità". Allude alle intercettazioni? "Credo che Renzi sia stato mal interpretato quando ha detto che la legge sulle intercettazioni non sarà modificata. Non è stata una retromarcia ma l’affermazione che il governo andrà avanti con il piano di riforma che ha". Ne condivide il contenuto? "No, è troppo timida. Limitare la diffusione delle intercettazioni a ciò che il magistrato ritiene rilevante per l’accusa lascia troppi poteri al gip e al pm, che restano gli arbitri unici delle conversazioni che possono essere divulgate e di quelle da tenere riservate". Come interverrebbe se fosse il legislatore? "Le telefonate non devono essere considerate prove, ma mezzi di ricerca della prova. Come tali non dovrebbero mai essere allegate agli atti del processo se non quando manifestano un reato in atto. Dovrebbero restare nel cassetto del giudice, come avviene per le intercettazioni preventive, utili come strumento investigativo ma estranee al fascicolo processuale, e quindi non pubblicabili sui giornali". Quindi è d’accordo con Renzi quando dice che certe telefonate dell’ex ministro Guidi con il fidanzato non andavano divulgate perché troppo personali? "La loro divulgazione è stata legittima, visto com’è la legge oggi. Ma personalmente credo che molte telefonate dell’ex ministro fossero un fatto privato che avrebbe dovuto rimanere tale. Il problema è che la sensibilità del singolo magistrato è un criterio troppo evanescente per farne dipendere il sacrosanto diritto alla riservatezza. Perciò la legge va cambiata". Ho la sensazione che lei non apprezzi l’istituto in sé... "La mia quarantennale esperienza mi dice che le intercettazioni non sono quasi mai indispensabili come elemento di prova, mentre lo sono come spunto per le indagini. Comunque penso che l’utilizzo giuridico - mediatico che se ne fa oggi in Italia sia una porcheria indegna di un Paese civile, e che siano state troppo spesso strumentalizzate dalla politica". Ritiene giusto che un politico indagato si dimetta? "Nessuno si dovrebbe mai dimettere perché indagato, e tanto meno perché destinatario di un avviso di garanzia. Si ha il dovere di dimettersi solo se condannati. Altro discorso è l’opportunità politica". Quindi Renzi ha fatto bene a far dimettere i ministri Lupi e Guidi e a non mettere in discussione i sottosegretari Barraciu, Bubbico, De Filippo, De Caro? "Non entro in questi casi singoli. La valutazione politica spetta al governo e ai singoli interessati. Quanto all’aspetto giuridico, non obbligando i suoi sottosegretari a dimettersi il premier non ha fatto che rispettare quella Costituzione che molti giudicano la più bella del mondo. Siamo tutti presunti innocenti fino alla condanna". La giustizia ha avuto un peso eccessivo nella storia politica italiana degli ultimi 25 anni? "Ne ha avuto, ma non bisogna confondere gli effetti con le intenzioni. Direi piuttosto che c’è stato un ampio uso delle inchieste da parte dei politici per farsi le scarpe l’uno con l’altro". Da Berlusconi a Prodi, e ancora a Berlusconi: tre governi caduti per le inchieste. Questa di Potenza può essere fatale a Renzi? "Non si può dire. Ma sarebbe intollerabile che la vita politica del Paese venisse ancora condizionata da un’inchiesta, per di più alle fasi iniziali". Ritiene che Berlusconi sia stato fatto fuori dai processi? "No. Ma ritengo che la notifica dell’informazione di garanzia fatta durante il summit di Napoli attraverso il "Corriere della Sera" sia stata l’inizio di tanti guai. E questo non per colpa di Berlusconi, ma di chi ha consentito che il segreto istruttorio fosse violato. E ancora oggi non sappiamo chi sia stato il responsabile. Questo è un evento che andrebbe chiarito quanto- meno dagli storici". I giudici fanno troppa politica? "Credo che un magistrato non debba entrare in politica mentre è in carica e nemmeno dopo che è andato in pensione, soprattutto se nella sua carriera si è occupato di indagini che hanno avuto conseguenze politiche. Le pare che dopo aver incarcerato il governatore del Veneto e il sindaco di Venezia, io potrei candidarmi a prendere il loro posto? Sarebbe di pessimo gusto". Come giudica il nuovo reato di traffico di influenze? "Per giudicarlo dovrei aver capito prima di cosa si tratta. Mi pare una norma oscura, di difficile interpretazione, concepita per dare un contentino ai professionisti dell’anticorruzione. Spesso i nostri politici creano reati spinti dall’indignazione popolare più che dalle esigenze della giustizia". Vale anche per il concorso esterno in associazione mafiosa, per il quale Dell’Utri è in carcere? "Le ripeto che non voglio entrare nei singoli casi decisi da altri colleghi, Ma dal punto di vista tecnico e logico considero il concorso esterno un ossimoro. Se si concorre si è dentro. Se non si è dentro, non si concorre. D’altronde questo reato non compare nel codice penale ma è solo un’interpretazione della giurisprudenza. Ho presieduto una Commissione che ha proposto di espungerlo dal diritto penale e rilegiferare in materia". Come si combatte allora la corruzione dilagante? "Non certo creando nuovi reati o inasprendo le pene, ma con una semplificazione normativa. Il corrotto non va intimidito, va disarmato. Bisogna togliergli gli strumenti che gli consentono di farsi corrompere, cioè le leggi numerose, oscure e complicate che gli attribuiscono una discrezionalità che sconfina in arbitrio. Corruptissima republica, plurimae leges diceva Tacito 2000 anni fa". A me pare che la soluzione del governo sia buttare la palla al commissario Cantone e che se la sbrigasse lui... "Cantone è persona qualificata. Ma è un errore aspettarsi i miracoli da lui. Comunque è meglio di niente". Il presidente della Consulta ha ricordato alla vigilia del referendum che il voto è un dovere. "Secondo me l’intervento del presidente è stato un errore. In democrazia il voto è un diritto, non un dovere, soprattutto se si tratta di un referendum abrogativo, dove l’astensione ha un significato univoco che in vece manca nelle elezioni politiche o amministrative. Chi si astiene dice chiaramente che vuol far fallire il referendum, non che si affida al giudizio degli altri". Condivide il giudizio dell’Europa secondo cui la nostra giustizia è in condizioni drammatiche? "Certo. E andrà sempre peggio se non si aumentano le risorse e non si semplificano le leggi". Si dice che i maggiori guai li abbia la giustizia civile: 500 giorni per un processo... "Il problema principale è che ci sono troppe cause temerarie. Oggi conviene fare causa se si ha torto, così confidando sui tempi lunghi del processo si rimandano i pagamenti". Già, ma la soluzione? "Non credo siano necessari tre gradi di giudizio per tutte le cause civili, La maggior parte non merita neanche l’appello. E poi la legge pretende che per motivare qualsiasi sentenza il magistrato scriva un trattato giuridico. Niente appello e una motivazione di una pagina, questa potrebbe essere una soluzione". Ma non è pensabile di estenderla al processo penale... "Qui innanzitutto si deve snellire la procedura. Molte norme nate con lo spirito di tutelare i diritti di tutte le parti in causa ormai non hanno più senso. Se rubano il portafogli a un turista giapponese a Venezia, dobbiamo notificargli a casa, in giapponese, che non l’abbiamo trovato. E formiamo tre fascicoli: uno della polizia, uno del pm e uno del gip: un delirio. E poi c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, un istituto che va riveduto". I magistrati non vogliono, così possono decidere quali reati perseguire e quali no senza assumersi la responsabilità della scelta. "È una di quelle posizioni conservatrici dannose a cui alludevo prima. Certo, il principio è stato strumentalizzato, ma è incompatibile con la struttura del processo penale accusatorio che ci siamo dati: se il pm è parte, deve scegliere. E anche la separazione delle carriere rientra nella logica del nuovo processo. Sono regole vigenti in tutti i sistemi dove vige il sistema accusatorio. Altrimenti abbiamo una Ferrari con il motore della 500". Perché le toghe sono da sempre contrarie alla separazione? "La contrarietà alla separazione delle carriere dipende da molte ragioni, ma la più importante è il vantaggio personale di cambiare mestiere quando si vuole. Un benefit non da poco". È favorevole alla depenalizzazione dei reati? "È necessaria, se si vuole snellire il lavoro delle Procure. Il guaio è che per ogni reato che depenalizza, la politica ne introduce due di nuovi. Pensi al femminicidio oppure all’omicidio stradale, per cui si rischiano fino a 18 anni di carcere; nuovi reati creati per farsi pubblicità e inseguire la moda che in realtà puniscono azioni che erano già reati, magari con pene sproporzionate. Ogni sei mesi il nostro codice cambia, e alla fine anziché essere un’opera omogenea e seria diventa un guazzabuglio populista ingestibile", La depenalizzazione però non è molto popolare... "Perché non si spiega che cos’è. Non significa non punire ma dare sanzioni amministrative certe e rapide". Già, ma si parla di depenalizzazione anche per il reato di immigrazione clandestina. "L’immigrazione clandestina va fermata con mezzi politici, non giudiziari. Tra l’altro il clandestino incriminato ha il diritto di restare qui fino alla fine del processo. Il reato non solo è inutile, ma sortisce effetti contrari". Quanto è alto il rischio di terrorismo islamico in Italia? "Da cittadino che segue i giornali posso solo dire che non v’e ragione di escludere l’Italia dai Paesi ad alto rischio. Temo che prima o poi colpiranno anche da noi. Come ha detto Hollande, questa è una guerra". Le banche, i fallimenti e i ritardi della giustizia civile di Roger Abravanel Corriere della Sera, 18 aprile 2016 Bisogna rendere trasparente il funzionamento e i risultati dei tribunali fallimentari. Solo così i nostri istituti di credito potranno finalmente dare una mano per far ripartire seriamente il Pil. L’anno scorso Matteo Renzi ha avviato una sacrosanta riforma delle banche popolari, togliendo quella regola del voto "Capitario" (un’azione conta come 1.000) che ha permesso a queste banche di autogovernarsi in modo malsano per anni. Quest’anno si sta affrontando un problema ben più grave, perché influenza tutte le banche, anche quelle più grandi: i crediti "deteriorati" che non riescono a smaltire. È un problema enorme. Dal 2007 ad oggi sono quadruplicati e valgono 360 miliardi, più o meno quanto in Germania, Francia, Regno Unito messi assieme. Come sostiene il Fondo monetario internazionale in un recente rapporto, questa montagna di crediti frena l’economia perché tiene bloccato il capitale delle banche: l’Fmi stima che se venissero smaltiti genererebbero 60 miliardi di nuovi prestiti. Perché si accumulano? Perché i due meccanismi di recupero dei crediti che si usano all’estero, la liquidazione della azienda o la sua ristrutturazione per rilanciarla (i cosiddetti "concordati"), da noi sono lentissimi e non funzionano. Spesso si perde tempo per ristrutturare un’azienda che dovrebbe essere subito liquidata, ma alla fine le aziende che vengono rilanciate sono pochissime; falliscono perché gli stessi imprenditori che le hanno guidate fino ad allora non hanno le capacità di salvarle o di capire che c’è ben poco da salvare. I ritardi nel processo fallimentare e nelle ristrutturazioni sono un grande costo perché i fondi privati specializzati che all’estero comprano questi crediti a uno certo sconto dalle banche, da noi sono obbligati a richiedere sconti maggiori perché ci mettono troppo tempo a liquidare la azienda e incassare le garanzie. Dal canto loro, i banchieri non se la sentono di fare fallire le aziende perché devono prendere subito delle perdite e magari ricevere una causa civile: meglio aspettare rinnovando il credito e sperare che quando dopo 8 anni l’ azienda fallirà non avranno alcuna responsabilità. Peraltro anche le banche italiane non sono immuni da critiche, come lo sono state le banche anglosassoni durante la crisi: management autoreferenziale, rapporti con il territorio che una volta erano il fiore all’occhiello della finanza italiana e che oggi rivelano molte ombre. Come se ne esce? Sicuramente non solo mettendo in galera quei banchieri disonesti che riempiono le pagine della nostra cronaca economica di questi mesi. Iniziative come Atlante che, seguendo i modelli internazionali, cerca di lanciare un mercato privato dei crediti deteriorati, sicuramente aiuteranno. Ma non basteranno se non si affrontano le ragioni di fondo per cui non si riescono a smaltire. Si parte da un problema di cultura che tende a criminalizzare i fallimenti molto più che all’estero e consente molto potere a lobby formidabili che proteggono tutti gli imprenditori, quelli onesti e sfortunati (e ce ne sono tanti) ma anche quelli disonesti (e ce ne sono tanti). Poi c’è sempre l’italico iper-garantismo che si mette sempre dalla parte dei più deboli, ma offre spunti per attività dilatorie a vantaggio dei soli furbi. Cambiare le leggi (riforme al diritto fallimentare e norme bancarie) in passato ha fatto poco per cambiare questa cultura, perché, come sempre da noi il problema non è quello di fare nuove leggi, ma il fare rispettare quelle esistenti (e poi modificarle con l’aiuto della società civile e delle imprese). Il principale responsabile? Una giustizia civile poco efficiente, trasparente e senza le giuste competenze, in primis nel luogo dove si decidono gran parte dei destini dei fallimenti e dei concordati: i tribunali fallimentari. La media nazionale dei tempi di un fallimento è di 8 anni che però è una media tra i 4 anni a Mantova, Rovigo, Trieste e (5.5 a Torino e Milano) e i 15 anni a Rieti, Grosseto, Siracusa. Quindi ce ne sono di buoni e di pessimi, esattamente come nei 140 tribunali civili, cosa ampiamente documentata sulle pagine di questo quotidiano(anche ieri). Nei peggiori tribunali, oltre a una grande burocrazia, si vive tutti i giorni il sottobosco malsano che spesso deriva dalla commistione e l’intreccio di interessi che a volte esiste tra giudici fallimentari, commissari giudiziari, curatori, avvocati e altri professionisti che in più di una occasione hanno utilizzato la lunghezza dei procedimenti per lucrare su incarichi interminabili. Poi si osserva una gestione del processo poco trasparente e troppo spesso affidata a professionisti con un focus legale e notarile poco sensibile ai tempi - fino a poco tempo fa più durava la causa fallimentare è più guadagnavano. C’è poi un problema di fondo in quasi tutte quelle procedure "concordatarie" che dovrebbero permettere alle parti - creditori e debitori - di mettersi d’accordo su un piano di rilancio dell’azienda (quasi sempre una media azienda): ai commissari manca quasi sempre la necessaria conoscenza del mondo delle imprese e alla fine l’unico che ha una idea dell’ azienda è l’imprenditore che la ha fatta fallire. Curatori del calibro di Enrico Bondi e Mario Resca (nominati dal governo e non da un giudice) che hanno permesso a Parmalat e a Cirio di sopravvivere, non sono oggi disponibili per le piccole-medie aziende, anche perché i fondi specializzati sulle ristrutturazioni da noi nascono con difficoltà. Come si comincia? Nominando come presidenti dei tribunali persone di grande spessore, dato che si è dimostrato ampiamente che la performance dei tribunali dipende essenzialmente dal presidente che li guida. E rendendo trasparente il loro funzionamento e risultati. Solo così il nostro sistema bancario potrà finalmente dare una mano a fare ripartire seriamente il Pil. Osservatorio Luiss sulla legalità: sono tre i rami su cui poggia "Mafia capitale" di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2016 Il IV Rapporto dell’Osservatorio Luiss sulla legalità dell’economia è il più recente contributo alla comprensione di quel "Mondo di mezzo", nel quale i Buzzi e i Carminati hanno stretto la mano a inamidati white collars, ovvero a politici, burocrati e imprenditori non ricattati né intimoriti, ma semplicemente comprati da arcinoti criminali di lungo corso. Insomma, Mafia capitale. Il Rapporto cerca di fissare i punti salienti del fenomeno, rincorrendo materiale giudiziario ancora incandescente, man mano che questo diventa pubblico. È una buona sintesi quella, per esempio, offerta nel capitolo curato da Chiara Rosa Blefari e Roberta Lomunno: "Complessità e poliedricità (di Mafia capitale, ndr) sono testimoniate dal suo snodarsi lungo tre rami corrispondenti agli scopi del sodalizio, apparentemente scissi tra loro, ma tutti facenti capo a un unico dominus. 1) Il ramo criminale, che opera nel campo dell’usura e del recupero crediti con metodi violenti, dell’estorsione e del traffico di armi. 2) Il ramo imprenditoriale, che opera nel settore dell’edilizia, della somministrazione dei pasti, attraverso imprenditori apparentemente insospettabili, ma che, in realtà, agiscono per il sodalizio. 3) Il ramo della Pa, nel quale operano soggetti che rivestono cariche pubbliche di natura elettiva o di governo di enti pubblici, nonché imprenditori, in particolare nel settore cooperativo, che gestiscono appalti per le amministrazioni pubbliche nei settori dell’emergenza alloggiativa e della raccolta e riciclaggio di rifiuti". Ancora: "In ragione delle peculiari caratteristiche sociali e criminali della città di Roma, Mafia capitale opera con nuovi e diversi obiettivi, il principale dei quali è di realizzare profitti attraverso l’infiltrazione nei settori economici e degli appalti pubblici. A tale scopo, la nuova organizzazione si avvale del tradizionale metodo violento solo nella misura in cui sia necessario per ribadire e riaffermare la sua forza. Nonostante ciò, l’associazione non può del tutto rinunciare al suo ancoraggio nel "Mondo di Sotto", a pena di perdere il suo prestigio criminale, essenziale per il perseguimento dei fini affaristici". Vengono così delineate, con linguaggio competente ma divulgativo, anche le differenze - sia pure nell’attesa di sentenze definitive - con le classiche organizzazioni mafiose. L’assenza di modelli rigidamente gerarchici e verticistici "è compensata dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti nel territorio romano, nonché da una connaturata capacità di ricercare e realizzare continue mediazioni, che si risolvono in un equilibrio idoneo a generare il senso della capacità criminale". Ai 16 giovani estensori del report e ai loro docenti, va anche riconosciuto il merito di aver saputo cogliere la sfida intellettuale connaturata alla tempesta giudiziaria scatenatasi a fine 2o4: non risulta che altri ambiti culturali o pensosi think tank, abbiano sentito l’esigenza di interrogarsi su questo fenomeno criminale, più misconosciuto che ignoto a Roma e nel Lazio. P.S. Sul secondo numero del neonato quotidiano "Il Dubbio", l’analisi del direttore Piero Sansonetti terminava così: "Ieri il procuratore Pignatone, parlando alla Luiss, ha spiegato che "Roma non è una città in mano alla mafia ma è una città caratterizzata da presenze mafiose significative. La fortuna per noi inquirenti è che non ci sono omicidi né stragi. Non c’è bisogno di ammazzarsi perché ci sono soldi per tutti". Sono parole sicuramente sagge. Ma una criminalità che delinque senza uccidere, senza terrorizzare, senza estorcere nulla ai cittadini comuni, siamo sicuri che non sia semplicemente criminalità ordinaria? Cos’è che distingue la criminalità comune da quella mafiosa, se non la violenza e il terrorismo diffuso?". Una strana domanda, che segue le già numerose risposte, a cominciare dalla Cassazione fino al Rapporto dell’Osservatorio Luiss. Sarà perché, come vuole il precetto latino, il Dubbio gioca pro reo? Rimessa alle sezioni Unite la disciplina delle intercettazioni telematiche di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 6 aprile 2016 n. 13884. In materia di intercettazione telematica, tramite agente intrusore (virus informatico), che consenta l’apprensione delle conversazioni tra presenti mediante l’attivazione, attraverso il virus informatico, del microfono di un dispositivo elettronico (personal computer, tablet, smart-phone), ovunque dette conversazioni si svolgano, perché l’attività di captazione segue tutti gli spostamenti nello spazio dell’utilizzatore dell’apparecchio, la Cassazione - con l’ordinanza del 6 aprile 2016 n. 13884- rimette alle sezioni Unite le seguenti questioni: a) se il decreto che dispone tale metodica di intercettazione debba indicare, a pena di inammissibilità dei relativi risultati, i luoghi ove deve avvenire la relativa captazione; b) se, in mancanza di tale indicazione, l’eventuale sanzione di inutilizzabilità riguardi in concreto solo le captazioni che avvengano in luoghi di privata dimora al di fuori dei presupposti indicati dall’articolo 266, comma 2, del Cpp; c) se possa comunque prescindersi da tale indicazione nel caso in cui l’intercettazione per mezzo di virus informatico sia disposta in un procedimento relativo a delitti di criminalità organizzata. Il precedente che ha creato il "caso" - La ragione della rimessione alle sezioni Unite della disciplina delle intercettazioni telematiche da effettuare mediante virus informatico (la Corte dovrà decidere all’udienza del 28 aprile 2016) si spiega in ragione di una recente decisione con cui la stessa VI sezione si era espressa nel senso dell’illegittimità di tale metodica investigativa. In quell’occasione, la Corte, nella sentenza 26 maggio 2015, Musumeci, ha affermato in termini molto netti che l’intercettazione telematica non è giuridicamente ammissibile consentendo la captazione di comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio: secondo tale decisione, trattasi di metodica che, consentendo l’apprensione delle conversazioni senza limitazione di luogo, contrasta, prima ancora che con la normativa codicistica, con il precetto costituzionale di cui all’articolo 15 della Costituzione, giacché l’unica opzione interpretativa compatibile con il richiamato dettato costituzionale è quella secondo cui l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto. Il dissenso espresso nell’ordinanza - Qui, dalla motivazione della ordinanza di rimessione, traspare il dissenso rispetto a queste conclusioni. L’ordinanza, infatti osserva che l’esigenza di predeterminare le situazioni ambientali oggetto della captazione risulta estranea all’intercettazione a mezzo del virus informatico, in quanto la caratteristica tecnica di tale modalità di captazione prescinde dal riferimento al "luogo", vertendosi in ipotesi di una intercettazione ambientale per sua natura "itinerante", di guisa che ciò che rileva in tale tipo di intercettazione è che il decreto autorizzativo sia adeguatamente motivato per giustificare le ragioni per le quali si ritiene debba utilizzarsi la metodica dell’installazione da remoto, consentendo così una captazione dinamica. Al riguardo, la Corte evidenzia che l’indicazione precisa dei luoghi in cui potrebbe eseguirsi l’intercettazione non solo non è desumibile dalla legge, ma neppure trova un riscontro nei principi Costituzionali (articoli 14 e 15) e della Cedu (articolo 8); risultando anzi che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo tra le garanzie minime in tema di intercettazione non rientra il riferimento al "luogo" della captazione. Su ammissibilità e utilizzabilità di intercettazioni - L’ordinanza precisa altresì che un problema di ammissibilità e utilizzabilità di intercettazioni attivate mediante virus informatico potrebbe comunque porsi esclusivamente con riguardo al domicilio e ai luoghi di privata dimora considerati dall’articolo 614 del Cp, espressamente richiamato dall’articolo 266, comma 2, del Cpp, e precisa ancora che, in ogni caso il problema non dovrebbe neppure porsi allorquando l’intercettazione sia stata disposta ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 13 maggio 1991 n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, in quanto l’intercettazione tra presenti che sia disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi indicati dall’articolo 614 del Cpsi stia svolgendo l’attività criminosa. La possibile decisione delle sezioni Unite - L’impressione è che le sezioni Unite accoglieranno l’impostazione dell’ordinanza di rimessione perché attenta alla specificità delle intercettazioni ambientali. Si tratta di intercettazioni che per la loro intrinseca natura si riferiscono ad "ambienti" in cui deve intervenire la captazione, con la conseguenza che devono considerarsi legittime anche quando in corso di esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione. Ciò che è necessario e sufficiente è che nel decreto di autorizzazione siano "specificamente" indicate le situazioni ambientali oggetto di intercettazione. È in tale momento che dovrà porsi il problema se trattasi di intercettazione da disporre per reati in materia di criminalità organizzata ovvero di intercettazione ordinaria, con i limiti posti dalla disciplina dettata dall’articolo 266, comma 2, del Cpp. Terni: manifestazione davanti al carcere contro il regime del 41-bis di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 18 aprile 2016 Una trentina di persone, non di Terni, ha partecipato sabato pomeriggio a un presidio che si è svolto all’esterno del carcere di Terni, in via delle campore. I manifestanti non si sono fatti riprendere e non hanno rilasciato interviste video, Con un potente altoparlante si sono fatti sentire dai detenuti che hanno risposto con grida e applausi. Il presidio era stato organizzato dall’associazione "Soloparole" contro il divieto di ricevere libri dai parenti, né di poterne prendere in biblioteca, per i detenuti in regime di 41 Bis e, in generale contro il carcere duro. Il 41 Bis è considerato dai manifestanti al pari di una tortura. "Il 41 bis - scrivono - applica delle condizioni di detenzione che nulla hanno a che fare con la riabilitazione o la rieducazione. Il 41 bis è tortura: un colloquio al mese con i parenti, dietro a un vetro e con un citofono, un’ora d’aria al giorno, dieci minuti di telefonata al mese, in cella 23 su 245, telecamere puntate verso la cella e dentro la cella, nessuna possibilità di cucinare il proprio cibo, processo in videoconferenza, massimo di tre libri in cella. Queste sono solo alcune, tra le più eclatanti, delle privazioni e delle vessazioni cui è sottoposto un detenuto al 41 bis. Da un po’ di tempo -16 ottobre 2014- anche i libri sono vietati. L’unico mezzo attraverso il quale il detenuto può avere un libro - aggiungono - è acquistandolo, previa richiesta, attraverso l’amministrazione penitenziaria. Inutile sottolineare che ci debbano essere due condizioni necessarie perché questo si verifichi: la possibilità economica del detenuto ad acquistare e la disponibilità del personale penitenziario a farlo. Vogliamo portare all’attenzione di tutti - è la conclusione - questa ennesima violazione dei più minimi diritti che si consuma all’interno delle nostre patrie galere". È stata diffusa anche una lettera di Valerio Crivello, detenuto nel carcere di Terni. "Io non ho esperienza diretta del 41bis - scrive - ma sono stato sottoposto ad un regime simile chiamato 14bis. Questo, similmente al 41bis inasprisce il trattamento carcerario limitando al minimo le libertà individuali che vengono oppresse con un controllo continuo ed asfissiante da parte del carcere. Entrambi sono figli di una psicologia repressiva militare ripresa e riammodernata a seconda delle esigenze storico politiche. Sulla carta il 41bis è volto a impedire il perdurare di legami e collegamenti con l’ "associazione mafiosa" o "terroristica" di cui il detenuto è parte o leader; così nello specifico viene adottato nei confronti di elementi considerati "di spicco" all’interno di un "gruppo criminale", individui capaci di mantenere una "leadership" e quindi di impartire ordini per il "perseguimento di obiettivi criminali". E come si esplica nella pratica questo trattamento speciale? Il detenuto è allocato in sezioni apposite con un limitato numero di detenuti, ognuno ospitato in una cella singola. L’arredamento interno è ridotto al minimo, gli armadietti, per lo più sono privi di ante, possono contenere solo "stretto necessario", un indispensabile che può essere "contenuto" (non ampliato) a seconda del volere del carceriere e della direzione. Il fornelletto è consentito solo per scaldare le vivande; il detenuto non può cucinare per sé autonomamente anche per questo gli alimenti acquistabili del sopravvitto sono limitati. Nel reparto 41bis le battiture di controllo sulle sbarre della cella sono effettuate con cadenza di 3 al giorno; In casi particolari può essere predisposta la videosorveglianza anche nella cella. Il detenuto può effettuare un solo colloquio al mese di un’ora presso locali appositamente adibiti. Un vetro divisorio impedisce qualsiasi contatto fisico tra famigliari, conviventi e detenuti, ogni conversazione viene registrata. Solo qualora il colloquio mensile non avvenga, il detenuto può essere autorizzato ad una telefonata mensile di 10 minuti. I famigliari possono ricevere la telefonata o presso il carcere più vicino o presso una caserma dei carabinieri. Il "provvedimento" ha durata di 4 anni, prorogabile per periodi consecutivi di 2 anni. In realtà l’eventualità della proroga è la normalità, giacché il tempo non è considerato condizione sufficiente per garantire la rottura dei legami con l’organizzazione. " Secondo Valerio Crivello "l’impianto repressivo del 41bis cerca quindi di spezzare la volontà, esasperando l’uomo per spingerlo a collaborare pur di salvarsi da quella che è una tortura psicologica protratta nel tempo; o per instillargli una sorta di "sindrome di Stoccolma". Per esteso, la "sindrome di Stoccolma" è un complesso di risposte emotive riscontrabili nelle vittime di un sequestro di persona, tra cui l’instaurarsi di sentimenti positivi degli ostaggi verso i sequestratori e, a sua volta, sentimenti negativi degli ostaggi verso chi dovrebbe difenderli". Contemporaneamente a Terni si sono svolti presidi simili davanti alle carceri di Tolmezzo, Milano (Opera), Cuneo, Parma e Bancali. La Spezia: "Parole di Giustizia", la manifestazione si conclude con applausi per Orlando di Gabriele Cocchi Gazzetta della Spezia, 18 aprile 2016 Bisogna riconoscerlo: in seguito agli attentati di Parigi, il governo Renzi ha lodevolmente rinunciato a intraprendere una stretta securitaria per lottare contro i fenomeni di radicalizzazione e di terrorismo islamico. Così come non si è unito all’armata Brancaleone dei paesi che partecipano, in ordine sparso, alle operazioni di guerra in Medio Oriente contro l’autoproclamato Stato Islamico. Parte da questa doverosa considerazione l’incontro conclusivo della manifestazione "Parole di Giustizia", svoltosi ieri pomeriggio in Piazza del Bastione, con il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, incalzato da una più accomodante Donatella Stasio (Sole24Ore) e da un più incisivo e pungente Luigi Ferrarella (Corriere della Sera). Ricorrono i sempre validi - e un po’ scontati e prevedibili - dogmi del populismo e della demagogia, "che fanno leva sulla paura e sull’ignoranza, sentimenti agitati dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega", come ricorda Donatella Stasio. In attesa di un’analisi più obiettiva del ben più dilagante populismo di governo, Orlando riconosce "che strumenti che portano ad una stretta securitaria peggiorano solamente la situazione. Ricordate Matteo Renzi quando dice "per ogni euro investito in sicurezza, un euro investito in cultura"? L’esperienza in questo campo dell’Italia, con il terrorismo rosso, è ampia: il terrorismo lo abbiamo sconfitto non abolendo, ma rafforzando lo stato di diritto, all’interno del rispetto dei principi costituzionali". "L’Italia - continua il ministro - ha risposto al fenomeno del terrorismo dicendo "non riduciamo, ma anzi rafforziamo le garanzie". Lo stesso bisogna fare oggi con questi diversi fenomeni di terrorismo". Orlando ricorda poi come il fenomeno di radicalizzazione islamica, nel paese oggi più colpito dagli attentati, la Francia, si sia svolto all’interno delle carceri: ritorna quindi il tema del carcere come luogo di rieducazione e non di punizione fine a se stessa, in cui si possa decimare il fenomeno, purtroppo assai presente nel nostro paese, della recidiva. "Dobbiamo tenere ferma la bussola della Costituzione", si spinge a dire Orlando. Frase che, pronunciata dal ministro di un governo che la Costituzione la sta distruggendo, suona quantomeno bizzarra. In ogni caso, i numeri parlano: nel 2010 i detenuti trattati con pene alternative erano 10.000; nel 2015 sono stati 41.000: una felice progressione. "Il carcere - ricorda Andrea Orlando - non può servire per risolvere il fenomeno dell’immigrazione, della marginalità sociale e psichica, come non può servire per risolvere il problema della miseria. Non possiamo pensare di risolvere il problema dei mendicanti, ad esempio, mettendo i mendicanti in carcere". Tocca al ficcante Luigi Ferrarella pungolare il ministro: "questo mi sembra uno di quei tipici giochi di ruolo win-win - motteggia Ferrarella - in cui si può solo vincere: non si possono rivendicare solo le vittorie politiche e poi, quando i successi non si ottengono, appellarsi al fatto che si governa con un governo di coalizione con Ncd. Così è troppo facile, non crede?". Certo riesce difficile dar torto all’ottimo Ferrarella: ricorderete il balletto indecente intorno all’abolizione dell’inutile reato di clandestinità, che lo stesso Orlando definisce "una cretinata sesquipedale". Ferrarella ricorda in seguito, a proposito del rischio di radicalizzazione all’interno delle carceri, le polemiche sorte intorno all’intesa del governo con l’UCOI (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), associazione da molti considerata troppo conservatrice, che prevede che circa 400 imam entrino nelle carceri per dissipare i fenomeni di radicalizzazione islamica. "Il diritto al culto - risponde Orlando - è riconosciuto costituzionalmente. Il suo mancato rispetto paradossalmente fomenta la radicalizzazione. Noi semplicemente abbiamo siglato intese con chi ce l’ha chieste, ma le faremo anche con altre associazioni. È di importanza vitale - aggiunge il ministro - rafforzare il monitoraggio su queste comunità e la presenza all’interno di esse e delle carceri dei mediatori culturali". A proposito "di chi dice "rimandiamoli tutti a casa loro" - prosegue Orlando, cimentandosi in un’efficace imitazione di Matteo Salvini - ricordo che il l’accordo per il rimpatrio dei detenuti col Marocco l’ho firmato io, non l’ha firmato negli anni scorsi il centrodestra, che tanto blatera su questa tema. Hai voglia a pronunciare frasi fatte sugli immigrati: se non sigli degli accordi, "a casa loro" non ce li puoi lanciare con la fionda!". Tocca questa volta a Donatella Stasio sfiorare un tasto dolente: la vicenda del sequestro dell’imam Abu Omar, per cui l’Italia è stata condannata da una sentenza della Corte di Strasburgo. "Sentenza - ricorda la Stasio - che accusa i governi di una cattiva gestione del segreto di stato, che ha di fatto garantito agli esecutori materiali e non di quel sequestro l’impunità. Cosa pensa lei, ministro, di questa vicenda? In ambito istituzionale, dopo la dura sentenza, c’è stato un assoluto e vergognoso silenzio". "Questo dato mi imbarazza - risponde un Orlando in evidente difficoltà - Io mi sto battendo - continua il ministro cercando di svicolare la domanda - per una procura europea che si occupi anche di fenomeni di terrorismo". "Lei sarebbe disposto a togliere il segreto di stato su questa vicenda?", lo incalza la giornalista del Sole24Ore. "Non ho ad oggi gli elementi per esprimere un giudizio", risponde Orlando. Dopotutto, è solo il Ministro della Giustizia. Il pepato incontro si conclude con una sempre più agguerrita - all’interno dei limiti imposti da una diplomatica intervista istituzionale - Donatella Stasio, che tocca una ferita aperta: il malfunzionamento del processo penale in Italia, con tempi biblici per arrivare a sentenza definitiva e prescrizioni in ogni dove. Ferita che costituisce, tanto per cambiare, "un tema divisivo all’interno della maggioranza", ricorda Donatella Stasio. "Il buon funzionamento del processo penale, così come quello del processo civile, varia anche da distretto a distretto: abbiamo distretti dove arriviamo al 25% delle prescrizioni e altri dove si arriva appena all’1%. Mi auguro che il Csm (Consiglio superiore della magistratura, ndr), nel valutare le carriere dei magistrati, tenga conto anche di questi dati". Applausi a scena aperta per il ministro Orlando, arrivato battagliero nella sua città natale, circondato da cariche istituzionali e cerimoniosi cittadini che gli corrono incontro per complimentarsi. Nessuna domanda ammessa, come prevedibile, per il suo decisivo ruolo all’interno della crisi di giunta spezzina. Il sindaco Massimo Federici, seduto in prima fila, deve averlo ascoltato con attenzione. Larino (Cb): Arte Bianca, detenuti a scuola di… pizza quotidianomolise.com, 18 aprile 2016 Passi di fianco alle mura di un penitenziario, lo guardi e t’immergi con l’immaginazione dentro di esso. Vedi la solita scena da telefilm americano: detenuti che oziano in un cortile. Invece, passi dall’Istituto di pena di Larino, e resti stravolto da uno scenario di vita quotidiana che non è immaginazione ma pura realtà. Vedi persone impegnate nella ricostruzione della propria esistenza attraverso le numerose attività scolastiche-lavorative. Infatti la Direzione, sotto la guida della dott.ssa Rosa La Ginestra prosegue, in sinergia con l’Istituto Alberghiero Federico di Svevia di Termoli, il suo percorso di formazione professionale in favore di quei detenuti che vogliono dare una speranza decisiva al proprio vivere. Oltre alle già tante opportunità di formazione prodotte dall’Istituto negli ultimi anni, con eccellenti risultati, è arrivata non da ultimo, l’attivazione di un corso di formazione per pizzaioli. Il corso denominato "arte bianca", è partito ieri per la durata di 4 appuntamenti da 4 ore l’uno, e nasce con l’obiettivo di insegnare ai suoi iscritti la realizzazione di tutte le varie tipologie di pizze. A guidare e infarinare le menti dei partecipanti è il Maestro pizzaiolo Antonio Di Lieto, campione mondiale per la realizzazione della pizza "più grande del mondo". Il corso sponsorizzato dal mulino "Caputo" che ha fornito materia prima e divise da lavoro, fortemente voluto dal Direttore e coadiuvato dalla prof.ssa Di Tullio Raffaella con la collaborazione della Prof.ssa Di Rosso Fabiana che da tempo s’impegnano alla realizzazione di diversi corsi a sostegno del percorso di studi intrapresi in sede. All’interno dell’Istituto di Larino il lavoro viene visto come strumento principale del trattamento penitenziario avente come fine ultimo la rieducazione e la risocializzazione del condannato, ragion per cui si è deciso di attivare un corso in grado di fornire opportunità future di lavoro. E se un giorno dovessimo dare un giudizio dopo aver degustato una pizza fatta da neo-pizzaioli di Larino potremmo dire con soddisfazione che una pizza vale "la pena". "La tempesta di Sasà", di Salvatore Striano intervista realizzata da Annarita Briganti La Repubblica, 18 aprile 2016 Si definisce un "artista socialmente utile", che ha rivoluzionato il proprio destino grazie alla lettura e alla recitazione e cerca di restituire quello che ha avuto tornando nelle carceri, da uomo libero, a raccontare la sua storia. Salvatore Striano, napoletano, 43 anni, attore affermato, ha una vita che sembra un noir e infatti ci ha scritto su due libri. Cresciuto in strada, protagonista fin da piccolo di una sanguinosa guerra di camorra, recluso in galere italiane e straniere, è la prova che, volendo, una via d’uscita c’è. Dopo "Teste matte", in cui l’ex "scugnizzo" ha raccontato la sua esperienza criminale, il 22 esce "La tempesta di Sasà" (entrambi editi da Chiarelettere): un viaggio nella detenzione, vista dall’interno, tra sedativi, nostalgia di casa, violenza e mancanza di prospettive. Striano, da dove inizia il suo nuovo memoir? "Mi ero rifugiato in Spagna. Avevo fatto a pezzi la carta d’identità e l’aveva mangiata, perché in quel paese, se ti beccano con i documenti falsi, la condanna si allunga di anni. Finiva così la mia latitanza, con le mani in alto, l’angoscia dei miei familiari e il ritorno in cella. Potevo soccombere, dopo aver passato la mia giovinezza tra il carcere minorile di Nisida e Poggioreale. Alla fine, ho capito che anche quando ci perdiamo, e a me è successo spesso, non è mai per sempre". Come si diventa camorristi? "Il crimine ha sempre le porte aperte, a differenza dello Stato. Dopo il terremoto dell"80 hanno chiuso le scuole, per un periodo, ma io non ci sono più tornato. Ho scoperto i furti degli orologi o delle borse alle turiste e la bomba atomica del Sud America, la cocaina, che ti spappola il cervello, ti fa avere una doppia personalità. Dormivo con due pistole nei calzoni, le nascondevo nelle teche della Madonna, scappavo da un "basso" all’altro mettendo delle tavole sui tetti. Guidavo una banda di ragazzini, le Teste matte, che combatteva gli altri criminali con i loro stessi metodi". L’istituzione carceraria è davvero un inferno, come la descrive? "Entri con un reato e impari a fare tutti gli altri. Gira droga. I detenuti violenti fanno quello che vogliono, ma ci sono le eccezioni. A Rebibbia ho partecipato a un corso di teatro, che mi ha portato a frequentare la biblioteca interna. Le parole mi hanno insegnato che possiamo diventare delle persone migliori. Ho scoperto Edward Bunker, che aveva anche lui un passato da galeotto. Ho divorato Genet. Gomorra l’avrebbe potuta scrivere Shakespeare, che amo più di ogni cosa al mondo. "La prigionia è una strada per la libertà", diceva il drammaturgo inglese". Cosa prova quando recita? "Prima scappavano quando mi vedevano, avevano paura di me. Ora li faccio emozionare. Quando interpreto una parte, dimentico quello che ho fatto. Ho pagato per i miei errori, ma non li giustifico. Ho recitato nel film di Matteo Garrone, tratto dal libro di Saviano. Ho calcato i palcoscenici di molti teatri. Uscirà un lungometraggio di Stefano Incerti sulla mia vicenda di riscatto e redenzione. L’Arte tira fuori il buono dagli esseri umani. Caricate le pistole di libri. Se la gente ogni mattina leggesse o recitasse per un quarto d’ora, prima di uscire di casa, farebbe meno danni". Pena di morte, all’Iran si chiede di sospendere le esecuzioni ai condannati per droga La Repubblica, 18 aprile 2016 Il report di Nessuno Tocchi Caino. In Iran, intanto, 5 persone sono state impiccate lo scorso week end. Negli Usa lo stato della Virginia ripristina la sedia elettrica dopo aver esaurito le scorte di iniezioni letali. In Somalia, sono stati giustiziati 5 appartenenti al gruppo jihadista Al Shabaab. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ràad Al Hussein - informa l’organizzazione umanitaria Nessuno Tocchi Caino - ha chiesto all’Iran di fermare le esecuzioni per reati di droga fino a quando il Parlamento non discuta una nuova legge che permetterebbe di eliminare la pena di morte obbligatoria per questo tipo di reati. Intanto 5 uomini sono stati impiccati lo scorso fine settimana, tre di loro con l’accusa di traffico di stupefacenti. Gli altri due erano stati condannati per omicidio. In almeno uno dei casi, quello di Rashid Kouhi, c’erano serie preoccupazioni circa l’equità del processo e la negazione del suo diritto di appello. Kouhi era stato condannato a morte nel 2012 dopo essere stato trovato in possesso di 800 grammi di metanfetamine di tipo crystal. È stato giustiziato il 9 aprile nella provincia di Gilan, nel nord dell’Iran. Iran - Il conto delle persone impiccate, minori compresi. L’anno scorso, almeno 966 persone sono state giustiziate in Iran - il numero più alto in più di due decenni - la maggior parte per reati di droga. Almeno quattro dei giustiziati nel 2015 erano minorenni. Tuttavia, nel dicembre dello scorso anno, 70 membri del Parlamento hanno presentato un disegno di legge per modificare la pena di morte obbligatoria per reati di droga. Il disegno di legge, che è stato depositato in Parlamento nel gennaio di quest’anno, prevede in alternativa la condanna all’ergastolo. Resta da vedere se sarà portato avanti nel nuovo Parlamento. "Ci sono stati segnali incoraggianti dall’interno dell’Iran verso la riforma della legge, da magistratura, potere esecutivo e legislativo, e spero che il nuovo Parlamento approvi questi cambiamenti. Ma è un peccato che le esecuzioni per reati legati alla droga - crimini che chiaramente non superano la soglia in base al diritto internazionale sui diritti umani per l’applicazione della pena di morte - continuino nel frattempo ad essere praticate", ha dichiarato l’Alto Commissario Zeid. Somalia - Al patibolo tre di Al Shabaab. Tre membri del gruppo jihadista al-Shabab, legato ad Al-Qaeda, sono stati giustiziati in questi ultimi giorni in Somalia. I primi due uomini sono stati fucilati il 9 aprile in relazione all’omicidio di un giornalista, commesso lo scorso anno con un’autobomba, ha reso noto un giudice. Abdirizak Mohamed Barrow e Hassan Nur Ali, che durante il processo avevano ammesso di essere membri di al-Shabab, sono stati giustiziati di mattina a Mogadiscio, ha detto ai giornalisti Abdulahi Hussein Mohamed, vice presidente della Corte Suprema militare. "Entrambi sono stati dichiarati colpevoli di aver ucciso il giornalista Hindiyo Haji Mohamed, la cui auto è stata fatta saltare in aria con un ordigno esplosivo", ha detto Hussein. Il giornalista televisivo nazionale Mohamed fu ucciso a dicembre, quando stava per tornare a casa dall’università di Mogadiscio. Le minacce ai giornalisti. La Corte militare aveva recentemente respinto il ricorso dei due uomini, aumentando invece la loro condanna dall’ergastolo alla fucilazione. L’11 aprile un ex giornalista entrato in al-Shabab è stato giustiziato a Mogadiscio in relazione agli omicidi di cinque giornalisti somali. Hassan Hanafi Haji, che era stato estradato dal Kenya lo scorso anno su richiesta del governo somalo, è stato fucilato in un’accademia di polizia nella capitale somala. Nel suo ruolo di addetto stampa di al-Shabab, Haji avrebbe minacciato giornalisti e stazioni radio al fine di ottenere resoconti favorevoli agli estremisti islamici, costringendo molti media ad autocensurarsi per motivi di sicurezza. Il tour nei campi di battaglia. Haji in seguito ha lasciato l’unità multimediale di al-Shabab, invitando i giornalisti a conferenze stampa e guidando tour sui campi di battaglia. Spesso ha invitato i giornalisti a riferire in base alle regole di al-Shabab relative ai media, evitando cioè di riportare sconfitte militari del gruppo. Haji è stato uno dei pochi sospetti perseguiti dal governo somalo dopo anni di critiche da parte dei gruppi per i diritti che esortavano le autorità a fare di più per stabilire lo stato di diritto e per porre fine alle uccisioni di giornalisti. La Somalia è uno dei paesi più pericolosi per i giornalisti, con diversi attacchi ritenuti collegati a regolamenti di conti tra le molteplici fazioni al potere, così come agli Shabab. Reporters Without Borders colloca la Somalia al 172esimo posto su 180 Paesi per quanto riguarda la libertà di stampa. Mohamed è il 38° giornalista ucciso in Somalia dal 2010 mentre svolgeva il proprio lavoro, ha precisato il gruppo. Stati Uniti - Virginia, "No alla sedia elettrica se mancano i farmaci letali". Il governatore Terry McAuliffe (Democratico) non ha ratificato quella parte del disegno di legge HB 815 che avrebbe reintrodotto la sedia elettrica come metodo di esecuzione primario in caso di mancanza di farmaci letali. Il governatore ha emendato la legge che era arrivata alla sua firma dopo essere stata approvata dal Senato l’11 marzo, e invece della sedia elettrica ha inserito l’autorizzazione per l’amministrazione penitenziaria a cercare un laboratorio artigianale dove rifornirsi dei farmaci necessari. Dopo l’ultima esecuzione, effettuata nell’ottobre 2015, la Virginia è in possesso di solo 2 delle 3 fiale di Pentobarbital (barbiturico ad azione rapida) che il protocollo prevede vengano usate per una esecuzione, e non riesce a procurarsene altro. La stessa esecuzione di ottobre era stata effettuata con Pentobarbital, acquistato dall’amministrazione penitenziaria del Texas, il quale a sua volta lo aveva acquistato da un laboratorio artigianale. Il governatore "clintoniano" e prudente ma favorevole alla pena capitale. Alcuni osservatori avevano prospettato che il governatore, per quanto personalmente favorevole alla pena di morte, potesse prendere in questo caso una posizione più prudente. McAuliffe è infatti molto impegnato nella campagna elettorale di Hillary Clinton, e la candidate alla primarie presidenziali per il Partito Democratico si è trovata più volte in difficoltà davanti agli elettori del suo partito proprio sul tema della pena di morte. Inoltre, pochi giorni fa una lettera aperta firmata da 300 leader religiosi di varie fedi aveva chiesto al governatore di non controfirmare la legge definendo la sedia elettrica "una barbara reliquia che uccide con indicibile crudeltà". Otto Stati prevedono ancora la sedia elettrica. Allo stato attuale, la Virginia è uno degli 8 stati che prevede possa essere utilizzata la sedia elettrica, ma solo su richiesta del detenuto, o nel caso l’iniezione letale venga dichiarata incostituzionale. Di questi 8 stati, solo il Tennessee nel 2014 la ha "promossa" a metodo di esecuzione primario, ma da allora una serie di ricorsi ha bloccato le esecuzioni, che non è previsto possano riprendere a breve. Negli ultimi 15 anni le Corti Supreme della Georgia e del Nebraska hanno dichiarato incostituzionale l’uso della sedia elettrica. Un migrante su dieci diventa schiavo, 30 milioni di persone sfruttate di Antonio Maria Costa La Stampa, 18 aprile 2016 I numeri dell’Onu: dalle miniere in Congo ai vestiti cuciti dai bambini in Asia: gli oggetti della nostra vita quotidiana passano dalle loro mani. Milioni di sofferenti cercano rifugio in Europa fuggendo da guerre, persecuzioni, povertà. Tra essi ci sono rifugiati (siriani e afghani in cerca di asilo) e migranti (africani e asiatici in cerca di lavoro). Una terza coorte, più dolorante, è meno nota: gli schiavi. Abuso e sfruttamento per guadagno altrui non sono orrori del passato: secondo l’Onu al mondo ci sono oggi 19 milioni di rifugiati (politici), e 30 milioni di schiavi - uno su dieci dei 300 milioni di migranti (in cerca di lavoro), per un giro d’affari annuo di 150-200 miliardi di dollari. In Europa e America prevale la schiavitù sessuale: l’Ue, che fornisce i dati migliori, ha identificato schiave provenienti da un centinaio di Paesi. In Africa e America Latina l’asservimento prevale nell’agricoltura (60%) e nei servizi domestici. In Asia il fenomeno è diffuso nelle manifatture (oltre il 50%) e nella pesca (25%). Nei Paesi poveri il legame sesso/crimine è stretto. Lo sfruttamento delle donne avviene specialmente in località remote, dove gli uomini sfacchinano in miniere, foreste, piantagioni e allevamenti. La Cina è il maggiore Paese di origine delle vittime sfruttate da aziende (in Africa) che provvedono conforto femminile ai dipendenti. Negli ultimi anni, conflitti (lungo le frontiere russe e nel mondo arabo) e crisi (globalizzazione, disoccupazione) hanno causato esodi diversi. Chi fugge da guerre e miseria (rifugiati e migranti) lo fa deliberatamente, assistito da intermediari. Gli schiavi invece sono trafficati contro volontà: al cuore della loro tragedia c’è lo sfruttamento, non la dislocazione. A differenza del passato, quando gli schiavisti erano stranieri (arabi, inglesi, belgi e olandesi), oggi gli aguzzini sono della stessa nazionalità delle vittime (70%). Altra novità è il ruolo crescente delle donne nello sfruttamento: non appena le circostanze lo permettono, le vittime diventano matrone, ansiose di recuperare quanto appropriato da altri. Circonvenzione (in Europa e Usa), indebitamento (Asia), povertà (Africa), discriminazione (Africa, Asia) perpetuano un crimine che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo avrebbe dovuto stroncare. Le tecniche di arruolamento variano. Agenzie di reclutamento fraudolente ingaggiano le vittime in Europa. Affaristi legati al Jakuza (Giappone) e al Tria (Cina) dominano in Asia. Parentela e affinità etnica asserviscono le vittime in Africa, dove riti vudù (in Nigeria e Costa d’Avorio) le soggiogano psicologicamente. A volte prevale la cupidigia individuale: quando un genitore vende, o affitta, un famigliare (tipico nei Balcani, in Romania, India e Africa occidentale). In Afghanistan le famiglie indebitate nel commercio dell’oppio, cedono un figlio (che poi finisce tra i talebani). A volte la dipendenza è generazionale: una persona è schiavizzata per servire il debito contratto da antenati (comune in Asia). Lo sfruttamento termina non per risoluzione contrattuale, ma per le condizioni della vittima: la prostituta invecchiata è merce di scarto; il bambino soldato diventa adulto e diserta; il lavoratore in servitù è fisicamente incapacitato; il domestico evade. Oltre ai vincoli fisici e psicologici, gli schiavi sono incatenati soprattutto dall’onere di rimborsare l’investimento fatto in essi per acquisto e trasporto. Per anni gli schiavisti deducono capitale e interessi dai guadagni della vittima - com’è emerso dai roghi a Prato, Los Angeles e Dhaka (Bangladesh). La sottrazione del reddito (dello schiavo) si contraddistingue dall’onere imposto dagli scafisti: il trasporto di migranti attraverso il Mediterraneo, pur se criminale, coinvolge parti consenzienti e il rapporto termina all’arrivo. La schiavitù non finisce a destinazione. Guerre e violenza creano altre opportunità di schiavitù. Bambini/ne soldato sono la manifestazione bellica della tratta di persone, assoggettate con ruolo di combattimento, logistica e conforto. La pratica è comune in Africa centrale, dove gli insorti di Kony (partiti dall’Uganda) schiavizzano adolescenti come combattenti e concubine. Il fenomeno è comune nei territori assoggettati da Isis (Siria, Iraq, Libia), Boko Haram e Aqm (in Africa occidentale). I belligeranti si avventano contro donne ed etnie (gli Yezidi) che trasformano in bottino di guerra: recentemente 5 mila schiavi nella sola città di Sinjar, nel Nord della Mesopotamia, sono stati aggiudicati sulla base del prezzo appeso al collo; 150 bambine (alcune di 8 anni) sono state trasferite dalla Siria in Iraq e poi nel Golfo, dove la pedofilia è diffusa. I piccoli, chiamati cuccioli del califfato, sono addestrati a missioni suicide. In Tailandia, le adolescenti Rohingya fuggite da Myanmar (3 milioni negli ultimi anni) finiscono in bordelli, i giovani su pescherecci. Quando, giorni addietro, una fossa comune con 30 corpi è stata scoperta, i successivi arresti hanno causato altro dramma: migliaia di giovani sono state abbandonate lungo i fiumi e in mare. Che fare? Dal 2010, oltre 50 mila vittime sono state identificate, a volte in grado di testimoniare in tribunale (un migliaio l’anno), risultando in condanne. Papa Francesco ha chiesto di porre fine alla schiavitù entro il 2020, con una campagna basata su "3P" - prevenire, perseguire, punire. Noi cittadini possiamo aiutare: siamo il mercato. I nostri cellulari contengono coltan e cassirite, estratti da schiavi in Congo e trafficati in Belgio. Molti indumenti, scarpe e borse che indossiamo, sono manufatti in Asia da minorenni. Il cioccolato che regaliamo contiene cacao della Costa d’Avorio raccolto da bimbi a un dollaro al giorno. La stellina al naso magari proviene dalle miniere di diamanti canaglia in Sierra Leone. La cocaina sniffata in discoteca (222 ton l’anno in Europa) ha forse viaggiato nello stomaco di una "mula" che, dopo averla ingerita in Nigeria, l’ha defecata alla Malpensa. Quanto possediamo, indossiamo o mangiamo è verosimilmente contaminato da sangue, lacrime e sudore di schiavi. A noi la scelta. Quando i diritti umani diventano fondamento delle relazioni internazionali di Massimiliano Panarari La Stampa, 18 aprile 2016 Tertium non datur. Secondo tanti (politici, studiosi e osservatori), nelle relazioni internazionali non si darebbe una terza possibilità tra il realismo assoluto della politica di potenza e un idealismo pacifista, altrettanto assoluto. Vale a dire: o "falchissimi" o "colombissime". E, invece, esiste una terza via, che potrebbe far parlare l’Occidente europeo e americano con una sola voce, dal momento che essa affonda le radici in una delle sue eredità culturali più essenziali e preziose, quella dell’Illuminismo. E, ancora, in ragione del fatto che la nostra condizione di abitanti di un Villaggio globale reso sempre più interconnesso dalle tecnologie della comunicazione e dai media agevola esponenzialmente la potenzialità di un’opinione pubblica su scala mondiale o, quanto meno, plurinazionale (come sta avvenendo con la dolorosa vicenda dell’omicidio di Giulio Regeni). Stiamo parlando dell’affermazione della centralità, in una prospettiva globale, dei diritti umani; una chiave sulla quale si dovrebbe reimpostare a fondo e praticare in maniera effettuale il rapporto tra le democrazie liberali e le autocrazie di questa nostra fase storica (un elenco, come noto, malauguratamente nutrito, dalla Russia alla Cina, dall’Iran alla gran parte del Medio Oriente). Fu precisamente l’Illuminismo a elaborare e introdurre nella teoria politica una visione - e un’etica - dei diritti dell’uomo edificata sul razionalismo e il cosmopolitismo e sulla virtù della "mitezza" (molto cara a Norberto Bobbio). Uno dei momenti fondativi della modernità, scaturito dalla lotta per l’emancipazione degli individui, di cui venne proclamata l’universalità, contro l’ordine oppressivo e i privilegi tastali dell’Antico regime. I diritti umani, dunque, come un filamento essenziale del Dna dell’Occidente da rivendicare nei confronti delle incarnazioni contemporanee di ciò che due padri - tra loro agli antipodi - della sociologia (Max Weber e Karl Marx) avevano etichettato come il "dispotismo orientale". E di fronte a certi distinguo strumentali volti a negarne il principio stesso (e qui il pensiero corre all’imponente castello di argomentazioni contro il "fondamentalismo dei diritti umani" costruito dalla mente giuridica del nazismo, Carl Schmitt). Negli ultimi decenni il mondo intellettuale e quello politico sono stati attraversati con forza, in termini di riflessioni e consapevolezze, dalla "rivoluzione dei diritti umani", la cui portata universalistica "incondizionata" è stata ridefinita per superare talune ingenuità di tipo giusnaturalistico, ma la cui importanza appare ora chiarissima (tanto da avere portato anche una parte della sinistra ad abbracciare la dottrina dell’interventismo umanitario). Universalismo "minimalista", come lo ha rideclinato lo storico (e uomo politico) canadese Michael Ignatieff, ma comunque e sempre universalismo, perché i diritti umani ai nostri tempi vanno intesi in un’ottica globale. E, da qualche tempo a questa parte, infatti, essi rappresentano uno dei pochi esempi di "issues" che rimandano alla possibilità di una sfera pubblica globale e di campagne di opinione transnazionali. I diritti umani dovrebbero allora essere considerati come un valore non negoziabile delle relazioni internazionali, la cui tutela e salvaguardia effettive passano necessariamente, come hanno sostenuto proprio Bobbio e Ignatieff, per il consenso degli Stati. Ed ecco perché il parametro primario delle relazioni internazionali e della geopolitica delle democrazie rappresentative nei confronti degli altri Paesi dovrebbe allora diventare la richiesta (reale e non derogabile) del loro rispetto. Regeni, al-Sisi contro Hollande: "Rispetto dei diritti umani? In Egitto non vale..." Il Dubbio, 18 aprile 2016 La dura replica del presidente egiziano. Oggi la visita del presidente francese, che andrà al Cairo per chiudere affari miliardari. Il presidente egiziano, il maresciallo Abdel Fatah al Sisi, non sembra aver gradito il richiamo di Francoise Hollande che alla vigilia della sua due giorni egiziana, gli ha ricordato come "il rispetto dei diritti umani è un mezzo di lotta contro il terrorismo". Per al Sisi "i criteri europei" sul rispetto dei diritti umani non dovrebbero essere applicati in Paesi in difficoltà come l’Egitto perché "la regione in cui viviamo è molto turbolenta". Per il presidente egiziano il concetto di diritti umani dovrebbe includere invece "un’educazione migliore e alloggi migliori". Nessun riferimento da parte di al Sisi al caso di Giulio Regeni e alle migliaia di persone scomparse nel nulla nel suo Paese nel nome della difesa della sicurezza dello Stato. Il presidente francese ha iniziato oggi una visita di 2 giorni in Egitto con una folta delegazione di imprenditori con l’obiettivo di firmare altri lucrosi contratti con il governo cairota, di cui Parigi in Occidente è uno dei massimi sostenitori. Nei giorni scorsi c’era stato il durissimo affondo del New York Times In un lungo editoriale dal titolo "Aumentare la pressione sull’Egitto", il quotidiano americano si è scagliato contro la Francia, colpevole di un "vergognoso silenzio" sull’omicidio, e il suo presidente Francois Hollande, che "andrà al Cairo lunedì per firmare un contratto da 1,1 miliardi di dollari in armi". Secondo il New York Times, "Le violazioni dei diritti umani in Egitto sotto il presidente Abdel Fattah al Sisi hanno raggiunto nuovi massimi", ciò non ha impedito ai governi occidentali di continuare a fare affari e a vendere armi al Cairo. Secondo l’editoriale, l’assassinio di Giulio Regeni ha costretto almeno l’Italia a modificare i propri rapporti con l’Egitto ed è arrivato il momento che tutte le democrazie mondiali "riconsiderino la loro posizione". I genitori di Giulio all’Europarlamento - "Questo episodio ha incendiato l’Egitto, adesso Regeni è la persona più famosa nel paese", ha affermato Ahmed Saed, capo della delegazione egiziana, che ha precisato: "Siamo qui per confermare che non ci risparmieremo nella ricerca della verità". Tutti gli apparati di sicurezza in Egitto, ha aggiunto Saed, "si stanno impegnando nel caso Regeni, lavorando sotto pressione". Il paese nordafricano ha tutto l’interesse a mantenere buone relazioni con l’Italia, "quindi non è logico che alcun apparato di sicurezza egiziano abbia seguito un certo tipo di approccio per torturare e uccidere Regeni", ha proseguito Saed. Le perplessità suscitate dalla posizione egiziana sul caso di Giulio Regeni avrebbero spinto un gruppo di eurodeputati a convocare al Parlamento europeo i genitori del ricercatore italiano torturato e ucciso in Egitto. È quanto riferisce oggi il quotidiano egiziano "Shourouk", riferendo di una serie di incontri tenuti all’ambasciata dell’Egitto a Strasburgo, in Francia, tra una delegazione parlamentare egiziana e alcuni membri del Parlamento europeo. Le dichiarazioni dei deputati nordafricani, scrive il quotidiano, che continuano a negare ogni coinvolgimento delle forze di sicurezza nell’omicidio del cittadino italiano, avrebbero spinto i membri del Parlamento europeo a convocare i genitori del ricercatore ucciso. Al momento non è ancora chiaro se la visita dei familiari di Regeni coinciderà con la presenza a Strasburgo della delegazione parlamentare egiziana, riporta ancora "Shourouk", e se i genitori del ricercatore effettueranno un intervento in aula. Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenuto sul caso Regeni. "Non vogliamo e non possiamo dimenticare la passione" di Giulio Regeni "e la sua vita orribilmente spezzata". Stati Uniti: 9 detenuti di Guantanámo trasferiti, nuova mossa per chiudere il supercarcere di Federico Rampini La Repubblica, 18 aprile 2016 Si tratta di detenuti yemeniti, accordo a pochi giorni dal viaggio del presidente Usa a Riad. Ma nello scacchiere mediorientale questa trasferimento si inserisce anche nelle tensioni Usa-Arabia sulla vicenda Iran. È un "regalo" molto particolare, quello che Barack Obama porterà con sé a Riad. Nove prigionieri di Guantánamo, di nazionalità yemenita, verranno trasferiti in un centro di detenzione dell’Arabia Saudita. L’annuncio è stato dato a Washington, pochi giorni prima che il presidente degli Stati Uniti si rechi in visita ufficiale in Arabia Saudita (mercoledì 20 e giovedì 21 aprile). In realtà è un regalo "alla rovescia": sono i sauditi a fare un favore agli americani. Il lento svuotamento di Guantánamo è ormai il piano B che Obama persegue, non essendo riuscito ad ottenere la chiusura definitiva del supercarcere militare sull’isola di Cuba. Ancora di recente Obama ha ribadito che quella chiusura è un suo obiettivo esplicito, e vorrebbe riuscirci prima della fine del suo mandato. È altamente improbabile: per chiudere Guantánamo bisogna passare dal Congresso, se non altro per ottenere l’autorizzazione a trasferire i residui prigionieri in carceri militari o civili sul territorio Usa. E questo Congresso a maggioranza repubblicana ha regolarmente bocciato la richiesta del presidente. Così come altrettanti rifiuti sono venuti dai governatori e sindaci di varie città Usa dove si trovano le carceri che avrebbero dovuto accogliere i detenuti. Ma il piano B procede: è lo svuotamento progressivo di Guantánamo, basato su accordi ad hoc con paesi alleati o amici che accettano di accogliere i prigionieri rimasti. Con il trasferimento di questi yemeniti, a Guantánamo rimangono 80 detenuti rispetto ai 242 che Obama trovò quando s’insediò alla Casa Bianca nel gennaio 2009. Era dai tempi di George Bush che la diplomazia americana cercava di ottenere dai sauditi l’accoglienza di alcuni prigionieri. Nove in un colpo solo è un successo importante per Washington e un gesto di buona volontà da parte di Ryad alla vigilia di una visita che si preannuncia spigolosa. Nel contenzioso bilaterale è spuntato di recente un nuovo problema: il governo saudita è preoccupato che la giustizia americana lo consideri responsabile in sede civile in un processo avviato dai parenti delle vittime dell’11 settembre, che vogliono ottenere indennizzi da Ryad in quanto molti terroristi che parteciparono all’attacco alle Torri Gemelle erano sauditi. Ma il problema più grosso che Obama dovrà affrontare è un altro. L’Arabia non ha digerito l’accordo nucleare con l’Iran. Per i sauditi il vicino persiano è il principale rivale geostrategico, nonché nemico religioso in quanto sciita. L’aver sdoganato l’Iran con l’accordo nucleare, e quindi la levata parziale delle sanzioni, è considerato come un grave errore di Obama da parte dei sauditi. Che per decenni furono gli alleati privilegiati dell’America in Medio Oriente, dopo Israele. Il gesto di accogliere i nove prigionieri yemeniti da Guantánamo è dunque una mossa in un tavolo di trattative che si preannuncia molto complesso. Birmania: il presidente concede l’amnistia a 83 prigionieri politici di Edith Driscoll interris.it, 18 aprile 2016 Dopo la decisione presa agli inizi di aprile di concedere l’amnistia a oltre 100 detenuti, che erano stati arrestati per motivi legati alla politica, il nuovo presidente birmano Htin Kyaw ha annunciato di aver ordinato la liberazione di ulteriori 83 prigionieri politici. La decisione è stata pubblicata sulla pagina Facebook dell’Ufficio del presidente. "Gli 83 detenuti saranno liberati il primo giorno dell’anno nuovo birmano", cioè lo scorso 17 aprile, si legge nel comunicato, con un indulto con cui si vuole "far sentire la popolazione felice e in pace, promuovendo la riconciliazione nazionale". In un discorso diffuso dalle tv nazionali, Htin Kyaw - un fedelissimo del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi - ha inoltre aggiunto che "in futuro eviteremo tale tipo di arresti". Tra i detenuti rimessi che sono stati rimessi in libertà nella giornata di domenica, ci sono anche cinque giornalisti condannati nel 2014 a sette anni ai lavori forzati, per la loro inchiesta su una fabbrica che produceva armi chimiche. Si calcola che nelle carceri birmane rimangano meno di un centinaio di prigionieri politici con condanne passate in giudicato, mentre oltre 200 sono in attesa di giudizio dopo gli arresti avvenuti negli ultimi anni, nonostante le aperture fatte dal precedente governo Thein Sein. Brasile: la Camera approva l’impeachment di Dilma Rousseff di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 18 aprile 2016 Il processo di impeachment contro Dilma Rousseff in Brasile compie un passo decisivo. La Camera ha approvato la messa in stato di accusa della presidente con una larga maggioranza. Servivano i due terzi, 342 voti, e il fronte d’opposizione ne ha messi insieme ben 367, oltre le aspettative. In pratica tutti i partiti della maggioranza hanno abbandonato Dilma tranne il suo, il Pt, e alcuni alleati tradizionali. Al Senato, una formalità - Ora il processo deve essere ratificato dal Senato, ma si tratta di una formalità, perché la maggioranza semplice lì richiesta è praticamente certa. Poi la Rousseff dovrà lasciare il palazzo del Planalto, la sede della presidenza della Repubblica, e al suo posto arriverà ad interim il suo attuale vice, Michel Temer, che formerà un nuovo governo. La legge prevede però che l’allontanamento sia temporaneo, per un massimo di sei mesi, mentre in Senato verrà instaurato il processo vero e proprio. Già dalle prossime ore cresceranno le pressioni affinché la Rousseff presenti le dimissioni definitive, così che la partita si chiuda in modo indolore invece di trascinarsi per mesi. Parlerà oggi, la presidente, mentre la reazione del governo è giunta nella notte per bocca dell’Avvocato generale José Eduardo Cardozo: "Tristezza e indignazione. È stata una decisione di natura politica, il che non è previsto dalla nostra Costituzione nei processi di impeachment. Per noi resta un golpe, che resterà nella storia del Brasile come una pagina vergognosa". Cardozo ha anticipato che la presidente non si dimetterà mai prima del tempo "e la sua lotta continuerà". Cori da stadio e rischio scazzottate - È stata la giornata più lunga della democrazia brasiliana, la terza del mondo per popolazione. Il Congresso si è prima trasformato in una arena, con cori da stadio e rischio di scazzottate, e poi c’è stata la lunga sfilata delle dichiarazioni di voto, oltre quattro ore. I deputati di destra si appellavano a Dio, la famiglia, persino alle forze armate, e quelli fedeli al governo gridavano al colpo di mano, alla Costituzione calpestata. La seduta fiume è stata trasmessa in diretta tv, e la gente vi ha assistito in casa e soprattutto nelle strade di tutto il Paese, come è tradizione per i grandi eventi politici e sportivi, con le torcidas debitamente separate per evitare il contatto fisico. A Brasilia è stata divisa in due la grande spianata dei ministeri, con barriere di acciaio; a Rio de Janeiro i manifestanti si sono spartiti il tradizionale lungomare di Copacabana. L’ex presidente in una suite - Nonostante il forte clima di contrapposizione, tra le urla dei deputati che uscivano dai maxischermi accendendo le passioni, tutto si è svolto con calma. Al voto del deputato decisivo, il voto numero 342, è esplosa la gioia dei vincitori in tutto il Brasile. Fino alla vigilia, i due schieramenti hanno lottato per conquistare i voti degli indecisi. Arrivato all’appuntamento decisivo in netto svantaggio, secondo i sondaggi, il fronte a favore di Dilma ha tentato fino all’ultimo minuto di conquistare voti contro l’impeachment o almeno astensioni e schede bianche. Molte delle trattative sono state condotte personalmente dall’ex presidente Lula, in una suite di un albergo di Brasilia. Ma già da giorni si era capito che la sconfitta era assai probabile. "Golpe camuffato" - Nelle ultime ore precedenti il voto l’abbandono della nave Dilma-Lula è stata frenetico. Tra i 25 partiti rappresentati in Congresso soltanto una manciata sono rimasti fedeli al Pt, il Partito dei lavoratori. Tutti gli altri si aspettano di guadagnare qualcosa dal successore Temer, il vicepresidente già eletto con Dilma, ora uno dei registi della sua cacciata. A differenza dell’impeachment contro Fernando Collor, nel 1992, che avvenne nel consenso generale, questo rito ha diviso più di quanto indichi la forte impopolarità della Rousseff. In quel caso esistevano forti indizi di arricchimento personale, mentre stavolta il casus belli (o il pretesto) riguarda l’eccesso di spesa pubblica, quindi un comportamento prettamente politico. Per i fan di Dilma e Lula si tratta di un golpe camuffato, quello andato in scena ieri al Congresso. Ad aumentare i dubbi, il fatto che l’impeachment sia stato istruito da un presidente della Camera, Eduardo Cunha, al quale sono stati trovati milioni di dollari in tangenti nelle banche svizzere, e che affronterà un processo.