Carceri italiane sovraffollate e costose. E chi ha misure alternative non sgarra di Caterina Pasolini La Repubblica, 16 aprile 2016 Il rapporto Galere d’Italia dell’associazione Antigone denuncia: il 34 % dei detenuti è in attesa di giudizio. Spendiamo 2,7 miliardi euro (140 a notte), tre volte la Spagna, ma solo l’8% è destinato al mantenimento detenuti. Diminuiscono i suicidi. Celle vecchie, sovraffollate e allo stesso tempo costose più di un hotel a tre stelle. È questa l’Italia delle carceri, troppo piccole per ospitare gli attuali, e in crescita, 53.476 detenuti. E così quattromila non hanno nemmeno un letto a disposizione, altri 9mila che se li sognano gli standard europei di 4 metri quadri a testa di spazio. E tutto questo nonostante ogni persona in prigione costi allo stato 140 euro al giorno, ben 2,7 miliardi di euro l’anno: tre volte quello che spendono in Spagna, il 50% in più della Francia. L’80 per cento del budget miliardario viene però speso per la sicurezza, in personale. Solo l’8 è destinato ai detenuti, per pagare il vitto, corsi, attività o trasferimenti. Cifre minime a raccontare la distanza che ancora ci separa dall’idea illuminista di un carcere che rieduchi, aiuti a reinserire e non si limiti ad essere luogo di pena per chi ha sbagliato. Un racconto di luci e ombre. A fotografare la realtà delle nostre carceri e di riflesso gli effetti di una giustizia troppo lenta, il 34% dei detenuti aspetta ancora una sentenza, è Galere d’Italia, il report annuale dell’Associazione Antigone che visita periodicamente gli istituti penitenziari, propone modifiche legislative in cerca di una via concreta "per i diritti e la garanzie nel sistema penale". Un racconto di luci e ombre, con qualche segnale positivo: per la prima volta diminuiscono i suicidi in carcere, sia tra i detenuti che tra gli agenti. "Segno che conviene a tutti un carcere più umano anche se le cifre restano drammatiche: 43 reclusi si sono tolti la vita, 7.000 gli episodi di autolesionismo" Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio - Il dossier racconta un’Italia che cambia, vista da dietro la sbarre dove la popolazione è quasi totalmente maschile, solo 4.000 le donne nei penitenziari. Il nostro è un paese dove si delinque meno, ma dove troppi sono gli imputati ancora in attesa di giudizio, il 34 %, molti, troppi rispetto al 20% che è la media europea. E tra questi la maggior parte sono stranieri, non solo perché rappresentano il 37% dei detenuti, a ma perché nella maggior parte dei casi gli immigrati "finiscono dentro per reati minori rispetto agli italiani. Due pesi, due misure, dicono ad Antigone, visto che sono discriminati prima e dopo: il 42% aspetta la sentenza in cella. È un’Italia dove l’applicazione delle leggi e delle misure alternative varia e di molto a seconda delle regioni. Così se i permessi premio hanno picchi in Lombardia (oltre 9mila su un totale di 29.224), Toscana ed Emilia, agli ultimi posti stanno Campania e Lazio. "Un errore visto che tutte le statistiche dimostrano che la concessione dei premi è funzionale a trovare lavoro, a recuperare affetti, in definitiva ad evitare che tornino a delinquere e rifiniscano in cella", sottolineano gli autori del dossier. Le condanne e i reati più frequenti - Sono 19.037 detenuti che devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni. Ovvero il 56% della popolazione detenuta e condannata ha una pena che, sottolineano all’associazione, potrebbe scontare fuori dal carcere con diminuzione di costi, il miglioramento della qualità di vita fuori e dentro le carceri che cosi praticamente vedrebbero ridursi di un terzo la popolazione "se si cambiassero alcuni paletti normativi". Ma ancora molto resta da fare per la popolazione carceraria che è sempre più anziana, la media è sui 40 anni, e con una crescita degli ergastolani, 1.633 rispetto al 2011 quando erano 1.446. Ma quali sono i reati più frequenti che portano in cella? Quelli contro il patrimonio, 29.913, contro la persona 21.468, violazione della legge sulla droga 17.676, violazione della legge sulle armi 9.897, e associazione a delinquere di stampo mafioso, 6887. Chi ha misure alternative al carcere, non sgarra - A sottolineare come sarebbe necessario cambiare norme e comportamenti, perché il carcere non aiuta a reinserire le persone, mentre lo fanno le misure alternative, Antigone segnalata i dati relativi alle persone che stanno scontando una pena detentiva fuori dai penitenziari. Tra loro, e sono 29679, la percentuale di chi sgarra e vede revocata la misura, è inferiore all’1 per cento. Dei quasi trentamila un terzo sono in detenzione domiciliare, per la precisione 10.025. 12.465 sono in affidamento in prova al servizio sociale, 6.457 in lavori di pubblica utilità (la quasi totalità è per violazione del codice della strada), 724 in semilibertà. Rispetto al 2009 c’è stato un raddoppio dell’uso della detenzione domiciliare e un aumento significativo di persone affidate al servizio sociale (5 mila in più in sette anni). Le persone controllate con braccialetto elettronico sono 2700, " Ben poche rispetto alle richieste della magistratura". La maggior parte dei detenuti italiani dal Sud - Il gruppo più numeroso è quello dei detenuti di origine campana. Alla fine del 2015 i campani erano 9.635, il 18,5%. Questa percentuale è andata crescendo nel tempo: alla fine del 2005 erano il 12,7%. Più stabile il secondo gruppo di detenuti per regione di origine, ovvero i siciliani, da tempo poco più del 12% del totale dei detenuti. Il terzo gruppo di detenuti per regione di origine sono i pugliesi, che oggi rappresentano il 7,1% degli italiani detenuti. La vita dentro i penitenziari - Lo prevede la legge, ma non sempre è garantito il diritto all’affettività e le visite, gli incontri con parenti spesso sono complicati. Tanto che è come se in cella, punito, non ci fosse solo chi ha sbagliato, ma tutta la famiglia. I dati raccontano meglio di tutto il mondo dell’attesa, di un incontro, di quei minuti concessi nei parlatori dove la riservatezza, l’intimità spesso è un sogno. In 123 carceri è possibile per i familiari prenotare le visite: percentuale di attuazione della legge pari al 63,7%. In 148 carceri è possibile fare colloqui di domenica: percentuale di attuazione della legge pari al 76,6%. In 98 le visite sono sei giorni a settimana: percentuale di attuazione della legge pari al 50,7%.In 172 carceri vi sono spazi, anche se non sempre sufficienti, per i bambini figli di detenuti: percentuale di attuazione della legge pari all’89,1%. Gli esempi positivi di Bollate e Opera - "Gli istituti attrezzati con aree colloquio per famiglie sono ancora in minoranza, Bollate ed Opera sono un esempio con spazi simili a miniappartamenti dove le famiglie possano vedersi con tranquillità". Proprio i colloqui sono uno degli elementi che più influenza la quotidianità del detenuto. E così nel panorama dei mille piccoli e grandi carceri c’è Frosinone dove i famigliari sono costretti ad attendere parecchie ore in uno spazio esterno con copertura, prima di accedere al colloquio, Palermo dove i parenti si mettono in fila a partire anche dalle 4 del mattino e anche in piccoli istituti (come Eboli) dove non è ancora stato attivato un sistema di prenotazione dei colloqui, così che si creano lunghe file di famigliari in attesa fin dalle prime ore della giornata". La lettura - Sono 840.116 i libri presenti nelle biblioteche carcerarie con una media di 4.352 libri per carcere e 15 libri a detenuto. Molti libri sono però edizioni vecchie e poco utili di testi scolastici. Diminuiscono i suicidi - Nel 2015 sono stati poco meno di 7.000 gli episodi di autolesionismo. 43 i suicidi. 79 i decessi definiti per cause naturali. La matematica del dolore dice che si sono dunque ammazzati 8,2 detenuti ogni 10 mila mediamente presenti. Nel 2009, quando i detenuti erano 15 mila in più, la percentuale di suicidi fu di 9,2 detenuti morti suicidi ogni 10 mila detenuti mediamente presenti. Anche la percentuale di decessi naturali è scesa dal 15,9 al 13,6. "Il maggiore spazio, il minore affollamento incide sulle prospettive di vita probabilmente grazie a un controllo socio-sanitario maggiore. E migliora anche la vita degli agenti di polizia penitenziaria. Nel 2015 2 suicidi contro gli 11 del 2014. Conviene a tutti un carcere più umano", sottolinea l’associazione. Il lavoro in carcere - Lavora il 29,73% dei detenuti. Di questi solo una piccola parte, il 15%, ha un datore di lavoro privato. Sono solo 612 i detenuti impiegati in attività di tipo manifatturiero. 208 in attività agricole. Dunque la gran parte lavora per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche. Lavorare in carcere significa essere occupati per poche ore settimanali e guadagnare in media circa 200 euro al mese. Il disimpegno delle Regioni - 2.376 erano i detenuti iscritti nel secondo semestre 2015 in corsi professionali, pari al 4,55% dei presenti. Erano invece 3.864 nel 2009 per una percentuale del 6,07%. Le Regioni si stanno disimpegnando progressivamente, denuncia l’associazione. "Il problema principale del lavoro in carcere, è che è un lavoro che non c’è. Alla fine del 2014 lavorava in carcere il 27,13% dei detenuti, poco più di un quarto. Ma si tratta ovviamente della media nazionale e di persone che lavorano per pochi soldi e per poche ore a settimana o pochi giorni al mese come avviene al Bancali di Sassari. Di conseguenza, a fronte di istituti come Massa Carrara, che dispone di lavorazioni interne, o di Lodè Mamone in Sardegna, una Casa di Reclusione all’aperto in cui lavorano praticamente tutti i 140 detenuti, ci sono realtà come Enna o Brindisi dove a lavorare sono meno del 15%. E la formazione professionale poi è sempre meno diffusa. Colpa delle Regioni" La scuola - Nel corso dell’anno scolastico 2014/2015 nelle carceri italiane sono stati attivati 1.139 corsi scolastici. 17.096 sono stati gli iscritti, e 7.096 i promossi alla fine dell’anno. Circa la metà degli iscritti e dei promossi erano stranieri. "L’istruzione è un diritto nonché il più grande fattore di emancipazione da scelte di criminalità. Accade però, ad esempio, che a Sassari Bancali ad esempio non siano presenti convenzioni con istituti d’istruzione superiore. I detenuti che intendono accedere alla formazione superiore devono chiedere il trasferimento alla casa di reclusione di Alghero che ha stipulato una specifica convenzione con l’istituto alberghiero e con la facoltà di agraria", racconta Antigone. Come rispamiare un miliardo depenalizzando le droghe - Una proposta dell’associazione Antigone è un provvedimento di totale depenalizzazione in materia di droghe che produrrebbe una riduzione secca di un sesto delle imputazioni e condanne. "Ci sarebbe poi l’effetto indiretto sui reati connessi, come quelli contro il patrimonio e cosi alla fine si potrebbe determinare la riduzione di un terzo della popolazione detenuta. il risparmio sarebbe di 930 milioni l’anno che potrebbero essere investiti in misure di sostegno socio sanitario e in attività socialmente utili". Mauro Palma: "investire sul reinserimento dei detenuti, è molto più produttivo" di Carmine Fotia L'Unità, 16 aprile 2016 Il Garante per i diritti delle persone in carcere "Oggi le prigioni non ospitano più solo delinquenti abituali, la professionalità di chi ci lavora deve cambiare". Dall'1 febbraio l'Italia ha finalmente un garante nazionale per i diritti delle persone detenute; Mauro Palma, 68anni, fondatore di Antigone, l'associazione per i diritti dei detenuti, matematico per formazione, giurista per passione (e laurea hc), alle spalle una lunghissima e talvolta impopolare battaglia per un carcere diverso, fondato su un'idea non puramente afflittiva della pena e una visione garantista e perciò umana della giustizia. Con Palma parliamo degli imminenti Stati Generali dell'Esecuzione Penale, il 18 e 19 aprile, all'interno del carcere di Rebibbia. Un evento fortemente voluto dal ministro Andrea Orlando e preparato da 18 tavoli cui hanno partecipato circa 200 persone, rappresentative di tutto il mondo carcerario. Dalla condanna della Corte Europea del Diritti dell'Uomo che l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano definì "una conferma mortificante dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena" agli Stati Generali. Cos'è cambiato? "Intanto sono cambiati i numeri: siamo passati da 67.000 detenuti a poco meno di 54.000 su una disponibilità di quasi 50.000 posti. Anche se nell'ultimo anno c'è stato un aumento. Ciò è avvenuto per la concomitanza di diversi fatti: la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l'equiparazione etra possesso di droghe leggere e droghe pesanti, e alcuni interventi del governo: in tema di immigrazione la non previsione del carcere per il solo fatto di essere clandestini; l'intervento sulla cosiddetta ex-Cirielli con l’eliminazìone di quella norma che prevedeva l'esclusione dalle misure alternative per i recidivi a prescindere dal tipo di reato e che creava il paradosso che potessero accedervi gli autori di reati molto gravi e non quelli di reati minori che sono, per loro natura, seriali; l'innalzamento a 4anni del residuo di pena che si può scontare con le misure alternative". Questi sono i numeri che ci dicono tanto, ma non tutto. Bastano per lavare l'onta di quella condanna della Corte Europea? "Le condizioni materiali sono migliorate e questo none poco, però ora bisogna affermare un'idea del carcere in cui il detenuto non sia trattato come un adulto infantilizzato, ma venga responsabilizzato, sia per la vita che s volge dentro il carcere, che attraverso la gestione delle misure alternative come percorso di reinserimento sociale. Spesso si guarda al carcere come a un luogo da dove non si esce più. Ma ciò non aumenta affatto la sicurezza, tanto che l'Italia è uno dei Paesi con il più alto tasso di recidiva. Alla comunità, lo dico anche in termini di sicurezza, conviene rovesciare il paradigma: investire su un'idea non puramente afflittiva della pena e sul recupero e il reinserimento del detenuto nel breve periodo può apparire costoso, ma alla lunga è molto più produttivo. Un detenuto che sia avviato fin da subito al recupero rischierà di meno la recidiva e peserà meno economicamente sulla società". Come deve cambiare la cultura di chi opera in carcere? "Se penso alla Polizia penitenziaria vedo che, malgrado persistano ancora sacche di resistenza, vi sono tantissime intelligenze e una crescita della professionalità. Credo che sia profondamente sbagliato considerarli semplicemente come guardie carcerarie. Se il carcere oggi non ospita più solo delinquenti abituali, ma anche il portato del disagio non diversamente affrontato, è evidente che la professionalità di chi opera nel carcere deve cambiare". Come? “Gli Stati Generali servono anche a fornire elementi per le riforme che dovranno essere attuate con la legge-delega. E saranno anche il luogo dove progettare quei cambiamenti dell'ordinamento penitenziario necessari a quarant’anni dalla riforma del 1975. Ci fu il provvidenziale intervento della legge Gozzini nel 1986, ma da allora le modifiche introdotte sono state quasi sempre peggiorative”. Non andate un po' controcorrente rispetto a un senso comune che invoca il carcere come soluzione di tutti i mali e non sembra tanto interessato all’umanizzazione del carcere? “La nostra società sembra oggi rifiutare la complessità e rifugiarsi dentro uno schema binario che tende a risolvere tutte le sue contraddizioni ricorrendo alla legge penale e così il carcere è diventato il luogo dove si scaricano tutti i problemi di cui non si riesce a venire a capo, ma al tempo stesso ci si rifiuta di conoscerlo, È come se, lo scriveva alcuni anni fa Rossana Rossanda, ci si rifiutasse di guardare e analizzare le ferite del nostro corpo. Gli Stati Generali servono anche a ricordare a tutti che il carcere è parte della società”. Quasi trentamila persone stanno scontando la pena non in carcere di Francesco Grignetti La Stampa, 16 aprile 2016 Più di un terzo sono in detenzione domiciliare, 12.465 sono in affidamento in prova al servizio sociale, 6.457 in lavori di pubblica utilità, e 724 in semilibertà. Sono duemilatrecento quelli ai domiciliari controllati con il braccialetto elettronico. E ce ne fossero di più, di apparecchiature. "Sono ben poche rispetto alle richieste della magistratura", annota l’associazione Antigone, che tutela i diritti dei detenuti. Nel complesso sono quasi trentamila le persone che stanno scontando la pena detentiva non in carcere: di questi, più di un terzo sono in detenzione domiciliare, 12.465 sono in affidamento in prova al servizio sociale, 6.457 in lavori di pubblica utilità (la quasi totalità è per violazione del codice della strada), 724 in semilibertà. E questi sono tutti condannati con pena definitiva. Quanto a chi è detenuto, ma in fase cautelare, ci sono 7818 adulti che hanno usufruito della messa alla prova, "misura prevista nel 2014 che è un’alternativa al processo per le persone che hanno commesso un reato non grave ovvero punito con pena detentiva inferiore ai quattro anni", e 10.112 quelli sotto indagine dei servizi sociali prima della decisione giudiziaria. Eppure, lentamente ma inesorabilmente, in carcere crescono i numeri: alla data del 31 marzo 2016 i detenuti erano 53.495. Numeri che pongono problemi di costi (il carcere costa allo Stato 3 miliardi di euro all’anno) e di trattamento. Quasi quattromila, a questo punto, non dispongono del posto-letto regolamentare. Grazie ad Antigone e al suo rapporto Galere d’Italia, abbiamo una radiografia aggiornata dei penitenziari italiani. "La situazione del sovraffollamento è molto migliorata negli ultimi anni, ma va tenuta sempre sotto osservazione", riconosce il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Gli interventi legislativi verso la decarcerizzazione e la crescita significativa delle pene alternative sono gli aspetti di cui vado più orgoglioso perché modificano le condizioni carcerarie in modo strutturale: se fino a qualche anno fa per ogni quattro detenuti c’era un solo soggetto a esecuzione penale esterna, ora il rapporto è quasi di uno a uno". Da notare che il ricorso alle pene alternative e ai domiciliari non ha creato problemi di sicurezza. Anzi. "La percentuale di revoca di una misura alternativa per nuovo reato commesso durante l’esecuzione è dello 0,79%". È un successo straordinario per l’esecuzione penale esterna. Se questi fossero i numeri delle recidive in Italia, saremmo il Paese più sicuro del mondo. Nel 2015 il Dap ha speso un miliardo in meno, nonostante l’aumento dei detenuti di Simona D’Alessio Italia Oggi, 16 aprile 2016 Prigioni un po’ meno "care", in Italia: ammonta, infatti, a 2,7 miliardi di euro il bilancio preventivo per il 2015 del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che due anni prima aveva superato i 3,8 miliardi. A salire, invece, è il numero dei reclusi, poiché "al 31 marzo erano 53.495, in crescita rispetto ai 52.164 del 31 dicembre 2015 e ai 52.754 del 30 giugno dello stesso anno", una situazione che il ministro della giustizia Andrea Orlando ha sottolineato essere, comunque, "sotto osservazione". A scattare la consueta fotografia annuale delle carceri del nostro paese è stata l’associazione Antigone, che si batte per i diritti di chi è dietro le sbarre e ieri ha illustrato, a Roma, il suo dodicesimo rapporto. Nel dossier sono presenti anche delle "ricette" per il miglioramento delle condizioni dei detenuti e, in particolare, quella secondo cui "la decriminalizzazione delle sostanze stupefacenti potrebbe determinare la riduzione di circa un terzo della popolazione" in prigione, con un conseguente risparmio di circa "930 milioni di euro all’anno", somma che potrebbe essere reinvestita in "misure comunitarie, sostegno socio-sanitario ed attività socialmente utili". Ma com’è composta la popolazione nelle nostre carceri? Innanzitutto, si è registrato un calo della componente straniera: oggi, infatti, è pari al 33,45% del totale contro il 37,15% del 2009; eppure, la percentuale resta elevata, se paragonata con la media europea (21% circa). Fra le comunità più rappresentate fra chi sconta una pena vi è il Marocco (16,9% del totale degli immigrati), poi Romania (15,9%), Albania (13,8%), Tunisia (11%), Nigeria (3,9%), Egitto (3,4%) ed il 70% ha una pena residua da estinguere inferiore ai tre anni. A tal proposito, il Guardasigilli ha annunciato la diffusione di un vademecum sulla "possibilità di accedere alle pene alternative e ai benefici del nostro ordinamento", spesso, ha sottolineato Orlando, non utilizzati perché "non conosciuti" dagli stranieri. Quanto, ai connazionali, secondo Antigone la maggior parte dei detenuti viene dal Meridione, soprattutto dalla Campania (alla fine del 2015 proveniva da questa regione il 18,5% del complesso dei carcerati, i siciliani erano poco più del 12%, i pugliesi arrivavano al 7,1%). Il ministro Orlando: "il nostro sistema carcerario va ripensato" di Carmine Fotia L’Unità, 16 aprile 2016 Ad oggi i detenuti sono 53.495 e circa 9mila vivono in meno di 4 metri quadri. Il ministro della Giustizia: "Ampliare l’esecuzione penale all’esterno del carcere". Fornire elementi per la riforma legislativa, dopo 40 anni, del sistema penitenziario; abbassare i costi, stimati in 3 miliardi l’anno, sostenuti per il sistema penitenziario; introdurre nel dibattito pubblico un’idea diversa di carcere, finalizzata ad "abbassare il livello di recidiva, che in Italia è il più alto d’Europa, ampliando l’esecuzione penale all’esterno del carcere", visto che contro la recidiva "questo si è dimostrato lo strumento più efficace". Così il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, presenta a l’Unità gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale che si terranno il prossimo 18 e 19 aprile a Rebibbia, aperti dal capo dello Stato Sergio Mattarella, alla sua prima visita in un carcere da Presidente e che saranno visibili in streaming in diverse carceri. Tema non facile da trattare e far comprendere all’opinione pubblica, specie in una fase in cui le carceri rischiano di diventare "luogo di proselitismo per il radicalismo jihadista", ricorda il ministro Orlando. Ma la convinzione di fondo è che "la sicurezza la si garantisce se si pongono le basi perché chi esce dal carcere non torni a delinquere", sottolinea Claudio Giostra, coordinatore degli Stati Generali. L’esecuzione penale esterna, cioè legata a iniziative, in particolare di lavoro, eseguite con precisi protocolli, è considerata una strada importante, per altro già imboccata: "Oggi il rapporto è dì un detenuto ammesso all’esecuzione penale esterna per ogni detenuto in carcere, mentre quando ci siamo insediati il rapporto era uno a quattro", spiega Orlando. 29.679 persone scontano la pena non in carcere: 10.000 ai domiciliari, oltre 12.000 in affidamento in prova e circa 6.S00 in lavori dì pubblica utilità, mentre 2.300 sono controllate con braccialetto elettronico. Intanto, ieri, è stato presentato il XII rapporto di Antigone sulla situazione nelle carceri: in sei anni i detenuti sono diminuiti di 14.763 unita, ma sono cresciuti nell’ultimo anno: nei primi tre mesi del 2016 il numero dei detenuti nelle carceri italiane è infatti aumentato di 1.331 unità, tornando a far crescere il tasso di sovraffollamento (numero dì detenuti rispetto al numero di posti letto regolamentari) che si attesta al 108% secondo l’amministrazione penitenziaria. I detenuti alla data del 31 marzo 2016 sono 53.495 per una disponibilità di 49.545 posti letto nominali, non tutti realmente fruibili. Almeno 3.950 persone sono prive, al momento, dì un posto letto regolamentare e, inoltre, poco meno di 9.000 reclusi vivono ancora in meno di 4 metri quadri pro-capite, standard minimo previsto dal Consiglio d’Europa. Oltre un terzo dei reclusi sono imputati in attesa di giudizio. I condannati in via definitiva sono 34.580, quelli in attesa di sentenza definitiva sono il 34,6% del totale, contro una media europea del 20,4%. "La situazione del sovraffollamento è molto migliorata negli ultimi anni, ma va tenuta sempre sotto osservazione", ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenuto alla presentazione del dossier. Questo governo si batte si batte contro il giustizialismo di Gennaro Migliore (Sottosegretario alla Giustizia) Il Dubbio, 16 aprile 2016 Siamo ufficialmente usciti dalla procedura di infrazione che aveva colpito il nostro Paese dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Torreggiani, relativa al sovraffollamento carcerario. Non è un dato meramente burocratico. È un vero e proprio sospiro di sollievo per la civiltà del nostro Paese, sfregiato dall’annosa questione delle condizioni di vita nelle carceri. Per questo registrare il dato di una diminuzione, in meno di un anno e mezzo, da 67mila detenuti (con una capienza regolamentare di 47mila) a circa 53mila (con una capienza cresciuta fino a circa 49mila posti), testimonia un lavoro concreto avviato da questo governo e non ancora concluso. In questo ristretto lasso di tempo sono state portate modifiche all’ordinamento sia sul versante della depenalizzazione dei cosiddetti reati "bagattellari", sia sull’estensione di provvedimenti, come la "messa alla prova" o altri strumenti di esecuzione penale esterna, che hanno riportato l’indispensabile funzione dell’esecuzione penale nell’alveo della prescrizione costituzionale, quella che parla delle "pene" (al plurale e non al singolare, ricordandoci che non c’è solo il carcere) come strumento che non può violare diritti fondamentali della persona e che ha una finalità rieducativa, al fine di realizzare un percorso che, fuori da ogni retorica buonista, possa realizzare una diminuzione della recidiva e quindi accrescere la sicurezza della società. È in definitiva questo l’obiettivo che si pongono gli Stati Generali dell’esecuzione penale, voluto fortemente dal ministro Orlando, che vedranno il loro atto conclusivo lunedì e martedì prossimo al carcere di Rebibbia, alla presenza del Capo dello Stato. Si è trattato di un lavoro imponente, che ha visto per un anno coinvolti oltre duecento protagonisti del mondo dell’esecuzione penale (dagli operatori istituzionali, la polizia penitenziaria, gli operatori sanitari e della formazione, ai volontari, fino agli studiosi della materia) su diciotto tavoli di lavoro. Ciascuno dei tavoli ha trattato aspetti decisivi della condizione carceraria: dagli spazi detentivi alle condizioni di lavoro, dal lavoro dei detenuti al loro diritto all’affettività, passando per quelle questioni quotidiane che segnano il confine tra civiltà e inciviltà di un Paese. Potrei dire che sono il simbolo dell’importanza che questo governo attribuisce a due elementi essenziali della nostra democrazia: l’efficacia della pena e la dignità nella pena. La nostra sfida passa per un vero e proprio cambio di paradigma, verso una logica della pena che implementa la responsabilità. Dobbiamo a tutti i costi evitare il rischio che il periodo detentivo sia un periodo di sospensione e d’infantilizzazione. Ciò che vogliamo è diminuire la recidiva, agire con programmi di "giustizia riparativa", come anche personalmente ho potuto vedere con lo straordinario lavoro che sta facendo Libera nel far incontrare le vittime dei reati di mafia con i detenuti. E soprattutto evitare che vi sia una esperienza detentiva che diventi l’anticamera di una recrudescenza, magari per l’affiliazione a qualche organizzazione criminale o per la radicalizzazione di matrice jihadista, di cui vediamo i tragici esempi tra gli esecutori materiali delle stragi di Parigi e Bruxelles. Dobbiamo avere ben chiaro che il "pianeta carcere" non può essere il luogo della rimozione collettiva dei responsabili dei reati, una sorta di "discarica sociale" dove qualcuno vorrebbe chiudere sine die i responsabili dei reati e "buttare la chiave". Il nostro compito è quello di guardare all’esecuzione penale come a una funzione sociale e civile essenziale per la tenuta della società. Per questo, in conclusione, vorrei commentare due casi che ci riportano alla dura realtà della vita. Il primo è il caso di Doina Matei. Non entro nello specifico del giudizio che ha portato il giudice di sorveglianza a sospendere temporaneamente la misura della semilibertà, né mi permetto di giudicare il dolore incancellabile della famiglia della sua vittima, ma voglio sottolineare quanto sia morboso l’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica che è pronta a emettere ulteriori sentenze e non si chiede se quella persona possa ritornare nella società più consapevole del suo delitto e anche della necessità di non aver più comportamenti violenti (visto che in ogni caso la pena alla fine verrà scontata). Il secondo è quello di un detenuto del carcere di Velletri che, avendo da scontare "solo" cinque mesi per un furto, appena entrato si è impiccato. Sono due casi che ci richiamano a un senso di responsabilità che non possiamo mai dismettere. Quello di far vivere la Costituzione e il nostro senso di umanità ogni giorno, anche quando le belve giustizialiste tirano fuori le loro pericolose zanne demagogiche. Intercettazioni: cosa sono, quanto costano e sono pubblicabili? di Giulia Merlo Il Dubbio, 16 aprile 2016 Perché non avremmo dovuto leggere i battibecchi tra l’ex ministro Guidi e il compagno. Non avremmo dovuto leggere quel "mi tratti come una sguattera del Guatemala", né altri stralci di battibecchi privati tra l’ex ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi e il compagno Gianluca Gemelli - indagato nell’inchiesta Tempa Rossa. Almeno secondo il codice di procedura penale. Anzi, avrebbero dovuto addirittura essere stralciate, per manifesta irrilevanza. Come funzionano - Le intercettazioni vengono richieste dal pubblico ministero e autorizzate con decreto motivato dal giudice per le indagini preliminari. Nel decreto va indicata la durata: massimo 15 giorni, che diventano 40 nel caso di delitti riguardanti la criminalità organizzata. Il pm, però, può chiedere una proroga al gip. Possono essere disposte solo per specifici reati: in linea generale per i delitti non colposi con pena della reclusione superiore ai 5 anni. Il pubblico ministero non le può richiedere arbitrariamente, ma quando già sussistano gravi indizi di reato e solo se siano assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini. Le registrazioni considerate manifestamente irrilevanti non vengono trascritte, ma stralciate e poi distrutte. Pubblicabilità, i limiti - Nella fase delle indagini preliminari, le intercettazioni sono coperte dal segreto. Sono atti che nessuno, nemmeno l’indagato e il suo difensore, ha ancora il diritto di conoscere. In questa fase, il giornalista ha il divieto totale di pubblicare le intercettazioni di cui sia in qualsiasi modo entrato in possesso. Gli atti vengono portati interamente a conoscenza dell’indagato con la chiusura delle indagini: da questo momento è possibile divulgare il contenuto delle intercettazioni, ma non il testo integrale. Il virgolettato diventa pubblicabile solo al momento del dibattimento, ma solo se l’intercettazione viene utilizzata dal pm per le contestazioni. Il testo delle intercettazioni acquisite nel fascicolo del dibattimento, invece, diventa pubblicabile solo dopo la sentenza di primo grado. Unica eccezione riguarda il caso in cui l’intercettazione sia contenuta nella richiesta di misura cautelare, presentata dal pm al giudice per le indagini preliminari. La richiesta, infatti, è a disposizione dell’indagato e diventa conoscibile, ma rimane valida la regola della pubblicabilità del contenuto ma non anche del virgolettato. La disciplina non riguarda solo le intercettazioni, ma tutti gli atti di indagine. L’obiettivo è quello di salvaguardare il libero convincimento del giudice, che deve - o meglio dovrebbe - venire a conoscenza degli atti in dibattimento, durante il quale le prove si formano in contraddittorio tra le parti. Quanto costano - Nel 2014, il ministero della Giustizia ha speso 250 milioni di euro per le intercettazioni. Secondo un rapporto statistico prodotto dallo stesso dicastero di via Arenula e risalente al 2013, in quell’anno sono state disposte 140mila intercettazioni (il 90% sono telefoniche), corrispondenti a circa 90mila individui intercettati. Le più costose sono le intercettazioni ambientali, per cui la Procura spende 3.200 euro. Ogni intercettazione telefonica costa in media 1.100 euro, una informatica 720 euro. Lacrime di coccodrillo nell’affaire Guidi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 aprile 2016 Proprio gli odierni critici del reato di "traffico d’influenze illecite" furono, nel 2012, tra i sabotatori in Parlamento di una maggiore efficacia della legge. Ma guarda un po’ che strano reato, aggrottano il sopracciglio e alzano il ditino coloro che nella contestazione del reato di "traffico di influenze illecite" al compagno del dimissionario ministro dello Sviluppo economico criticano il ricorso a una fattispecie penale che darebbe troppo potere ai magistrati a causa dei suoi paventati confini troppo vaghi e indefiniti, e quindi dell’eccessiva discrezionalità nel raggio di applicazione che farebbe pendere una spada di Damocle su qualunque semplice lobbista e persino a momenti su chi faccia una raccomandazione. Ma sono un rovesciamento della realtà queste lacrime di coccodrillo versate sul reato introdotto nel pacchetto 190/2012 della legge Severino. Non soltanto perché in altri Paesi regole analoghe o sono presenti esplicitamente (come in Francia e Spagna), o non sono presenti perché (come in Germania e Gran Bretagna) questo tipo di condotta viene già assorbita nelle condotte sanzionate dalle norme anti-corruzione. Ma soprattutto perché la necessità di introdurre appunto una qualche forma di punibilità anche di chi sfrutti relazioni con un pubblico ufficiale per far dare o promettere, a sé o ad altri, un vantaggio patrimoniale quale prezzo della propria mediazione illecita, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno esercitata e produca o no il risultato cercato, non è stata un ghiribizzo di toghe golpiste, ma un obbligo internazionale: imposto all’Italia sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 a Merida (ratificata dopo 6 anni), sia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1999 ratificata addirittura dopo 13 anni dall’Italia. Se mai, è vero l’esatto contrario: proprio gli odierni critici della norma furono nel 2012 tra i sabotatori in Parlamento di una maggiore efficacia della legge, nel momento in cui a depotenziarla già sul nascere fu l’ossessione di piantare alcuni paletti appunto per limitare la temuta eccessiva anticipazione della soglia dell’intervento giudiziario. Perciò nel testo fu imposta un’aggiunta, non contemplata dalle Convenzioni internazionali che spronavano invece gli Stati a punire qualunque mediazione finalizzata a ottenere un indebito vantaggio dalla pubblica amministrazione: i compromessi delle geometrie parlamentari condizionanti l’approvazione della legge (proprio come nello stesso periodo accadde allo spacchettamento tra il vecchio reato di "concussione" e il nuovo reato di "induzione indebita a dare o promettere utilità", rebus che tante incertezze ha lasciato nonostante il tentativo di chiarificazione delle Sezioni Unite della Cassazione a cavallo del caso Ruby) stabilirono cioè che o "traffico di influenze illecite" dovesse sanzionare unicamente un tipo di mediazioni: quelle indirizzate al "compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del pubblico ufficiale", per di più agganciandole a un vantaggio patrimoniale ottenuto "indebitamente" dal mediatore. PENE diminuite. Inoltre la pena fu fissata al ribasso, solo da 1 a 3 anni (in Francia è sino a 10 anni), il che produsse due effetti paradossali tuttora non corretti, e alla base del fatto che questo reato divenga rarissimamente applicabile. Il primo è che la norma, a causa del tetto massimo di pena a 3 anni, per legge non consente ai magistrati di disporre intercettazioni telefoniche o ambientali per questo reato, che dunque, come nel caso di Potenza, in concreto non può mai venire a galla se non casualmente e indirettamente, quale acquisizione secondaria di intercettazioni autorizzate per più gravi ipotesi (nel caso di Potenza l’associazione a delinquere o il traffico di rifiuti). Il secondo è che così l’ordinamento finisce per sanzionare il traffico di influenze illecite, che inquina la pubblica amministrazione, con una pena (da 1 a 3 anni) paradossalmente meno grave di quella (da 1 a 5 anni) che invece punisce la "vendita di fumo" al centro del reato di millantato credito. Intercettazioni: il Parlamento deve ripristinare l’equilibrio privacy-indagini di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 16 aprile 2016 La questione delle intercettazioni telefoniche torna di attualità nell’attenzione dell’opinione pubblica, e si manifesta in modo acuto ogni volta che il loro contenuto trova ampio spazio in tutti i mezzi di comunicazione, determinando spesso, come è avvenuto anche nei giorni scorsi con le dimissioni del ministro Guidi, effetti istituzionali e personali irreversibili che non sempre sono l’oggetto di provvedimenti adottati nel processo penale. Questo effetto si produce per l’impatto del contenuto delle intercettazioni, talvolta del supposto contenuto delle stesse, percepito sulla base di singole frasi o spezzoni di conversazione scissi dal contesto e non sottoposti ad alcuna verifica. C’è da chiedersi se le intercettazioni rispondano sempre alla finalità ad esse propria: offrire un strumento funzionalmente legato alle indagini in un processo penale, e destinate alla ricerca delle prove di fatti che costituiscono reato. Questo scopo giustifica l’intrusione nella sfera privata garantita dal diritto inviolabile alla libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione, che l’articolo 15 della Costituzione assicura a tutti, riservandone la disciplina alla legge e con la garanzia della giurisdizione. Ne deriva che la protezione è piena nei confronti del potere esecutivo e degli organi amministrativi: la polizia non può autonomamente procedere ad intercettazioni. Ma la garanzia rischia paradossalmente di attenuarsi nei confronti dell’autorità giudiziaria, se questa ne fa un uso disinvolto. Una eccessiva discrezionalità nel disporre le intercettazioni finisce con permettere di eseguirle "a strascico", scandagliando ambiti di rapporti sociali ed economici alla ricerca di una eventuale notizia di reato, sino ad una affermazione tutta penale della legalità. Anche le intercettazioni indirette, che finiscono per colpire occasionalmente persone diverse dall’indagato, o "a grappolo", che moltiplicano in modo derivato ed esponenziale le persone intercettate, coinvolgono terzi non sottoposti ad indagine e costituiscono terreno di facile coltura per patologiche incursioni in una sfera privata estranea alla dimensione penale. Del resto che sia frequente un uso inappropriato e una divulgazione non giustificata dalle finalità del processo, è reso evidente dalle direttive che alcuni Procuratori della Repubblica di grandi sedi giudiziarie, ai quali è riconosciuta indiscussa professionalità, hanno ritenuto emanare per porvi rimedio e regolamentare l’applicazione della legge nell’ambito circoscritto del loro ufficio. Si direbbe una forma di supplenza normativa, che offre la prova della necessità di una appropriata disciplina legislativa, come è richiesto dal vincolo della riserva di legge che la costituzione prevede in questa materia: una garanzia della fonte normativa, che può essere sottoposta a controllo di legittimità costituzionale, ed è presidio di libertà ed eguaglianza nel trattamento dei cittadini. A questa esigenza è chiamato a rispondere il Parlamento: ne discute la Commissione Giustizia del Senato. È evidente l’urgenza di arrivare ad una disciplina legislativa che salvaguardi le potenzialità di indagine che le intercettazioni offrono, particolarmente nel contrasto della criminalità organizzata, ma allo stesso tempo escluda una diffusa estensione e l’inappropriata divulgazione del loro contenuto. Non si tratta di limitare in alcun modo la libertà di stampa e di informazione, che pure ha radicamento e garanzia costituzionale, ma di evitare da una parte le intercettazioni inappropriate, dall’altra cosiddette fughe di notizie, o meglio del testo di "brogliacci" o di brani di intercettazioni, che costituiscono in realtà lanci di notizie spesso prive di rilievo penale. La necessità di evitare gli effetti patologici dei quali si è fatta esperienza, impone di evitare che nelle discussioni parlamentari in corso si rimanga impigliarti in una sterile controversia, nell’alternativa tra la disciplina delle sole intercettazioni o la aggregazione ad essa di nuove regole sulla prescrizione dei reati, destinate ad aumentarne i termini nei quali possono essere perseguiti. Sono problemi diversi, entrambi di rilievo e oggetto di dibattito, ma non è da auspicare che la soluzione dell’uno dipenda dalla soluzione dell’altro, in una sorta di compensazione transattiva tra diverse forze politiche. Per le intercettazioni una equilibrata soluzione tecnica può essere trovata, se è condiviso l’obiettivo: escludere intercettazione di soggetti estranei alle indagini o la raccolta, per effetto dell’ascolto, e la diffusione di elementi al di fuori del reato per il quale si è indagato. E anche il procuratore capo di Firenze disse: "limitate le intercettazioni" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 16 aprile 2016 Il Procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, ha mandato alla polizia giudiziaria, ai Pm e agli avvocati, una circolare nella quale spiega che non è lecito distribuire alla stampa i testi delle intercettazioni senza seguire criteri molto rigorosi. Non si possono mandare in giro intercettazioni che riguardano la vita privata della gente, il sesso, le opinioni o le abitudini personali. E non si possono rendere pubbliche quelle intercettazioni che non siano un elemento decisivo di prova. Perché? Per la semplice ragione che esiste un articolo della Costituzione (e precisamente l’articolo 15) che garantisce il diritto alla segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. Il dottor Creazzo, nella circolare, spiega che questo diritto deve essere garantito, e può essere sospeso solo per speciali esigenze di indagine. In sostanza Creazzo spiega che le intercettazioni devono essere una misura straordinaria. E che, siccome entrano in contrasto con un articolo della Costituzione, possono essere adoperate per ragioni investigative molto solide ma non possono essere usate per fare piacere ai giornalisti e ai giornali. L’altro ieri qualcosa del genere - anche in forma assai più severa - era stata detta solennemente da Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. La dichiarazione di Legnini non ha avuto grande risalto sulla stampa. E molto probabilmente non avrà grande rilievo neppure questa circolare di Creazzo. L’unico giornale che ieri ha notato la presa di posizione del capo del Csm è stato "Il Fatto". Il quale ha pubblicato la notizia corredandola con un titolo indignato: "Intercettazioni, Legnini invoca il bavaglio". (A questo proposito vorrei raccontarvi un episodio di 60 anni fa. Era il 1956 e un intellettuale di punta del Pci, Fabrizio Onofri, inviò a Rinascita - che era il settimanale ufficiale di Botteghe Oscure - un articolo nel quale criticava il partito per aver appoggiato l’invasione sovietica dell’Ungheria. Sgomento in redazione. L’articolo venne mandato a Togliatti, il quale, a sorpresa, ordinò la pubblicazione. "Però - disse - il titolo lo faccio io". E scrisse su un foglio di carta, con la sua stilografica a inchiostro verde, il seguente titolo: "Un inammissibile attacco alla linea del Pci". E con questo titolo l’articolo apparve su Rinascita). Scusate la digressione, ma mi pareva pertinente. Perché i giornali hanno ignorato Legnini che bacchettava i Pm e la loro generosità nel distribuire intercettazioni? Forse non c’è bisogno di spiegarlo: i giornalisti e gli editori italiani, negli ultimi anni, hanno vissuto di "intercettazioni" e vedono come una vera maledizione la possibilità che l’Italia, come tutti gli altri paesi occidentali, le limiti o ne regoli la divulgazione. Le intercettazioni oggi sono lo strumento fondamentale dell’alleanza tra gran parte del giornalismo italiano e pezzi di magistratura inquirente. Sono il prezzo che questi pezzi di magistratura pagano per assicurarsi la benevolenza dei giornali; e al tempo stesso sono quasi una "pena accessoria" e preventiva - fatta di fango - che viene affibbiata agli indiziati, o talvolta - come nel caso Guidi - a cittadini del tutto innocenti ma colpevoli del reato di "celebrità". Sarà molto difficile preparare una buona legge sulle intercettazioni. Perché oggi la politica è talmente debole che neppure osa fronteggiare il potere della stampa. Però una speranza c’è. Che qualche magistrato coraggioso, e lo stesso vicepresidente del Csm, inizino a pronunciare parole ragionevoli e ad opporsi alla barbarie è un fatto che non può che essere salutato con sollievo. Se si trovasse persino qualche giornalista disposto a spendere una parola contro il potere degli editori... beh, forse è chiedere troppo. Massimo Cacciari: "sì, la magistratura si allarga, ma occupa il vuoto della politica" di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2016 "Certo, la magistratura si allarga: se la politica viene meno, lo spazio deve per forza essere riempito da un altro potere. Ma non paragoniamo questa fase a Mani pulite: in quell’Italia cerano partiti veri e Tangentopoli fu solo l’anomalo manifestarsi della loro crisi epocale". Così Massimo Cacciari legge il "ritorno" degli uomini del Pool e l’autoriforma del Csm sulle intercettazioni. Massimo Cacciari è uno dei padri del Pd e non ha problemi a dichiarare che il suo voto, oggi, "andrebbe ancora a Renzi". Ma ha un’idea molto critica della forza che la politica è oggi in grado di esprimere. E quando dice che "non c’è paragone" con la Prima Repubblica, vuol dire che quello sgretolatosi nel 1993, per quanto corrotto, era un sistema infinitamente più solido e credibile dell’attuale. "Erano grandi partiti di massa che, Pci compreso, avevano governato l’Italia, e che entrarono in una crisi epocale, di cui Tangentopoli fu una configurazione interna e abbastanza anomala. Adesso non ci sono i partiti, non c’è quella opinione pubblica, non esiste quella passione civile", dice il filosofo. E perciò gli fa "venire da ridere" la suggestione del ritorno di Mani pulite evocata in queste ore per l’elezione di Davigo all’Anm, quella probabile di Francesco Greco alla Procura di Milano e le competenze attribuite a Paolo Ielo dal Procuratore di Roma. Eppure è indiscutibile che le toghe siano tornate a occupare il centro della scena, professor Cacciari. "È una legge di natura: se uno spazio si svuota qualcos’altro lo riempie. Cos’altro dovrebbe fare, la magistratura, davanti a una situazione politica come l’attuale, al permanere di molti nodi strutturali nel Paese e davanti a tutti questi scandali e scandaletti?". Lei dice che il Paese è prigioniero degli stessi nodi da venticinque anni: questo governo però rivendica di aver fatto molto. "Beh rispetto al ventennio che lo ha preceduto non c’è dubbio che qualcosa sia stato fatto, ma vediamo cosa: sarà meglio dell’assoluta inefficienza, d’accordo, ma se andiamo a vedere la riforma costituzionale è abborracciata da far spavento. Meglio del bicameralismo perfetto ma qualcosa di più decente si poteva pretendere". Ma un’inversione di tendenza rispetto ai governi precedenti la vede o no? "Riforme come il jobs act sono ancora lontane da quelle di cui il Paese avrebbe bisogno. Certo, non può essere solo colpa del governo. Ma è anche vero che la narrazione di Renzi non basta a cambiare l’umore della gente. In questa condizione di incompiutezza la magistratura interviene, ovvio. Non può farlo con iniziative in materie economiche e mette mano a quello che rientra nel suo ambito di competenza. Alle intercettazioni, per esempio". Ecco, possibile che la riforma delle intercettazioni debba farla il Csm? "Possibilissimo: la magistratura si allarga così come lo fanno altri poteri, altre burocrazie dello Stato". D’altronde Renzi non poteva riformare le intercettazioni dopo che era stata intercettata Guidi. "Lo credo bene, no che non poteva. Prima che deflagrasse l’inchiesta di Potenza però, Renzi avrebbe potuto fare una legge sul conflitto di interessi, e non l’ha fatta". È sospetta l’iniziativa dei pm lucani alla vigilia del referendum? "Mah, non credo ai complotti. Tutto può essere, ma il conflitto d’interessi era palese: un’industriale in rapporti, del tutto leciti, con un certo cartello, che diventa ministro delle Attività produttive: incredibile. Non è che se hai bisogno di ristrutturare il servizio informatico di Palazzo Chigi, tu, presidente del Consiglio, puoi chiamare l’amico che ha la società di informatica". La ministra tecnica le fa rimpiangere i politici di professione? "Ma le sembra ragionevole scegliere per quel ministero lì una figura come la Guidi? È una stupidaggine, che deriva dal vizio di credersi onnipotenti. Un vizio, questo sì, molto vecchio della politica italiana". I partiti svuotati pescano dove possono. "Sì appunto, e si scopre l’altra faccia della medaglia: quella del magistrato a cui viene affidato lo strategico ruolo dell’Anticorruzione, dell’assessore alla Legalità chiamato dal sindaco di Roma, con successivo inevitabile commissariamento... finisce insomma che è la politica stessa a cooptare magistrati o figure analoghe a quella del magistrato". Detto questo, professor Cacciari, anche la magistratura appare divisa come non lo era mai stata. E alcuni giudici, per esempio Carlo Nordio che sta a Venezia come lei, chiedono una svolta radicale. "Credo che siano molti i magistrati ad avere un atteggiamento critico verso il loro mondo. Con Nordio siamo molto amici da tanti anni, ha tentato come altri di avviare processi di riforma. Nordio sa bene per esempio che sulle intercettazioni si compiono troppi abusi, che vederle pubblicate è una cosa intollerabile". Però anche al Csm restano i vecchi nodi, a cominciare dell’eccessivo peso delle correnti. "Le tensioni registrate con la politica nel ventennio precedente hanno impedito che il dibattito interno alle toghe desse risultati concreti. Una parte della politica si è messa in netta contrapposizione alla magistratura, con un premier implicato in vicende giudiziarie di ogni tipo. Questo ha compattato il mondo delle toghe ma anche inibito la loro spinta auto-riformatrice". Berlusconi però ora è defilato. "E infatti adesso tra i giudici si levano più voci autocritiche, ma siamo ancora lontanissimi da come questo dibattito dovrebbe essere". Cosa dovrebbe cambiare nel potere giudiziario? "Si dovrebbe aprire un dibattito interno alla magistratura sul proprio ruolo sociale. Tra i giudici dovrebbe diffondersi una nuova sensibilità sugli effetti economici e politici delle loro iniziative. Un’attenzione che ora scarseggia". Le toghe divise fanno il vecchio mastino Davigo capo dell’Anm e mandano avanti lui: è questa la logica? "Questa è più una dietrologia. È vero però che Davigo è una persona che ha la sua storia e non rappresenta certo un segno di cambiamento". Ma per i magistrati è meglio guadagnare tempo in attesa che il dibattito interno arrivi a un esito. "Senza dubbio, meglio guadagnare tempo, ma anche perché tra le varie riforme di cui ha parlato Renzi sul fronte giustizia non si è andati molto oltre annunci e facezie come quelle sulle ferie. Perciò i magistrati stanno ancora in trincea e cercano di capire dove va il vento". Caso Uva, assolti carabinieri e poliziotti: "Nessun pestaggio" di Roberto Rotondo Corriere della Sera, 16 aprile 2016 La Suprema Corte ha prosciolto i due carabinieri e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Gli agenti, secondo i giudici, avrebbero svolto il loro dovere, mentre Giuseppe non sarebbe stato picchiato: la sua sarebbe stata una reazione di nervi. Tutti assolti. Carabinieri e poliziotti per i giudici della corte d’assise di Varese non sono i responsabili della morte di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno 2008 all’ospedale Circolo di Varese dopo aver passato la notte nella caserma dei carabinieri. La decisione è arrivata venerdì dopo quattro ore di camera di consiglio, al termine di un processo durato decine di udienze e quasi due anni: un centinaio i testimoni ascoltati, una decina le perizie di parte del tribunale messe a verbale; udienze a volte tese, scontri tra avvocati e polemiche da parte della famiglia Uva. I sei poliziotti e due carabinieri imputati erano accusati di omicidio preterintenzionale, abbandono di incapace, arresto illegale, abuso di autorità su arrestato. La Corte li ha assolti per non aver commesso il fatto su tre capi di imputazione tra cui l’omicidio preterintenzionale. Mentre ha riqualificato l’arresto illegale in sequestro di persona e li ha comunque assolti. Come in un processo a parti rovesciate, i veri accusatori sono stati però gli avvocati di parte civile Fabio Ambrosetti, Alberto Zanzi e Fabio Matera. Perché il pm Daniela Borgonovo, come i suoi predecessori Agostino Abate e Felice Isnardi, ha chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati, arrivando alla conclusione che non vi fosse alcuna prova di un pestaggio nei confronti di Giuseppe Uva nella caserma dei carabinieri di Varese. Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, mentre una parente dell’uomo è uscita dall’aula gridando "maledetti". Testimoni ritenuti inattendibili - In particolare i due testimoni Alberto Biggiogero e Assunta Russo, rispettivamente l’amico di Giuseppe e l’infermiera che sostiene di aver sentito dei poliziotti parlare di un pestaggio, sono stati ritenuti inattendibili, imprecisi e soprattutto per quanto riguarda la Russo al limite della falsa testimonianza. Tutte le tesi degli avvocati della difesa sono andate in una sola direzione. Quella notte, carabinieri e poliziotti e fecero il loro dovere e, cioè, impedirono a due ubriachi di continuare a urlare e creare pericolo in strada. In caserma non ci fu un pestaggio, ma una crisi di nervi che Giuseppe ebbe quella notte, una volta trasportato al comando di via Saffi a Varese. Le toghe Luca Marsico, Duilio Mancini, Pietro Porciani, Fabio Schembri, Luciano Di Pardo hanno ingaggiato un lungo duello soprattutto con gli avvocati delle parti civili. Ma alla fine la Corte ha dato ragione alle difese. E stabilito che sul corpo di Giuseppe non vi erano segni di violenza. Soprattutto, durante il processo, è emerso che nessun testimone ha mai visto violenze, che non vi fu un atteggiamento violento dei carabinieri in strada, che in caserma non si verificò un pestaggio e che nemmeno in ospedale qualcuno diede pugni o calci a Giuseppe Uva. Nemmeno le macchie mostrate in alcune fotografie in televisione sul corpo di Giuseppe Uva sono segni di lividi, bensì si tratta delle macchie ipostatiche che ogni corpo ha sul tavolo di obitorio a qualche ora dalla morte. La sorella: "Continueremo la nostra battaglia" - "Continueremo la nostra battaglia". La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, ha commentato con queste parole la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise con al centro la morte dell’uomo, verificatasi nel giugno del 2008 all’ospedale di Circolo di Varese, dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri. Lucia Uva, parte civile nel processo, si è presentata in aula con una maglietta con stampata la foto del fratello e la scritta "Giuseppe Uva-aspetto giustizia". Dopo la sentenza ha indossato un’altra t-shirt con la scritta "assolti perché il fatto non sussiste". Uno dei carabinieri: "Giustizia è fatta" - "Finalmente è stata fatta giustizia". Sono state le parole, all’uscita dall’aula, di un carabiniere, Stefano Dal Bosco, assolto assieme a un altro militare e a sei poliziotti. "Eravamo tranquilli - ha detto - perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente". I politici - "Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate, si è concluso com’era fatale che si concludesse" dice il senatore del Pd Luigi Manconi. "Abate - spiega Manconi - ha dominato l’intera vicenda giudiziaria dal 2008 ad oggi con un comportamento del tutto simile a quello che lo ha portato a trattenere, per oltre 27 anni, il fascicolo relativo all’assassinio di Lidia Macchi, prima che gli venisse tolto di autorità. Per quest’ultimo comportamento Abate è stato infine trasferito. Per quello tenuto nei confronti della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Giuseppe Uva è stato sottoposto a una incolpazione da parte della Procura generale presso la Cassazione, che tra l’altro gli attribuiva la violazione di diritti fondamentali della persona. Con queste premesse, la sorte del processo era in qualche misura segnata. Ora la verità si fa ancora più lontana". Di tenore completamente opposto la reazioni di Carlo Giovanardi (senatore, Idea):"Sono felice per l’assoluzione di poliziotti e carabinieri, mentre penso che il senatore Luigi Manconi presidente della Commissione Bicamerale per i Diritti Umani abbia perso un’occasione per tacere dimostrando ancora una volta che per lui le forze dell’ordine sono colpevoli per principio, a prescindere dall’esito dei processi". "L’assoluzione dei carabinieri e dei poliziotti del caso Uva induca tutti a maggior rispetto di chi indossa una divisa. Basta criminalizzazioni", dichiara Maurizio Gasparri (Forza Italia). Caso Uva, assolti con formula piena i sei carabinieri e i due poliziotti di Mario Di Vito Il Manifesto, 16 aprile 2016 Secondo il senatore Pd Luigi Manconi - presidente della Commissione diritti umani del parlamento - si tratta di "una iniqua conclusione di un processo iniquo. Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate". Tutti assolti. Con formula piena. Il processo per la morte di Giuseppe Uva è finito così, dopo quattro ore di camera di consiglio, con i sei carabinieri e due poliziotti accusati di abuso d’autorità, abbandono d’incapace, arresto illegale e omicidio preterintenzionale ad abbracciarsi, e i parenti di Giuseppe attoniti, increduli, impreparati a una cosa del genere, malgrado le avvisaglie ci fossero tutte da un po’. Un solo grido è risuonato dopo la lettura della sentenza: "Maledetti". "Si tratta di un’assoluzione annunciata - commentano a caldo quelli di Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa -, noi continueremo comunque a sostenere la lotta di Lucia per la verità e la giustizia". Il processo è durato quasi due anni, tra interminabili udienze testimoniali, decine di perizie, e un’indagine rimasta aperta sette anni, con tanto di cambio in procura e guerra aperta tra il pm Agostino Abate e gli avvocati di Lucia Uva, la sorella della vittima. Alla fine, per i giudici del Tribunale di Varese, le prove a carico degli imputati sono state giudicate molto scarse. Una conclusione alla quale erano arrivati prima i procuratori Abate e Felice Isnardi, che avevano chiesto l’assoluzione ma erano stati respinti dal gup che aveva poi ordinato il processo in Corte d’assise. Qui anche la pm Daniela Borgonovo era arrivata alla stessa conclusione: assolvere tutti perché "non ci sono prove di comportamenti illegali". E così è stato. La storia rimane così senza una conclusione, la sentenza parla da sé, e va bene, ma di spiegazioni sulle cause della morte di Giuseppe Uva non ce n’è manco una. I fatti: la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, l’uomo - 43 anni, di professione operaio - venne fermato ubriaco per strada mentre insieme all’amico Alberto Biggiogero stava spostando alcune transenne in mezzo alla strada. Portato in caserma, non si sa bene cosa sia successo fino al suo arrivo in ospedale, dove Giuseppe sarebbe morto nel giro di qualche ora. L’unica spiegazione ufficiale, a questo punto, parla di una crisi di nervi da parte di Uva in caserma, seguito poi da un Tso e dal ricovero in ospedale. Biggiogero, interpellato più volte come testimone, ha raccontato di aver sentito Giuseppe urlare, ma le sue parole non sono risultate credibili alle orecchie dei giudici. La sua versione dei fatti è stata giudicata contraddittoria, parziale e, soprattutto, non ha giocato a suo favore il fatto di essere stato sotto l’effetto di stupefacenti e alcol, quella notte. L’avvocato delle divise, Luigi Di Pardo, dal canto suo ha descritto Giuseppe come "un clochard sporco e puzzolente" che "viveva di espedienti" dopo essere stato "abbandonato dai suoi familiari che ora sono in cerca di un risarcimento". Il "clochard sporco e puzzolente", secondo il legale, non poteva essere l’amante della moglie di uno degli agenti che lo arrestarono quella notte. Questo particolare della storia è stato tra i più dibattuti durante il processo: per la famiglia di Giuseppe si trattava del movente delle botte prese in caserma, mentre per la difesa era soltanto una calunnia bella e buona. Lucia Uva pure è finita spesso e volentieri al centro del mirino dell’avvocato Di Pardo: accusata di aver "manipolato come un burattino" Biggiogero, avrebbe fatto parte addirittura di una "task force di bugiardi per costruire un castello accusatorio che si è rivelato inconsistente". Secondo il senatore Pd Luigi Manconi - presidente della Commissione diritti umani del parlamento - si tratta di "una iniqua conclusione di un processo iniquo. Un processo condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, fino all’altro ieri, dal pubblico ministero Agostino Abate". Abruzzo: è allarme per la situazione delle carceri di Rita Bernardini (Radicali Italiani) Il Dubbio, 16 aprile 2016 Dal sovraffollamento degli istituti ai gravi vuoti d’organico: il rapporto della delegazione radicale. Le otto carceri abruzzesi visitate sotto Pasqua da esponenti del Partito Radicale e dell’Associazione Amnistia Giustizia Libertà-Abruzzi restringono 1.688 detenuti in 1.569 posti regolamentari, con un sovraffollamento regionale del 107,5%. Questo dato non tragga in inganno perché a fronte di istituti che per la loro tipologia ospitano molti meno detenuti rispetto ai posti disponibili, ne abbiamo altri decisamente sovraffollati. Il carcere di Chieti costringe 115 detenuti in 72 posti con un sovraffollamento del 159,7%; quello di Sulmona 439 detenuti in 304 posti con un sovraffollamento del 144,4%, mentre in quello di Teramo 308 detenuti sono costretti a stare in 255 posti. La situazione penitenziaria abruzzese si caratterizza per un’alta percentuale di detenuti in Alta Sicurezza e al 41-bis. In totale i detenuti comuni sono 793 mentre quelli in Alta Sicurezza sono 739, e i ristretti al 41-bis sono 139, di cui 7 donne, le uniche che si trovino sottoposte a questo regime di "carcere duro" in Italia. A questi si aggiungono 93 internati. Circuiti penitenziari così congegnati fanno sì che ben 1.268 detenuti (75,1%) provengano da altre regioni. Ciò costituisce un dato abnorme che lede il diritto all’affettività sia dei detenuti che dei loro familiari, i quali sono costretti a lunghi e costosi viaggi per visitare i loro congiunti reclusi. Se pensiamo che a questo tour de force settimanale si sottopongono anche anziani, minori e persone malate, ci rendiamo conto di quanto irrazionale, oltre che contraria a quanto prescrive l’Ordinamento Penitenziario, sia la scelta di "deportare" in Abruzzo una massa così rilevante di detenuti. Altri dati rappresentativi. Innanzitutto la carenza degli agenti di polizia penitenziaria. Mancano 143 unità rispetto a quanto previsto dalla pianta che fissa l’organico a 1.308 agenti: in servizio ce ne sono 1.165; vistosa è la carenza degli educatori: a fronte di una pianta organica che ne prevede 42, solo 28 sono effettivamente in servizio e due di loro lavorano part-time. Nota ancor più dolente e strettamente collegata alla funzionalità dell’area educativa è la carenza della magistratura di sorveglianza: in Abruzzo su 6 magistrati in pianta organica, ne mancano 2: mancano il presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila e il presidente di Pescara. Ciò vuol dire che, in media, ogni giudice ha a suo carico 420 detenuti, quando la media nazionale per ogni magistrato di sorveglianza è di 250. La popolazione detenuta. I tossicodipendenti sono 283 (13,7%), mentre coloro che risultano sieropositivi al virus Hiv sono 22 (1,3%), il che vuol dire che nelle carceri abruzzesi i sieropositivi sono 6 volte superiori a quanto si registra nella popolazione residente in Italia. Gli affetti da epatite C ammontano a 132 (7,8%). Se a questi dati aggiungiamo i casi psichiatrici è facile rendersi conto di quanto il carcere sia sempre di più il luogo dove si riversa il disagio sociale: negli 8 istituti si registrano 408 malati mentali (387 uomini e 21 donne) pari al 24% della popolazione detenuta. Paragonato con la società esterna, è come se in Italia avessimo 14 milioni e 400mila malati psichiatrici. Lavoro in carcere. Se la possibilità di svolgere un lavoro è elemento essenziale della funzione rieducativa della pena detentiva, è semplicemente avvilente constatare che i detenuti che hanno la possibilità di svolgere un lavoro nelle carceri abruzzesi sono in tutto 316 (303 uomini e 13 donne) pari al 18,7%. Va precisato inoltre che solo il 2% svolge lavori qualificanti facilmente spendibili una volta scontata la pena e ritornati nella società. Il 41-bis. I 139 detenuti al 41-bis abruzzesi si trovano tutti nel carcere dell’Aquila. Un’anomalia è sicuramente la sezione degli "internati" al 41-bis: si tratta di 4 persone che hanno già finito di scontare la loro pena e che essendo considerati pericolosi socialmente dovrebbero stare in una casa lavoro; all’Aquila invece sono detenuti nel regime di carcere duro. Ho chiesto a uno di loro quale fosse il lavoro attraverso il quale dovrebbe "rieducarsi", mi ha risposto "mi fanno fare lo scopino per 5 minuti al giorno"; uno fa presente che l’ora d’aria si svolge in un passeggio coperto; non possono pertanto mai ricevere la luce diretta e questo vale anche per altri detenuti al 41-bis. Un altro di loro si è fatto già 31 anni di carcere e afferma "qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?". C’è poi l’area riservata del 41-bis che prevede un sistema di detenzione ancora più duro. Il fatto di non ricevere mai la luce diretta e di non poter spaziare con lo sguardo se non per pochi metri, comporta notevoli problemi di vista considerato che questi detenuti vivono così anche per decenni. Una restrizione ridicola che non trova alcun tipo di ragionevole giustificazione è che non possano ricevere foto di dimensioni superiori ai cm 10x15 (perché?). La sezione "normale" del 41-bis non prevede sostanziali miglioramenti rispetto all’area riservata se non per il fatto che sono un po’ meno isolati perché possono andare ai passeggi (orribili e ristretti cubi di cemento) in 4 anziché in 3 o 2 e perché le celle sono una di fronte all’altra divise dal corridoio. Questo fatto peraltro comporta numerosi rapporti perché i detenuti vengono puniti anche se solo salutano con un "buongiorno" il dirimpettaio di cella. C’è il divieto di parola, anche la più innocente. Un’altra denuncia fatta dai ristretti al 41-bis è che il magistrato di Sorveglianza non fissa mai i reclami. Gli ergastolani. Il carcere di Sulmona ospita 200 ergastolani su una popolazione totale di 439 detenuti. Sono un fiume in piena nella loro disperazione; siamo accolti da un "qui non funziona niente" e sicuramente incide fortemente il fatto che è un carcere costruito per accogliere 300 detenuti. Per quanta disponibilità ci sia da parte del direttore è letteralmente impossibile con i numeri e le risorse in campo assicurare un pena legale ai ristretti. Riportiamo alcune frasi indicative raccolte nel corso della visita. "Chi fa lo scopino prende 35 euro al mese". "È possibile telefonare ai nostri avvocati solo di mattina, quando gli avvocati nei loro studi non ci sono perché stanno in udienza". "Se chiamiamo l’educatrice, le nostre istanze sono considerate minacce". "In tre anni l’educatrice mi ha chiamato una volta". "Non esistono i corsi formativi". "È aumentata la repressione: mi mandano in doccia accompagnato da un agente". "Impossibile usare il pc in cella". "Nelle docce, per quanto sono fatiscenti, rischiamo di prendere infezioni". La definizione più pregnante della Casa di Lavoro di Vasto l’ha data un internato: "Questa non è una casa di lavoro, ma una casa di disoccupazione". Chiudo con una nota positiva e riguarda il carcere di Pescara dove c’è un direttore capace e impegnato a collegare l’istituto con la società esterna. Il Dottor Franco Pettinelli organizza costantemente corsi professionali oltre che lavorazioni, come quella della produzione di calzature infortunistiche, che insegnano un lavoro ai detenuti, un lavoro che potranno fare anche quando l’esperienza del carcere sarà finalmente conclusa. Lecce: detenuto trovato cadavere in cella, la Procura dispone l’autopsia stabiachannel.it, 16 aprile 2016 Francesco D’Assisi Di Lieto, 46enne di Castellamare di Stabia, è stato trovato morto in cella. L’uomo era detenuto dal mese scorso nel carcere di Borgo San Nicola, a Lecce. A scoprire il suo corpo privo di vita sono stati i secondi del penitenziario. Nessun segno di violenza è stato rinvenuto sul suo corpo. La Procura di Lecce ha comunque deciso di aprire un’inchiesta e procedere a chiarire quanto accaduto. Per questo è stata disposta l’autopsia del corpo di Di Lieto, che dovrebbe essere effettuata lunedì mattina dal medico legale Ermenegildo Colosimo. Il 46enne stabiese era arrivato nel carcere pugliese alla fine di marzo, per scontare una condanna legata a reati di spaccio. La morte risale a questa mattina, poco prima delle 10. I secondini hanno eseguito una perquisizione nella cella in cui era detenuto Di Lieto, senza trovare nulla di sospetto. Con ogni probabilità il detenuto, con problemi pregressi di salute, è morto per cause naturali. Per una disposizione ministeriale, tuttavia, ogni morte in carcere deve essere approfondita per fugare qualsiasi dubbio. Ecco perché la salma di Di Lieto è stata trasferita presso la camera mortuaria dell’ospedale "Vito Fazzi" di Lecce, in attesa dell’esame autoptico. Il 46enne fu arrestato l’ultima volta nel 2014, dopo aver scippato la borsa ad un’anziana per le strade di Castellammare. Tra i suoi precedenti, oltre a piccoli episodi di spaccio, c’è anche una estorsione commessa nel 2009 ai danni del titolare di una farmacia stabiese. Il pregiudicato si recò nel negozio di via Napoli e pretese il pagamento di una somma di denaro. Appena 10 euro, minacciando la distruzione di tutte le vetrine. Gorizia: il caso della sezione per detenuti gay finisce in Senato Messaggero Veneto, 16 aprile 2016 La vicenda della sezione protetta dedicata ai detenuti omosessuali, attivata ad agosto nel carcere di Gorizia, è approdata ieri in Parlamento. I senatori del Partito democratico Carlo Pegorer e Sergio Lo Giudice hanno depositato un’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Il carcere di Gorizia - indicano i due esponenti dem - ha predisposto una sezione dedicata ai soli detenuti omosessuali. Le tre persone ospitate in questi spazi riservati non sono nelle condizioni di seguire le attività di rieducazione a causa di una carenza di organico. Abbiamo chiesto con un’interrogazione al ministro della giustizia di affrontare questa situazione, inedita in Italia, e se non ritiene di adottare delle nuove linee guida per il trattamento dei detenuti omosessuali e transessuali anche attraverso la collaborazione delle associazioni". I senatori del Pd non credono "che lo "smistamento" dei detenuti sia una risposta adeguata". "Apprezziamo gli atti che hanno portato a una riduzione del sovraffollamento e lo sforzo di analisi degli Stati generali dell’esecuzione penale che ormai volgono al termine - concludono Pegorer e Lo Giudice - e confidiamo che questa vicenda sia di spunto per arricchire l’agenda dei provvedimenti volti a umanizzare i nostri istituti di pena". La sezione è stata attivata a metà agosto su indicazione del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, che ha competenza sulle carceri di Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige. Il circuito dedicato agli omosessuali è l’unica struttura nel suo genere aperta nel territorio della circoscrizione ed è tra le poche attive in Italia. Il primo detenuto gay aveva varcato la soglia della cella ricavata al primo piano dell’istituto di pena di via Barzellini lo scorso agosto, seguito da altri tre arrivi: uno degli ospiti, nel frattempo, ha lasciato la struttura circondariale a gennaio, dopo la concessione degli arresti domiciliari. Gli spazi riservati ai detenuti omosessuali si trovano al primo piano del penitenziario del capoluogo isontino, nell’ala che ha recentemente subito un intervento di ristrutturazione. Gorizia: sezione gay in carcere, visita e critiche di Lauri e Roveredo di Vincenzo Compagnone Messaggero Veneto, 16 aprile 2016 Il capogruppo di Sel in Consiglio regionale, Giulio Lauri, e il garante dei detenuti del Fvg, Pino Roveredo, hanno effettuato ieri un sopralluogo nel carcere di Gorizia, per verificare le condizioni a cui sono sottoposti i reclusi nella sezione dedicata proprio ai detenuti omosessuali. "La sezione omosessuali è stata istituita senza però che venisse dotata delle necessarie strutture né rafforzando l’organico - racconta Lauri - nonostante un lotto di interventi di recupero strutturale dell’edificio già ultimata e la seconda a data da definirsi. C’è poi una forte carenza di personale a fronte di una popolazione carceraria composta da 58 persone. Turni di servizio accorpati, agenti in età di pensionamento non possono garantire la piena efficienza del servizio. La condizione delle persone che vivono in questa zona speciale è ulteriormente aggravata dall’impossibilità, per mancanza di spazi adeguati e di personale di sorveglianza, di accedere a tutte le attività riabilitative, didattiche e lavorative come gli altri detenuti". Durante il colloquio con Lauri e Roveredo, un giovane romeno ha dichiarato di non essere omosessuale, che ha firmato un’istanza di protezione senza però sapere che essa conteneva anche la richiesta di essere separato dai detenuti eterosessuali, e che ora per questo vuole andare via di là. "Ci ha mostrato le braccia lesionate da numerosi tagli, ci ha detto di aver ingoiato lamette, ci ha chiesto aiuto", ha detto Lauri, che ha annunciato di voler informare della vicenda il governo. "Sono rimasto impressionato dallo stato di totale isolamento in cui si trovano questi tre detenuti. I programmi di protezione vanno costruiti ascoltando i garanti, il mondo dell’associazionismo carcerario che ben conoscono le dinamiche interne", ha affermato Roveredo, al termine della visita. Napoli: detenuto in permesso ucciso, arrestati esponenti clan Lo Russo Corriere Quotidiano, 16 aprile 2016 "Vecchi rancori" che Carlo Lo Russo nutriva nei confronti della vittima. Sarebbe questo, secondo le prime acquisizioni investigative, il movente dell’omicidio di Pasquale Izzi, ucciso in via Janfolla a Napoli lo scorso 29 marzo mentre era in permesso per Pasqua e si apprestava a tornare al carcere di Avellino, dove era detenuto. La Squadra Mobile di Napoli e il servizio centrale operativo della Polizia di Stato, insieme a personale della compagnia Vomero dei Carabinieri, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Napoli a carico di 4 persone ritenute esponenti del clan camorristico Lo Russo, ritenuti responsabili di omicidio premeditato, detenzione e porto illegale di arma da fuoco, reati aggravati dall’agevolazione al clan camorristico. Le indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli hanno portato all’esecuzione del provvedimento cautelare nei confronti di Carlo Lo Russo, 49 anni, ritenuto attuale reggente del clan e mandante dell’omicidio, attivo anche in fase esecutiva del delitto, sua moglie Anna Serino, 46 anni, che avrebbe offerto attività di supporto agli esecutori materiali, Luigi Cutarelli, 21 anni, ritenuto esecutore materiale e che avrebbe esploso i numerosi colpi d’arma da fuoco che hanno ucciso Izzi, e Mariano Torre, 28enne che avrebbe affiancato Cutarelli localizzando la vittima e offrendo appoggio e copertura. Milano: a San Vittore detenuto appicca il fuoco in cella. Sappe "evitata una tragedia" Corriere della Sera, 16 aprile 2016 Il 20enne aveva già dato segnali di autolesionismo, per protestare contro la propria detenzione. La polizia penitenziaria è intervenuta mettendo in salvo il giovane, il suo compagno di cella e altri quaranta carcerati. Un detenuto, 20enne di origine marocchina, giovedì sera ha appiccato il fuoco in una cella del reparto penale dedicato ai ragazzi dai 19 ai 25 anni nel carcere di San Vittore. La polizia penitenziaria è intervenuta mettendo in salvo sia il giovane, conosciuto nella struttura carceraria per episodi di autolesionismo che - spiegano dal carcere - utilizza come gesti di protesta contro la sua carcerazione, sia il suo compagno di cella, oltre ad altri 40 detenuti. "Si è sfiorata la tragedia. Siamo abituati a gesti eroici degli agenti, non sempre però riusciamo a evitare il peggio. Giovedì sera ci siamo riusciti, ma è tempo di riflettere sulla condizione di emergenza in cui la polizia penitenziaria è costretta a lavorare ogni giorno", ha dichiarato Alfonso Greco, segretario regionale del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "Fiamme e fumo ovunque" - "La sconsiderata protesta del detenuto ha messo a repentaglio la vita degli altri carcerati e anche della polizia penitenziaria. Le fiamme hanno bruciato ciò quanto era all’interno della cella e il fumo era ovunque", ha spiegato Nicolino La Bella, vice segretario regionale del Sappe. "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. Poteva essere una tragedia", ha aggiunto La Bella, sottolineando come l’incendio sventato nel carcere di Milano San Vittore "è sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la polizia penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Gli episodi di autolesionismo - Anche Donato Capece, segretario generale del Sappe, in una nota ha rivolto "solidarietà e vicinanza al personale di polizia penitenziaria di San Vittore, che ha risolto in maniera professionale e impeccabile il grave evento critico", giudicando la condotta del detenuto che ha provocato l’incendio "irresponsabile e gravissima". Secondo i dati del sindacato nel 2015 nelle carceri italiane si contano 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dagli agenti della penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti. Solo in Lombardia, riferisce il Sappe, si contano 754 atti di autolesionismo, 81 tentati suicidi, 4 morti per suicidio e 8 per cause naturali, 562 colluttazione e 118 ferimenti. "A Cremona si conta il più alto numero di atti di autolesionismo - spiega Capece - con 145 i detenuti che si sono lesionati il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo stesso. E sempre a Cremona si sono verificati più tentati suicidi". Orvieto (Pg): la Primavera fuori e dentro, l’arte entra nel carcere orvietonews.it, 16 aprile 2016 Il suo colore preferito è il giallo. Quello del sole, che ogni mattina cerca. Nel cielo e nelle persone, che guarda senza pregiudizi, né gerarchie sociali. "La luce - dice - è vita. E noi siamo fatti di acqua, da non far ristagnare ma lasciare fluire, mettere in circolo". Lui l’ha fatto insieme ai detenuti della Casa di Reclusione di Orvieto trasformata con decreto in Istituto a Custodia Attenuata. Una decina, rispetto al centinaio che lì segue percorsi di rieducazione. Insieme a loro, l’estate scorsa, Salvatore Ravo ha ricoperto di azzurro le pareti interne del muro di cinta della struttura di Via Roma. Duecento metri, dove ora nuotano delfini inseguendo il faro della libertà. Artista senza confini - ha vissuto in Spagna, Inghilterra, Scozia, India, Francia, Cuba, esponendo quadri in musei e collezioni private, tenendo seminari sul colore, laboratori con adulti e bambini (uno, attualmente in corso nelle scuole di Orvieto), performance work in progress con musicisti, collaborazioni con numerosi festival e poi le copertine per i dischi di Paolo Fresu - ha dato ossigeno a chi trascorre tempi dilatati in uno spazio costipato. Fogli bianchi, matite e ali a chi ha silenzi da far parlare, debolezza e rabbia verso una vita da trasformare in energia per il cambiamento. Ognuno è lì per un motivo. Conoscerlo, a lui non interessa se pregiudica il lavoro che andrà a fare con loro. Hanno età, etnia e storie differenti. Ma tutti condividono una condizione presente e un percorso formativo di educazione al colore e all’ascolto. Di sé stessi, prima di tutto. Il colore, fuori e dentro. E poi la musica, quella del sassofonista Francesco Pecorari coinvolto nel progetto promosso dall’associazione culturale Aìtia - nata nel 1997 ed impegnata su più fronti, non ultimo quello del volontariato sociale - accolto con sensibilità e collaborazione dall’amministrazione penitenziaria. Dirigenza, direzione e personale. "I primi ad essere scettici o un po’ diffidenti - confida il maestro - erano proprio i detenuti. Poi, man mano, ho sentito crescere il loro entusiasmo. Ad aprile presenteremo il numero 7 della rivista letteraria Mastro Pulce, altro progetto dall’associazione, che contiene un racconto e un’illustrazione realizzati da due di loro". È con questo spirito che nell’ambito del Laboratorio di Pittura ha preso forma la grande opera pittorica andata ad ingentilire il cosiddetto "Spazio Verde", destinato a diventare un luogo accogliente per l’incontro di detenuti e familiari. Nell’idea che il reinserimento sociale di un individuo non possa prescindere dall’apporto/supporto della famiglia. In prospettiva, c’è la realizzazione delle quattro stagioni con una cronologia sovvertita. Si è partiti, infatti, dall’Estate e, in circa due mesi, su una superficie di almeno altri 250 metri in più è fiorita la Primavera. Un paesaggio, pitturato in un corridoio interno, dove continua a dominare l’acqua perché "aiuta il fluire di sé, quella leggerezza che consente una visione diversa del mondo". "Il colore come la musica - spiega Ravo - si serve di una scorciatoia per suscitare emozioni, interagisce con l’ambiente e contribuisce a un miglioramento psicofisico. Fonte d’ispirazione, gli elementi della natura. Tempo, spazio e coscienza per arrivare al sé. Quello che veste di luce la parete nuda è il risultato di un percorso introspettivo che porta fuori quello che è dentro. E da dentro offre gli strumenti per vivere il fuori. È nell’assunzione della consapevolezza che, pur nella detenzione, si agevola una condizione di benessere e si promuovono i rapporti affettivi. Tracciare un segno porta a sentire oltre ogni limite. E anche il carcere, allora, può farsi luogo di ricerca, di scoperta di un mondo dentro e di spazi infiniti da ri-costruire attraverso immagini e pensieri. La libertà dell’immaginazione è sognare qualcosa che nessuno può portare via. Per pochi secondi, le sbarre non ci sono e nemmeno i vecchi modelli, quelli che appartengono ai pregiudizi. Ho sempre creduto che in ogni essere umano esiste un tesoro e questo percorso di crescita l’ho fatto anche io, insieme a loro". Francesco dei migranti di Mariano Giustino Il Manifesto, 16 aprile 2016 Bergoglio sbarca a Lesbo, dopo un incontro con il premier Tsipras, per invocare misericordia. Negata dall’accordo Ue-Turchia. Il Papa oggi nell’isola diventata la Lampedusa greca, dove sono stati sgombrati i campi autogestiti e l’hotspot sembra un carcere con garitte e fili spinati, vietato alla stampa. Papa Francesco questa mattina arriva a Lesbo in segno concreto di vicinanza a migranti e rifugiati. Appare, il suo, un gesto che interpella le coscienze degli europei e della comunità internazionale su questa immane tragedia umanitaria. Ancora una volta l’obiettivo è vincere quell’"indifferenza nemica della pace" che tante volte Bergoglio ha denunciato". "Certe guerre, a volte si ricordano solo quando bussano alla porta di casa", parole sue. Dopo un breve incontro privato all’aeroporto di Mitilene con il primo ministro greco Alexis Tsipras, assieme al patriarca ecumenico Bartolomeo, e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Ieronymos, sarà accolto da 3.060 rifugiati nel campo principale di Moria. Questo campo, prima dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sul rinvio in Turchia dei profughi che saranno giunti sulle isole greche a partire dal 20 marzo scorso, era un centro dove i migranti venivano identificati che poi trasferiti sulle navi per essere portati ad Atene e di lì avrebbero potuto proseguire il loro viaggio in Europa. Adesso questa struttura è diventata un vero e proprio centro di detenzione, con un doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e torrette di guardia sorvegliate da soldati. Ai cancelli d’ingresso chiedendo informazioni per poter visitare la struttura un funzionario risponde: "Forbidden!", vietato, in tedesco. I media non possono entrare nel campo di Moria, sottoposto a forti restrizioni, e i numerosi volontari presenti sull’isola sono testimoni dell’impatto devastante che l’accordo tra Ue e Turchia sta avendo su uomini, donne e bambini che versano in condizioni di grande vulnerabilità: detenuti, secondo loro, in modo arbitrario. Amnesty International denuncia che è necessario e urgente "cambiare questo stato di cose che rappresenta una vergogna per l’Europa". I rifugiati, secondo questa organizzazione umanitaria, sono tenuti in condizioni agghiaccianti. La struttura è sovraffollata, i servizi essenziali sono carenti, i migranti lasciati senza notizie sul loro destino, angosciati circa il futuro che li attende. Molti ignorano la procedura da seguire per la richiesta d’asilo e temono di essere ricacciati in Turchia. Afgani e pachistani, considerati "migranti economici", scappati con le loro famiglie dall’orrore della violenza fondamentalista, temono il ritorno forzato verso i paesi di origine. Lo scorso ottobre, sulla stessa collina dove sorge la struttura principale di Moria, era nato un campo di transito interamente autogestito da volontari provenienti da diversi paesi del mondo, denominato "Better days for Moria" (Giorni migliori per Moria) e immerso in una sconfinata distesa di ulivi. Si era formato un comitato internazionale che provvedeva 24 ore al giorno alle esigenze di base dei rifugiati per sopperire alle carenze della struttura principale. In questo campo erano attivi fino a poche settimane fa una mensa, un’area di gioco per i bambini, un punto di primo soccorso e una moschea. A distanza di due mesi, tornando in questo luogo, si trovano solo alcuni volontari, il campo ormai deserto, la struttura non più esistente. I volontari spiegano che dopo il 20 marzo tutti i migranti sono stati trasferiti nel campo principale. La struttura di Moria è dunque al collasso, come raccontano alcuni rifugiati pachistani usciti di lì pochi giorni fa e incontrati al porto nel campo di "No Border Kitchen", allestito da un altro gruppo di attivisti internazionali. Nabil, fuggito in Turchia da Lahore e giunto a Lesbo tre settimane fa su un gommone con a bordo 65 rifugiati, suoi connazionali, racconta che le condizioni a Moria si sono gravemente deteriorate dopo il 20 marzo. Lì sono rinchiuse oltre 3 mila persone mentre la capacità massima sarebbe di 1700 individui. "Molti dormono all’addiaccio, i servizi igienici e l’offerta di cibo sono insufficienti. L’ansia e la frustrazione sono diffuse e crescenti", dice Nabil, aggiungendo: "Solo oggi un gruppo di pachistani ha interrotto uno sciopero della fame che durava da una settimana per chiedere che fossero distribuite a tutti adeguate razioni di cibo". "Due miei amici, miei concittadini, si sono suicidati il 4 aprile, perché avevano appreso di essere tra coloro che sarebbero dovuti tornare in Turchia, per poi essere rimpatriati perché considerati migranti economici", racconta con le lacrime agli occhi. Ora l’unica speranza che qualcosa cambi, anche per lui, che gli accende lo sguardo è la notizia dell’arrivo del papa. "I migranti non sono dei nemici" di Luca Kocci Il Manifesto, 16 aprile 2016 Quello di oggi a Lesbo è uno dei viaggi più brevi e nello stesso tempo più importanti di papa Francesco. Poco meno di cinque ore nell’isola dell’Egeo in cui nacquero la poetessa Saffo e il poeta Alceo e che oggi si presenta come una delle frontiere più avanzate del Mediterraneo. Non più il mare crocevia dei popoli narrato dallo storico Fernand Braudel, ma il mare fossato di separazione voluto dai governatori della fortezza Europa. Quando non il mare tomba dei migranti, come ricordato dallo stesso Francesco durante la Via Crucis di quest’anno al Colosseo. In Vaticano, nonostante le smentite obbligatorie, si ha ben presente il significato politico della visita del papa a Lesbo. Ieri, presentando il viaggio, il direttore della sala stampa della Santa sede, padre Federico Lombardi, ha precisato che si tratta di una visita "di natura strettamente umanitaria ed ecumenica", che "non ha direttamente nessun risvolto di prese di posizione politiche". Poi però ha parlato di "una situazione in cui ci sono tante persone che soffrono di problemi le cui soluzioni non sono state trovate. Questo mi sembra che sia assolutamente evidente. Il fatto stesso che ci sia una situazione seria e grave di carattere umanitario da richiamare all’attenzione, significa che c’è ancora molto da fare per trovare soluzioni degne dell’uomo". E il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del Consiglio dei cardinali che sta mettendo a punto, insieme al papa, la riforma della Curia romana, a margine della Conferenza per il 25.mo della Centesimus Annus promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali - a cui partecipano importanti leader socialisti di tutto il mondo, come il presidente boliviano Evo Morales e il candidato alle presidenziali Usa Bernie Sanders - ha detto alla Radio Vaticana: "Nel momento in cui alcuni Paesi cercano di chiudersi, il papa "si apre" e si apre fino ad arrivare a Lesbo", anche "per far riflettere tutta la comunità sul fatto che i rifugiati e i migranti non sono dei nemici" e che "i muri sono la negazione della solidarietà". È più esplicito mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, l’organismo pastorale per le migrazioni della Cei: "Questa visita assume un significato politico molto importante. Nel momento in cui crescono i muri, c’è una chiusura, c’è l’esternalizzazione verso la Turchia della protezione internazionale da parte dell’Europa, il viaggio diventa una critica forte a questa politica perché ritrovi la solidarietà e l’attenzione a un diritto fondamentale su cui si poggia la democrazia". Il papa atterrerà all’aeroporto di Mytilene poco dopo le 10 di questa mattina. Ad accoglierlo troverà il premier greco Alexis Tsipras - con cui avrà un breve incontro privato - ma anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, e l’arcivescovo della Chiesa ortodossa di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos. Per questo, la visita di Francesco a Lesbo riveste anche un forte significato ecumenico. Tutte le attività in programma, infatti, verranno svolte insieme da tutti e tre i capi religiosi: la visita al campo profughi di Moria (che ospita circa 2.500 richiedenti asilo), la firma di una dichiarazione congiunta, la memoria e la preghiera per le vittime delle migrazioni al porto. Alle 15 il rientro a Roma. Ue: le difficoltà dello scambio di informazioni sul terrorismo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 16 aprile 2016 Attentati. Dimissioni della ministra della Mobilità belga, ha "trascurato" la sicurezza a Zaventem. Il Pnr approvato dall’Europarlamento, lunedì i ministri degli Interni discutono di cooperazione dei servizi. La Francia resta nel mirino dei terroristi. La ministra belga della Mobilità (Trasporti), Jacqueline Galant, si è dimessa, tre settimane dopo gli attentati di Bruxelles. Era accusata di "negligenza", per aver ignorato (e mentito) su un rapporto della Commissione europea, che metteva in evidenza la mancanza di vigilanza dell’Autorità civile sulla sicurezza degli aeroporti. Nell’attacco allo scalo di Zaventem il 22 marzo sono morte 17 persone, prima del massacro alla stazione Maelbeek, che ha causato altre numerose vittime. Galant, che appartiene allo stesso partito conservatore del primo ministro Charles Michel, aveva ignorato le messe in guardia di Bruxelles sulle "mancanze" di fronte al terrorismo. Charles Michel ha dovuto accettare queste dimissioni, che mettono in difficoltà l’equilibrio tra francofoni e fiamminghi, mentre due giorni dopo gli attentati aveva respinto quelle dei ministri degli Interni e della Giustizia. Al di là della confusione nel governo belga, il caso Galant mette una volta di più in evidenza le difficoltà di comunicazione che esistono in Europa di fronte ai rischi terroristici. Tutti gli esperti sottolineano che lo scambio di informazioni tra servizi dei vari paesi sarebbe necessario, ma la cooperazione è bassa. Di questo discuteranno i ministri degli Interni della Ue, nella riunione di lunedì prossimo. Ma molte reticenze persistono, molti paesi frenano e non sono disposti a condividere le informazioni. Invece di prendere decisioni su una maggiore collaborazione dei servizi, al Parlamento europeo è passato a larga maggioranza, dopo vari anni di polemiche, il Passager Name Record (Pnr), cioè la schedatura di tutti i passeggeri aerei che partono o arrivano nella Ue. Dopo gli attentati di gennaio 2015 e ancora di più dopo quelli del 13 novembre, la Francia aveva insistito con particolare accanimento a favore del Pnr. Questo sistema entrerà in vigore nel 2018. Verrà raccolta tutta una serie di dati sui viaggiatori: identità, numero della carta di credito, luogo di soggiorno, itinerario e, persino, preferenze alimentari. Una massa enorme di informazioni che lascia scettici gli oppositori di un sistema importato dagli Usa e che rischia di ledere i diritti fondamentali alla privacy. Gli oppositori della prima ora - i social-democratici, i Verdi e la Gue - hanno ottenuto un compromesso, prima del voto di giovedì: l’approvazione concomitante di nuove norme di protezione della vita privata, cioè un inquadramento dell’uso che gli stati potranno fare delle informazioni del Pnr, raccolte dalle compagnie aeree. Sono ancora in discussione, inoltre, le regole per un trasferimento dei dati verso gli Usa, che fanno pressione, e la loro utilizzazione per ragioni di "sicurezza" (in Europa c’è prudenza, dopo le rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio Usa in Europa con l’operazione Prism). L’Europarlamento, dove sono stati presentati ben 3999 emendamenti (un record), ha approvato un regolamento generale sulla protezione dei dati e una direttiva per il loro utilizzo da parte di polizia e giustizia. Per l’eurodeputata Karima Dell (Verdi), il Pnr è "il via libera alla sorveglianza di massa dei cittadini", per Brigitt Sippel (Spd) il sistema "non è efficace e non conforme ai diritti fondamentali". La destra ha usato argomenti faziosi per farlo passare, Alain Lamassoure (Ppe) ha dovuto chiedere scusa per aver affermato, riferendosi agli attentati di Parigi e Bruxelles: "ci sono voluti così tanti morti per arrivare al voto". Il Pnr non sarebbe servito a individuare i terroristi, né a Parigi né a Bruxelles. La Francia aspetta ancora l’estradizione di Salah Abdelslam, il decimo uomo degli attentati di Parigi, in prigione in Belgio. Mohamed Abrini, arrestato l’8 marzo in Belgio, sospettato di aver preso parte anche agli attentati di Parigi oltre che di essere l’"uomo con il cappello" di Zaventem, ha scelto la stessa linea di difesa di Abdeslam e di Osama Krayem, con passaporto svedese, il secondo uomo della stazione Maelbeek: tutti affermano di aver "fatto marcia indietro all’ultimo momento", negando l’implicazione nei massacri. L’inchiesta ha messo in luce che "l’obiettivo del gruppo terrorista era di colpire di nuovo la Francia". Le autorità hanno comunicato che 1286 siti Internet legati al terrorismo sono stati bloccati in Francia negli ultimi mesi. A Birmingham, in Gran Bretagna, ieri ci sono stati 5 arresti legati agli attentati di Parigi e Bruxelles. "Non dimentichiamo Regeni". Mattarella e il peso di un impegno istituzionale di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2016 Nella difficile trattativa che ha impegnato il Governo italiano e quello egiziano non era mai intervenuto. Aveva seguito gli sviluppi, era stato informato ma ieri ha deciso di rompere il silenzio nonostante le tensioni internazionali. Parla di Giulio Regeni, di un destino spezzato, della promessa di non dimenticare che non appare solo come un atto di umanità ma suona come un impegno istituzionale. Sergio Mattarella ha voluto scrivere il suo messaggio di auguri all’apertura del Meeting nazionale delle scuole per la pace, apprezzando proprio il fatto che quest’anno - ad Assisi- si celebra il ricordo di Giulio Regeni. "Un apprezzamento particolare intendo esprimere per la scelta di dedicare a Giulio l’edizione di quest’anno del vostro meeting. Non vogliamo e non possiamo dimenticare la sua passione e la sua vita orribilmente spezzata. Fare memoria è un atto di pace che, sono convinto, aiuterà queste giornate di Assisi a produrre nuovi frutti". E del resto la breve vita di Giulio è stata così coerente con le giornate che si aprono, così in sintonia con il bisogno di pace, libertà e rispetto dei diritti. Il messaggio di Mattarella arriva in una giornata in cui si incrociano altri due fatti: la dura presa di posizione del New York Times e la notizia che la presidenza della Commissione Diritti umani del Parlamento europeo, su proposta degli europarlamentari del Pd, Patrizia Toia e Antonio Panzeri, ha deciso di invitare i familiari di Giulio Regeni all’Europarlamento. E in questa giornata in cui l’atto d’accusa del quotidiano americano risuona nelle cancellerie europee - "Il caso Regeni ha costretto l’Italia a riconsiderare i propri rapporti con l’Egitto ma c’è stato - scrive il Nyt - un vergognoso silenzio dalla Francia: Hollande, andrà al Cairo lunedì per firmare un contratto dai miliardi di dollari in armi" - anche la voce di Mattarella assume il peso di un impegno istituzionale per fare giustizia sulla morte di Giulio. E infatti nel suo messaggio al Meeting di Assisi parla di valori autentici "che ci sollecitano a rompere l’involucro dell’indifferenza" e parla anche di "cooperazione tra i popoli, della tutela dei diritti fondamentali, della giustizia". Insomma, questi giorni sono diventati l’occasione giusta per Mattarella di dimostrare l’attenzione particolare che dedica al caso Regeni. Ma ieri, l’altra novità che arrivava dal Quirinale ha riguardato l’agenda degli appuntamenti: mercoledì prossimo è stato fissato l’incontro con i vertici parlamentari dei 5 Stelle e probabilmente parteciperanno anche Grillo e Di Maio. Gli esponenti del Movimento, nella lettera spedita al Colle, chiedevano che il capo dello Stato esercitasse una pressione per cambiare l’ordine dei lavori della Camera: cioè posticipare il voto della riforma costituzionale (ormai già votata martedì scorso) e aspettare che prima fossero votate le mozioni di sfiducia al Senato. Ma come già altre volte hanno fatto notare i collaboratori di Mattarella, il capo dello Stato non dispone di alcun potere di interferenza sui lavori parlamentari e, dunque, una sua iniziativa volta a impedire che il Parlamento deliberi su una legge in discussione violerebbe la Costituzione. Belgio: troppi jihadisti in carcere, il sistema va in tilt di Antonietta Demurtas lettera43.it, 16 aprile 2016 Le carceri belghe non riescono a ospitare tutti i terroristi. Sindacati in allarme: mancano strutture e competenze adatte. Dopo gli attacchi del 22 marzo che hanno colpito Bruxelles, il Belgio più che il Paese del surrealismo sembra quello dell’allarmismo. Ogni giorno qualcuno denuncia un pericolo, una mancanza, un errore, un’inefficienza. Così oltre alla bufera che ha colpito la ministra dimissionaria dei Trasporti belga, Jacqueline Galant, dopo gli scioperi dei controlllori di volo di Zaventem e la pubblicazione di due rapporti riservati della Commissione Ue - che nel 2011 e 2015 hanno rilevato "gravi carenze" nella sicurezza degli aeroporti belgi - ignorati dal governo, ora a preoccupare sono le denunce che da un paio di giorni arrivano dalle guardie carcerarie: "Nelle prigioni di Bruxelles ci sono troppi jihadisti e il sistema penitenziario belga non è attrezzato per accogliere questo tipo di criminali". Ci sono troppi terroristi per esempio nella prigione di Forest, dove è stato rinchiuso Mohamed Abrini - "l’uomo col cappello" dell’attentato all’aeroporto di Zaventem - e dove si trova anche Osama Krayem, il ‘quarto uomò visto con Khalid El Bakraoui nella metro poco prima dell’esplosione a Maelbeek. "C’è un sovraccarico di lavoro, il personale non è formato e la prigione non è adatta", ha spiegato Cosimo Agostino, delegato del sindacato Csgp e guardia carceraria a Forest, alla tivù pubblica Rtbf. Nella prigione, costruita nel 1910 e dotata di una sezione psichiatrica per gli internati, il 13 aprile erano già 12 i carcerati sospettati di legami con gli autori degli attacchi del 22 marzo. Mohamed Bercha, delegato del sindacato Csc-Servizio pubblico a Forest, ha denunciato al quotidiano belga Le Soir la mancanza di "celle speciali, quindi (i sospetti terroristi) non vengono tenuti separati" e solo uno di loro per ora è stato trasferito nel carcere di St.Gilles, una struttura ancora più piccola. "Non abbiamo né le celle né il personale per far fronte alla situazione" - Così, per quanto il governo belga abbia adottato una politica che prevede l’isolamento per i detenuti sospettati di terrorismo al fine di limitare la diffusione della radicalizzazione, a Forest non ci sono le strutture capaci di accogliere nel modo giusto queso tipo di prigionieri. Il rischio è quindi di favorire anche un effetto domino pericoloso per gli altri detenuti. "Fossero state quattro persone ci saremmo riusciti ma così sono troppi", ha aggiunto Bercha, "non abbiamo né le celle né il personale per far fronte alla situazione". E a quanto pare non sembrano essere meglio attrezzati neanche gli altri istituti penitenziari. In Belgio ci sono 32 carceri: 16 nelle Fiandre, 14 in Vallonia e due a Bruxelles, dove la capacità ricettiva per questo tipo di prigionieri è già al massimo. E in questi giorni altre due persone, Smail e Ibrahim Farisi - fratelli di nazionalità belga, sono state arrestate con l’accusa di coinvolgimento negli attentati di Bruxelles. I due sono sospettati di avere legami con Osama Krayem e l’appartamento Kazernenlaan in Etterbeek usato anche da Khalid El Bakraoui, l’attentatore della metropolitana. Confermato l’arresto anche per il ruandese Hervé B.M e il belga Bilal El Makhoukhi. Le manette sono scattate durante gli ultimi blitz da Forest, Molenbeek e Schaerbeek. E l’indagine è tutt’altro che finita. Insomma, gli arresti rischiano di aumentare. Per questo i sindacati delle diverse prigioni hanno lanciato l’allarme. Nel penitenziario di Ittre, prigione di massima sicurezza tra le più nuove (è stata aperta nel 2002), secondo la responsabile Giustizia del Csc-Sp Laurence Clamart, è stata realizzata un’ala speciale per i ‘radicalizzatì che non possono entrare in contatto con altri detenuti ma "sembra che possano comunicare tra loro". Qualche problema c’è anche nel carcere di Bruges, uno dei più grandi del Belgio, aperto nel 1991, che contiene una sezione individuale di massima sicurezza, dove è detenuto sotto alta sorveglianza Salah Abdeslam. Nonostante la massima sicurezza, infatti, c’è già stata una fuga di notizie riguardante proprio il detenuto numero uno: la foto di Salah dietro le sbarre, con barba e capelli sfatti, è stata pubblicata su tutti i media. L’amministrazione ha subito aperto un’indagine interna. L’obiettivo è capire se sia stata la famiglia di Salah a diffondere la foto al quotidiano fiammingo Het Niewsblad o, caso più grave, il personale del penitenziario. "Se emerge che lo scatto è stato preso e diffuso da un dipendente della prigione di Bruges, questo rischia ovviamente il licenziamento", ha avvertito la portavoce dell’amministrazione penitenziaria Kathleen Van De Vijver. Il caso opposto del sistema penitenziario saudita - Per ora a rischiare di implodere è tutto il sistema carcerario belga, che non pare dotato, oltre che delle strutture, neanche delle competenze necessarie. Problemi che non sembrano avere invece le prigioni per jihadisti dell’Arabia Saudita, che contano oltre 5 mila detenuti accusati di reati connessi al terrorismo. Secondo un reportage del New York Times fatto ad al-Hàir, prigione di massima sicurezza a Sud di Riad, non solo i carcerati hanno la carta magnetica per entrare nella loro stanza, che di solito condividono con massimo cinque persone, ma possono anche dormire in suite di lusso attrezzate con tivù a grande schermo, letti king-size e carta da parati lucida. La chiamano la "Family House" e, a parte la mancanza di finestre e il fatto che si trova all’interno di una delle cinque prigioni di massima sicurezza dell’Arabia Saudita, la casa è progettata per dare ai terroristi che si comportano bene una pausa dalla vita da detenuto e la possibilità di passare qualche tempo con moglie e figli. E, perché no, anche procreare. La struttura è solo per quanti hanno commesso crimini all’estero, considerati come "figli sauditi ingannati" che hanno bisogno di una "correzione" in modo da poter tornare in società come soggetti rieducati. Ad al-Hàir ci sono più di 1.700 detenuti e, oltre ad avere uno stipendio mensile equivalente a circa 400 dollari per le spese di famiglia o di prima necessità, hanno anche la possibilità di avere un extra in caso si sposi un parente, per il regalo di matrimonio, riporta il New York Times: sono 2.666 i dollari a disposizione. C’è poi anche un centro per la consulenza e l’assistenza con un programma di riforme gestito da psicologi e funzionari religiosi, che cercano di deradicalizzare i detenuti, insegnando loro "il pensiero della corretta Sharia", come lo definisce Nasser al-Ajmi. Lui è uno psicologo del Centro che valuta subito i detenuti al loro arrivo, per identificare i fattori sociali che possono averli portati fuori strada, come la droga o l’alcol, problemi familiari o l’incontro con persone sbagliate. Una rieducazione che non sempre porta i risultati sperati: Yousef al-Sulaiman, un giovane saudita che ha attraversato questo centro due anni fa, si è fatto esplodere all’interno di una moschea usata dalle forze di sicurezza, uccidendo almeno 15 persone. "Qui trattiamo la malattia ideologica, proprio come quando un bambino si ammala e guarisce, la malattia può tornare più tardi", ha detto lo psicologo al-Ajmi, commentando alcuni tentativi falliti del processo di rieducazione dei detenuti. Processo che è previsto anche dalla legge belga Dupont. Il problema è che per ora in Belgio più che rieducarli, gli jihadisti non sanno neanche dove metterli.