La sicurezza e i rischi di razzismo. Come vincere la paura di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 17 aprile 2016 Con le battaglie di legalità si prevengono le discriminazioni e le strumentalizzazioni. Le vittime tra il popolo e i ceti medi. A Londra il Labour parlava di "pane e ordine". Giovedì 11 giugno 2015, sulla linea Trenord per l’Expo, un gruppo di latinoamericani ferisce a colpi di machete il capotreno e un collega che tenta di aiutarlo. Sabato 23 marzo 2016 una ragazza di 22 anni, in viaggio da Bergamo a Milano, viene aggredita da un romeno, pregiudicato e invano espulso dall’Italia, che con il martello frangivetro del vagone le spacca la testa e la mano con cui lei tenta di proteggersi. La vittima non muore; viene escluso il tentato omicidio. Restano le lesioni gravi e la rapina. Bottino: 15 euro e un cellulare. Il caso Trenord - Questi gli episodi più noti. Ma le aggressioni sui treni dei pendolari negli ultimi mesi, sempre sui convogli Trenord, sono molte di più, come ha ricostruito il nostro Giampiero Rossi. Il 15 marzo un capotreno preso a pugni a Tromello, Pavia. Il 18 marzo a Palazzolo una ragazza di vent’anni picchiata da un uomo che voleva rubarle la bicicletta. Il 20 marzo a Pioltello ubriachi molestano la capotreno, la coprono di sputi, le rovesciano la vodka addosso. Il 27 marzo a Monza una rissa tra due giovani viene risolta a coltellate. Il 30 marzo finisce in ospedale un’altra capotreno, ferita a San Giuliano da una donna a pugni e morsi; lo stesso giorno a Pioltello un uomo minaccia i passeggeri con un estintore e devasta la carrozza; altre due aggressioni a Bergamo. Il primo aprile due ubriachi molestano e tentano di rapinare le passeggere all’altezza di Rho. Il 6 aprile un uomo spacca 17 finestrini con il martelletto... La Trenord fa sapere che ora entreranno in servizio i vigilantes. Nell’attesa, anche quando non accade nulla di grave, basta salire su un treno per Treviglio o Busto Arsizio per sentirsi in una terra di nessuno, dove comanda il più prepotente. Pugili, assassini, liberi - Roma, 8 ottobre 2010. Alla stazione Anagnina della metro scoppia una banale discussione nella coda per i biglietti. Un pugile, Alessio Burtone, colpisce con un tremendo pugno un’infermiera romena, Maricica Hahaianu. La donna resta a terra per venti minuti nell’indifferenza dei passanti, e muore. Il pm chiede vent’anni per omicidio preterintenzionale. Burtone ne prende nove. Ridotti a otto in appello. Il 27 febbraio 2013 ottiene gli arresti domiciliari. Dal 26 gennaio 2015, a quattro anni e tre mesi dall’omicidio, è un uomo libero. Oleg Fedchenko, ucraino, pugile per hobby, 25 anni, ha litigato con la fidanzata. Scende in strada a Milano, in viale Abruzzi, deciso a uccidere la prima donna che incontrerà. È il 6 agosto 2010, la città è semideserta, i milanesi sono in vacanza. Emlou Arvesu, filippina, sta tornando a casa stanca dopo una giornata di lavoro. L’ucraino comincia a colpirla e non smette fino a quando la povera donna muore. Ma, siccome è incapace di intendere e di volere, o almeno lo era in quel momento, non va in carcere. Vengono chiesti 15 anni di manicomio criminale; ne avrà cinque. Dopo due anni e mezzo sarà estradato in Ucraina e subito liberato. Ha ucciso una donna: non ha fatto un giorno di carcere, non ha pagato un euro di risarcimento. La felicità del male - Le fotografie di Doina Matei sorridente al primo sole del Lido di Venezia, e dei quattro minorenni rom con i pollici alzati in caserma dopo il fermo, hanno un effetto potenzialmente devastante. Innanzitutto sui genitori di Vanessa Russo, 23 anni, la vittima della ragazza romena, che hanno chiesto la pena di morte. Siamo la patria di Cesare Beccaria, e ne siamo orgogliosi; ma tra il Texas - o l’Arabia Saudita, o la Cina - e il lassismo esiste pure un giusto mezzo. Nove anni fa, in questi stessi giorni, Doina Matei uccise Vanessa in modo atroce per futili motivi, infilandole un ombrello in un occhio dopo una lite su chi aveva spinto chi; la foto al Lido le è costata la semilibertà, per qualche tempo. I minorenni non hanno compiuto un delitto di sangue; hanno spaccato una vetrina con un tombino divelto per rubare dei telefonini. Ma il senso di impunità che comunica quell’immagine ha la forza di un contagio. Sulla StampaMassimo Gramellini si è chiesto cosa impedisce di mandarli, se non in carcere, a fare gli spazzini in un parco pubblico o i camerieri alla mensa dei poveri. In effetti lavorare per gli altri può dare quella gratificazione che viene dal rendersi utili alla comunità anziché di danno. La legge in teoria già prevede percorsi di rieducazione e reinserimento. Ma quanti li seguono davvero? E con quali risultati? Le vittime - La casistica potrebbe essere lunghissima. Le vittime di furti, rapine, aggressioni, ferimenti appartengono quasi sempre alle classi popolari o ai ceti medi. Passeggeri dei treni per i pendolari, lavoratori che frequentano le stazioni periferiche della metropolitana. Non è questione di nazionalità: a volte le vittime sono straniere, e i colpevoli italiani. L’immigrazione e la sicurezza sono dossier distinti. I politici che tentano di strumentalizzare la paura per fini elettorali non hanno a cuore il bene comune. Ma negare la paura è inutile, e controproducente. Occorre rimuoverne le cause. Anche dando ai nuovi italiani il senso dei diritti e dei doveri. Le persone che sbarcano a migliaia ogni giorno a Lampedusa e sulle coste del Sud non vengono certo allo scopo di delinquere. Fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla povertà, alla ricerca di un futuro migliore. La percentuale di chi è disposto a commettere reati è certo infinitesimale; ma esiste, come esiste tra noi italiani. Arrivare in un Paese con la più forte criminalità organizzata d’Europa sempre alla ricerca di manovalanza, dove in alcune regioni il lavoro nero è norma, dove almeno un quarto della ricchezza è di origine illegale o criminale, espone a tentazioni. Non a caso il 32 per cento dei detenuti in Italia è straniero, 11 punti in più della media europea. Se poi il nuovo arrivato vede che il male spesso resta impunito, la tentazione può aumentare. Siamo impreparati non soltanto dal punto di vista legislativo e giudiziario, ma anche da quello culturale. Parlare di legalità significa risvegliare tic ideologici, per cui si diventa "forcaioli" o "fascisti". Ma, senza attendere Tony Blair - "dobbiamo essere duri con le cause del crimine, e duri con il crimine", anche il vecchio Labour parlava di "pane e ordine", parafrasando il "legge e ordine" dei conservatori. La sicurezza è un problema innanzitutto per i ceti meno garantiti. E non è affatto incompatibile con l’impegno contro la corruzione dei politici, degli imprenditori, dei colletti bianchi; anzi, è l’altra faccia della battaglia per la legalità. La paura e il razzismo si prevengono e si battono anche così. L’erosione di destra e sinistra che omologa la politica di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 17 aprile 2016 I diversi gruppi sociali hanno perduto o stanno perdendo i loro canali di rappresentanza politica tradizionale, mentre molti dei loro membri stanno andando ad accrescere le nuove aree della protesta indifferenziata. In molti regimi democratici è in corso un’erosione consistente delle identità tradizionali della Destra e della Sinistra. Identità che ormai sembrano sopravvivere, quando sopravvivono, assai più come astratte scale di valori nella testa dei rispettivi fautori che come effettiva capacità di tradursi in differenti e magari opposti programmi di governo. Da qui un ovvio processo di omologazione dell’intero quadro politico. Tra i grandi Paesi europei solo in Italia, però, questo processo si accompagna a un tale grado di dissoluzione/spappolamento delle identità degli antichi schieramenti da essersi ormai ridotte unicamente alla persona del loro leader. Sicché chi come la Destra oggi un leader non ce l’ha (e come potrebbe capitare domani ai 5Stelle), cessa di fatto di esistere: praticamente non ha identità alcuna. Un Paese soffocato per mezzo secolo dal contrasto ideologico più aspro e da un certo punto in avanti paralizzante, ha salutato tutto ciò con favore, in nome per l’appunto della "fine delle ideologie". Ma come spesso ci capita, con l’acqua sporca abbiamo buttato anche il bambino. Non era scritto da nessuna parte, infatti, che nella Seconda Repubblica Destra e Sinistra dovessero essere per forza il ricalco di quelle ideologie che avevano caratterizzato la Prima. Lo sono state nel modo sempre più affannato e sgangherato che sappiamo solo perché né a destra né a sinistra è nata un’idea nuova del Paese, una visione originale e fattiva del suo presente e del suo futuro. La società italiana nel suo complesso si è mostrata di una sterilità ideale e politica assoluta. Ha prodotto solo protesta e nient’altro che protesta, la quale oggi è arrivata, sommando la Lega e il movimento di Grillo, a raggruppare circa il 40 per cento dell’elettorato effettivo. Nel frattempo, la fine, specie nella percezione comune, della diversità tra Destra e Sinistra non ha mancato di avere conseguenze di grande rilievo sulla nostra vita pubblica. La principale è sotto gli occhi di tutti: i diversi gruppi sociali hanno perduto o stanno perdendo i loro canali di rappresentanza politica tradizionale (che so: la proprietà edilizia con la Destra, i metalmeccanici con la Sinistra), mentre molti dei loro membri stanno andando per l’appunto ad accrescere le nuove aree della protesta indifferenziata cui accennavo sopra. Sempre più spesso un elettore di sinistra o di destra non trova più motivi sufficienti per continuare ad esserlo: tutti sentono di poter votare per tutti o quasi; o più spesso per nessuno. Insomma, non esistendo più definite caratteristiche socio-economiche dell’affiliazione politica, questa tende a divenire sempre più puramente soggettiva e per così dire astratta: a fuoriuscire dall’ambito dell’identità sociale degli individui. Il risultato, come si vede ogni giorno, è la crescita del disinteresse per la politica e dell’astensione. Ma se ciò è la regola generale, accade invece che alcuni gruppi ristretti, dotati di appropriate risorse (indifferentemente economiche o d’influenza: quindi ad esempio tanto i magistrati e i farmacisti quanto i petrolieri o gli alti gradi della burocrazia) conservino comunque un forte interesse per la politica e agli occhi della politica. Alla quale fanno inevitabilmente gola le loro risorse, il loro appoggio o la loro neutralità. Ciò che a propria volta, quindi, consente a questi gruppi stessi di ottenere dalla politica una particolare protezione per i propri interessi. E tanto più ha modo di svilupparsi - in genere dietro le quinte - questo tipo di rapporto, in quanto ora i gruppi d’interesse in questione hanno davanti uno spazio politico illimitato nel quale possono giocare su tutti i tavoli. Soprattutto uno spazio libero da eventuali opposizioni ideologiche al loro operato. Ora tutto può avvenire, ed avviene, a 360 gradi. Una prima conclusione importante, dunque, è che l’omologazione tra Destra e Sinistra indebolisce la tutela politica dei gruppi sociali più numerosi, la loro possibilità di farsi valere, essendo il loro peso elettorale non più appannaggio presunto di nessuno dei due schieramenti. Al tempo stesso, invece, accresce la contiguità tra i gruppi ristretti e la politica, così come accresce la protezione che questa può assicurare loro. Da questo punto di vista non sembra davvero un caso, allora, se nell’Italia degli ultimi venti anni, dopo la fine dei partiti storici e lo spappolarsi progressivo delle successive formazioni politiche maggiori (Forza Italia, Sinistra postcomunista), si stia assistendo a un aumento delle aree, per così dire, della "differenziazione" e del "privilegio". Cioè a un aumento di segmenti sociali ristretti capaci, con un’azione genericamente definibile di lobbying, di assicurarsi quote di risorse aggiuntive o status che li differenziano sempre più dal resto dei cittadini. L’omologazione politica tra Destra e Sinistra, insomma, erode sia l’idea che la pratica dell’interesse generale, e al contempo gerarchizza ulteriormente la società. Aumenta considerevolmente il vantaggio dei pochi, coesi e organizzati, a scapito dei più che un tempo erano organizzati ma ora hanno cessato di esserlo. I pochi finiscono per contare più dei molti. Alla crescita del populismo in basso corrisponde quella del privilegio e dei trattamenti di favore in alto. Gianluca Gemelli, l’ex compagno dell’ex ministro Guidi che twitta imprecazioni contro la "politica" e contro la "casta" nel momento stesso in cui briga ed intriga con entrambe per i suoi affari esprime con un inarrivabile tocco di Cagliostro italiano la contraddittoria, malefica, duplicità in cui si dibatte oggi il Paese. Inutile dire come da tutto ciò derivi infine una conseguenza inevitabile: l’aumento della corruzione. Infatti, facendosi i rapporti tra la politica e gli interessi settoriali più stretti, più liberi e più incontrollati, tali rapporti danno quasi naturalmente vita assai più di prima a scambi di natura illecita. Non da ultimo perché l’omologazione tra Destra e Sinistra significa necessariamente anche un’omologazione dei comportamenti e degli standard etici dei rispettivi personali politici: e non certo al livello più alto. Stati generali dell’esecuzione penale: ragioni e obiettivi di un anno di lavori giustizia.it, 17 aprile 2016 Approfondimento articolato in 18 tavoli di lavoro tematici ai quali hanno partecipato 200 personalità che ha avuto come tema portante la ridefinizione di una dimensione della pena Mancano due giorni all’evento che concluderà gli Stati generali dell’esecuzione penale. Il percorso di riflessione e approfondimento, durato un anno e articolato in 18 tavoli di lavoro tematici ai quali hanno partecipato 200 personalità, ha avuto come tema portante la ridefinizione di una dimensione della pena nel quadro dei diritti e delle garanzie che punti al reinserimento dei detenuti e la costruzione di una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa sia per chi vi lavora sia per chi vi è ristretto. Lunedì e martedì prossimi, nell’Auditorium della Casa circondariale "Raffaele Cinotti", più nota a Roma come Rebibbia, saranno illustrate le relazioni prodotte dai gruppi di lavoro e le proposte elaborate. I lavori della prima giornata, che si svolgeranno alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, saranno coordinati dalla giornalista del TG1 Emma D’Aquino ed inizieranno alle 16 con il saluto del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e dal capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Francesco Cascini. Seguiranno gli interventi del vice Segretario generale del Consiglio d’Europa Gabriella Battaini Dragoni, del Commissario europeo per la giustizia, la tutela dei consumatori e l’uguaglianza di genere Vera Jurovà e del coordinatore del Comitato scientifico degli Stati Generali dell’esecuzione penale Glauco Giostra. A chiudere, l’intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che illustrerà l’esperienza degli Stati generali nel percorso di riforma della giustizia. Alle 17:30 la sessione dedicata a "L’esecuzione penale delineata dagli Stati generali e gli attori giudiziari", durante la quale interverranno il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, il procuratore generale presso la Corte di cassazione Pasquale Ciccolo, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. La prima giornata di lavori proseguirà con l’intervento del senatore Giorgio Napolitano, Presidente emerito della Repubblica, a cui seguirà quello del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinal Angelo Bagnasco. Si passa dunque alla terza ed ultima sessione dal titolo "L’idea della pena nel mondo globalizzato", durante la quale interverranno il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il presidente della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, il presidente della Scuola superiore della magistratura Gaetano Silvestri, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Mauro Palma. Al termine, la presidente della RAI Monica Maggioni. La seconda giornata di lavori, che inizia alle ore 9 e sarà coordinata da Carmelo Sardo, giornalista del TG5, si aprirà con gli interventi dei presidenti della Commissioni giustizia del Parlamento, rispettivamente Nino D’Ascola, Senato, e Donatella Ferranti, Camera, che faranno il punto sullo stato dei lavori relativi a "La riforma dell’ordinamento penitenziario". Il presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio interverrà su "La giurisdizione e l’esecuzione della pena". Alle ore 9,30 la prima delle tavole rotonde della giornata dedicata a "Gli spazi e i tempi per una migliore organizzazione della vita detentiva", coordinata da Donatella Stasio, giornalista de Il Sole 24 ore, cui parteciperanno i coordinatori di alcuni dei 18 tavoli tematici: Luca Zevi, architetto, Marcello Bortolato, magistrato di sorveglianza, Stefano Visonà, capo dell’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro, Demetrio Albertini, vice presidente della Federcalcio, Francesco Viganò dell’Università degli studi di Milano e Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Unione delle Camere Penali. Alla Sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli sono affidate le conclusioni. Alle ore 11:30 la II tavola rotonda, coordinata da Francesco Grignetti, giornalista de La Stampa, e dedicata a "I protagonisti dell’esecuzione penale: tutela dei diritti e competenze professionali", che prevede gli interventi di Marina Graziosi, sociologa del diritto, Franco Della Casa dell’Università degli studi di Genova, Rita Bernardini, esponente del Partito radicale, dei magistrati Paolo Borgna e Sebastiano Ardita e le conclusioni del Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore. Nel pomeriggio, alle ore 15:30, la III tavola rotonda, "Il ruolo del territorio", coordinata da Vincenzo Spagnolo, giornalista di Avvenire, con gli interventi di Francesco Maisto e Gherardo Colombo, già magistrati, Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina, Grazia Mannozzi, dell’Università dell’Insubria e Claudio Sarzotti dell’Università degli studi di Torino. A concludere, il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Il programma dei lavori prevede alle ore 18:00 l’intervento conclusivo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Durante la giornata porteranno la propria testimonianza l’attrice Valeria Golino e il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Durante la giornata di lavori interverranno i ministri Beatrice Lorenzin, Giuliano Poletti, Angelino Alfano, Graziano Del Rio, Dario Franceschini, Stefania Giannini, Maurizio Martina. Interverranno anche Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, Francesco Cananzi, componente del Consiglio Superiore della magistratura, Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, di Sabina Rossa, docente, figlia di Guido Rossa, vittima delle Brigate Rosse, Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia, Marco Minniti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Piero Fassino, presidente ANCI, Stefano Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. L’evento sarà trasmesso totalmente in streaming su: http://static-unimedia.unidata.it/rebibbia/ Il ministro Orlando: pene alternative in aumento Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016 "In una fase preoccupante di ripresa dei numeri della popolazione carceraria, sono però cresciuti in maniera enorme le persone trattate attraverso le pene alternative: oggi sono 41mila. Abbiamo iniziato un percorso in cui ogni quattro detenuti c’era una persona sottoposta a esecuzione penale esterna, oggi ci avvicinano all’obiettivo di uno a uno, e questa è la vera riforma strutturale del nostro sistema". A fare il punto sulla situazione carceraria italiana è stato ieri il guardasigilli Andrea Orlando, presente alla Spezia all’evento conclusivo di "Parole di giustizia". Il ministro, chiuderà poi con il suo intervento "Gli Stati generali dell’esecuzione penale", che si terranno domani e martedì. Orlando illustrerà l’esperienza degli Stati generali nel percorso di riforma della giustizia. Per il ministro della Giustizia "il nostro carcere ha ancora una impronta fortemente legata a una dimensione di esecuzione della pena. È vero che non abbiamo esercitato la delega sulle pene alternative, perché come accade molto spesso su questo tema si scontrano anime molto diverse di un governo che è di coalizione. Che noi e Ncd non avessimo lo stesso programma elettorale non si scopre ora". Il guardasigilli ha ripreso anche il tema caldo delle intercettazioni: "Della delega sulle intercettazioni si è detto soltanto che si vuole limitare l’utilizzo delle conversazioni che non hanno rilevanza penale, in verità c’è anche la volontà di disciplinare le modalità della captazione, e quella delega prevede anche l’estensione della possibilità dell’utilizzo delle intercettazioni, o meglio una semplificazione nelle autorizzazioni, per i reati contro la pubblica amministrazione. Ma non credo che sia mai uscito sul giornale, perché è uscito solo che è una delega bavaglio. Purtroppo - ha sottolineato - stiamo attraversando una fase nella quale si ritiene che il tema delle garanzie riguardi sempre qualcun altro. In verità se guardiamo agli strumenti che la tecnologia offre e alla loro pervasività, scopriamo che non mettere un limite al loro utilizzo non espone i politici o i terroristi, ma riguarda tutti". Proprio sul fronte sicurezza Orlando ha voluto replicare al leader della Lega: "Salvini dice di rispedire a casa loro i delinquenti? L’accordo per il rimpatrio dei detenuti marocchini l’ho firmato io". Sul fronte della lotta al terrorismo, il guardasigilli ha detto che "la negazione del diritto al culto ha scatenato in altri Paesi fenomeni di radicalizzazione. Noi non rispondiamo alla paura con una torsione securitaria. L’Italia ha risposto affermando le garanzie e la libertà". Sicurezza, arriva il Daspo cittadino Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016 Pronto il decreto del governo per rendere più vivibili le aree urbane. Un "Daspo cittadino" per allontanare chiunque commetta reati contro la sicurezza nelle città. Una serie di regole più severe sul degrado urbano, la vivibilità dei centri, il decoro nelle strade. Con una stretta, in particolare, contro gli ambulanti che vendono prodotti contraffatti. Sono soprattutto immigrati. Matteo Renzi, in un’intervista ieri al Resto del Carlino, ha detto che "a maggio il governo interverrà con una legge sulla sicurezza nelle città". A scanso di equivoci, ha precisato: non si tratta "certo di militarizzare" i centri abitati. L’annuncio del presidente del Consiglio riguarda un testo ben noto agli addetti ai lavori, elaborato a lungo dai tecnici del ministero dell’Interno di concerto con il dicastero della Giustizia. Il disegno di legge cosiddetto sulla "sicurezza urbana" è stato trasmesso da tempo al Dagl, il dipartimento Affari giuridici e legislativi di palazzo Chigi guidato da Antonella Manzione. Renzi, ora, dà il segnale di via libera. Non è escluso che l’impianto originale sia aggiornato. Certo è che il testo, una volta approvato da Palazzo Chigi, va a toccare in teoria la vita quotidiana di ogni città medio-grande. Il valore politico del provvedimento è testimoniato, per esempio, da una riunione svoltasi il 5 marzo 2015 al Viminale tra tutti i vertici del ministero, compreso il ministro Angelino Alfano, con il numero uno dell’Associazione nazionale comuni d’Italia, Piero Fassino. I contenuti (www.interno. it) li indicò proprio il ministro dopo l’incontro con l’Anci: "La priorità è fare, delle nostre città, città più sicure" ma anche "garantire ai cittadini la percezione della sicurezza". Davanti a fenomeni come "i writer, i parcheggiatori abusivi, contraffazione e abusivismo commerciale, racket dell’accattonaggio" Alfano disse che "si intende individuare altre fattispecie di reato". Previsti anche più poteri ai sindaci attraverso le loro ordinanze. La bozza del disegno di legge - sempre che non si trasformi in un decreto legge: ipotesi complessa, però - è stata definita dai tecnici di Alfano e contiene una formulazione suggestiva: il "Daspo cittadino". Il divieto cioè di soggiorno nei luoghi dove il soggetto ha ricevuto le contestazioni di violazione delle norme. Nel mirino del provvedimento ci sono, per esempio, gli ambulanti - soprattutto immigrati - che vendono merce contraffatta. Ma anche negozianti di "croste" e quadri da quattro soldi in luoghi di particolare valore artistico. In analogia con il "Daspo" calcistico - il divieto di accedere alle manifestazioni sportive disposto dal questore contro chi ha commesso violenze e altri illeciti prima, durante e dopo le partite - il "Daspo cittadino" dovrebbe costituire un deterrente più generale: nel caso della vendita di merce contraffatta, per esempio, violare la disposizione del questore tornando nelle zone di quel commercio illegale trasforma una violazione amministrativa in un reato. Nelle bozze, poi, erano state ipotizzate una serie di aggravanti su furti e rapine. E norme più severe se le violenze e i danneggiamenti sono commessi durante una manifestazione pubblica. Per controbilanciare questa indicazione era stato inserito il codice identificativo per gli agenti in attività di ordine pubblico. Tema molto delicato per il dipartimento di Ps, guidato da Alessandro Pansa, e tutto il sistema delle forze dell’ordine. A maggio si vedrà se anche queste disposizioni entreranno nel testo finale. Caso Uva, la giurisprudenza che inventa il sequestro di persona lecito di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 17 aprile 2016 La sentenza della Corte d’Assise di Varese a proposito della morte di Giuseppe Uva lascia interdetti. In qualche misura, già tutto era scritto, considerato che l’intera indagine della Procura, a partire da quel 14 giugno 2008, è stata condizionata in profondità dal comportamento di un pubblico ministero, Agostino Abate, responsabile di una serie inaudita di abusi e illegalità, di omissioni e di vere e proprie manipolazioni. Resta il fatto che la morte del gruista Giuseppe Uva, 43 anni, non ha trovato in Tribunale uno straccio di ricostruzione minimamente plausibile. Ma questo già si sa e già è stato detto. Qui vale la pena soffermarsi su un dettaglio - vi si trovi in esso la mano di Dio o del diavolo - che può aiutarci a comprendere quale iniquità sia stata consumata. La sentenza del 15 aprile scorso ha avuto questo esito: per i capi di imputazione di omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace e abuso di autorità, tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Mentre l’ultimo capo di imputazione, che in origine era l’arresto illegale, è stato riqualificato in "sequestro di persona". E qui le strade degli imputati si dividono. I poliziotti sono stati assolti, come sopra, perché il fatto non sussiste. Per i due militari, invece, c’è stata sì l’assoluzione ma - ecco il dettaglio terribilmente significativo - con una motivazione differente, che assume una fondamentale importanza: l’assoluzione è avvenuta perché il fatto non costituisce reato. La sentenza, utilizzando quella formula, ammette l’avvenuto sequestro di Uva a opera dei due carabinieri, dichiarando però allo stesso tempo che quel sequestro di persona non può essere considerato un reato. Un sequestro lecito, insomma. Non potendosi immaginare che la Corte abbia assolto i carabinieri perché mentre sequestravano Uva non sapevano di sequestrarlo - questo rappresenterebbe l’assenza dell’elemento soggettivo del reato -, dobbiamo immaginare che sia stata individuata una causa di giustificazione per quel sequestro illegale. Al punto da renderlo legale. Per il codice, a giustificare quel comportamento dei militari potrebbe essere stato o lo stato di necessità o l’adempimento di un dovere. La prima pare improbabile, in quanto è pacifico che Giuseppe Uva non stesse attentando alla vita di alcuno. Rimane solo l’adempimento di un dovere. Un carabiniere certamente compie il proprio dovere anche quando limita qualcuno nei movimenti, ma la privazione della libertà deve discendere da una previsione di legge e, nel nostro ordinamento, gli unici casi in cui ciò può accadere (senza il provvedimento di un giudice) sono l’arresto in flagranza di reato, il fermo di indiziato di delitto e il fermo per identificazione. Visto che nella vicenda di cui parliamo Uva non è stato arrestato, né sottoposto a fermo (infatti non è mai stato stilato un verbale), ci chiediamo se la Corte di Varese non abbia appena individuato una lecita ipotesi di limitazione della libertà personale non prevista dalla legge. Perché se così fosse, la Corte d’Appello avrebbe violato l’articolo 13 della Costituzione, il quale prevede che le ipotesi di privazione della libertà personale siano "tassativamente" previste. Siamo davvero curiosi, insieme ai familiari di Giuseppe Uva e ai loro avvocati Fabio Ambrosetti e Alberto Zanzi, di capire se questa sentenza è la spia di una situazione di fatto per la quale in Italia viene costantemente violato l’articolo 13 della Costituzione. Tanto più che il pm Daniela Borgonovo ha giustificato nella sua requisitoria la privazione della libertà di Uva richiamando la prassi e i principi generali. Con prassi intendeva che solitamente i cittadini vengono accompagnati in caserma in assenza dei presupposti di legge? Il pubblico ministero intendeva dire che quanto accaduto a Uva accade tutti i giorni in tutte le caserme d’Italia? Ma i principi generali allora quali sono, se non quelli della Costituzione? Il corto circuito ci sembra evidente, siamo davvero impazienti di scoprire come la sentenza di Varese riuscirà a motivarlo. Lucia Uva: "Dov’è la giustizia? la tortura ci accomuna all’Egitto" di Mario Di Vito Il Manifesto, 17 aprile 2016 Morto dopo il trasferimento in caserma. La sorella: "I poliziotti assolti ci hanno riso in faccia". "Continueremo a lottare. E la verità alla fine verrà fuori: dovranno dirmi cosa è accaduto a Giuseppe". Quando, dopo quattro ore di camera di consiglio, il giudice Vito Piglionica ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti accusati di aver ucciso Giuseppe Uva, lei è rimasta immobile. È stata sua figlia Angela a parlare per tutti: "Maledetti". Per Lucia Uva il tempo si era come fermato, perché anche se era stato lo stesso Pm ha chiedere l’assoluzione di tutti gli imputati, quando la botta arriva è sempre dura. E all’inizio c’è poco da dire, soltanto dopo arrivano le lacrime e dopo ancora la volontà di non arrendersi. Giuseppe è morto a 43 anni, la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo essere stato arrestato in centro a Varese mentre, ubriaco, stava spostando delle transenne in mezzo alla strada. L’hanno caricato in macchina e portato nella caserma di via Saffi. Da lì è uscito soltanto diretto verso l’ospedale dove sarebbe morto nel giro di poche ore. In mezzo, un mistero che sette anni di indagini e due di processo non sono riusciti a risolvere. Le cose, va detto, si sono messe male sin dall’inizio: il primo pm incaricato del caso, Agostino Abate, non ne ha mai voluto sapere di mettere sul serio sotto la lente i carabinieri e i poliziotti. Nel 2012 arrivò addirittura a mettere sotto processo un medico dell’ospedale di Varese, che venne assolto con formula piena e richiesta del giudice di indagare su quanto sarebbe accaduto in caserma. Già, perché lo snodo fondamentale della storia è tutta in quelle ore passate in compagnia delle divise. Alberto Biggiogero, arrestato insieme a Giuseppe quella notte di giugno, ha sempre sostenuto di aver sentito il suo amico gridare, ma la sua testimonianza è stata giudicata non attendibile. Alla fine anche la nuova pm, Daniela Borgonovo, ha chiesto l’assoluzione: non c’erano le prove. O non le hanno trovate, che fondamentalmente è uguale. Il vizio è all’origine: quello di Giuseppe Uva ormai è un cold case, tornare a indagare su fatti di otto anni fa sperando di cavarne fuori qualcosa di utile da un punto di vista giudiziario è una pia illusione. Per questo l’assoluzione degli agenti era scontata: il mazzo è regolare perché è il tavolo ad essere truccato. "Ci hanno detto che mio fratello è morto di freddo - dice adesso Lucia Uva - non hanno trovato colpevoli, non hanno fatto giustizia. Otto anni dopo io ho perso la mia famiglia e non mi hanno detto il perché. Io li ho visti i carabinieri e i poliziotti dopo la sentenza: si abbracciavano e ci ridevano in faccia. Per questo mia figlia Angela si è innervosita: è come se loro non avessero capito che eravamo tutti lì per un morto. In tutto questo tempo non sono riuscita nemmeno a guadagnare il loro rispetto". Ci saranno nuovi ricorsi, questo è certo, ma la partita giudiziaria di fatto è finita venerdì sera: le indagini non hanno portato a niente. Ore e ore di testimonianze, chili di carta con perizie di ogni genere, l’esame attento di ogni aspetto della vita di Giuseppe, definito alla fine dall’avvocato delle divise Luigi Di Pardo come "un clochard sporco e puzzolente": la sistematica distruzione della vittima per dimostrare che la sua vita non poteva che andare a finire com’è finita, perché la devianza e la marginalità sono i tratti infantili di un sistema che si ritiene perfetto. In tutti questi anni è uscito fuori di tutto sulla vita di Uva ma niente o quasi sulla sua morte. "Di fatto hanno messo noi sotto processo - prosegue Lucia, ma è giustizia questa? Io, di sicuro, so soltanto una cosa: non mi fermerò, andrò avanti finché non mi avranno detto la verità su mio fratello, su come è morto e su quello che gli hanno fatto. Giuseppe è entrato in caserma sulle sue gambe e ne è uscito in barella. Nessuno è riuscito a fare luce su quello che è successo tra questi due momenti. Ecco, la situazione è questa e io mi chiedo come facciamo a chiedere all’Egitto giustizia per Giulio Regeni quando le stesse cose succedono anche qui in Italia". La geografia della malapolizia e della repressione non conosce confini, e ovunque la legge, qualsiasi essa sia, appare incapace di mettere sotto inchiesta se stessa. Il finale è sempre amaro, anche se mai definitivo: nel caso Uva come negli altri, c’è una fetta consistente dell’opinione pubblica che al di là di quello che accade nelle aule dei tribunali sa che la verità è altrove, ben visibile anche se nascosta tra gli ingranaggi di uno stato delle cose che ha bisogno di farsi vedere inscalfibile per poter avere speranze di sopravvivere. "Tanta gente, tante associazioni in questi anni non mi hanno abbandonata - la conclusione di Lucia Uva - questo mi fa sentire un po’ rassicurata anche in mezzo a questa ingiustizia. Ho visto cose vergognose, sono caduta tante volte ma mi sono sempre rialzata. La verità alla fine verrà fuori, me lo dovranno dire in faccia quello che hanno fatto a mio fratello". Caso Matei, la confusione dei media sulla semilibertà di Agnese Moro La Stampa, 17 aprile 2016 Davvero tanto della nostra vita sociale si gioca sulla possibilità di disporre di informazioni corrette su ciò che accade, in modo da costruirci idee veritiere sul mondo in cui viviamo. E agire di conseguenza. Non si tratta soltanto di evitare la diffusione di notizie false, ma anche di non stuzzicare, in omaggio all’audience, le paure e le emozioni che albergano in ognuno di noi. Stuzzicare non è difficile; basta presentare cose normali come se fossero straordinarie. Un esempio? Il caso recente della semilibertà concessa dopo 9 anni di carcere a Doina Matei, condannata a 16 anni per aver ucciso con un’ombrellata Vanessa Russo. Rimbalzata su tutti i TG, la "notizia" è stata presentata come l’ennesima prova del presunto lassismo del nostro sistema penale. In realtà non c’era niente di strano; seguiva norme di legge e pratiche per la verità ben poco lassiste. Parlarne sarebbe potuto casomai servire a spiegare alcune cose. Eccole. Nel nostro ordinamento la pena non è una vendetta, ma una perdita di libertà (solo di quella, non di umanità, non di diritti) che deve servire alla rieducazione del condannato, a favorire tutto ciò che può aiutarlo a cambiare e a tornare tra noi. E anche a riabituare la persona a vivere fuori, con noi; e noi con lei. La semilibertà quando viene concessa non è un regalo. Il comportamento in carcere, il percorso di rieducazione del condannato è continuamente sottoposto al vaglio degli operatori e dei magistrati di sorveglianza che non sono abituati a regalare niente, ma neanche a negare a chi lo merita di vivere la pena in modo diverso. Chi è ammesso al regime della semilibertà (che può sempre essere revocato) esce per alcune ore per andare a lavorare e poi rientra in carcere. Ogni giorno. Ogni notte. Non è libero. La semilibertà non è un colpo di spugna, ma un modo diverso di scontare la pena. Perché la pena non è per essenza reclusione. E il terribile dolore delle vittime? La giustizia penale non se ne occupa. Ed è inutilmente crudele illudere persone già tanto provate che più anni di carcere, l’odio, la vendetta, la distruzione fisica o la morte civile del colpevole li faranno stare meglio. Non succederà. Meglio che il mondo dell’informazione si impegni a raccontare le strade, come quella della giustizia ripartiva, che provano, con risultati incoraggianti, ad aiutare tante persone - vittime e colpevoli - a tornare a vivere. Palermo: Antigone; al carcere Pagliarelli un letto di contenzione "usato all’occorrenza" Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2016 "Lo si usa all’occorrenza seguendo le procedure ammesse dal protocollo di psichiatria", è quanto ha dichiarato il Direttore Sanitario della Casa Circondariale di Pagliarelli ai rappresentanti di Antigone Sicilia, durante la visita ivi svoltasi nell’ambito di una indagine conoscitiva, promossa a livello nazionale. "Ricorrere all’utilizzo di questo strumento è incompatibile con la normativa nazionale sul trattamento sanitario obbligatorio", lo dicono i rappresentanti dell’Associazione Pino Apprendi e Giorgio Bisagna. Anche in Sicilia persiste ancora il sovraffollamento in tante carceri; è il caso di Agrigento dove Pino Apprendi e Vincenzo Scalia dell’ Osservatorio Nazionale di Antigone, questa settimana hanno rilevato una presenza di n. 378 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di n. 225. In particolare, il reparto "protetti" vive una pessima condizione. Celle adatte per ospitare una o due persone al massimo, ospitano 3 persone con letto a castello. La struttura, nonostante sia di recente costruzione 1997, è in condizioni fatiscenti malgrado gli sforzi dell’attuale Direttore, che si trova a gestire il sovraffollamento con 60 unità in meno dell’organico della polizia penitenziaria. La struttura non è riscaldata e mancano i mediatori culturali, nonostante ci siano 104 stranieri di cui 80 extra comunitari. Informeremo il Ministero di Grazia e Giustizia e il Garante Regionale dei detenuti, prof. Giovanni Fiandaca. Sassari: fuori dal carcere per imparare come si fa a produrre formaggi di Emidio Muroni La Nuova Sardegna, 17 aprile 2016 Bonorva ospita il progetto "Via Lattea" per reinserire detenuti e soggetti sottoposti a misure penali Dieci persone scelte dalla direzione del penitenziario sassarese avranno un certificato di competenza. Il reinserimento dei detenuti e di quanti hanno già scontato il loro debito con la giustizia ha un nuovo apporto. La Cooperativa Sociale Croce Sarda Bonorva, fondata nel 2011 e presieduta da Massimo D’Agostino, in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Sassari, ha organizzato un programma dal titolo "Progetto Via Lattea" d’inclusione sociale in favore di soggetti sottoposti a misure penali che avrà sede a Bonorva. Il progetto, finanziato dal servizio politiche sociali dell’assessorato alla Sanità della Regione Sardegna, ("Programma di Inclusione sociale in favore di soggetti sottoposti a misure penali" Legge regionale n. 7 del 07.02.2011), ha preso il via nei giorni scorsi e prevede l’inserimento sociale di dieci detenuti o ex detenuti, indicati dall’area educativa dell’istituto di pena sassarese. I partecipanti al progetto, dopo aver svolto una prima fase orientativa e d’indirizzo psicoeducativo nell’ambiente penitenziario, già da qualche settimana stanno seguendo un percorso formativo a Bonorva, che li condurrà ad assumere il certificato di competenza in "addetti alla manipolazione e produzione di prodotti lattiero caseari". Il corso è patrocinato dall’AICSfp (Associazione Italiana Cultura Sport e formazione professionale) di Sassari, e prevede un percorso formativo di oltre 500 ore, parte delle quali da svolgere in ambito scolastico, nelle aule messe a disposizione dalla Cooperativa di Comunità Babbajola, di Bonorva nei locali della casa dello studente, in Via Giovanni XXIII. La parte pratica del corso, invece, sarà realizzata in collaborazione con la Latteria Sociale Cooperativa di Bonorva, che ha la sede e l’opificio nella zona industriale in località Ospedaletto, e con l’istituto Superiore "Enrico Fermi" di Ozieri. Nel caso della Latteria Sociale i partecipanti al corso potranno rendersi conto di persona della realtà industriale casearia e partecipare anche a vari cicli di lavorazione, in una delle più importanti realtà nell’ambito cooperativo caseario in Sardegna, mentre nel caso dell’Istituto "Fermi", la dirigenza dell’istituto ha messo a disposizione il mini caseificio di proprietà della scuola, ubicato in regione "Sas Palazzinas" di Bonorva, di competenza e a disposizione della sezione agraria della scuola. Qui sarà possibile realizzare veri e propri cicli di lavorazione che porteranno alla produzione di una notevole quantità di prodotto finito. Nelle varie fasi di formazione è previsto anche l’intervento di alcuni esperti e tecnici dell’agenzia Laore che collaboreranno alla formazione culturale e pratica dei partecipanti. Parte della produzione sarà esposta in una mostra finale e si potrà così verificare la professionalità raggiunta dal gruppo partecipante. Il progetto, piuttosto complesso e ambizioso, vuole regalare una nuova opportunità ai dieci corsisti ed ha richiesto l’intervento di numerosi enti, fra i quali in prima linea l’amministrazione comunale, che si sono adoperati e si adoperano per fornire assistenza e consulenza. Un’iniziativa di notevole valore umano, sociale, educativo ed economico che è stata ben accolta dagli enti interessati, dagli istruttori e dai partecipanti che, fra qualche mese, potranno essere in grado di qualificarsi come esperti in un settore molto importante dell’economia aziendale e potranno avere un’importante possibilità in più per accedere, con motivazioni e qualità più valide, al mondo del lavoro. Roma: villa alle detenute coi bimbi Eur, è polemica in quartiere e in parlamento di Flaminia Savelli e Laura Serloni La Repubblica, 17 aprile 2016 L’immobile è destinato al progetto sociale "Casa di Leda". La villa di via Kenya 72 nel cuore dell’Eur, pronta ad ospitare una Casa famiglia protetta per detenute con bimbi. Sei mamme, sei donne carcerate con i lori bimbi trasferite da Rebibbia a via Kenya 72. Una villa di 500 metri quadrati nel cuore dell’Eur sequestrata alla criminalità organizzata e destinata al progetto sociale "Casa di Leda", una casa famiglia protetta dove le donne con i loro figli che hanno meno di 6 anni potranno scontare la pena fuori dal carcere. Il progetto fa storcere il naso a quanti vivono nelle ville, preoccupati per la loro sicurezza. "Ci sentiamo violati nella nostra intimità - spiega Tiziana Bernardini, al civico 68 - ho un bambino di 11 anni e da quando abbiamo visto dalle nostre finestre i detenuti e insieme ai poliziotti armati che li sorvegliavano non abbiamo più dormito serenamente". Le due case infatti distano appena dieci metri l’una dall’altra: "Teniamo le tende abbassate perché la distanza è molto ravvicinata. Adesso mi chiedo cosa potrebbe accadere se si dovessero trasferire qui le sei mamme con i loro bambini in una casa senza alcuna protezione. Nel progetto infatti non è prevista alcuna sorveglianza". La villa, data in comodato d’uso dal Tribunale al Comune di Roma, è diventata oggetto di accese proteste sia nel quartiere sia in Parlamento. Il deputato di Forza Italia, Renato Brunetta, ha presentato un’interpellanza urgente - sottoscritta dai parlamentari azzurri - alla Camera dei deputati perché "l’operazione mancherebbe di trasparenza". La casa era la sede di una società finita al centro di una maxi truffa da 11 milioni di euro per falsi corsi di formazione e false fatture. Sequestrata nel 2006 e trasformata in casa famiglia protetta dalla giunta Marino. "In questa strada - si lamenta Francesca Capone - dobbiamo fare i conti già con diversi problemi come la scarsa illuminazione e la prostituzione, questo è un progetto calato dall’alto di cui siamo venuti a conoscenza casualmente. Siamo noi che viviamo qui e tuttavia nessuno ci ha consultati. Non sono contraria a progetti di reinserimento però questo, così come è stato concepito, non è adeguato. La villa non sarebbe adatta neanche ai bambini che dovrebbero venire: i balconi hanno un’altezza di dieci metri e nessuna protezione". C’è chi invece punta il dito proprio su come è stato scritto il piano di reinserimento: "Questa strada è lontana da servizi e scuole - commenta Viola Salvati - perciò non capisco di quale reinserimento si possa parlare. Se le mamme dovessero venire qui, vivrebbero isolate. Solo il supermercato dista a più di un chilometro. Il dubbio è che nessuno, tra consulenti ed esperti del Comune, sia venuto qui a vedere di cosa si trattava". I residenti hanno già presentato dei piani alternativi: "Potrebbe diventare - dice Carla Beverini - un alloggio per i genitori dei bambini ricoverati negli ospedali della capitale. La speranza è quella di essere ascoltati". Cuneo: in 60 protestano fuori dal carcere contro il "41 bis" di Francesco Doglio La Stampa, 17 aprile 2016 Slogan davanti al Cerialdo di Cuneo. Dal carcere grida di approvazione dei detenuti. L’appello era stato lanciato in rete e negli scorsi giorni erano stati affissi, abusivamente, alcuni manifesti sotto i portici del centro del capoluogo. La stessa affissione precisava che gruppi diversi si sarebbero trovati, in contemporanea, anche sotto le carceri di Tolmezzo, Milano Opera, Parma, Sassari, Ascoli e Terni. Oggi pomeriggio (sabato 16 aprile) una sessantina di persone si sono radunate davanti al carcere Cerialdo di Cuneo, per manifestare contro il regime di carcere duro, il "41 bis". La mobilitazione era autorizzata. L’appuntamento era per le 15, nello spiazzo accanto alla provinciale che porta a Confreria. Lì è stato appeso al guard-rail uno striscione che recitava: "Mille modi, un solo orizzonte: libertà". Molti manifestanti erano giovani, ma fra loro anche c’erano anche degli adulti e una mamma con un bambino piccolo. Alcuni cittadini cuneesi, ma la maggior parte proveniva probabilmente da Torino. Nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni, neppure per spiegare il motivo della protesta. Il gruppo si identifica nella campagna "Pagine contro la tortura", che, come si legge sui siti web, si prefigge di "rimuovere il divieto di ricevere dall’esterno libri e stampe d’ogni genere nelle sezioni 41bis". Contro il regime duro, e in generale contro l’idea stessa della prigione, i sessanta hanno gridato slogan di fronte alle due sezioni del "Cerialdo" visibili dalla strada, ricevendo, da dietro le sbarre, rumori e grida di approvazione dei reclusi. Poi c’è stata musica: i manifestanti avevano un furgone attrezzato con casse e un generatore. Alcuni si sono anche avvicinati alla recinzione esterna, picchiando sulle sbarre con le pietre e cercando di parlare con i detenuti. Significativo il servizio d’ordine previsto da poliziotti e carabinieri, che si sono comunque tenuti a distanza, perché non si sono verificati problemi. Catanzaro: nel carcere nasce la Compagnia stabile dei detenuti attori di Francesco Vallone catanzaroinforma.it, 17 aprile 2016 In occasione del World Theatre Day (Giornata Mondiale del teatro) e della III Giornata Nazionale in carcere, presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, è andata in scena la commedia dal titolo "L’aria d’aria", ideata e diretta dal commediografo Mario Sei, Assistente volontario penitenziario. Le iniziative a livello nazionale erano diverse, ma nel caso della Calabria, soltanto nel carcere di Catanzaro e presso la Casa di Reclusione "Luigi Daga" Laureana di Borrello, sono state portate due importanti iniziative. Nel caso del carcere di Catanzaro, i detenuti-attori hanno messo in scena una commedia, scritta apposta per loro, che ha particolarmente divertito i loro compagni ma anche una serie di ospiti esterni, tra i quali anche i docenti che insegnano in Istituto, regalando tanto divertimento ma anche momenti di riflessione intensi, oltre ad una commozione generale. La giornata di oggi verrà ricordata non solo per questa ulteriore rappresentazione che i detenuti del circuito di Alta Sicurezza hanno saputo interpretare ma anche perché è stata istituita, proprio in occasione dell’evento, la Compagnia stabile della Casa Circondariale, una delle pochissime in Italia, in cui gli attori sono per l’appunto detenuti. La compagnia teatrale "Jonathan… liberi di volare, liberi di sognare" è il risultato di un progetto auspicato da tempo dal Direttore del carcere, Dr.ssa Angela Paravati e che oggi ha visto la sua realizzazione, naturalmente dopo una serie di laboratori teatrali diretti dallo stesso Mario Sei. La compagnia stabile oggi istituita, in realtà è composta da alcuni detenuti che da quasi 3 anni seguono i laboratori teatrali, tenendo conto di due distinti circuiti, di Alta e Media Sicurezza e che già hanno avuto modo di esibirsi nel teatro ubicato all’interno del Teatro e, non è escluso, che in futuro, possano esibirsi nei teatri cittadini o in altri istituti penitenziari o centri sociali. Il teatro in carcere, soprattutto negli ultimi anni, rappresenta una valida opportunità di rieducazione e di reinserimento sociale, non solo sotto l’aspetto squisitamente tecnico quanto e soprattutto educativo e, a tal proposito, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, condividono, in una nota congiunta, l’idea che oggi è possibile cercare in modo organico una pratica più consapevole nei metodi, nelle funzioni, negli obiettivi delle arti sceniche negli istituti penitenziari. Per questo motivo è in corso di attuazione nel triennio 2015-2017 il Progetto Nazionale di teatro in Carcere "Destini Incrociati" che, in collaborazione con altre istituzioni nazionali e territoriali, oltre alle Celebrazioni per la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere prevede significative iniziative di promozione e formazione principalmente rivolte alle persone detenute, ma anche ad operatori teatrali, al personale penitenziario, al pubblico del teatro in carcere (è possibile consultare programmi e filmati documentativi delle recenti iniziative, sostenute dal Ministero dei Beni, Attività Culturali e Turismo). Le attività teatrali - prosegue la nota - costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute: questo è il punto di partenza che ha indotto il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (organismo costituito da oltre quaranta esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale) e il Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a sottoscrivere nel 2013 un Protocollo d’Intesa per una maggiore promozione del Teatro in Carcere in Italia. L’obiettivo è di realizzare una Scuola di formazione professionale di arti e mestieri collegati al Teatro, al Cinema, all’Arte e alla Cultura in generale. Nel 2014 il Protocollo è stato esteso alla partecipazione dell’Università Roma Tre al fine di collaborare in modo non episodico per la promozione di iniziative di studio e ricerca. Biella: Vivicittà in carcere, emozioni e corsa con i detenuti newsbiella.it, 17 aprile 2016 Emozionante e coinvolgente. Due aggettivi che ben si prestano per descrivere l’evento che si è tenuto oggi, sabato 16 aprile, all’interno del carcere di Biella, vale a dire la nona edizione di Vivicittà, evento servito a coinvolgere i detenuti in attività sportive. La gara si è svolta al meglio grazie alla collaborazione di tutti e alla gestione della Uisp: tanti, e d’obbligo, i controlli per l’ingresso degli atleti delle varie società sportive prima di arrivare sul campo di gara, un circuito di 800 metri da percorrere quattro volte, tutto su asfalto, sotto le alte mura del carcere. Il primo gruppo era composto da 38 detenuti: molte etnie, volti scavati, ma subito uno scambio di saluto e sorrisi con i runners e l’inizio del riscaldamento prima della gara. Fabrizio Forzan, triathleta psicologo che con il gruppo degli operatori si occupa di questa iniziativa, ha effettuato un breve breafing sullo svolgimento in compagnia della madrina dell’evento, la campionessa italiana indoor Valentina Costanza che ha dato il via alla presenza del Direttore. Dopo la partenza tutti i problemi sono passati in secondo piano: emozione, sudore, fatica e l’obiettivo di correre i fatidici 3200 metri, hanno trasformano tutti indistintamente in runners. C’è chi è andato molto forte, chi arrancava ed è qui che sono entrati in gioco i corridori esterni per incitare, accompagnare e dare consigli correndo affiancati. Si parla, c’è chi arriva da Scampia ed è contento di fare questa fatica, c’è chi arriva da Torino ed è stato una promessa del calcio Non si parla di problemi, per una volta si parla di sport, di allenamento, di fatica, cercando di arrivare a compiere i fatidici quattro giri. Con il secondo gruppo il copione è uguale: dopo l’arrivo dell’ultimo concorrente trasferimento per tutti al ristoro che non ha avuto nulla da invidiare ai quelli presenti nei dopogara di grandi manifestazioni, con la particolarità che il cibo, in questa occasione, è stato prodotto all’interno del carcere dai detenuti, con un’ottima torta, pizze e dolci. Poi le premiazioni dei primi dieci assoluti delle due batterie con prodotti alimentari. Una bella giornata di sport, di integrazione e valori sportivi e che ha creato relazione grazie al progetto di Sport per tutti ideato dalla Uisp, l’Unione Italiana Sport per tutti. Il Papa a Lesbo lancia appello "l’Ue sia solidale con profughi" di Piera Matteucci La Repubblica, 17 aprile 2016 Bergoglio accompagnato nella visita dai patriarchi ortodossi Bartolomeo e Hieronimos: "Catastrofe umanitaria più grave dalla Seconda guerra mondiale". Prima della partenza, incontro di cinque minuti con Bernie Sanders. "Cari amici, oggi ho voluto stare con voi. Voglio dirvi che non siete soli". Papa Francesco con queste parole si è rivolto ai profughi ospiti al Moria Refugee Camp a Lesbo, isola greca diventata emblema dell’emergenza profughi, distante solo otto chilometri dalla Turchia, meta del suo 13mo viaggio fuori dall’Italia dall’inizio del Pontificato. "Avete fatto grandi sacrifici per le vostre famiglie. Conoscete il dolore e sono venuto qui con i miei fratelli, il patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo Hieronimos, semplicemente per stare con voi e per ascoltare le vostre storie. Il messaggio che oggi desidero lasciarvi è non perdete la speranza!". Riflettori accesi. Poi ha lanciato un appello al mondo: "Siamo venuti per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo - ha sottolineato il Papa - si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità", ha detto Francesco che più volte ha sottolineato la tristezza di questa sua visita. Dodici rifugiati in Italia. Partito dall’aeroporto di Fiumicino intorno alle 07.17, Francesco è arrivato a quello di Mitilene alle 10.05 (ora locale quando invece in Italia erano le 09.05). Al suo rientro in Italia, alle 16.30, il Pontefice scende dall’aereo atterrato a Ciampino con 12 profughi siriani. Il Papa "ha voluto fare un gesto di accoglienza nei confronti dei rifugiati accompagnando a Roma con il suo stesso aereo tre famiglie di rifugiati dalla Siria, 12 persone in tutto, di cui 6 minori. Si tratta di persone che erano già presenti nei campi di accoglienza di Lesbo prima dell’accordo fra Unione Europea e Turchia. Tutti i membri delle tre famiglie sono musulmani", ha spiegato padre Federico Lombardi. È probabile che questi migranti saranno ospitati dalla Comunità di San’Egidio. Tra i profughi. Cuore della giornata è stata la visita al Moria Refugee Camp, il campo che ospita circa 2.500 richiedenti asilo, provenienti soprattutto dalla Siria, ma anche da altri Paesi del Medio Oriente, come Afghanistan e Iraq. Ad attenderlo, all’esterno del tendone, 150 profughi tra gli 8 e i 16 anni non accompagnati. Con ognuno di loro Francesco ha scambiato una stretta di mano e qualche parola. Con un gruppo di donne con il velo islamico Francesco si è inchinato senza dare la mano, in segno di rispetto. Il Papa, con il patriarca di Costantinopoli e l’arcivescovo di Atene, ha attraversato poi il cortile del campo dedicato alla registrazione dei profughi e raggiunto la grande tenda dove hanno salutato individualmente circa 250 richiedenti asilo. Viaggio triste. In volo verso Lesbo, parlando con i 45 giornalisti che lo hanno accompagnato, il Papa ha espresso tutta la tristezza che caratterizza questa visita: "Quello di oggi è un viaggio un po’ diverso dagli altri" segnato com’è dalla tragedia dei profughi che fuggono dalle guerre: "la catastrofe umanitaria più grande dopo la Seconda Guerra Mondiale", ha detto. "È un viaggio segnato dalla tristezza. Andremo anche a un cimitero: il mare. Tanta gente è annegata". Prima volta insieme. Accolto dal primo ministro greco, Alexis Tsipras, che ha ringraziato Begoglio "per il suo messaggio contro la guerra. E per invocare l’accoglienza in un momento in cui altri leader cristiani alzano le barriere in Europa", papa Francesco ha ricevuto all’aeroporto il saluto da parte di Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, di Hieronymus, arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, e Fragkiskos Papamanolis, Presidente della Conferenza Episcopale greca. È la prima volta che le quattro cariche ecclesiastiche si incontrano ufficialmente insieme. Appello al mondo: "Non ignori crisi umanitaria". "Prima di tutto sono venuto per ringraziare il popolo greco per la sua generosità", ha detto il Pontefice, che con il patriarca ecumenico e l’arcivescovo ortodosso greco ha firmato una dichiarazione congiunta con la quale si chiede all’opinione mondiale di "non ignorare la colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo". No a recinti e barriere. Incontrando un gruppo di persone al porto di Mitilene, Bergoglio ha rinnovato "un accorato appello alla responsabilità e alla solidarietà di fronte a una situazione tanto drammatica" e ha ribadito l’inutilità di innalzare barriere. Un piccolo gruppo di antieuropeisti si è introdotto nell’area del porto di Mitilene durante il discorso del Papa ai migranti e ha cercato di distribuire dei volantini, ma è stato subito portato via dalla gendarmeria vaticana. "Veniamo da ogni parte d’Europa e siamo qui per dirlo a tutti: non è questa l’Europa che vogliamo", ha gridato una manifestante. Anche tre volontarie che volevano consegnare delle lettere a Francesco sono state fermate dalla polizia. Corone in mare. A Lesbo come a Lampedusa. Papa Francesco, nel porto di Mitilene, ha lanciato in mare simbolicamente una corona di alloro per ricordare le vittime delle migrazioni. Un gesto particolarmente toccante ripetuto anche dal patriarca di Costantinopoli e dall’arcivescovo di Atene. Crisi migranti problema europeo. Francesco ha incontrato privatamente Tsipras all’arrivo e prima di ripartire. Al centro del colloquio l’emergenza profughi e più in particolare la situazione sull’isola. I due hanno concordato che la crisi dei rifugiati è un problema europeo e internazionale "che richiede una risposta che rispetti le leggi europee ed internazionali", ha riferito il portavoce Vaticano, padre Federico Lombardi. Più tardi, al porto di Mitilene, Francesco ha insistito: "L’Europa è la patria dei diritti umani e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare, così si renderà più consapevole di doverli a sua volta rispettare e difendere. Purtroppo alcuni, tra cui molti bambini, non sono riusciti nemmeno ad arrivare: hanno perso la vita in mare, vittime di viaggi disumani e sottoposti alle angherie di vili aguzzini". Solidarietà a profughi e a cittadini greci. Bergoglio ha voluto questo viaggio "per esprimere vicinanza e solidarietà sia ai profughi sia ai cittadini dell’isola e a tutto il popolo greco" in un momento in cui l’Europa è profondamente divisa sul tema e in cui gli interessi nazionali sembrano prevalere sui valori che caratterizzano la civiltà occidentale. Il Papa ha voluto ribadire il suo scopo nel messaggio inviato come accade a ogni suo viaggio al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: "Portare conforto a tanti profughi". E poi, in un tweet dall’aereo appena decollato: "I profughi non sono numeri, sono persone: sono volti, nomi, storie, e come tali vanno trattati". A Lesbo, prigione a cielo aperto. Dove l’Europa è un sogno di Giorgio Ferrari Avvenire, 17 aprile 2016 Halibut scappa tutte le sere da un buco nella rete. Giura che è vero, che quando fa buio torna dentro. Non so se credergli, a cominciare da quel nome, quello di un pesce oceanico. Ma nel guizzo degli occhi c’è un’ombra di ribalda vitalità, come la voglia di condividere il suo segreto di Pulcinella e di far sapere a tutti che dal campo profughi di Moria si può anche uscire alla chetichella, assaporando schegge di libertà. Halibut è siriano e non ha neanche quindici anni. Per lui, come per migliaia d’altri, il sogno d’Europa si è trasformato in una porta girevole. Si entra a Lesbo, lembo estremo del continente, si esce a Dikili, in Turchia, da dove si era partiti. Accade ai siriani, ma non solo a loro: palestinesi, iracheni, curdi, pakistani, ci provano tutti, anche gli algerini, i tunisini, i migranti del Bangladesh. "Salpano all’alba su gommoni caricaturali, sfidano questo braccio di mare che attira tutti perché Turchia e Grecia sembrano baciarsi tanto sono vicine - dice Alexis Iannoutri della capitaneria di porto di Mitilene - qualcuno riesce a mettere i piedi sulla terraferma, qualcun altro non la vedrà mai, per tanti di loro non c’è nemmeno un pezzo di terra dovere essere seppelliti". Ma per molti altri la porta d’Europa si è trasformata in una prigione a cielo aperto. Siamo a Moria, centro di raccolta di migranti economici e migranti politici, di profughi e di disperati. Qui il tempo si è fermato dietro le volute di filo spinato e i reticolati che definiscono il perimetro di questo hotspot figlio dell’accordo fra la Turchia e l’Unione Europea. "Uno scandalo - dice Samir, volontario di origine turca - una specie di mercato degli schiavi: te ne vendo uno in cambio di due, ti restituisco un siriano ma me lo devi pagare bene... Ecco cos’è l’accordo fra la vostra Europa e il Paese di Erdogan". Quelli che stanno peggio sono i pachistani. Il famigerato "Protocollo di Riammissione" ne falcidia a decine, alcuni di loro hanno tentato di togliersi la vita: "Neanche li ascoltano - reclamano le ong di Lesbo - non hanno diritto di parola. Il Protocollo è modellato solo sui siriani". È abbastanza vero. Per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano sarà reinsediato nell’Ue, con un limite, però, di posti disponibili per il reinsediamento pari a 72mila in totale per il 2016. In compenso l’accordo fra Bruxelles e Ankara ha drasticamente ridotto il numero di migranti che si affacciano sulle sponde elleniche, un’ottantina di persone al giorno, nessuna delle quali siriana. "È folle che l’Europa risponda con i gas lacrimogeni alla richiesta di aiuto che viene da persone che spesso fuggono dalla guerra - dice la portavoce di Save the Children, Giovanna Di Benedetto - soprattutto quando si tratta di bambini: noi siamo convinti che il modo in cui si sta implementando l’accordo tra la Ue e la Turchia sia inumano e illegale". Dal quel fatidico 20 marzo - accusano le ong - circa 6.300 persone sono arrivate nelle isole greche e sono trattenute in modo del tutto arbitrario in veri e propri centri di detenzione. La maggioranza di esse ha fatto richiesta di asilo, ma la Commissione europea, nonostante l’impegno dello scorso 4 aprile a inviare nelle isole 1.500 tra funzionari e poliziotti per esaminare le richieste, non ha assicurato ancora il sostegno necessario al Greek Asylum Service, che può contare a Lesbo su appena una manciata di funzionari e operatori. Perlustro gli angusti confini di Moria. La polizia greca non ama i giornalisti, il diritto di cronaca qui è pura utopia, scattare fotografie può costare l’espulsione dall’isola. "Qui dentro - spiega Sophia, un tempo guida turistica oggi volontaria - ci sono almeno seicento fra minori e neonati e duecento sono quelli non accompagnati. I casi più delicati, insieme alle donne incinte, sono stati trasferiti a Kara Tepe, il campo gestito dal comune". Ed è questo mescolarsi di buone intenzioni e di regole invalicabili che fa di Lesbo una sorta di tragico laboratorio dell’insensatezza umana: da un lato la pietà, la solidarietà, gli sforzi dell’isola perché il flusso dei migranti non si trasformi in un grande lager, dall’altro l’ordinata contabilità dell’hotspot che ha finito per trasformare le persone in numeri e i numeri in liste d’attesa d’imponderabile lunghezza intrappolate nel mulinello perverso di questa porta girevole che è diventata Lesbo. Oggi sull’isola arriverà Papa Francesco, insieme al Patriarca ecumenico Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos II. Ma non tutti i migranti lo sanno. Ci sarà il premier Tsipras ad accogliere il Papa. Insieme andranno a deporre fiori sulla spiaggia dove i migranti partiti dalla Turchia sbarcano e talvolta annegano. Sarà lui ad aprire le porte di Moria, quelle porte che a tutti noi sono precluse, come se incontrare i migranti, parlare con loro, ascoltarli fosse un atto di sedizione. "Respingi la tempesta aggiungendo fuoco", recita un frammento di Alceo, poeta di Mitilene. Non sappiamo se il fuoco della solidarietà basterà a sciogliere le catene della contabilità concordata con la Turchia. Ma siamo obbligati a sperarlo. A parole tutti d’accordo con il Papa di Luca Kocci Il Manifesto, 17 aprile 2016 Il viaggio del pontefice tra i migranti. Reazioni scomposte di Salvini e Gasparri: il modello? non Lesbo ma Orbán. I vertici Pd: "L’Europa ascolti le parole di Francesco se vuole essere fedele alla sua identità". I gesuiti del Centro Astalli per i rifugiati: "L’Ue interrompa l’accordo scellerato con la Turchia". Quella di papa Francesco a Lesbo è stata una visita "di natura umanitaria ed ecumenica" - come ha precisato padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana - ma anche dal forte significato politico. Il primo ad accorgersene è stato Salvini. Francesco era appena atterrato a Mytilene che già il leader fascio-leghista scriveva sul proprio profilo Facebook: "Il papa è in Grecia per incontrare gli immigrati: "È la catastrofe più grande dopo la seconda guerra mondiale". Con tutto il rispetto, sbaglia", attacca Salvini, rimproverato persino dal redivivo Cicchitto. "Mi sembra - prosegue - che la catastrofe avvenga in Italia, non in Grecia. Trecentomila reati commessi da immigrati, il 40% degli stupri e il 75% dello spaccio a carico di immigrati, 20mila immigrati nelle carceri italiane e 120mila (oltre il 60% clandestini) in case e alberghi. Intanto 1 milione e 400mila bambini in Italia vivono sotto la soglia di povertà assoluta. Il papa vuole invitare altre migliaia di immigrati in Italia? Un conto è accogliere i pochi che scappano dalla guerra, altro è incentivare e finanziare un’invasione senza precedenti. Caro santo padre, la catastrofe è a due passi dal Vaticano, è in Italia!". A ruota arriva Gasparri, altro paladino delle "radici cristiane" dell’Europa: "Il modello da seguire non è Lesbo ma Vienna, che ha deciso di controllare con severità le frontiere", possibilmente costruendo un muro al Brennero. "Il modello è Orbán, il leader ungherese che non ha accettato accordi europei che il giorno dopo svanivano - prosegue l’incontenibile Gasparri. Il modello è la Macedonia che difende con determinazione i propri confini. Più Vienna, meno Lesbo". Meno sgangherate le altre reazioni politiche. Il presidente della Repubblica Mattarella invia un messaggio al papa al suo rientro in Italia: "La sua visita sull’isola di Lesbo ha costituito un forte richiamo alle responsabilità che incombono su tutta l’Europa, alla necessità di trovare risposte univoche e durature al fenomeno delle migrazioni, facendo leva sui valori e principi alla base della convivenza umana e della costruzione europea". Fa eco la presidente della Camera Boldrini: il papa "manda un messaggio potente all’Unione europea, non resti sorda alle sue parole". Dall’Ue, chiamata in causa, si fa sentire l’Alto rappresentante per la politica estera europea, Mogherini: "Le parole di papa Francesco da Lesbo saranno una sveglia per l’Europa che resiste alla solidarietà". E il capogruppo del Pse Pittella: "Serve la volontà politica di tutti gli Stati. Si abbattano i muri preventivi e si dia ascolto alla coscienza di ognuno di noi toccata e commossa dalle parole del papa". Intervengono anche i vertici Pd: "L’Europa ascolti le parole di Francesco se vuole essere fedele alla sua identità e ai suoi valori e dimostri di essere all’altezza della sfida", twitta il vicesegretario nazionale Guerini. E il capogruppo Pd alla Camera, Rosato: "L’Europa non resti sorda e raccolga l’appello dirompente di papa Francesco". Tutti d’accordo, insomma. Ma il rischio è che abbia ragione Enrico Letta: "Vorrei così non fosse, ma temo che il giusto appello ai governi del papa a Lesbo avrà come risposte grandi consensi vocali, e forse nemmeno quelli". Sul fronte sindacale c’è la segretaria Cgil Camusso: "Il papa ci ricorda cosa succede nel Mediterraneo. In Europa si aggira lo spettro della xenofobia e del razzismo", ma "l’Europa non deve essere quella dei muri e dei fili spinati, l’Europa non può essere governata solo dalla finanza". Il mondo cattolico è allineato con papa Francesco. "Come il viaggio a Lampedusa, anche questo a Lesbo parla a tutti, anche senza parole. Ed è un appello accorato all’Europa, e al mondo, perché non distolga lo sguardo dai volti di uomini, di donne, di bambini costretti dalla guerra e dalla miseria a lasciare i loro Paesi, le loro case, le loro famiglie", si legge nell’editoriale dell’Osservatore romano firmato dal direttore Vian. "Chi chiude le porte a migranti sostiene la violazioni dei diritti umani", denunciano le suore scalabriniane, impegnate con i migranti. Senza giri di parole i gesuiti del Centro Astalli per i rifugiati: l’Ue "interrompa immediatamente l’accordo scellerato con la Turchia". Il delirio dell’Europa sui rifugiati di Annamaria Rivera Il Manifesto, 17 aprile 2016 Gli indizi di una profonda impasse politica e morale. La corsa insensata a barricarsi dietro le frontiere nazional, l’accordo vergognoso con la Turchia, gli ultimi scritti di Zizek... Altro che crisi economica. Qualunque cosa si pensi di Papa Bergoglio, è indubbio che la sua visita nella Guantánamo di Lesbo ha valore e impatto, politici e simbolici, assai rilevanti. Se non altro perché ancor più mette in luce, per contrasto, fino a qual punto quella che chiamano "crisi dei rifugiati" sia, in realtà, una grave crisi dell’Europa. Tale da far temere che le spinte centrifughe, i meschini egoismi nazionali, le pulsioni nazionaliste, la crescita progressiva delle formazioni di estrema destra, la tendenza delle élite politiche nazionali a compiacere gli umori più intolleranti del proprio elettorato non solo conducano alla scomposizione dell’unità europea, ma possano concorrere ad aprire scenari ancor più inquietanti. Di fronte alla "crisi dei rifugiati", le misure adottate dall’Ue e da singoli Stati appaiono tanto ciniche, irrispettose dei diritti umani più basilari, guidate da "un’indifferenza di natura criminosa verso la sorte dei rifugiati", per citare Barbara Spinelli; quanto incoerenti, contraddittorie, spesso controproducenti. A tal punto da sembrare il frutto di una mente collettiva delirante, se è vero che il delirio è anzitutto un disturbo della percezione e dell’interpretazione della realtà. A sua volta, il delirio ha a che fare con la rimozione, troppo a lungo covata, del cattivo passato europeo nonché delle gravi responsabilità politiche odierne: è quasi banale ricordare che la fase attuale di esodi forzati (tali anche nel caso dei migranti detti economici) è effetto secondario del neocolonialismo occidentale e del suo interventismo armato, dell’opera di destabilizzazione di vaste aree, dall’Africa al Medio Oriente, nonché della predazione economica e della devastazione anche ambientale operate dal capitalismo globale. Delirante, oltre che illegale e immorale, è l’accordo siglato, in forma di Statement, tra l’Ue e la Turchia il 18 marzo scorso, in violazione del diritto internazionale e perfino del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in particolare dell’art. 218 che regola gli accordi tra l’Unione e i paesi terzi. Deplorato dalla massima parte delle organizzazioni umanitarie e dallo stesso Unhcr, esso legittima e dà avvio alla deportazione di massa dei "migranti irregolari", bambini compresi, che dal 20 marzo sono approdati nelle isole greche partendo dalla Turchia. Paese terzo tutt’altro che sicuro, dominato da un regime a dir poco autoritario, la Turchia, che primeggia per violazioni del diritto internazionale e della stessa Convenzione europea dei diritti umani, non garantisce alcuna protezione ai richiedenti-asilo e ai rifugiati: basti dire che, secondo Amnesty International, da gennaio a oggi ha rimpatriato in Siria un migliaio di rifugiati. È dunque alto il rischio che i profughi barattati con Ankara - "per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia", recita lo Statement - siano prima o poi ri-deportati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti. L’insensatezza di questo accordo è del tutto palese: non servirà affatto, come si pretende, a scoraggiare gli esodi verso l’Europa e a smantellare "il business dei trafficanti", bensì a costringere le moltitudini in fuga a intraprendere rotte e viaggi sempre più rischiosi. Il suo coté paradossale è che la Grecia di Tsipras, da taluni eletta a nuovo faro del socialismo, sia costretta essa stessa a violare il diritto internazionale, con espulsioni collettive e altre gravi infrazioni, nonché riconoscendo la Turchia come paese terzo sicuro. Altrettanto insensata è la corsa a barricarsi dietro le frontiere nazionali, erigende barriere di filo spinato e perfino schierando gli eserciti: lo scorso ottobre il parlamento sloveno ha approvato, quasi all’unanimità, una legge che conferisce all’esercito poteri straordinari, anzitutto quello di limitare la libertà di movimento delle persone; e in febbraio è stato quello bulgaro ad approvare una norma che autorizza l’esercito a schierarsi ai confini per contribuire ad arginare la moltitudine di profughi dalla rotta balcanica. Ricordo che tra il 2015 e il 2016 a ripristinare i controlli alle frontiere sono stati, tra i paesi membri dell’Unione europea, l’Austria, la Danimarca, la Germania, la Svezia, l’Ungheria; tra i non membri, la Norvegia e la Macedonia, che pure è candidata all’ingresso nell’Ue. Dunque, per quanto scandalosa, perfino autolesionista - destinata com’è a provocare anche danni economici, non solo all’Italia -, la più recente trovata austriaca della barriera anti-profughi al Brennero non è che un’ulteriore tappa della dilagante pulsione sovranista, se non nazionalista nel senso peggiore, che attraversa l’Europa. Che la crisi europea sia non solo economica, ma anche politica e morale, ce lo aveva ripetuto più volte Slavoj Zizek, dando prova di lungimiranza. Perciò è alquanto sorprendente che oggi egli si erga a strenuo difensore dello "stile di vita dell’Europa occidentale", ovvero, per i rifugiati, "il prezzo da pagare per l’ospitalità europea". Così scriveva in un articolo del 9 settembre scorso per la London Review of Books. E così ha ribadito in scritti successivi, tra cui quello comparso su In These Times il 16 novembre: "Nonostante la (parziale) responsabilità dell’Europa rispetto alla situazione dalla quale fuggono i rifugiati, è venuto il tempo di abbandonare i mantra sinistroidi che criticano l’eurocentrismo". Questa digressione sul filosofo sloveno vale ad avanzare un interrogativo: il barricarsi dietro "i nostri valori" e "il nostro stile di vita", bacchettando "le anime belle" di sinistra che praticano tolleranza e solidarietà, che osano perfino rivendicare l’apertura delle frontiere, non è forse una tendenza simmetrica a quella che induce a rafforzare le frontiere esterne, chiudere quelle interne, erigere muri, reali e simbolici? Non è forse uno degli indizi della profonda crisi dell’Europa? I profughi siriani e la scelta di Merkel nei confronti della Turchia di Danilo Taino Corriere della Sera, 17 aprile 2016 Perché la cancelliera ha ceduto sul caso del comico tedesco che ha deriso Erdogan. I numeri che segnano la crisi dei rifugiati siriani sono conosciuti e chiari. Ma spesso poco considerati. Tenerli presente, ad esempio nel caso del comico tedesco Jan Böhmermann che andrà sotto processo a Magonza per avere offeso il presidente turco Erdogan, può aiutare a vedere il mondo meno in bianco e nero. Secondo il rapporto dell’11 aprile scorso dell’Unhcr (l’agenzia dell’Onu per i rifugiati), i profughi fuggiti dalla Siria e rimasti nella regione circostante sono 4.837.208. Di questi, 1.055.984 sono in Libano, 638.633 in Giordania, 246.123 in Iraq, 119.301 in Egitto, 28.027 nel resto dell’Africa del Nord. In Turchia sono 2.749.140. Si è passati da un totale regionale di 497.965 rifugiati il 31 dicembre 2012 agli attuali quasi cinque milioni. Di questi, 489.538, il 10% del totale, vivono in campi, per lo più in Turchia. Le richieste di asilo in Europa da parte di profughi siriani sono passate da 2.085 nel mese di dicembre 2012 a 36.383 nel mese di febbraio 2016, prima che fosse firmato l’accordo tra Ue e Turchia per fermare l’esodo verso la Grecia. Viste le divisioni interne alla Ue sull’applicazione del diritto di asilo - a parte Italia e Germania quasi tutti se la sono data a gambe -, la domanda è cosa succederebbe se questa massa si muovesse verso l’Europa. Probabilmente non salterebbe solo l’accordo di Schengen ma l’intera costruzione politica della Ue. Non ci sono dubbi sul fatto che Angela Merkel ragioni innanzitutto in questi termini. C’è però la questione di Erdogan, autoritario, repressivo con gli oppositori e con le donne. Si può fare un accordo con un regime a cui Freedom House assegna 24 punti su 40 per i diritti politici, 29 su 60 per le libertà civili, 6 su 16 per il rispetto della legge da parte dello Stato? E che, per di più, chiede che un attore tedesco che l’ha offeso sia giudicato da un tribunale? Eccesso di realismo cedere, come ha fatto Merkel, alla sua richiesta, per non rischiare di creare difficoltà all’accordo sui profughi con la Turchia? È che a Berlino è maturata la convinzione che il soft-power su cui l’Europa per anni ha fondato se stessa non basti più. Quando ai confini ci sono i cosiddetti uomini forti, occorre tornare a calcolare i rapporti di forza. E scegliere. Come un tempo dicevano gli americani politicamente scorretti, "è un bastardo, ma è il nostro bastardo". Raramente la difesa di libertà e valori è una linea retta. L’Italia corteggia la Germania per superare i muri e Dublino di Fabio Martini La Stampa, 17 aprile 2016 Passa da Berlino l’offensiva del premier per riscrivere il trattato sui rifugiati. Altolà all’Austria: non faremo finta di nulla se qualcuno viola le regole. Due iniziative notevoli, diversissime tra loro e irrituali di palazzo Chigi nell’arco di quatto giorni: un’offensiva dell’Italia con tutte le armi disponibili, perché stavolta il pericolo è diverso dal passato. Un rischio che non può essere apertamente denunciato da Matteo Renzi per non creare allarmismi nell’opinione pubblica: il rischio che si riversi sulle coste italiane un grosso flusso migratorio spinto non più e non solo dalle guerre, ma soprattutto dalla fame. Un’ondata rispetto alla quale l’Italia rischia la beffa. Oramai "costretta" a prendere le impronte a tutti i migranti e dunque a trattenerli nei centri di accoglienza. l’Italia rischia di diventare una "pentola a pressione" senza una valvola di "sfogo", anche considerando che le frontiere lungo le Alpi si stanno chiudendo. Un combinato disposto potenzialmente micidiale, che Matteo Renzi sta cercando di smontare. Con le buone e con le cattive. All’inizio della settimana il presidente del Consiglio aveva reso nota l’iniziativa diplomatica italiana per verificare se l’Austria abbia violato regole europee nell’erigere il "muro" del Brennero. E ieri Renzi ha rincarato la dose: "Agli amici austriaci dico che il Brennero non è solo il tunnel per collegare i nostri Paesi: è un luogo di lavoro per molte aziende, ed è un simbolo. Non faremo finta di nulla se qualcuno viola le regole". E sempre ieri è stato resa nota la lettera del presidente del Consiglio alla Commissione europa nella quale si ipotizza il "Migration Compact", un piano strategico - sebbene presentato con l’etichetta diplomatica di "non paper" - per avviare una riforma della politica europea sui migranti, che punti alla cooperazione coi paesi terzi, per arrivare nel futuro ad uno scambio: chi collabora alla voce "Migranti" potrebbe essere aiutato alla voce "Sviluppo & Stabilità". Nella sua lettera alla Commissione, Matteo Renzi sostiene che "l’Italia non sta subendo una invasione". Dati alla mano, parole con una loro oggettività, ma pronunciate anche per non fornire armi ai partiti più oltranzisti. Non è sfuggito a palazzo Chigi che proprio ieri il leader della Lega Matteo Salvini abbia rincarato la dose: "Clandestini, 4.000 sbarchi in due giorni, 6.000 in una settimana. Chiudere i confini anche in Italia, prima che sia tardi! E usare le navi della Marina per soccorrere tutti ma poi riportarli indietro ai porti di partenza,". Effettivamente nei primi tre mesi dell’anno, come anticipato da "La Stampa", gli ingressi in Italia dalla costa libica sono stati 18,243, con un aumento dell’80 per cento rispetto al 2015, un trend che se fosse confermato, a fine anno potrebbe portare sulle coste italiane circa trecentomila migranti. Ecco perché Renzi è passato all’offensiva. Contando sulla alleanza, ribadita negli ultimi giorni, con Angela Merkel. Dopo gli ultimi due vertici europei, Renzi ha successivamente raccontato di aver trovato la Cancelliera "determinata" non soltanto all’accordo con la Turchia ma anche nell’obiettivo strategico di riscrivere gli accordi di Dublino, quelli che per anni hanno costretto i Paesi di frontiera ad accogliere automaticamente i migranti. Un asse, quello con Berlino. che nelle prossime settimane potrebbe aprire la strada ad una prima svolta, da rendere operativa entro la fine dell’anno: l’istituzione di una Forza di polizia europea. Non ancora un corpo federale, ma una rete di polizie nazionali integrate. E intanto la tensione con l’Austria resta alta. Intervenendo alla riunione, a porte chiuse, della Plenaria della Commissione Trilaterale, il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi ha detto: "Il problema è che alcuni Paesi dell’Unione non rispettano gli accordi sulle quote. Dobbiamo trovare soluzioni comuni, non continuare ad avere approcci nazionali". È intervenuto anche l’ex presidente del Consiglio Mario Monti, con accenti preoccupati: "L’Europa rischia l’implosione non per Brexit ma per la crisi del processo di integrazione", "oramai l’Europa è una cacofonia a 28 voci" e forse l’istituzione del Consiglio europeo non è stata una buona idea. I governi europei e il caso Regeni: il cinismo non paga di Riccardo Redaelli Avvenire, 17 aprile 2016 Qualcuno - magari a mezza voce - potrebbe ricordare il celebre detto: "It’s the economy, stupid!". Già, questa è l’economia. Dinanzi a contratti per miliardi di dollari, la verità sul brutale assassinio di Giulio Regeni sembra divenire meno impellente, e anzi un fastidioso intoppo che vale la pena ignorare. O peggio, per sovrappiù di cinismo, da sfruttare. L’indignazione che monta in Italia per le plateali, smaccate bugie del regime egiziano - e che può portare a un congelamento dei rapporti bilaterali fra i due Paesi - sembra offrire ai nostri vicini europei ulteriori spazi per cercare di strapparci vantaggiose commesse economiche. È orribile pensarlo? No, è orribile comportarsi in questo modo, nascosti dietro la retorica della solidarietà europea. L’atteggiamento in questi anni di Francia e Gran Bretagna nella vicina Libia del dopo-Gheddafi è abbastanza illuminante: la voglia di "togliere" agli italiani la posizione economica predominante che avevamo in quel Paese, ha portato a una divaricazione delle politiche europee che è fra le cause del disastro attuale. Questo si vede bene da Roma, ma anche da più lontano. Tant’è che anche per il New York Times, il silenzio di François Hollande sul "caso Regeni" è vergognoso. Soprattutto visto che nei prossimi giorni il presidente francese andrà in Egitto come piazzista di armi, nonostante una risoluzione del Parlamento europeo preveda il congelamento di ogni fornitura militare. E stride anche che la Germania organizzi proprio in questi giorni grandi visite economiche sulle rive del Nilo con esponenti governativi e del mondo industriale. Davvero, l’idea che ancora una volta si ha della "solidarietà europea" è che siano semplici formule burocratiche dal sapore stantio, ma gravemente scollegate dalla realtà politica di un continente sfilacciato, in cui le rivalità geopolitiche e geoeconomiche vincono su ogni tentativo comune. Nonostante i tentativi messi in atto dal Servizio per l’azione esterna dell’Unione Europea (Seae) e dall’Europarlamento. Quest’ultimo, con una decisione non scontata, ha invitato a Strasburgo i genitori di Regeni: un gesto forte che purtroppo non sembra trovare grandi riscontri nelle cancellerie dei Ventotto. In realtà, il problema supera il semplice dramma della morte crudele di un giovane ricercatore, torturato e ucciso quasi sicuramente per mano di uomini delle forze di sicurezza egiziane. Ma investe il senso di impunità di un presidente-dittatore che ha imboccato - con tracotanza - la strada scivolosa di una repressione indiscriminata. Dopo il totale fallimento della breve esperienza di governo islamista dei Fratelli Musulmani, al-Sisi aveva dalla sua parte un forte consenso interno e internazionale, sembrando l’unico argine contro la deriva polarizzante della società rappresentata da un islam politico e illiberale e contro il dilagare jihadista. Ma come altri autocrati prima di lui, anche al-Sisi ha usato spregiudicatamente la lotta contro l’islamismo violento per liberarsi di ogni oppositore; spesso con metodi altrettanto brutali e con l’uso sistematico della tortura. In passato, l’Occidente ha fatto per decenni finta di non vedere queste dinamiche, in nome della stabilità politica e degli affari. E vediamo oggi, nel quotidiano scempio delle popolazioni mediorientali, quanto questa politica non abbia in realtà pagato nel lungo termine. Il messaggio che deve arrivare oggi ai vertici politici egiziani è che il nostro appoggio all’Egitto - un Paese che rimane uno dei perni regionali per garantire la stabilità - non può essere cieco dinanzi alle sempre crescenti violazioni dei diritti umani. Non solo verso gli occidentali - considerati "specie protetta" - ma verso tutti i "normali" cittadini egiziani. E questo per il bene stesso del governo al-Sisi. Se i nostri partner europei riterranno che questo sia solo un problema italiano, e che gli affari sono più importanti di ogni altra considerazione, sceglieranno una via molto pericolosa. Prima di tutto per l’immagine dell’Europa quale "esportatore di norme e di valori", come si ama sovente ricordare. Poi, per l’idea di solidarietà fra membri dell’Unione, oggi scalfita da derive populiste. Possibile che ancora non si riesca a capire che è necessario piangere e volere giustizia per tutte le vittime, indipendentemente dal loro passaporto? Anzi, da europei, ricordandoci che abbiamo anche un passaporto comune. In Libia e sulla diga di Mosul, due incognite per l’Italia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 aprile 2016 La gravità degli scenari è inquietante per il fatto che diversi elementi sono fuori controllo e ciò fragilizza qualsiasi politica dell’intervento. Due incognite minacciano le grandi scelte della politica estera italiana dell’ultimo periodo in Libia e Iraq. La gravità degli scenari è inquietante per il fatto che diversi elementi sono fuori controllo e ciò fragilizza qualsiasi politica dell’intervento. In Libia abbiamo optato per sostenere a spada tratta il premier designato dall’Onu Fayez al Sarraj. Il suo arrivo a Tripoli oltre due settimane fa è sembrato in effetti per un attimo offrire un appiglio di speranza e stabilizzazione. Ma ora le debolezze di Sarraj e il suo gabinetto di autoproclamata "unità nazionale" sono sempre più evidenti. Il governo di Tripoli condotto da Khalifa Ghwell oppone una dura resistenza contro quelli che chiama "gli intrusi protetti dall’estero". Ghwell è tornato alla sua città natale di Misurata per riportare alla sua causa quelle stesse milizie che si erano poste al servizio di Sarraj. Il sostegno politico e militare per il nuovo aspirante premier viene così minato dall’interno. A ciò si aggiunge l’ostentata indifferenza, se non aperta ostilità, mostrata dal governo di Tobruk e il suo potente ministro della Difesa Khalifa Haftar nei confronti di Sarraj. La crisi scoppiata tra Roma e il Cairo con il caso Regeni non può che complicare la situazione. L’Egitto potrebbe persino volutamente osteggiare Sarraj per boicottare la politica italiana nella regione. Come se ciò non bastasse, nelle prossime settimane i nostri soldati in Iraq dovrebbero arrivare alla diga di Mosul per mettere in sicurezza le società italiane impegnate nei lavori di consolidamento. Una missione importante. Tuttavia, tra Baghdad e le autorità nell’enclave curda del nord si sta aggravando il braccio di ferro. Il governo centrale farà di tutto per bloccare le crescenti spinte indipendentistiche curde. La diga si trova proprio nel mezzo delle regioni contese. E gli italiani potrebbero scoprire presto che questo problema, con tutte le implicazioni politiche e militari, è in effetti più grave che non addirittura il pericolo costituito da Isis.