Il dovere di insegnare l’etica nelle scuole di Giovanni Valotti Corriere della Sera, 15 aprile 2016 Secondo uno studio dell’Ocse, la corruzione si combatte anche con l’educazione impartita sin da piccoli, sui principi dell’onestà e della buona cittadinanza. È questo il lavoro che bisogna fare in Italia: un Paese rassegnato non ha futuro. L’Italia è il paese della cultura, della creatività, della moda e dell’imprenditorialità. Purtroppo, e sempre più, anche il paese degli scandali. Tutte le analisi internazionali, World Bank e Transparency International tra le più citate, ci restituiscono dati sconfortanti ed in peggioramento circa gli indici di corruzione percepita. Un intreccio inestricabile di interessi tra politica, finanza, impresa e burocrazia sembra aver preso il posto di un agire etico, capace di promuovere e tutelare il bene comune. I danni sono enormi. I costi della corruzione sono stimati in oltre ottocento miliardi di euro, gli investitori stranieri diffidano dell’Italia, le imprese nazionali perdono competitività, il cittadino perde fiducia, i giovani brillanti sempre più costruiscono il loro futuro altrove. Molto si è fatto, anche negli ultimi tempi, per contrastare questi fenomeni. In questa direzione, la costituzione e l’operato dell’Autorità anticorruzione, oltre che normative e controlli sempre più stringenti, sono senz’altro passi avanti necessari ed importanti. Ma non bastano. Un illuminante studio dell’Ocse, Trust in Government, analizzando comparativamente la situazione di 29 Paesi nel mondo ben sintetizza la questione: "Il principale impedimento nel raggiungere elevati standard nel combattere la corruzione risiede nella natura stessa del fenomeno. La corruzione si verifica perché persone corrotte, che sono ben consapevoli del quadro legislativo disegnato per prevenire gli illeciti, sono in grado di pianificare e commettere, restando impuniti, i crimini che leggi e controlli vorrebbero punire". In altri termini, i più grandi esperti di normative anticorruzione sono gli stessi corrotti e corruttori, gli unici davvero interessati ad utilizzarle. Ma ancora più importanti sono le conclusioni di questo studio. Per combattere efficacemente la corruzione bisogna "combinare normative e controlli sempre più stringenti con una solida educazione all’etica e alla moralità. Questa educazione deve iniziare insegnando l’etica della buona cittadinanza nelle famiglie e nelle scuole". E proprio qui sta il punto. C’è una sorta di rassegnazione nel cittadino italiano, provato a dire il vero da tanti anni di rinnovate speranze e grandi delusioni, nel convivere con un Paese difficile da risanare moralmente. Ma un Paese rassegnato, semplicemente, non ha futuro. Ecco allora l’importanza di agire con determinazione per la creazione di una nuova cultura dell’integrità, capace di orientare i comportamenti delle nuove generazioni. Mi ha molto colpito la vicenda di Michele Farina, ex calciatore professionista "reo" di avere smascherato, con una denuncia, il sistema del calcio scommesse in Italia. Posto fine alla sua carriera di calciatore, Michele Farina ricopre oggi il ruolo di Head of integrity nella squadra di calcio inglese dell’Aston Villa. Il suo mestiere consiste nell’insegnare ai ragazzini i valori dello sport e dell’onestà. Mi ha colpito, in particolare, una sua dichiarazione rispetto alla vicenda che lo ha visto protagonista in Italia: "Se io quel giorno ho detto no, è solo perché ero stato educato ad essere onesto". E un italiano onesto ha dovuto emigrare per continuare ad esserlo. Preoccupa il futuro di un Paese che, dopo la fuga dei cervelli, si trova a fronteggiare anche la fuga degli onesti. Non a caso, in Italia il mestiere di Michele Farina non esiste. Non è di certo assimilabile a questo la figura, pur importante, del responsabile anticorruzione, a tutti gli effetti censore piuttosto che educatore. C’è allora un lavoro enorme da fare nel nostro Paese, qualcosa di cui nessuno si sta occupando: insegnare l’onestà. Si inseriscano nei programmi delle scuole elementari, medie e superiori, nei piani di studio delle università, corsi di integrità e buona cittadinanza. Si selezionino e formino gli insegnanti anche sul senso e i principi dell’etica. Si costruiscano, sin da piccoli, i valori che dovranno costituire la guida nei comportamenti del futuro. Si trasmetta alle persone l’importanza e l’orgoglio di un’esistenza integra, rispettosa degli altri, volta anche alla ricerca dell’interesse comune. Si trasmetta anche il senso di vergogna per comportamenti non in linea con il dovere di buona cittadinanza, siano essi la corruzione, l’evasione fiscale, piuttosto che la collusione di interessi. Si illustrino ai bimbi e ai giovani talenti i tanti esempi virtuosi di persone che questi principi quotidianamente applicano. Si favorisca l’incontro con queste persone, perché l’etica si può apprendere solo da chi la pratica. Il politico corrotto tanto quanto l’imprenditore disonesto, si dovrà allora vergognare almeno del giudizio dei propri figli, visto che poco si cura di quello della società. L’Italia è un Paese così ricco di storia e potenzialità da non meritarsi un simile degrado dei costumi. La strada forse è un po’ più lunga di quello che vorremmo, ma se poniamo le basi di una nuova educazione al vivere civile i risultati prima o poi sicuramente arriveranno. Inchiesta di Potenza, nuove accuse dei pm: "il clan assumeva in Eni e Fao" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 aprile 2016 Il ruolo del sottosegretario pd De Filippi. Oggi interrogato l’ammiraglio De Giorgi. Il fascicolo rimane in Basilicata, proseguono gli accertamenti sull’ex ministro Guidi. Raccomandazioni, nomine, nuovi appalti. Nell’inchiesta sugli affari legati al petrolio è il giorno dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Il capo di Stato maggiore della Marina arriverà in procura accompagnato dal suo avvocato Pietro Nocita per difendersi dall’accusa di abuso d’ufficio e traffico d’influenza. Il fascicolo rimane in Basilicata. E dunque vanno avanti gli accertamenti che continuano ad avere tra i protagonisti anche l’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il suo compagno Gianluca Gemelli. Tutti inseriti in un "comitato d’affari" - il "quartierino" nella definizione della stessa Guidi - che cercava di condizionare affari, assunzioni, nomine e progetti di legge. Un "clan" nel quale i magistrati hanno inserito il sottosegretario alla salute Vito De Filippo, accusato di aver "pilotato" alcune assunzioni anche all’Eni e alla Fao. Due giorni fa si è presentato a palazzo di giustizia per rilasciare dichiarazioni spontanee e non è escluso che nei suoi confronti venga chiesta entro breve l’archiviazione. L’assunzione alla Fao - Il 7 luglio 2014 viene registrata dai poliziotti della squadra mobile una telefonata tra il consigliere regionale del Pd Vincenzo Robortella e un amico, Marco Zipparri. Annotano gli investigatori: "La conversazione verte sulla campagna elettorale, e alle varie correnti del Pd (Renzi, Luongo). I due fanno riferimento anche a De Filippo. Robortella afferma che quest’ultimo sta facendo una campagna peggio che in una regionale, al punto che dopo cinque anni è andato pure alla "transumanza" (manifestazione locale lucana). Zipparri afferma che sta facendo la campagna con un piede dentro e l’altro fuori. Da un lato dice che lui è un sottosegretario del governo Renzi, e che quest’ultimo e Delrio lo chiamano tutti i giorni per conoscere lo stato delle cose; dall’altro, però, anziché allinearsi alla corrente Renzi, si allinea con Luongo". La raccomandazione - Poi la parte che riguarda la raccomandazione: "Nel corso della conversazione Marco riferisce a Robortella che la ex presidente del consorzio, Adriana Petruzzi è stata nominata, proprio da De Filippo, come consigliera della Fao, organizzazione internazionale per la fame del mondo, e precisa che l’ha messa nel consiglio così che "...quando va a Roma a trovare la figlia, Adriana ha pure come prendersi il rimborso spese"". Del resto anche il sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, tuttora ai domiciliari, dichiara in una telefonata che "De Filippo "si è rivolto direttamente a De Scalzo dell’Eni (De Scalzi) per far assumere mio figlio, probabilmente lo manderanno a Milano"". Il fascicolo romano - Su tutto questo saranno i magistrati di Potenza a proseguire le verifiche, come si è deciso nella riunione a Roma tra il procuratore capo Pignatone, il collega di Potenza Luigi Gay, l’aggiunto Paolo Ielo, e i sostituti potentini Francesco Basentini e Laura Triassi. Nella capitale si svolgeranno soltanto gli accertamenti sul dossier che sarebbe stato confezionato contro il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, ma non è escluso che nelle prossime settimane la situazione possa cambiare. Oggi si valuterà la posizione di De Giorgi. L’interrogatorio riguarderà i suoi "interventi" per la "Legge Navale" e il "Libro bianco" della Difesa per i quali i magistrati ritengono che sia andato oltre i propri compiti e per questo l’hanno iscritto nel registro degli indagati. Agli atti è stato allegato il dossier spedito da un anonimo ma confezionato con documenti riservati della marina e del ministero della Difesa per accusare l’ammiraglio di aver usato i fondi pubblici per organizzare feste e viaggi, ma anche di aver affidato commesse a società che non avevano i requisiti. Legnini (Csm) sferza i Pm "basta dare ai giornali intercettazioni selvagge" di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2016 In fondo si era capito che ci avrebbe pensato la magistratura. Che la riforma delle intercettazioni avrebbe continuato a galleggiare in Senato e che le circolari diramate dai capi delle Procure più importanti non potevano essere liquidate come eccessi di protagonismo. Da ieri c’è la conferma: a scrivere le nuove norme sugli ascolti sarà il Csm, non il Parlamento. Lo annuncia il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Un politico, certo, che però parla a nome delle toghe. Che si sia arrivati allo snodo decisivo lo si comprende da un particolare passaggio dell’intervento pronunciato ieri da Legnini: "Le frequenti indebite divulgazioni di conversazioni estranee ai temi d’indagine e relative alla vita privata di cittadini spesso neanche indagati rischiano di compromettere il prestigio e l’immagine dei titolari dell’azione penale e della polizia giudiziaria". Parole gravi, che dal vertice del Consiglio superiore non si erano mai sentite. Legnini sceglie l’incontro con i procuratori generali presso le Corti d’Appello, organizzato dalla Procura generale di Cassazione, in Aula magna. La sua è un’accusa, ma anche la premessa al programma operativo del Csm. Ecco di che si tratta: "La settima commissione, su impulso del comitato di presidenza, dopo aver acquisito le circolari adottate dalle Procure di Roma, Torino e Napoli ha già avviato il lavoro di definizione delle linee guida sul delicato tema delle intercettazioni telefoniche". Ci sarà dunque "un atto di regolamentazione" assunto non dai capi di singoli uffici ma dall’organo di autogoverno della magistratura. Certo saranno valorizzate le "positive e innovative misure organizzative adottate dai procuratori Pignatone, Spataro e Colangelo", spiega Legnini. Non fa in tempo a inserire nel "fascicolo" la circolare inviata nelle ultime ore anche da Giuseppe Creazzo, procuratore della Repubblica a Firenze: contenuti simili a quelli proposti dai colleghi. Il vicepresidente del Csm non entra nello specifico delle misure, si limita a dire che le iniziative assunte dai capi dei singoli uffici saranno portate a sintesi e integrate "con i contributi della commissione", la Settima di Palazzo dei Marescialli, appunto, "e dell’intero Csm". Una riforma vera e propria. Ma di quale portata? Le direttrici scelte a Milano, Roma, Napoli, e ora a Firenze, sono chiare: per la polizia giudiziaria che ascolta materialmente le telefonate, divieto di trascrizione per le conversazioni non rilevanti ai fini dell’individuazione della prova; per i pm, conseguente "divieto" di allegare alle richieste di misure cautelari le conversazioni penalmente irrilevanti. C’è poi una zona ibrida, quella relativa alle intercettazioni che non contengono riferimenti ai reati commessi ma che, per usare proprio le parole del procuratore di Firenze, sono comunque "pertinenti, utili per la verifica dibattimentale". Si tratta insomma della terra di nessuno, della categoria di intercettazioni più controversa: quella che i pm considerano utile a definire il "contesto", come dice Armando Spataro. Ecco, in quei casi, per il procuratore Creazzo, la "valutazione della pertinenza e della rilevanza" delle intercettazioni dovrà essere "maggiormente rigorosa". In particolare quando il contenuto sia "riferibile ai dati sensibili per i quali il codice della privacy disegna uno statuto di protezione più marcata". E si dovrà stare attenti, dice sempre il capo dei pm fiorentini, "nelle ipotesi di captazione di conversazioni nelle quali siano coinvolti soggetti estranei ai fatti di indagine". Quello che non serve, o che lede la privacy senza fornire elementi utili alla prova del reato, dovrà essere "distrutto", si legge nelle circolari diramate dai vertici delle Procure. Il vero punto è che tutte queste linee guida sono ispirate a un criterio: è sempre il pm l’autorità a cui spetta stabilire cosa può essere allegato alle richieste di arresto, e dunque alle ordinanze dei gip, e che quindi può essere messo a disposizione della difesa e diventare "pubblico". Salta quel passaggio chiave che due anni fa il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva immaginato: l’udienza filtro, in cui la rilevanza delle intercettazioni non viene stabilita in via esclusiva dall’inquirente ma da un esame congiunto delle parti, davanti al gip. Naturalmente le linee guida del Csm saranno un vademecum, non inderogabile. Ma Legnini ricorda: "Se le misure sono utili a realizzare il rispetto dei valori costituzionali coinvolti non vi è ragione di sottrarsi al dovere di mettere a disposizione di tutte le Procure un atto di autoregolamentazione uniforme cui ciascun magistrato inquirente potrà attenersi o ispirarsi". Non sarà dunque invaso il "potere" dei procuratori: ma il Consiglio, spiega Legnini ha il dovere di "contribuire a definire buone prassi applicative per individuare un possibile equilibrio tra l’impiego dell’irrinunciabile strumento investigativo delle intercettazioni e i valori costituzionali sottesi al diritto alla riservatezza, a una corretta informazione e al diritto di difesa". Intenzioni giustissime. Che però prefigurano un Parlamento di fatto esautorato su dossier chiave per la giustizia. Minori in carcere e radicalizzazione. Cascini: "in Italia nessun allarme" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 15 aprile 2016 "Il rischio radicalizzazione in carcere è un problema che si pone in tutta Europa, non soltanto in Italia. Da noi i numeri sono un po’ più bassi ma non significa che il problema non ci sia". Lo dichiara Francesco Cascini, esperto di terrorismo islamico, autore di numerosi studi e pubblicazioni, dopo la girandola di dati pubblicati negli ultimi giorni sul rischio radicalizzazione nelle carceri minorili italiane. Prima destinazione: sostituto procuratore nella Locride, poi una serie di incarichi prestigiosi all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Fino alla nomina, nell’estate scorsa, a Capo dipartimento della Giustizia minorile e di comunità. Quanto è alto il rischio radicalizzazione nei nostri istituti minorili e quali sono i numeri a oggi? "I detenuti, tra giovani adulti (fino ai 25 anni) e minorenni, in tutto sono 450. Gli stranieri, in particolare quelli di fede musulmana, sono circa 120, di questi, una parte sono italiani, ragazzi di fede musulmana ma nati in Italia: un numero un po’ più basso rispetto ai 500 di cui si è parlato. È chiaro che esiste un rischio ma è difficilmente quantificabile. La radicalizzazione, come avvicinamento a una posizione estremista di tipo religioso, è una cosa reale, non soltanto in carcere. E da non sottovalutare. Tuttavia non sembra esserci un allarme in questo senso. È ovvio che l’attenzione resta particolarmente alta. Al di là dei numeri che sono stati indicati, credo che il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti individui un problema vero. Nella realtà in cui viviamo, i flussi migratori sono a cavallo tra la seconda e la terza generazione e cominciamo ad avere un certo numero di persone di fede musulmana che provengono dai Paesi del nord Africa. L’approccio con queste persone è un po’ diverso rispetto a quello con l’immigrato che transita di passaggio in Italia". In Belgio e in Francia il problema è arrivato dall’interno. "Sì, ed è un fatto da tenere in forte considerazione. Da questo punto di vista condivido un po’ la preoccupazione di Roberti: bisogna ragionare sull’approccio con questi ragazzi, che sostanzialmente sono ragazzi italiani, per cercare di capire e individuare gli elementi di rischio, per poi intervenire. Vale per i servizi minorili della giustizia, ma anche per la scuola, per l’università. Dopo gli attentati di Bruxelles avete adottato misure diverse rispetto al passato? "Il primo obiettivo della nostra organizzazione è tentare il più possibile di produrre elementi di accoglienza, di reinserimento o di inserimento di questi giovani nel nostro tessuto sociale. L’emarginazione, la solitudine e le difficoltà rischiano di essere il terreno sul quale si coltiva l’odio. C’è prima di tutto bisogno di creare un clima che consenta a questi ragazzi di sentirsi accolti. Uno degli elementi che più favorisce la radicalizzazione è quello della contrapposizione di un sistema che si pone in modo poco amichevole: nei percorsi di estremismo si vede l’Occidente come un nemico, lo stato italiano come un nemico. Per evitare questo percorso uno dei modi principali è proporsi tendendo una mano più che spingendo lontano. Contemporaneamente si deve continuare a lavorare su una formazione del personale sempre più importante per consentire ai nostri operatori di individuare con tempestività gli elementi di rischio. Rispetto ad altri Paesi, non abbiamo condizioni ghettizzanti che possono favorire fenomeni come in Francia: abbiamo un sistema di integrazione che nonostante qualche problema funziona ancora". Carcere adulti e carcere minorile: il rischio è lo stesso? "No, c’è una forte differenza. Ma attenzione, per i minori non si deve parlare solo del carcere: noi abbiamo un numero molto alto di minorenni e giovani adulti nei nostri circuiti (comunità, centri di prima accoglienza ecc.). La differenza sta in questo: gli adulti sono quasi sempre extracomunitari clandestini o irregolari, spesso di passaggio, provengono dal Maghreb (Marocco, Tunisia, Egitto) con una fragile posizione sociale e culturale. Il reclutamento di queste persone è molto vicino a quello delle organizzazioni criminali: meno ideologico perché riguarda soggetti poco strutturati dal punto di vista religioso e spesso disperati. Rischiano di aderire più per convenienza che per una questione ideologica. Tenendo conto di questo, i segnali da ricercare non sono quelli classici: al contrario di quello che si potrebbe pensare, chi si radicalizza non manifesta segnali esteriori, anzi. Anche perché non tutti vengono reclutati per andare a fare i kamikaze: i ruoli dentro queste organizzazioni sono numerosi. Per i minori è molto diverso perché vivono in un contesto rispetto al quale è molto più forte il fascino dell’ideologia. Risentono molto di più della propaganda jihadista su internet, sono molto più attratti da un certo modo di interpretare la religione. Il loro è un rischio di radicalizzazione violenta molto più ideologico e per questo anche più insidioso". Quali sono i due metodi di approccio? "Mentre per gli adulti è più difficile contenere i rischi della radicalizzazione con l’illusione di poter controllare il meccanismo religioso, per i minori è molto importante ragionare sulla formazione culturale e religiosa, oltre che sul clima sociale, visto che questi ragazzi vivono e vanno a scuola in Italia. La figura del mediatore culturale in questo percorso è indispensabile". La maggiore presenza di mediatori culturali nelle carceri è sollecitata da più parti, non ultimi gli Stati generali sull’esecuzione penale, ma è sul tavolo da tempo. Perché non si è intervenuti prima, a fronte di una popolazione carceraria adulta composta dal 33 per cento di stranieri, molti dei quali di fede musulmana? "Per gli adulti i mediatori sono pochissimi. Per i minori venivano utilizzati anche prima in modo abbastanza consistente e io sto tentando di implementarne ulteriormente l’impiego. Fortunatamente i minori sono un po’ meno e abbiamo forse un po’ di risorse in più rispetto agli adulti". Famiglia, minori e reinserimento: nel caso delle organizzazioni mafiose si tende ad allontanare il ragazzo dalla famiglia d’origine, se coinvolta. Per il terrorismo islamico si procede allo stesso modo? "Casi accertati di radicalizzazione si contano sulle dita di una mano. In ambito minorile, da quando io sono qui si è verificato solo qualche episodio. Abbiamo individuato degli elementi di rischio ma sono casi molto limitati. Per questi ragazzi siamo intervenuti con un nutrito programma che è possibile attuare perché i numeri sono bassi. Un programma che coinvolge anche le famiglie, ma non tutti i casi sono simili. È certo, comunque, che in tutti i percorsi devono essere coinvolte le famiglie perché è molto difficile fare un’opera di reinserimento sociale creando una frattura con i genitori, soprattutto se parliamo di adolescenti". Come si è evoluto il terrorismo islamico? Quanti sono oggi i detenuti per terrorismo internazionale? "Sicuramente c’è stata una evoluzione abbastanza forte del fenomeno. Al Qaeda aveva un’organizzazione molto più simile a quella delle organizzazioni criminali mafiose: molto chiusa e strutturata. Quando abbiamo iniziato a lavorare su questi temi, i detenuti per terrorismo internazionale in Italia erano circa 120 (anni 2008/2009) ed erano riconducibili ad Al Qaeda. Oggi ne abbiamo 22. Il numero è diminuito molto ma non perché siano diminuiti i rischi. Al Qaeda aveva una struttura molto più organizzata di quella attuale. L’adesione allo Stato Islamico è spontaneistica. Non c’è controllo delle organizzazioni sul territorio. L’affiliazione ha percorsi molto più flessibili e molto più evanescenti. Sono spesso gruppi autonomi, senza una regia unica, e più difficilmente individuabili: questo è il motivo per cui si hanno meno arresti". Rita Bernardini "vedrete, su Doina il giudice non cederà all’onda forcaiola" di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2016 Intervista a Rita Bernardini sulla detenuta sospesa dalla semilibertà per le foto postate via Facebook. "Sono sicura che sul caso di Doina Matei il Tribunale di Venezia deciderà senza lasciarsi schiacciare dai condizionamenti". Rita Bernardini non dà per chiusa la questione: la trentenne rumena condannata per aver ucciso Vanessa Russo con un ombrello, e sospesa dal regime di semilibertà per le foto su Facebook, sarà giudicata tra un mese dai magistrati di Venezia. "In quella occasione si deciderà se consentirle di tornare a lavorare fuori dal carcere. Il presidente di quel Tribunale di sorveglianza, Pavarin, non avrà bisogno di essere incitato né da campagne d’odio né da messaggi in difesa di Doina". Sarà sotto una pressione mediatica enorme. "Ma non si lascerà influenzare. È un giudice molto attento al tema della rieducazione del condannato, valuta le cose con grande serietà. Lo ha dimostrato anche sul famoso decreto degli 8 euro ai detenuti: fu tra i pochi a dare la giusta interpretazione della norma". Si discute del sorriso di Doina: le suggerisce sfrontatezza o liberazione? "Senta, non mi va di mettermi a giudicare un sorriso. Magari nel suo comportamento c’è stata leggerezza, che ascriverei però alla categoria del peccato e non del reato. Nessuno di noi è puro, immune da errori". Un reato forse no, ma per il giudice è una violazione delle misure cautelari. "Sì ma non è stata ancora fatta una valutazione conclusiva: il Tribunale dovrà stabilire la gravità della violazione anche in base alla consapevolezza della detenuta". Le regole non sono chiare? Perché Doina poteva non averle comprese? "Intanto le regole non sono deducibili dalla normativa generale ma dallo specifico contenuto dell’ordinanza con cui il giudice concede la semilibertà. Secondo il difensore della donna, Nino Marazzita, non c’era un esplicito divieto di frequentare i social. Di sicuro era ben delimitato l’elenco delle persone con cui la donna era libera di comunicare per telefono. Potrebbe aver sottovalutato l’estensibilità del divieto". Se si accerta che non aveva ben capito di violare le regole possono farla tornare semilibera? "Sì. In prima battuta la semilibertà è stata revocata per la spinta mediatica venutasi a creare, perché alcuni giornali hanno pubblicato le foto postate su Facebook e perché il Corriere della Sera in particolare ne ha fatto una battaglia. Ma sulla sospensione ha deciso il singolo giudice di sorveglianza. Sull’eventuale definitiva revoca, il presidente del Tribunale avrà il suo peso". I familiari della vittima, Vanessa Russo, avrebbero voluto l’ergastolo. "Un conto è che lo dicano loro, altro è se lo sostengono i giornali. Leggo dalla sentenza che ha condannato Doina a 16 anni per omicidio preterintenzionale: la morte della giovane era una conseguenza non voluta, nemmeno nella forma del dolo eventuale, della propria condotta. Doina Matei non poteva immaginare (e nessuno avrebbe potuto farlo) che, colpendo con un ombrello la ragazza che le stava di fronte, l’avrebbe uccisa. E comunque le hanno dato una pena esemplare: 16 anni come ad Annamaria Franzoni, a cui riconobbero l’omicidio volontario". Perché la pena è esemplare? "Doina è rumena e ha preso 16 anni per aver ucciso una donna romana. C’è stato il caso di un romano che all’Anagnina ha ammazzato con un pugno un’infermiera rumena. Omicidio preterintenzionale anche in quel caso. Ma il romano è stato liberato dopo 4 anni, non dopo 9, e non c’è stato alcun clamore. È plausibile pensare che ci siano metri diversi, nel valutare se l’accusato è romano o rumeno?". Lei ha sostenuto che Doina non sarebbe affatto dovuta finire in carcere. "Che il carcere sia criminogeno lo ha sostenuto anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Doina ha fatto un percorso esemplare. Ha avuto il primo figlio a 15 anni, il secondo a 18, è scappata dalla miseria nera, è venuta qui per dare un futuro ai figli, si è messa a fare la prostituta, a 21 anni è stata condannata: la via di recupero più adatta a un caso simile sarebbe stata l’affidamento a una comunità, è stata invece sballottata da un carcere all’altro, senza poter vedere regolarmente i figli. Nonostante questo ha fatto il suo percorso in carcere, era semianalfabeta e ha vinto un premio di poesia. Ho ancora le sue lettere conservate". Cosa le scriveva? "Di essere preoccupata per i bambini, per le loro possibilità di istruzione, di quanto potessero sentire la sua mancanza. Martedì si concludono gli Stati generali dell’esecuzione penale: ritiene che potrà uscirne anche la proposta di fare campagne informative sul carcere? Proporremo delle leggi, vediamo se saranno effettivamente approvate e, soprattutto, attuate. Serve diffondere la conoscenza di quel mondo penitenziario che Ferrajoli definisce oscuro. D’altra parte l’Italia, Paese cattolico, non ascolta neanche il Papa, quando invoca l’amnistia. L’ha invocata dopo che Marco Pannella nell’estate di due anni fa gli propose di intervenire sul tema". Il vento giustizialista tira troppo forte. "A questi signori vorrei dire di battersi in campo aperto per cambiare la Costituzione: chiedano di modificare l’articolo 27 sul fine rieducativo della pena. E anche l’articolo 13 laddove punisce ogni violenza fisica e morale sulle persone private della libertà". Se non dev’esserci pietà scriviamolo, dice lei: prende sul serio la provocazione di Luigi Manconi. "Non sono norme astratte. I costituenti le scrissero dopo aver vissuto le violenze del Ventennio e le riferirono a tutti i detenuti. Dobbiamo decidere se ci crediamo ancora oppure no". Depenalizzazione a doppia via per i risarcimenti di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2016 Strade separate per i risarcimenti civilistici collegati alle recenti leggi di depenalizzazione. Se la remissione degli atti all’autorità amministrativa fa sopravvivere la competenza della Corte d’appello - quanto appunto alle sole statuizioni in tema di risarcimento del danno da illecito - la depenalizzazione "civilistica" fa invece scivolare la titolarità a decidere in capo al nuovo giudice, che peraltro si occupa già della sanzione pecuniaria. La Quinta penale della Cassazione (sentenza 15634/16 depositata ieri) sottolinea la diversa natura dei reati abrogati con il dlgs 8/2016 (depenalizzazione: trasformazione in illeciti amministrativi) rispetto a quella del dlgs 7/2016 (trasformazione in illeciti civilistici con sanzione, più eventuale richiesta di risarcimento davanti allo stesso giudice). La vicenda si innesta in una decisione del Tribunale di Bologna a margine di una serie di reati contro la persona - dalle lesioni alla minaccia, passando per le ingiurie - terminata in appello con varie declaratorie di non doversi procedere per le intervenute modifiche legislative. La questione era come regolare le statuizioni civilistiche all’interno di un procedimento penale non ancora definito, ma "colpito" nel frattempo dalle depenalizzazioni di inizio anno. Il relatore dopo aver ricostruito - nel codice e nella giurisprudenza - il legame tra l’azione penale e quella civilistica di risarcimento (si veda da ultimo la sentenza 12/2016 della Corte Costituzionale, che ribadisce la sostanziale indipendenza fissata dal codice di procedura del 1989) - rimarca le differenze tra i due decreti legislativi di inizio anno. Differenze che comportano una chiara separazione sulla sorte delle azioni di restituzione già avviate dentro i processi nel frattempo cancellati dalle due depenalizzazioni: nel caso di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa il giudice penale dovrà contestualmente decidere le sorti della costituzione di parte civile, applicando cioè le regole generali del codice di procedura penale (articolo 578 sulle declaratorie di estinzione del reato). Ben diversa è la soluzione, sottolinea invece la Quinta, nel caso in cui la competenza, per effetto della depenalizzazione "civilistica", passa dal giudice penale - che dichiara il non (più) doversi procedere - al collega della sezione civile. In questa ipotesi se si applicasse analogicamente il modello della depenalizzazione amministrativa, mantenendo cioè la competenza in capo al giudice penale remittente, si creerebbe la situazione paradossale per cui il nuovo giudice investito per legge della cognizione della domanda di risarcimento non potrebbe in realtà decidere, a causa della pre-statuizione del collega del penale. In sostanza, chiosa la Quinta, dal raffronto delle due discipline di depenalizzazione entrate in vigore a gennaio non si ravvisa una eadem ratio, pertanto l’apprezzamento sull’illecito civile rimasto in sospeso deve seguire strade e procedure ben distinte. Il ricorso singolo convive con la class action di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2016 Corte Ue -Sentenza 381/14. La sospensione automatica di un procedimento avviato dal singolo consumatore, che fa valere il carattere abusivo di una clausola contenuta in un contratto di mutuo, solo perché pende un’azione collettiva, è contraria al diritto Ue. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza depositata ieri nelle cause riunite C-381/14 e C-385/14. Al centro della pronuncia dal Lussemburgo, l’interpretazione della direttiva 93/13 sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori recepita in Italia con Dlgs 52/96, abrogato dal codice del consumo. Sono stati due clienti di un istituto di credito, che avevano stipulato un contratto di mutuo ipotecario, ad avviare l’azione dinanzi ai giudici spagnoli. I ricorrenti sostenevano che la clausola di tasso minimo inserita nel contratto, dovuto indipendentemente dalla fluttuazione dei tassi del mercato, era da considerare abusiva perché procurava uno squilibrio a loro danno. Poco prima, anche un’associazione di consumatori aveva avviato un’azione contro 72 istituti bancari chiedendo la cessazione dell’uso delle clausole di tasso minimo. Il giudice nazionale aveva sospeso il procedimento individuale in attesa del giudizio collettivo. Una decisione che non convince la Corte Ue. Prima di tutto, gli euro-giudici hanno chiarito che le azioni individuali e collettive hanno "obiettivi ed effetti giuridici diversi", tanto più che le associazioni dei consumatori, che svolgono un ruolo di primo piano nel legittimo interesse a tutelare i consumatori, non si trovano in una situazione di inferiorità rispetto al professionista (in questo caso gli istituti di credito) che invece contraddistingue il singolo consumatore. Va bene - osserva la Corte - fissare regole interne per la corretta amministrazione della giustizia ed evitare decisioni giudiziarie contraddittorie, ma a patto che non si verifichi un indebolimento nella tutela dei consumatori. Se la legislazione nazionale vincola il consumatore all’esito dell’azione collettiva, malgrado abbia deciso di non prendervi parte e di procedere a un ricorso individuale, la sua tutela è attenuata e priva di effettività a causa della sospensione automatica dell’azione individuale solo perché pende il ricorso collettivo. Di qui la contrarietà al diritto Ue, evidente anche perché l’esercizio effettivo dei diritti soggettivi riconosciuti dalla direttiva "non può essere messo in discussione sulla base di considerazioni legate all’organizzazione giudiziaria di uno Stato". Attenuata, invece, la tutela degli enti creditizi che puntano sul segreto bancario. La Corte di giustizia, infatti, sempre ieri (causa C-522/14), su rinvio pregiudiziale della Corte federale tributaria tedesca, ha dato il via libera alla legislazione nazionale che impone agli enti creditizi con sede sociale in uno Stato di dichiarare gli attivi depositati o gestiti in succursali non indipendenti stabilite in un altro Stato membro nei casi di morte del titolare e apertura della successione nel primo Stato. Per la Corte, quindi, i controlli fiscali di questo genere sono del tutto compatibili con il Trattato Ue con la conseguenza che sul segreto bancario prevalgono le esigenze legate ai controlli fiscali. Avvocati, il Tar del Lazio boccia le specializzazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2016 Tar Lazio - Sentenza 4424/2016. Affondano le specializzazioni forensi. Il Tar, con tre sentenze depositate ieri, su ricorsi presentati da Oua, alcuni Consigli dell’Ordine e Anf, ha annullato alcune disposizioni del Regolamento varato dal ministero della Giustizia. Centrale la cancellazione della previsione di 18 materie di specializzazione, punto sul quale da subito si erano concentrate perplessità e tensioni. Il Tar ci va con la mano abbastanza pesante e sottolinea come né dal testo del Regolamento né dalla relazione di accompagnamento è possibile individuare il principio logico che ha condotto a selezionare proprio quei settori. "E infatti - osserva il Tar - non risulta rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze dei vari organi giurisdizionali esistenti nell’ordinamento, né infine un criterio di coincidenza con i possibili insegnamenti universitari, più numerosi di quelli individuati dal decreto". Un’incompletezza che già era stata messa in evidenza dal Consiglio di Stato, aspetto che potrebbe ora scoraggiare eventuali ricorsi da parte del ministero oppure dalle associazioni che si erano costituite in giudizio per sostenere la soluzione trovata (Camere penali e Associazione dei giuslavoristi), alla quale la Giustizia aveva posto rimedio solo in parte. A difesa del Regolamento era stato messo in evidenza come l’individuazione delle materie oggetto di specializzazione fosse prerogativa del legislatore secondo una sua insindacabile valutazione di merito. Tesi che però non ha convinto i giudici amministrativi che, invece, hanno ricordato come anche le scelte affidate all’attività regolamentare non possono andare senti da censure, tenuto conto poi della delicatezza della disciplina che punta a rendere più "leggibile" per i cittadini il mercato delle prestazioni legali. Come pure poco convincente è stata considerata dal Tar l’obiezione per cui la lista è solo provvisoria e comunque soggetta a futura possibile revisione. L’altro punto censurato dai giudici e meno centrale e riguarda la necessità dello svolgimento di un colloquio davanti al Consiglio nazionale forense da parte di chi intende ottenere il titolo di specialista contando sulla precedente esperienza. Una disposizione dal contenuto troppo generico che attribuisce al Cnf "una vastissima discrezionalità operativa che, oltre a essere foriera di confusione interpretativa e distorsioni applicative (con ricadute anche in termini di concorrenza tra gli avvocati), si pone in assoluta contraddizione con la funzione stessa del regolamento in esame". Funzione che per il Tar è anche quella di mettere a punto un procedimento di conferimento del titolo di specialista definito in maniera precisa e dettagliata. Altri elementi di ricorso sono poi stati respinti dalle sentenze. Escono pertanto indenni dalle contestazioni punti come la determinazione di un numero di materie oggetto di specializzazione, la necessità di un numero minimo di incarichi annui nella materia specifica, e, in generale, l’esercizio del potere regolatorio da parte del ministero che, anzi, ha condotto in genera a regole più flessibili di quelle in vigore, ad esempio, per le specializzazioni universitarie. A questo punto il ministero della Giustizia dovrà procedere a una riscrittura del Regolamento sui due punti oggetto di censura, nell’auspicio che i tempi non siano lunghi come quelli per la soluzione al rebus delle lesioni forensi che, più volte annunciata, sinora non ha mai visto la luce. Doina Matei: non giustizia ma gogna mediatica di Riccardo Arena ilpost.it, 15 aprile 2016 Non la giustizia. Non il diritto. Ma la macchina del fango ha funzionato. L’obiettivo è stato raggiunto. Ora, Doina Matei è di nuovo chiusa in una cella. La colpa? Aver pubblicato delle foto su Facebook. Foto dove Doina, dopo 9 anni passati in carcere, si mostra felice e sorridente. Come se sorridere fosse diventata una colpa! Eppure Doina aveva tutte le ragioni per sorridere alla vita, visto che da circa 9 mesi aveva ottenuto la semilibertà. Semilibertà che non è impunità, non è un condono. Ma è una modalità di esecuzione della pena: il condannato esce dal carcere per lavorare di giorno e ci rientra la sera. Esattamente ciò che faceva Doina, grazie a una coop di Venezia. Sta di fatto che ora quella semilibertà, che è rieducazione in quanto avvicinamento alla normalità, è stata sospesa da un magistrato di Venezia, proprio a causa di quelle foto su Facebook scoperte da una gogna mediatica montata ad arte. Una sospensione che, in attesa della decisione finale del Tribunale di sorveglianza di Venezia, appare illogica e priva di fondamento. Infatti, come ha spiegato il Ministro Orlando, il magistrato ha sospeso la semilibertà per Doina Matei perché tra le prescrizioni imposte per la semilibertà vi era quella di un "utilizzo limitato del telefono cellulare". Utilizzo limitato del cellulare che sarebbe stato eluso pubblicando quelle foto su Facebook in quanto: "l’accesso al social network, consente alla condannata di intrattenere rapporti con un numero indefinito di soggetti". Ora sia chiaro, le prescrizioni non sono punizioni, ma caso mai sono indicazioni di comportamento per aiutare il condannato nel percorso rieducativo. Ebbene, la prescrizione imposta a Doina Matei non solo è assai insolita, ma è soprattutto generica e, come qualsiasi altra indicazione generica, è difficile da rispettare. Che significa fare un uso limitato del cellulare? Quante telefonate posso fare? 2, 3, 4, o di più? Mistero. Ma non solo. Secondo il magistrato, l’uso limitato del cellulare sarebbe stato eluso pubblicando quelle foto su Facebook. In questo modo Doina avrebbe avuto la possibilità di entrare in contatto con un numero indefinito di soggetti. Bene. Peccato però che tra le prescrizioni non pare vi fosse il divieto di accedere ad internet o, in modo specifico, ai social network. Una lacuna non da poco, che svela l’irrazionalità del provvedimento di sospensione. Ad esempio Doina, pur facendo un uso limitato del cellulare, ben poteva, durante una pausa di lavoro, andare in un internet point e pubblicare quelle foto su Facebook. Una condotta che non avrebbe violato alcuna prescrizione. Dunque domando: dov’è l’errore di Doina? Aver usato un cellulare per andare su Facebook e non un computer? Il mistero s’infittisce e l’irrazionalità vince sul buon senso e sulla regola. E poi vi è di peggio. Infatti, il provvedimento di sospensione della semilibertà è sproporzionato rispetto alla condotta che si imputa a Doina. Una condotta che non appare essere così grave. Di conseguenza, il magistrato, invece di rimettere Doina in una cella, ben poteva limitarsi a un semplice richiamo. Ed invece no: galera e galera subito! Perché? Forse perché era troppo tardi. Forse perché la Gogna mediatica è ormai divenuta più potente del diritto. Insisto. Non la Giustizia. Ma la macchina del fango ha funzionato e temo non sarà per l’ultima volta. Doina Matei, negarle una foto su Facebook? È solo vendetta di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2016 Il magistrato di sorveglianza ha revocato il regime di semilibertà a Doina Matei per aver postato alcune sue fotografie su Facebook. Doina Matei è stata condannata a sedici anni di carcere per l’omicidio preterintenzionale di Vanessa Russo, avvenuto nella metropolitana romana quando Doina aveva diciotto anni. Perché sia stata decisa la revoca della semilibertà non è chiaro. Il provvedimento non è noto nei dettagli e speriamo davvero di poterlo leggere nelle prossime ore al fine di comprendere meglio la situazione. Quel che ci sentiamo di dire fin da ora è che, se le foto sul social network costituiscono davvero il solo motivo della revoca, il magistrato è venuto meno al senso della legge che quella semilibertà prevede. Le misure alternative al carcere sono state pensate come uno degli strumenti per rendere effettiva quella funzione di reinserimento sociale che la pena deve avere secondo la nostra Costituzione (e che conviene all’intera società che essa abbia). In particolare il regime di semilibertà, secondo il nostro ordinamento penitenziario, "consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale". Doina ha scontato nove anni di carcere, non un giorno. Dopodiché, avendo evidentemente tenuto un comportamento congruo durante la detenzione, ha avuto il permesso di trascorrere alcune ore del giorno fuori dall’istituto. È ampiamente dimostrato che le misure alternative funzionano: chi sconta una parte della pena fuori dal carcere, avendo così l’opportunità di ritessere gradualmente quei legami lavorativi, relazionali, affettivi che il carcere ha interrotto, torna a delinquere molto meno di chi sconta in galera l’intera condanna. Qual è stato lo sbaglio di Doina Matei nel postare quelle fotografie? L’aver usato un social network? E come si può pensare che nel 2016 una trentenne si reintegri in società senza usare il web? L’aver mostrato un volto sorridente? E quale funzione reintegrativa dovrebbe avere la nostra pena se non consente a una donna che è stata dietro le sbarre nove anni e che rivede la luce di fare un sorriso? Sarebbe solo vendetta e niente altro. Una vendetta inutile per chi la subisce e per la società intera nel nome della quale la si commina. Che i genitori di Vanessa mostrino la loro rabbia è del tutto comprensibile. A nessuno si può chiedere freddezza e razionalità dopo che ha vissuto un dramma dalle proporzioni smisurate quali quello dell’assurda e insensata perdita di una figlia come Vanessa Russo. Ma è proprio per questo che le società democratiche avanzate non lasciano nelle mani delle vittime l’amministrazione della giustizia. Quella razionalità che non si può chiedere alla famiglia Russo va pretesa dai magistrati e va seminata e diffusa nell’opinione pubblica. I media possono fare tanto su questo. E il compito dello Stato non è quello di inseguire gli umori popolari ma quello di garantire i valori della Costituzione. Piemonte: reinserimento detenuti, protocollo d’Intesa tra Prap e Comunità Sant’Egidio Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2016 Oggi, venerdì 15 aprile 2016, Luigi Pagano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta e i Presidenti della Comunità Sant’Egidio del Piemonte, Daniela Sironi e Liguria Claudia Poggi, firmeranno un protocollo d’intesa al fine di rinforzare l’azione di collaborazione degli operatori della Comunità Sant’Egidio per il reinserimento dei detenuti. Questo percorso vede la Comunità impegnata in alcuni Istituti penitenziari del distretto da oltre 15 anni, principalmente a Novara e Vercelli, ma anche a Genova e Torino. Il protocollo impegna reciprocamente l’Amministrazione penitenziaria locale e la Comunità Sant’Egidio a sviluppare un’attenzione sempre più marcata verso le persone detenute, soprattutto quelle più disagiate e fragili, come è centrale nel mandato dell’Amministrazione penitenziaria e come è tra le radici fondanti del movimento ecclesiale nato nel 1968. Di particolare rilievo risulta, tra i vari impegni che si assume la Comunità Sant’Egidio sanciti dal protocollo, quello della realizzazione nelle carceri del Piemonte e della Liguria di iniziative formative e culturali al fine di favorire la relazione tra carcere e territorio, l’educazione al dialogo, alla solidarietà ed alla pace nonché alla convivenza tra popoli e culture differenti, temi fondamentali per intensificare gli sforzi di umanizzazione della pena e della carcerazione e per continuare il processo di cambiamento del sistema penitenziario e di quel "paradossale" laboratorio di convivenza che sono i carceri multietnici del nostro Paese. Sicilia: rivoluzione antimafia con la nomina di Fiandaca a Garante dei detenuti siciliainformazioni.com, 15 aprile 2016 Il giurista Giovanni Fiandaca è stato nominato garante dei detenuti in Sicilia dal Presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta. L’esilio di Fiandaca è proprio finito. Anima critica dell’antimafia, da sempre, il professore ha subito a lungo l’ostracismo dei suoi denigratori, per le sue critiche su alcune iniziative giudiziarie assunte in passato della Procura di Palermo. Ora è tornato a firmare seppur saltuariamente editoriali nei giornali "progressisti", ed ha il riconoscimento dell’antimafia combattente. Il giurista si è assunto un onere notevole, senza compenso, l’accettazione della nomina gli fa onore. Averlo scelto, appare di conseguenza, un gesto politico di indubbio rilievo. Fiandaca è lontano per formazione, cultura politica, linguaggio da Crocetta. La nomina peraltro non è solo una scelta politica, ma il segnale inequivocabile di un profondo rinnovamento nel campo dell’antimafia. Che si apre finalmente a quelle aree culturali che esprimono dissenso e critica. Il manicheismo dell’antimafia - politica, imprenditoriale e giudiziaria - si sta sciogliendo come neve al sole. Di necessità virtù, dopo gli incidenti di percorso, che hanno guastato l’immagine dell’antimafia? Ci sono ancora "nicchie" resistenti, specie nel mondo dei media, dove sembra più difficile abbandonare le posizione e misurarsi con la realtà, che impone di vedere le cose come stanno, porsi domande, dubbi, rinunciando a teoremi e fondamentalismi. Qui, infatti, la tendenza a impadronirsi del gessetto e segnare sulla lavagna i cattivi ed i buoni, non è affatto scomparsa, anche se subisce i contraccolpi dei fatti. Per giudicare la qualità della svolta occorre ricordare - non è piacevole ma va fatto - ciò che accadde in occasione delle elezioni europee. Rosario Crocetta espresse un giudizio non proprio commendevole verso il professore, candidato del Pd, cui addebitò il peccato di avere preso partito contro il processo sulla trattativa Stato-mafia. Fiandaca aveva scritto, insieme con Salvatore Lupo, un libro molto critico sulle scelte dei pm del tempo. Il governatore disse che con Fiandaca non avrebbe mai voluto avere a che fare. Ed il professore ci restò molto male, ed espresso, a sua volta, opinioni per nulla lusinghiere verso Crocetta. Il governatore ha rivisto il suo giudizio, e il professore si è gettato alle spalle il passato. È una buona cosa. Firmato il decreto di nomina il presidente Crocetta ha ringraziato pubblicamente Giovanni Fiandaca "per avere accettato un incarico delicato, impegnativo, senza alcun compenso, segno della grande sensibilità, prima di tutto dell’uomo. Un uomo che in questi anni - ha aggiunto Crocetta - ha condotto una battaglia democratica per la tutela di ogni cittadino. Ed è proprio tale profilo che mi ha convinto a chiedere a Giovanni Fiandaca di accettare tale incarico. Sono felice che, consapevole del grande carico di lavoro che lo attende, abbia accettato". Figuccia (Fi): accendere riflettori su situazione carceri "Lo stato delle carceri in Sicilia e la situazione in cui vivono i detenuti saranno al centro di alcune mie iniziative parlamentari, a partire da interrogazioni al governo, per accendere i riflettori sulla situazione in cui vive chi sta scontando una pena". Lo ha affermato Vincenzo Figuccia, vice capogruppo di Forza Italia all’Assemblea regionale siciliana. "Sono certo che la nomina del professor Giovanni Fiandaca a Garante dei detenuti per la Sicilia aiuterà anche il confronto - ha proseguito. In ogni caso vorrò far luce su quali siano davvero le misure per la rieducazione dei detenuti applicate in Sicilia, previste dalla Costituzione. Per questa ragione avvierò anche un giro di visite in tutte le carceri siciliane, anche in quelle minorili. Il tema dei diritti del detenuto sarà uno degli argomenti politici sul quale concentrerò la mia attività di parlamentare nei prossimi mesi". Marche: tour di visite ispettive delle carceri dell’Associazione A2O vivereancona.it, 15 aprile 2016 L’associazione A2O - Altra Ancona Ora - parteciperà con una delegazione alle visite ispettive nelle carceri della Regione, da sabato 16 a lunedì 18 aprile. Tale delegazione è composta dal Simone Papalini, Presidente A2O, Matteo Bilei, già candidato sindaco nel 2013 per la lista civica A2O, Matteo Pignocchi, Licia Pauri, Roberta Battinelli ed Antonio Astolfi. A guidarla, Alexandre Rossi in qualitá di membro del Comitato nazionale di Radicali Italiani. Con l’autorizzazione del Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziara, si verificheranno le condizioni in cui vive la popolazione carceraria marchigiana in ben sei su sette istituti penitenziari. Di seguito il programma delle visite ispettive con gli orari di ingresso, i partecipanti e le carceri da ispezionare. 16/04/2016 (10.00-13.00) - Alexandre Rossi, Matteo Bilei, Simone Papalini, Matteo Pignocchi - Montacuto (AN) 16/04/2016 (17.00-19.00) - Alexandre Rossi, Matteo Bilei, Simone Papalini, Lucia Pauri - Barcaglione (AN) 17/04/2016 (10.30-12.00) - Alexandre Rossi, Roberta Battinelli, Antonio Astolfi - Camerino (MC) 17/04/2016 (17.00-19.00) - Alexandre Rossi, Simone Papalini, Roberta Battinelli, Antonio Astolfi - Fermo (AP) 18/04/2016 (10.00-13.00) - Alexandre Rossi, Simone Papalini,Antonio Astolfi - Fossombrone (PU) 18/04/2016 (16.00-19.00) - Alexandre Rossi, Simone Papalini, Antonio Astolfi - Pesaro (PU). Gorizia "se sei gay vai in isolamento", doppia discriminazione per i detenuti omosessuali di Angela Azzaro Il Dubbio, 15 aprile 2016 Una galera nella galera. È quella istituita nel carcere di Gorizia per "proteggere" tre detenuti gay. I tre uomini si trovano in una sorta di isolamento forzato: non posso partecipare alle attività con gli altri detenuti né avere un minimo di socialità. La galera per loro non lascia spazio a nient’altro che solitudine, noia, vuoto. La denuncia arriva dal Garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia, Pino Roveredo, che ieri mattina si è recato in carcere insieme al capogruppo di Sel in regione, Giulio Lauri. I tre dal mese di gennaio vivono questa condizione di estrema costrizione. Prima in una cella nell’ala vecchia del carcere, in condizioni disumane, come ha raccontato per primo don Alberto De Nadai, Garante dei detenuti per la provincia di Gorizia. Adesso sono collocati nell’ala rinnovata del carcere. "Sono rimasto impressionato - denuncia Roveredo - dal totale isolamento in cui si trovano". La sezione "speciale" per gay sarebbe stata istituita ufficiosamente dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, Enrico Sbriglia. Le intenzioni sulla carta potrebbero essere positive: proteggere le persone dal clima omofobo che regna in carcere. Il risultato è opposto: invece di isolare i violenti si è istituito un ghetto ulteriore per persone già di per sé discriminate. Il carcere di Gorizia è molto piccolo, ci sono solo 48 detenuti. "Ma il personale - denuncia il garante - non è sufficiente. Meno che mai per affrontare le richieste di una sezione speciale dove i detenuti vivono abbandonati a se stessi". Nei mesi scorsi uno di loro ha tentato il suicidio, un modo per attirare l’attenzione sulla sua condizione. Ma niente. Il programma di "protezione" speciale va avanti. Altre due carceri in Italia avrebbero una sezione simile dedicata ai gay: a Napoli e a Ivrea. Le motivazioni apparentemente nobili diventano, denuncia Roveredo, "un atto di vera e propria discriminazione". Nei prossimi giorni il garante del Friuli Venezia Giulia incontrerà nuovamente il provveditore del Triveneto: "Vorrei capire se esiste un atto ufficiale con cui è stata istituita questa sezione e quando i tre detenuti potranno uscire dall’isolamento forzato". Uno di loro, nell’incontro di ieri, ha dichiarato di non essere gay e di essere finito nella sezione speciale dopo una richiesta di trasferimento. Molti detenuti chiedono di entrare nei programmi di protezione, sperando così di migliorare le loro condizioni di vita. Invece no. Non a Gorizia, almeno. La notizia è arrivata anche in consiglio regionale dove, durante un’audizione, Roveredo ha segnalato la condizione dei tre detenuti. Da qui la visita di ieri in carcere di Lauri. Che rilancia nel chiedere spiegazioni, e annuncia che nei prossimi giorni intende interessare della questione il Governo, il Garante nazionale dei detenuti e il Garante regionale dei diritti. "Pongo tre questioni. Uno: è l’ordinamento penitenziario a prevedere uno spazio del genere o siamo nel campo della libera interpretazione di un singolo provveditore? Due: non è accettabile che alcuni detenuti stiano in carcere separati da tutti gli altri senza poter accedere ai corsi e avere una socialità. Tre: il programma di protezione, qualora anche fosse richiesto dai diretti interessati, non può risolversi in una discriminazione, nella costruzione di un ghetto: il carcere non dovrebbe piuttosto isolare e curarsi di un programma particolare per i violenti?". La domanda è reale. I detenuti gay spesso sono oggetto di aggressioni che li spingono a chiedere protezione. Ma la soluzione del problema non può diventare una ulteriore penalizzazione. I prossimi giorni si capirà come andrà a finire per i tre uomini detenuti a Gorizia. Ma la questione resta aperta per il carcere in generale: se si è gay si è doppiamente discriminati? Firenze: come l’architettura può cambiare le carceri, corso formazione professionizzante di Andrea Tani ilreporter.it, 15 aprile 2016 Un corso di formazione professionizzante per ripensare le carceri attraverso l’architettura. Presentato stamani dalla Fondazione Michelucci e dall’Ordine degli architetti di Firenze, prenderà il via il 17 maggio. Da zone d’ombra, strutture inadeguate e spesso oltre i limiti della vivibilità, a luoghi di inclusione che intrattengono relazioni con la città nasce un corso di formazione professionalizzante per ripensare le carceri attraverso l’architettura. A promuoverlo sono la Fondazione Michelucci e l’Ordine degli architetti di Firenze che lo hanno presentato stamani. Il primo in Italia - Il corso, il primo nel suo genere in Italia, è dedicato alla rapporto tra progetto di architettura e carcere ma anche, più in generale, tra architettura e tutti i luoghi di emarginazione che creano ferite nel tessuto urbano delle città moderne, dai campi rom, definiti impropriamente "nomadi", ai centri di accoglienza per migranti alle soluzioni abitative per profughi e rifugiati. Un progetto che nasce nel solco dello spirito con cui l’architetto Giovanni Michelucci a metà degli anni 80 progettò il Giardino degli incontri all’interno del carcere fiorentino di Sollicciano, uno spazio di socialità con caratteristiche urbane dove i detenuti ricevono i parenti, che nacque per rendere più sottile la distanza tra il "dentro" e la città fuori. La presentazione pubblica del corso si è tenuta oggi alla Palazzina Reale di Santa Maria Novella, sede degli architetti fiorentini, con l’incontro "Architettura e diritti umani" a cui hanno preso parte i rappresentanti della Fondazione Michelucci e degli architetti e, tra gli altri, il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone. "Il presupposto da cui questa iniziativa nasce è molto semplice - spiegano il presidente della Fondazione Michelucci e quello dell’Ordine degli architetti, Giancarlo Paba e Egidio Raimondi: la qualità del progetto, e quindi dell’architettura, sono sinonimi della qualità della vita. E quindi di relazioni umane, diritti, socialità e sicurezza". Il programma - Tre le lezioni in programma, che si svolgeranno tra maggio e la fine dell’anno in Palazzina Reale. Al termine del corso, si terrà un workshop progettuale che cercherà di trovare nel concreto risposte alle tematiche trattate, con riferimento specifico al territorio toscano e a quello di Firenze, e lo sguardo rivolto alle esperienze messe in atto nelle principali città europee. Un laboratorio pratico i cui risultati saranno messi a disposizione delle amministrazioni pubbliche, sulla scia di quello che ha visto impegnati gli architetti a servizio della città per la ricostruzione dei parchi sull’Arno distrutti dal maltempo. Il primo corso si svolgerà nell’intera giornata di martedì 17 maggio e sarà dedicato al carcere. Tra i relatori vi saranno esperti del tema e progettisti sia esterni che interni all’amministrazione della Giustizia come l’architetto del Ministero Leonardo Scarcella o Cesare Burdese, esperto di architettura carceraria. I penitenziari italiani e le loro profonde criticità, come dimostra la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante dei detenuti, saranno solo il punto di partenza per una riflessione complessiva sulla riprogettazione di tutti gli spazi dell’esecuzione penale, come i luoghi per la semilibertà, le strutture a sicurezza attenuata per tossicodipendenti e quelle per le detenute con bambini piccoli solo per fare qualche esempio. Temi cruciali, già al centro del tavolo ministeriale su "Architettura e carcere" convocato nella primavera 2015 dal Ministero della Giustizia a cui ha partecipato anche la Fondazione Michelucci. La Toscana, con le sue 18 strutture e circa 3.400 detenuti, si presenta come un caso studio di particolare interesse. "Non esiste sul piano formativo un corso professionalizzante con le stesse caratteristiche - spiegano il direttore della Fondazione Michelucci e il consigliere della Fondazione degli architetti di Firenze, Corrado Marcetti e Antonio Bugatti. Da parte nostra, lo riteniamo un modo per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla progettazione dei non luoghi di una città, la gestione delle periferie vecchie e nuove, delle marginalità. Temi di attualità che troppo spesso non sono in agenda. Ma anche un modo per scuotere gli architetti, ricordargli che il loro mestiere, quello di progettare, significa vedere prima le soluzioni ai problemi urbani di una comunità. Una iniezione robusta di vitamine civili, necessarie nella progettazione di una città". In autunno si svolgeranno gli altri due corsi. Uno sarà focalizzato sulle soluzioni di accoglienza per i profughi e i rifugiati, con particolare attenzione ai modelli dell’accoglienza diffusa e una riflessione sui campi profughi e le strutture temporanee. L’altro sarà dedicato ai brani di "città informale", microcosmi irregolari insediati in territori di scarto o in aree industriali dismesse alla periferia delle città, spesso coincidenti con i campi della popolazione Rom, che interessano 40mila persone in Italia. Perugia: costumi d’epoca della sfilata "Perugia 1416" realizzati dalle detenute di Capanne tuttoggi.info, 15 aprile 2016 Pronto un protocollo tra Comune e casa circondariale. Severini, "un’occasione di creatività sociale". L’impegno delle detenute del carcere per la realizzazione di alcuni prodotti di merchandising di Perugia 1416 e in attività di sartoria per i costumi d’epoca della sfilata. Lo ha deciso la Giunta di Palazzo dei Priori: a riguardo, pronto un protocollo d’intesa con il carcere di Capanne finalizzato proprio al coinvolgimento delle detenute. L’obiettivo del Comune è quello di fare dell’appuntamento di giugno un’opportunità di coesione sociale per l’intero territorio, e per fornire alle detenute un’esperienza e una competenza professionale spendibili una volta terminata la pena. Il Comune - è detto in una sua nota -, in particolare, realizzerà all’interno del carcere anche alcune iniziative ricreativo-culturali, in collaborazione con l’istituto stesso, nell’ambito di una sinergia tra le istituzioni, finalizzata al reinserimento dei detenuti nella società. Come sottolinea l’assessore alla Cultura, Teresa Severini "si tratta di un’iniziativa che andrà al di là della mera pratica sartoriale e, quindi, di lavoro meccanico". "L’obiettivo primario - ha aggiunto - è di creare anche un’occasione di creatività, di partecipazione sociale, di inclusione, di momenti emotivamente coinvolgenti. L’idea è di mettere in piedi una serie di incontri formativi, di laboratori che potranno essere realizzati anche dopo le date clou dell’11-12 giugno. Un percorso di iniziative costruttive, una interessante fucina che possa dare un contributo concreto alla manifestazione che, non dimentichiamo, oltre che momento di riflessione storica, vuole porsi come ponte di coesione sociale, di coinvolgimento effettivo del territorio". Cagliari: Stefanina, la nonna delle carceri italiane, torna in una cella a Uta L’Unione Sarda, 15 aprile 2016 "È tornata da qualche giorno nella cella della Casa Circondariale di Cagliari-Uta Stefanina Malu, dopo circa un mese di ricovero nel Reparto di Medicina Due dell’Ospedale cagliaritano "San Giovanni di Dio". La donna, 83 anni, non è però in grado di camminare né di reggersi in piedi. Respira con fatica e le è stata assegnata una sedia a rotelle. È accudita da una compagna di cella. Benché lucida, manifesta vuoti di memoria ed è facile al pianto. Per l’età condizioni fisiche in cui appare non sembra proprio di poter stare dietro le sbarre". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che insieme alla socia Rina Salis, ha avuto un colloquio con l’anziana donna. "Sono viva - ha detto Stefanina Malu - per miracolo. In Ospedale mi hanno salvata sottoponendomi a numerose terapie. Stanotte però in cella sono stata male. I medici sono intervenuti subito e mi hanno somministrato l’ossigeno con una bombola. Prendo 13 pastiglie, compreso un antibiotico perché ho saputo che ho un’infezione polmonare, mi vengono fatte le iniezioni di eparina nella pancia. Sono stanca, sono troppo stanca. Non voglio andare nella mia casa. Lì non ci voglio proprio tornare. Ma non voglio morire qui. Non chiedo la libertà, ma di andare da mia figlia, che mi vuole. Lì - ha sottolineato - posso essere accudita e posso riprendermi. Vive in un quartiere lontano dal mio. Nell’arco di un anno mi sono morti due figli. Non posso dimenticarlo. Adesso non riesco neppure a mangiare, non ne ho voglia. In ospedale mi hanno detto che devo camminare ma è impossibile, quando provo ad alzarmi le gambe non rispondono". "La permanenza dell’anziana donna in carcere - sottolinea Caligaris - è seguita con particolare zelo non solo dalla compagna di cella, che volontariamente l’aiuta in ogni aspetto della quotidianità, ma anche dalle Agenti della Polizia Penitenziaria, dagli infermieri e dai medici. Stefanina Malu si è presentata al colloquio con il pigiama, la vestaglia da camera, le ciabatte e un viso che denotava scarsa cura e sofferenza. Quando parla ripete continuamente che la figlia è in grado di accoglierla e di accudirla. È una vecchietta che non sembra poter costituire un pericolo sociale, anche se la sua storia passata ne ha delineato una fisionomia tutt’altro che benevola. Forse è necessario a questo punto un gesto umanitario da parte del Magistrato di Sorveglianza perché la situazione - conclude la presidente di Sdr - sembra davvero ormai difficile da gestire in un carcere". Roma: convegno "Il carcere come officina di riparazione della persona" di Giancarlo Capozzoli (regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 15 aprile 2016 Istruzione, espressione del sé, e benessere del corpo con queste tre semplici parole di uno dei relatori, potrei sintetizzare il convegno tenuto qualche tempo fa nel teatro della casa circondariale di Rebibbia, a Roma. "Carcere: da università del crimine a officina di riparazione della persona", il titolo di questo convegno a cui hanno preso parte il garante nazionale delle persone recluse Palma, il direttore di Rebibbia, Mariani, il magnifico rettore dell’ università di Tor Vergata, prof. Novelli, la prof.ssa Formica e organizzato dal gruppo di studenti-detenuti del polo universitario di Rebibbia. Questo gruppetto, sempre maggiore in realtà, di studenti-detenuti a partire da questa reale esperienza vissuta su loro stessi di una consapevolezza nuova a cui sono giunti proprio tramite lo studio universitario, hanno voluto convocare questo convegno. "Un carcere senza cultura è destinato al peggiore dei fallimenti", c’è scritto sul pamphlet di presentazione. La cultura in carcere impone un confronto con i detenuti che è reciproco. In questo confronto da un lato cadono i pregiudizi della società-fuori, i nostri, d’altro lato invece permette al detenuto stesso di rapportarsi ad una realtà altra, diversa, più complessa anche. Questo il punto iniziale su cui non c’è neanche da dibattere. L’importanza della cultura e delle attività lavorative soprattutto è stato evidenziata dall’ intervento del direttore Mariani che ha dichiarato anche la volontà di spingere, di investire in favore di una sempre maggiore valorizzazione della dignità e della responsabilità delle persone recluse. Parole importanti che hanno trovato risposta nel pensiero espresso del rettore Novelli. La Cultura e lo studio universitario, il sapere scientifico proprio della cultura universitaria sono uno strumento utile, se non l’ unico, al fine di abbattere i muri, interiori e non solo, di chi vive all’ interno degli istituti di pena. È importante davvero questa doppia collaborazione che si va consolidando tra l’istituto di Rebibbia e l’ Università di Tor Vergata, a Roma, con l’ augurio che non sia una esperienza legata soltanto alla città di Roma. C’è in questa visione un nuovo modo di intendere il carcere. Ed è quanto è emerso dalla "solita" lezione del prof. Palma, il quale, nominato da poco garante nazionale dei detenuti, ha mostrato davvero l’intenzione di modificare il sistema penitenziario vigente. A partire dal problema principale che affligge chi il carcere lo subisce, il sovraffollamento. Ridurre il numero di detenuti anche solo applicando quanto disposto dall’art. 27 della Costituzione è uno dei propositi di cui si è discusso. Palma ha ricordato come la Costituzione Italiana preveda una visione sanzionatoria più ampia rispetto a questa che prevede la detenzione semplice e diretta. C’è in ogni caso la volontà appunto di modificare il sistema vigente, anche e soprattutto in vista di una maggiore responsabilizzazione del detenuto. Il detenuto è oggi deresponsabilizzato, a partire dal linguaggio infantile che accompagna la sua vita all’interno dell’ istituto. La responsabilità a cui fa rifermento Palma è un concetto importante perché prevede un compito gravoso: passare dall’essere "soggetti passivi", ad essere soggetti attivi, soggetti cioè che sanno attenersi alle regole. Responsabilità che graverebbe anche sulla direzione stessa. Il detenuto non deve essere più visto come "soggetto" pericoloso, ma come un soggetto autonomo e responsabilizzato, appunto. Al fine di giungere ad un reale cambiamento prima del modo di intendere la pena e poi per tentare di modificare la materia penale nella sostanza, gli aspetti fondamentali sono per il garante, l’ istruzione, l’espressione del sé e il benessere (del corpo). L’istruzione è davvero uno degli aspetti fondamentali di questa responsabilizzazione. Non è semplice, ma è l’ unico tentativo possibile. Istruzione che va dai vari gradi di scolarizzazione e alfabetizzazione fino ai corsi e ai laboratori di teatro e scrittura e poesia e letteratura che associazioni e volontari svolgono all’interno delle mura penitenziarie. Istruzione che pertanto diviene anche espressione del sé, in quanto sperimentazione e studio di nuove e altre possibilità. E di conseguenza anche benessere del corpo. Ben altro ci sarebbe da fare e aggiungere in termini di benessere del corpo. Il tema della affettività negata e della sessualità è un tema che andrebbe svolto anche in vista di allentare le tensioni interne. L’istruzione e il riconoscimento di questo percorso interiore reale, percorso consolidato dalla continuità e dalla costanza della pratica, possono condurre maggiormente a quella modifica del proprio impianto interiore. L’istruzione rende indocili, ha detto il professore Palma. Sembra retorica, ma non lo è. Questa modifica dei propri modelli di riferimento, umani e sociali, questa incorporazione (letteralmente) di un nuovo modello di umanità che è correlata ad una nuova visione del mondo, l’ acquisizione di quel bagaglio culturale che porta alla consapevolezza del tempo perso e alla messa in questione del proprio io, non sono gli aspetti a cui devono tendere le pene previste dall’articolo 27 della Costituzione Italiana? Modena: teatro al carcere di Sant’Anna con "Antigone. Variazioni sul mito" di Chiara Ferrin modenatoday.it, 15 aprile 2016 Un nuovo spettacolo all’interno del carcere, aperto per l’occasione al pubblico esterno, un nuovo capitolo dell’indagine artistica realizzata dal Teatro dei Venti. "Antigone. Variazioni sul mito" andrà in scena venerdì 15 aprile alle ore 17.30 (ingresso riservato al pubblico già autorizzato), presso la Casa Circondariale di Modena e vedrà sullo stesso palco detenuti e attori della compagnia. Lo spettacolo è prodotto dal Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e con il contributo del Comune di Modena. Il lavoro di quest’anno si è concentrato sull’Antigone, il classico di Sofocle che affronta il contrasto tra la legge e la "pietas" umana, tra l’autorità maschile e la sensibilità femminile. L’eroina che da sepoltura al fratello morto, si è resa colpevole di una doppia ribellione: ha sfidato l’imposizione della legge e le consuetudini che relegavano le donne fuori dalla dimensione politica. "L’esperienza del teatro non è nuova all’interno degli istituti penitenziari ed al Sant’Anna - dice la Direttrice del Carcere, dott.sa Rosa Alba Casella - si è deciso di coinvolgere nell’attività un gruppo di detenuti sex offender, per stimolare processi di immedesimazione e riconoscimento dell’altro in soggetti che spesso risultano poco empatici e poco disponibili alla rielaborazione del fatto reato. Anche per tale tipologia di detenuti Il teatro rappresenta un ulteriore strumento di cambiamento ed occasione per riscoprire parti funzionali di sé". Altri due appuntamenti con il Teatro in Carcere sono previsti all’interno del Festival Trasparenze con gli spettacoli "La prossima stagione" con Michele Santeramo, prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana (5 maggio) e "Emigranti Exprèss" con Mario Perrotta (6 maggio). Televisione: vizi e crimini di Mafia Capitale, ma per fiction di Stefano Crippa Il Manifesto, 15 aprile 2016 Dal 18 aprile su Raiuno la prima di sei puntate de "Il sistema" con Claudio Gioè e Gabriella Pession, scritta da Sandrone Dazieri e Walter Lupo. Omicidi, denaro sporco e una dark lady al centro della nuova fiction girata a Roma, che rincorre l’attualità. Metti una città allo sbando - Roma - travolta da vizi, scandali e politici corrotti e percorsa da reti di organizzazioni criminali che si spingono oltre confine. Specialità, il riciclaggio di denaro sporco. Metti un Maggiore della Guardia di finanza (Claudio Gioè) deciso a infiltrarsi dentro il nido di vipere per scoprire chi ha indotto il fratello (Fausto Sciarappa), a capo di un’azienda in crisi e finito nelle mani degli strozzini, a suicidarsi. Aggiungi un contorno di avvocati senza scrupoli, rampolli e nobili della Roma bene disposti a investire denaro in paradisi fiscali (siamo in zona Panama Papers). Ciliegina sulla torta una dark lady a tutto tondo (Gabriella Pession), caschetto nero ed eleganza algida. Una giovane mente raffinatissima, la contabile della banda, capace di lavare il denaro sporco all’estero e di cui, inevitabile, il Maggiore una volta infiltrato fingendosi affarista di pochi scrupoli, si innamorerà perdutamente. E poi c’è il Rosso, il cattivo che più cattivo non si può (ne è consapevole anche l’attore che lo interpreta, Antonio Gerardi: "mi faccio quasi vergogna nel rivedermi…"), cane da guardia dei poteri forti, che tiene il busto del Duce sulla scrivania non perché "nostalgico" ma perché, "ci vede il futuro". L’altra faccia della mafia: l’avvocato colleziona quadri di arte contemporanea, lui - oltre a minacciare e uccidere con i suoi sgherri - ha messo in piedi un traffico di borse false… Ci sono tutti gli ingredienti per grandi ascolti, eros e thanatos compreso, in Il sistema, nuova fiction di Raiuno, sei puntate in prima serata a partire da lunedì 18 aprile, la cui lavorazione si è tenuta mentre sulle pagine dei giornali teneva banco lo scandalo di Mafia capitale: "ma noi abbiamo cominciato a girarla quattro mesi prima - sottolinea Paola Lucisano insieme a Fulvio e Rai Fiction produttori della serie. Inseguimenti, storie e intrighi nei palazzi della città eterna con una trasferta a Istanbul - "ma è stata in forse fino all’ultimo, complice la situazione internazionale". Manca l’adrenalina che percorre il rinascimento seriale dei prodotti made in Usa, ma siamo in prima serata Rai e non ci si espone oltre una certa soglia… Sforzo produttivo comunque non indifferente, 60 attori tra principali e secondari, 2 mila generici, 112 stuntman e sostegno della Guardia di Finanza, che ha dato la sua consulenza al regista - Carmine Elia e ai due sceneggiatori della storia, Sandrone Dazieri e Walter Lupo. Autori che hanno attinto dalle cronache: "Sì, nella trama ci sono allusioni ai fatti accaduti a Roma - sottolineano i due autori. Ma l’altra scelta che abbiamo fatto è stata quella di mostrare la criminalità e i suoi traffici non come un mondo a parte, ma come una pianta infestante che inondava (e inonda) Roma e l’Italia con i suoi viticci e e le sue radici infette". Claudio Gioè - il protagonista - definisce il suo personaggio: "Un uomo determinato che non ha paura, va avanti per la sua strada mettendosi a servizio dello stato, per lui l’onestà viene sopra ogni cosa". Dazieri e Lupo giocano però a mescolare le carte, non ci sono eroi senza macchia e paura che risulterebbero narrativamente noiosi. Quindi i "buoni" sono: "fragili, sbagliano per amore o per odio, perdono la pazienza, tradiscono, cadono e si rialzano". Così come i "cattivi": Daria la contabile fredda e all’apparenza cinica ha un privato ingombrante - è stata l’amante del fratello suicida del Maggiore e deve gestire la malattia terminale del padre. Un personaggio, una donna, spiega Gabriella Pession: "Che in maniera inconsapevole si perde, entrando in uno di questi sistemi caratterizzato da sete di potere, ambizione e maschilismo". Schedati i passeggeri sui voli europei, il via libera dell’Europarlamento di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 15 aprile 2016 Approvato il provvedimento: i Paesi europei dovranno istituire un’autorità che custodirà i dati delle compagnie aeree per 5 anni. Dopo 6 mesi, i dati personali saranno "oscurati". Sulla spinta emozionale degli attentati jihadisti a Parigi e Bruxelles, l’Europarlamento ha trovato un compromesso tra sicurezza e privacy per varare la raccolta dei dati dei passeggeri dei voli aerei come misura anti-terrorismo e di prevenzione di altri gravi reati. Il provvedimento, che settori dell’aula hanno considerato per anni una inaccettabile schedatura di massa (simile a quella attuata negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001), è passato a Strasburgo con 461 voti favorevoli, 179 contrari e 9 astensioni. Il voto - Europopolari ed eurosocialisti, i due principali gruppi dell’Europarlamento, hanno trainato l’approvazione convinti che l’utilità dei dati dei passeggeri dei voli aerei (detti Pnr), soprattutto per i servizi segreti e l’anti-terrorismo, giustifichi una riduzione del diritto alla privacy dei cittadini. "Sono state espresse comprensibili preoccupazioni circa la raccolta e la conservazione dei dati delle persone, ma credo che la direttiva offra garanzie sul rispetto della privacy e dimostri che la legge è proporzionata ai rischi che abbiamo di fronte - ha rassicurato il relatore del provvedimento, il conservatore britannico Timothy Kirkhope. I governi dell’Ue devono ora andare avanti con l’attuazione del presente accordo". La procedura - I Paesi membri dovranno istituire una Unità di informazione sui passeggeri (Uip), che richiederà i dati alle compagnie aeree e li custodirà per cinque anni. Dopo i primi sei mesi verrà garantito l’anonimato oscurando le parti che consentirebbero di individuare il passeggero (nome, indirizzo, contatti telefonici e e-mail). Le Uip gestiranno il trasferimento delle informazioni alle autorità giudiziarie e a organismi sovranazionali come Europol. Le richieste dovranno essere "caso per caso" e giustificate con reali esigenze di contrasto del terrorismo o di altri gravi reati. Tutti i trattamenti dei Pnr dovranno essere registrati per permettere le verifiche di correttezza. Nelle Uip dovrà essere nominato un controllore delle pratiche per evitare anomale schedature dei cittadini. Gli Stati membri dovranno vietare raccolte di dati su origine razziale o etnica, opinioni politiche, religione, convinzioni filosofiche, appartenenza sindacale, stato di salute, comportamento e orientamento sessuale. Al momento la direttiva si applica ai voli da e per l’Ue. I governi possono estendere la raccolta del Pnr ai collegamenti interni ai 28 Paesi membri. Le reazioni - "Finalmente, è una buona giornata per l’Europa - ha commentato il ministro degli Interni Angelino Alfano -. Con l’adozione dell’accordo sui dati dei passeggeri aumenta la sicurezza dei cittadini e l’efficacia dell’azione delle Forze dell’ordine nella lotta al terrorismo". I verdi europei hanno mantenuto l’opposizione a quella che considerano una "falsa soluzione" contro i jihadisti. Anche il Garante europeo della privacy, Giovanni Buttarelli, ha bocciato il provvedimento perché "costosissimo", richiede "tempi semi-biblici" ed è "suscettibile di una censura da parte della Corte di giustizia Ue" per la violazione del principio di "proporzionalità" sancito dai Trattati. La direttiva sul Pnr, dopo la ratifica del Consiglio dei governi (considerata scontata) e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue, dovrà essere introdotta nei Paesi membri entro due anni. Diritto alla privacy, Microsoft fa causa al governo americano di Guido Olimpio Corriere della Sera, 15 aprile 2016 È lotta continua. Da una parte il diritto alla privacy, dall’altro le esigenze di sicurezza. Le grandi compagnie di comunicazione contro l’ingerenza di chi indaga. L’ultima battaglia l’ha ingaggiata in tribunale la Microsoft. La società americana ha citato in giudizio il Dipartimento della Giustizia, una mossa dura per rispondere a pressioni non meno forti. In base alle norme, la ditta non può rivelare ai suoi clienti che le autorità federali hanno accesso a dati e email. Dunque una violazione - sostengono i legali - a quanto sancito dalla Costituzione statunitense. Gli avvocati si trincerano dietro due posizioni: il primo e quarto emendamento che garantiscono libertà di espressione e il diritto di essere avvertiti se lo Stato fruga nel privato. Elementi che fanno ben comprendere il livello dello scontro, diventato sempre più aspro dopo il ripetersi di attacchi terroristici. Gruppi criminali ed affiliati a movimenti eversivi - come l’Isis - sono spesso al centro di indagini in cui i loro contatti digitali, dalla posta elettronica al traffico telefonico, rappresentano un aspetto chiave. Gli inquirenti cercano di usare le informazioni recuperate per ricostruire rapporti, relazioni, persino viaggi. E dunque gettano la rete chiedendo collaborazione piena e incondizionata da parte di chi fornisce i servizi al pubblico. In passato ci sono state anche consultazioni con l’amministrazione per trovare un terreno comune, ma il dialogo ha portato a poco. Il braccio di ferro si è riproposto, infatti, con Twitter e Google. Diatriba finita al Congresso, che ha provato a mediare ipotizzando un meccanismo che prevede un ritardo di sei mesi nella notifica ai clienti dell’avvenuto intervento federale. Sempre i parlamentari sono stati chiamati in causa per un altro duello, quello che ha opposto la Apple all’Fbi dopo la strage di San Bernardino. Si chiedeva un loro intervento sul rifiuto del gruppo di rendere accessibili gli iPhone dei terroristi agli investigatori. Solo che gli agenti hanno scelto una scorciatoia e sono entrati nei cellulari usando non la "porta" ma la "finestra". Con una procedura che ha sollevato polemiche il Bureau si è affidato agli hacker ingaggiati "a tariffa fissa" con il compito di scardinare il sistema del telefonino. Inizialmente si era pensato che la polizia federale avesse avuto l’aiuto di maghi dell’hi-tech israeliani, tecnici in grado di perforare la corazza dell’apparato. Una versione di comodo superata da indiscrezioni emerse in questi giorni che hanno confermato come fossero stati altri i protagonisti dell’incursione. Ma l’operazione ha dato dei risultati? Forse è presto per una risposta definitiva. Secondo una fonte citata dai media dopo un primo esame dell’iPhone non sarebbero emersi aspetti interessanti su Syed Farouk e su possibili complici. Fino ad oggi la tesi ufficiale è che il killer abbia agito insieme alla moglie in modo autonomo, probabilmente ispirato solo a livello ideologico dalla propaganda del Califfo. Una coppia di assassini che ha portato in dote il massacro allo Stato Islamico, senza avere dei legami operativi stretti. Diverso il comportamento del commando responsabile degli attacchi in Francia-Belgio: ha usato sistemi criptati o telefonini usa e getta. L’Europa alza i muri, ma non per i capitali di Luigi Vicinanza L’Espresso, 15 aprile 2016 Per fermare i profughi in fuga dalle guerre si prendono decisioni veloci. Mentre le misure contro l’elusione fiscale possono sempre attendere. I Panama Papers sono il frutto di un complotto della Cia ai danni della Russia, ha azzardato Putin nel rozzo tentativo di arginare l’effetto delle rivelazioni. Due miliardi di dollari nascosti all’estero dai suoi amici. La Cia ovviamente non ha nulla a che fare con la divulgazione dell’archivio segreto dello studio Mossack Fonseca, ma all’oligarca di Mosca fa buon gioco compattare la flebile opinione pubblica russa contro il supposto nemico alle porte. La democratura post-sovietica fonda il suo potere sulla forza, la propaganda. E sulla capacità persuasiva dei soldi. Se davvero la Cia avesse ordito un complotto, tuttavia, non è Putin quello che rischia di essere disarcionato. Ma il più fedele alleato degli "amerikani", cioè il primo ministro del Regno Unito. I complottisti di ogni latitudine stanno infatti assistendo alla più fantasiosa manifestazione di una trama surreale: voglio colpire il mio nemico, abbatto invece il mio amico. David Cameron sta attraversando infatti il peggior momento politico da sei anni a questa parte. Ha impiegato quattro giorni per raccontare la verità sui conti offshore del defunto genitore. Lo stesso tempo, sia detto per inciso, necessario all’italianissimo Luca di Montezemol o per ritrovare la memoria e ricordarsi della sua società all’estero, di cui abbiamo scritto e mostrato i documenti su "L’Espresso". Torniamo in Inghilterra, però, agli affari di Cameron. Questi ha investito 30 mila sterline nel fondo del padre e inoltre ha ereditato mezzo milione dai genitori, in due distinti momenti, eludendo 70 mila sterline al fisco britannico. Operazioni rimaste riservate fino alla pubblicazione dei Panama Papers. L’opinione pubblica britannica mal sopporta chi, beccato con le mani nella marmellata, nega l’evidenza. Questa vicenda di tasse, amnesie e goffe risposte finirà per pesare sulla Brexit, cioè sul referendum per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea. Cameron è contrario all’uscita. Ma se dovesse essere sconfitto dal voto, lui perderebbe la poltrona, l’Europa ancor di più la bussola. Con ripercussioni inimmaginabili per gli assetti del continente. Già ora nella Ue la concorrenza fiscale tra gli Stati membri crea scompensi tra chi pratica aliquote vantaggiose (è il caso del Lussemburgo del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e della stessa Londra) e chi non riesce ad abbassare le tasse. I comuni cittadini, il cui welfare ha subito tagli dolorosi negli anni della crisi, restano in balìa di interessi privati, a causa della frammentazione politica dell’Europa e dell’assenza di poteri pubblici forti, come ha scritto su "Repubblica" Thomas Piketty, l’economista francese schierato contro le nuove diseguaglianze sociali. Il fenomeno dei capitali nascosti è globale, e i Panama Papers lo hanno evidenziato in maniera urticante. La quantità di soldi che i ricchi hanno occultato al fisco e quindi sottratto ai ceti più poveri appare impressionante. Leggete le cifre tratte dalla ricerca dell’economista Gabriel Zucman pubblicate a pagina 22: si calcola in 7.600 miliardi di dollari la quantità di denaro trasferito in società offshore, una cifra da capogiro. I ricchi sempre più ricchi; i poveri ancor più poveri. In mezzo un ceto medio proletarizzato. Sembra quasi una lotta di classe combattuta all’incontrario. Chi sta sopra contro chi sta sotto. È il tradimento storico delle élite. Anziché su un nuovo ordine mondiale, si concentrano sul proprio "particolare". Ipotesi di contrasto all’elusione fiscale sono allo studio delle istituzioni europee (pagina 25), con una lentezza tuttavia che cozza con la velocità di decisioni in altri campi. Come quando si alza dalla sera alla mattina un muro di filo spinato alla frontiera per bloccare la fuga dei migranti. È più facile rispondere in modo muscolare ad una emergenza nella sua spettacolare drammaticità che affrontare le opacità del sistema finanziario internazionale. Purtroppo il vento soffia forte in direzione della dissoluzione dell’idea stessa d’Europa. Mentre è di più Europa che avremmo bisogno. Non il contrario. Nessuno però ha una leadership forte e autorevole per cambiare verso agli eventi in corso. Migranti. Scontro diplomatico Vienna-Roma: "faremo controlli anche in Italia" di Simona Musco Il Dubbio, 15 aprile 2016 Dopo la minaccia di costruire un muro di 250 metri per dividere di nuovo l’Europa e cancellare con un colpo di spugna gli accordi di Schengen, il ministro della Difesa austriaco Hans Peter Doskozilm ha paventato la possibilità di "chiudere completamente il Brennero" in caso di situazioni estreme. Dopo l’annuncio di cooperazione tra le due nazioni, a seguito dell’incontro tra il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il suo omologo austriaco Johanna Mikl-Leitner, proprio per evitare la chiusura del Brennero, ora l’Austria fa marcia indietro. Se l’Italia continuerà a far passare i migranti, ha annunciato Doskozil, "potremmo essere costretti a chiedere alle autorità italiane di fare noi controlli anche sul suo territorio" e, in casi estremi, l’Austria sarebbe pronta a chiudere i confini. "Se l’Italia lascerà passare i migranti e la Germania comincerà a respingerne sempre di più ai suoi confini, l’Austria rischierebbe di trasformarsi in una sorta di sala d’attesa. Per questo dobbiamo andare in offensiva", ha sottolineato il ministro Doskozil, per il quale l’unica soluzione è intensificare i controlli di confine e inasprire il diritto d’asilo in Austria, provvedimento, questo, che scatterà a giugno. Ma a fronte di un tetto di 37500 richiedenti asilo, sono già 17mila (circa 150 al giorno) le domande arrivate in Austria, dove sono già partiti i lavori per una barriera lunga 250 metri, con lo scopo di intensificare i controlli al confine e limitare gli accessi. Controlli serratissimi, che riguarderanno non solo strade statali e autostrada ma anche i sentieri di montagna ed ogni collegamento tra i due paesi, con traffico rallentato a 30 chilometri orari nella zona "cuscinetto" per consentire agli addetti al confine di controllare gli occupanti delle auto e identificare i sospetti. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito "una zavorra" le barriere, invitando l’Austria a fare un passo indietro. "Abbiamo lavorato 70 anni per abbattere i muri che dividevano l’Europa: non possiamo lasciare che si rialzino", ha commentato intervenendo all’Italian-German high level dialogue. Frase ripresa anche dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che ha definito l’ipotesi paventata da Doskozil "molto grave". Eventuali barriere al confine con l’Austria significherebbe "dimenticare che questi problemi vanno affrontati insieme. Non è ancora chiaro - ha precisato Gentiloni - se si tratta di annunci o decisioni concrete. Abbiamo sempre collaborato con l’Austria e mi auguro che si tratti solo di annunci simbolici e non di blocchi veri e propri che sarebbero negativi non solo per la nostra economia, ma un brutto segnale per l’Europa". Ora la Commissione europea valuterà le misure adottate dall’Austria. "Siamo preoccupati e stiamo guardando alle misure con preoccupazione ? ha riferito alla stampa il vice portavoce capo della Commissione europea Alexander Winterstein. Una volta che avremo ricevuto i chiarimenti e le informazioni che abbiamo chiesto all’Austria, prenderemo una posizione". Migranti. Quel muro finirà nell’immondizia. Come fu per Berlino di Renata Polverini Il Dubbio, 15 aprile 2016 "Il destino dell’Italia è legato al superamento delle frontiere e non al loro ripristino", aveva detto qualche giorno fa il Presidente Mattarella beccandosi, via Twitter, una serie di insulti più o meno scomposti da Salvini. L’altro ieri, incontrando l’omologo tedesco Gauck, l’inquilino del Colle più alto ha ulteriormente precisato: "Non basteranno le barriere a proteggerci". Potremmo dunque dire "in VinItaly veritas" plaudendo ad un concetto semplice ed incontrovertibile come quello pronunciato dal nostro Presidente della Repubblica: nessun muro può fermare quella dolente è disperata marea umana che guarda all’Europa come l’unico approdo possibile per scappare dalla carestia, dalla povertà, dalla persecuzione politica. Questo, infatti, è il cuore del problema che i miopi politici europei continuano a non voler vedere e che è direttamente collegato all’attesa esplosione demografica che porterà il continente africano, nel giro di pochi anni, a raggiungere una popolazione di due miliardi di persone. Davvero qualcuno pensa che da una delle aree più povere e insicure del pianeta ci si possa "difendere" alzando muri o erigendo pittoresche barriere di filospinato quando, via mare o via terra, migliaia di giovani madri sono disposte a far morire i propri figli, appena nati o piccolissimi, per dargli almeno una possibilità di sopravvivere in un mondo migliore? Il "muro" che si sta costruendo al Brennero ci colpisce di più di quelli già innalzati in Ungheria, in Bulgaria o in Macedonia solo perché siamo in tanti ad aver varcato le Alpi transitando per quel passo naturale, così suggestivo non solo per la sua bellezza ma anche per il carico di "storia patria" che immediatamente evoca. Ma è proprio il valore simbolico di questo muro a scandalizzarci - dal punto di vista pratico non saranno certo duecentocinquanta metri di filo spinato su quattrocentotrenta chilometri di confine a rappresentare una credibile barriera - perché rappresenta l’ennesima resa al buon senso, l’ulteriore e forse definitiva perdita di credibilità - già fortemente compromessa dall’accordo con la Turchia sugli immigrati - di quelle Istituzioni europee rimaste ormai soltanto a guardia di una arcigna quanto "stupida" politica di austerità. Vienna giustifica questa sua decisione con la previsione, per il momento solo allarmistica, di uno sbarco in massa di profughi sulle coste italiane. Qualche generale, smanioso di mettere gli stivali sulla sabbia libica, avvalora la teoria di centinaia di migliaia di persone in fuga da Tripoli e da Tobruk, ma l’unica statistica attendibile dovrebbe preoccupare Roma piuttosto che la Capitale austriaca. Sono infatti quattro volte di più i profughi "bloccati" in transito dall’Austria verso l’Italia che non viceversa e non superano le novantamila unità i rifugiati accolti dai nostri amati vicini nell’anno appena trascorso; appena l’uno per cento della popolazione. Se pensiamo che in Libano sono attualmente circa due milioni i profughi (cioè il quarantuno per cento degli abitanti del Paese del Cedro), capiamo bene in quale direzione dovrebbero essere rivolte le nostre attenzioni e le nostre preoccupazioni. In Canada sta per essere pubblicato uno studio di una ricercatrice dell’Università del Quebec che si è messa a contare i "muri" presenti nel mondo; sembra che, rispetto ai quindici del 1989, siamo giunti, passando dall’India al Marocco, dal Messico a Israele, a oltre sessantacinque. Una scrittrice a me molto cara, Marguerite Yourcenar, fa fare all’Imperatore Adriano, nelle sue "Memorie", questa affermazione: "Costruire un porto significa fecondare la bellezza di un golfo. Fondare biblioteche, é come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire". Ecco, "l’inverno dell’Europa" che la primavera di Berlino aveva spazzato via sta tornando, cupo e minaccioso con il suo carico di odiosa xenofobia, di miope indifferenza verso l’insopportabile sofferenza di milioni di persone. Qualche giorno fa ho fotografato in una discarica di Berlino un lungo pezzo di quel muro sul quale si erano immolati tanti giovani europei, utilizzato per contenere i rifiuti. Ho subito pensato che quello, in fin dei conti, fosse il posto giusto per consegnare all’immondizia della storia un simbolo di odio e di separazione. Ma, come diceva Gramsci, mi sono resa conto, di fronte al "muro" del Brennero, che "la storia insegna, ma non ha scolari". Migranti: chiesto il risarcimento per le persone vittime dei respingimenti nel 2009 di Giacomo Zandonini La Repubblica, 15 aprile 2016 Il ricorso presentato dagli avvocati di Asgi - Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione con il supporto Amnesty International chiede un’ammissione umanitaria per 14 cittadini eritrei respinti in Libia nel 2009, che vivono oggi in Israele. Un episodio lontano "che potrebbe influenzare anche gli attuali respingimenti verso la Turchia". Un gommone che naviga lento, affollato di corpi. Il telefonino scorre su sguardi inespressivi, esausti dal caldo. Poco dopo, in lontananza, appare una nave. Sul fianco campeggia un "P410", sigla della Orione, Marina Militare italiana. Mette a mare i canotti. Sembra un’operazione di salvataggio, un sollievo per gli 89 occupanti della barca, rimasta in avaria dopo quattro giorni di mare. Uomini, donne e tre bambini, in gran parte eritrei, sono vivi e in acque italiane. La direzione però è un’altra: passata la notte, verranno infatti trasferiti su un’imbarcazione libica. Visto umanitario per i respinti del 2009. L’episodio è del luglio 2009, uno dei tanti della "stagione dei respingimenti" nel canale di Sicilia, sanzionata nel 2012 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza sul caso Hirsi e altri contro Italia. Sembra acqua, tragicamente, passata. Amnesty International e Asgi - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, hanno riaperto però il capitolo, con una novità. Non chiedono solo, come per i 24 ricorrenti dell’ormai celebre caso Hirsi, un risarcimento per chi, respinto in Libia, ha dovuto subire "trattamenti disumani e degradanti" nelle carceri dell’allora raìs Gheddafi, ma anche la concessione di un visto umanitario per accedere in Italia e, sette anni dopo quella tragica inversione di rotta, chiedere asilo. Oggi Turchia, ieri Libia. "Il 2009 sembra lontano", ha spiegato l’avvocata Cristina Laura Cecchini, "ma oggi, con i nuovi accordi con la Turchia e la chiusura di frontiere terrestri, stiamo tornando a qualcosa di simile: respingimenti collettivi verso paesi che dichiarati sicuri ma che, nei fatti, non lo sono". La Turchia di oggi sarebbe insomma, come la Libia di allora (e di oggi), un paese non sicuro, per cui "non bastano garanzie formali del rispetto dei diritti umani, come quelle contenute negli accordi ufficiali". Un’insicurezza documentata da Amnesty nel rapporto annuale sul 2015, ed ancora più evidente se pensiamo che la Turchia non accetta richieste d’asilo da parte di cittadini extraeuropei. Una causa pilota. Sono 18 i cittadini, tutti eritrei, rintracciati da Amnesty International a Asgi e reduci dal respingimento del 1° luglio 2009, di poco successivo a quello del caso Hirsi. "Quattro hanno ritentato il viaggio e oggi sono in Svizzera, mentre gli altri 14 sono in Israele", racconta Cecchini, "in una situazione di estrema precarietà". È qui che, grazie a Amnesty Israel e al sacerdote eritreo Mussie Zerai, attivo da anni nel supporto ai concittadini in fuga, sono stati raggiunti e, dopo una lunga raccolta di documentazione, hanno potuto firmare le procure per Cecchini e il collega Salvatore Fachile, dando il via a quella che, secondo Asgi, è "una causa pilota, dal forte valore simbolico, che potrebbe mettere in discussione tutta l’attuale politica europea". La terra di nessuno di Israele. Giunti via terra in Israele attraverso il Sinai, fra il 2009 e il 2010, dopo lunghi periodi di detenzione in Libia, i 14 eritrei si sono trovati nella "terra di nessuno" in cui Tel Aviv confina i circa 50mila rifugiati presenti nel paese, sudanesi e soprattutto eritrei. "Non si può lavorare, avere cure mediche", sottolinea Cecchini, "e si è costantemente sotto minaccia di detenzione ed espulsione verso paesi con cui Israele ha accordi informali, come l’Uganda, da cui è poi facile essere rimpatriati verso l’Eritrea". Da qui la richiesta di poter tornare in Italia "per godere di un diritto che le nostre autorità hanno violato" e di cui non hanno potuto godere altri compagni di viaggio, "affogati in successivi tentativi di attraversare il Mediterraneo". Video e racconti. "I video dei telefonini provano l’identità delle persone che rappresentiamo e la loro presenza in acque italiane, mentre le loro testimonianze descrivono violenze da parte delle autorità italiane per costringerli a salire a bordo della nave libica", continua Cecchini. Elementi centrali per il ricorso, presentato a gennaio di fronte al Tribunale Ordinario di Roma e per cui si è in attesa della fissazione della prima udienza e dell’eventuale costituzione in giudizio di Marina Militare e ministero della Difesa, oggetto di una lettera di diffida da parte degli avvocati. Zerai: ritardi nei soccorsi. Per padre Zerai l’attualità del ricorso è confermata dal rischio che "accanto alla Turchia, da qui all’estate riprendano i respingimenti anche verso la Libia, se il governo Serraj verrà considerato un partner attendibile". Un déjà-vu inquietante per i molti cittadini subsahariani bloccati nel paese e che, denuncia il sacerdote, è oggi anticipato "dai ritardi incredibili dei soccorsi nel canale di Sicilia: una settimana fa ho inoltrato una chiamata ricevuta da un gommone alle 8 di mattina e il salvataggio è avvenuto dopo nove ore, tanto che nel frattempo due persone sono morte". La fine, silenziosa, dell’operazione Triton potrebbe insomma aprire la strada a ulteriori violazioni dei diritti di migranti e rifugiati. Migranti. Integrazione, la Germania adotta la legge dei doveri di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 15 aprile 2016 Varata la bozza per la "normalizzazione" dei profughi, la priorità è il mercato del lavoro. "Un passo in avanti storico", per la cancelliera che punta alle elezioni nel 2017 con i "compiti fatti". Ma Pil e disoccupazione deludono. C’è voluto mezzo secolo di immigrazione e un summit di sei ore nella Cancelleria federale per varare la bozza della prima "legge sull’integrazione" della Repubblica federale tedesca. Per ora si tratta solo del "canovaccio" del pacchetto normativo che dovrà superare il vaglio della conferenza dei governatori dei Land il 22 aprile e quello del "conclave" (Klausurtagung) del governo il 24 maggio. Ma i 15 punti-chiave dell’impianto giuridico sottoscritto ieri da Cdu-Csu e Spd sono stati discussi e approvati fin nei minimi dettagli: dall’integrazione nel mercato del lavoro tedesco (è la vera priorità) alle procedure di ammissione ai corsi di formazione, dalle regole per la residenza alla revoca dei benefici per chi sgarra non solo penalmente. "Un passo in avanti storico: un’offerta ai migranti che hanno buone prospettive di rimanere in Germania, una la lista dei doveri per chi vuole vivere qui" scandisce la cancelliera Angela Merkel, visibilmente soddisfatta per l’accordo-quadro quanto preoccupata per i dati diffusi ieri dai più autorevoli istituti di statistica che prevedono la crescita del Pil tedesco dell’1,6% nel 2016 e 1,7 nel 2017. Meno di quanto si aspettasse il governo (1,8%) ora costretto a misurarsi con la certezza dell’aumento della disoccupazione (dall’attuale 6,2% a 6,4 nel 2017) anche a causa del flusso di migranti, secondo gli istituti economici, flusso peraltro ridotto del 66% rispetto all’ultimo trimestre 2015. Il governo fa inoltre sapere che le espulsioni sono aumentate di oltre il 60% fra il 2014 e il 2015 e si prevedono ulteriori incrementi nel 2016. Alla base della legge, precisano a Berlino, la formula: "Promuovere i diritti ed esigere i doveri" insieme alla necessità di introdurre misure di sicurezza anche sul fronte del terrorismo. Una wende (svolta) politica in piena regola, condizionata - eccome - dalla scadenza del mandato per il terzo gabinetto Merkel, che mira a presentarsi alle elezioni federali nel 2017 con "i compiti fatti". Anche l’ultimo argine per contenere l’esondazione della destra di Alternative für Deutschland (Afd) che continua a soffiare sul fuoco della propaganda anti-immigrati come a volare nei sondaggi sulla composizione del futuro Bundestag (12,5% è il dato Insa di quattro giorni fa). Certo non basterà a spegnere il malessere nero che ha già squassato l’equilibrio elettorale, politico e sociale in tre Land della Bundesrepublik né a curare la xenofobia della "piccola gente" (copyright: Alexander Gauland, vice capo di Afd) non più confinata alla "povera" Sassonia, e probabilmente neppure ad assorbire ("normalizzare" è il termine ufficiale) davvero 1,5 milioni di profughi in fuga da guerra e miseria. Di sicura, per ora, solo l’integrazione nell’economia tedesca, pronta a sfruttare la nuova manodopera a basso costo per rilanciare il made in Germany. Per questo la legge scritta dalla Grande coalizione si incardina anzitutto sull’anschluss con le richieste dell’industria nazionale: in pratica il pacchetto legislativo prevede 100 mila "opportunità di impiego" da finanziare con i soldi pubblici insieme ad "attività che non costituiscono un rapporto di lavoro" da destinare ai profughi di "Paesi ad asilo non sicuro". A questo si aggiunge l’"obbligo di cooperare" imposto ai migranti, la revoca dei benefici per chi non si adegua alle norme o commette reati. Così viene ammorbidito il "divieto di lavoro" per chi usufruisce degli aiuti umanitari: dopo 3 mesi di permanenza in Germania i profughi potranno accedere alla formazione pre-professionale, dopo 15 all’indennità scolastica, dopo 6 anni alla pre-assunzione e relativi sussidi. In parallelo i migranti "certificati" beneficeranno dei fondi per i disoccupati di lunga durata (da almeno un anno senza lavoro) ma solo se entrati legalmente in Germania (fino a oggi bastava il permesso di soggiorno allegato alla domanda di asilo). In caso contrario i "candidati" verranno espulsi. Al contempo il soggiorno temporaneo sarà legato a doppio filo alla "competenza linguistica e ai valori di base della cultura tedesca". Nella proposta di legge si accenna inoltre a "prestazioni di sicurezza nell’utilizzo dei servizi sociali", tutt’altro che definite, mentre si fissano gli oneri di traduzione (per i residenti da meno di 3 anni) ai fornitori di tali servizi e il rimborso statale "per chi è obbligato a sostenere il costo degli stranieri": misura che dovrebbe alleggerire la pressione finanziaria cui sono sottoposti gli enti locali. Proprio alle aree depresse (città portuali e Land ex Ddr) è dedicato il decimo punto della bozza. Per evitare la temuta "concorrenza" con i lavoratori tedeschi la legge stabilisce che la possibilità di lavoro temporaneo per i profughi sarà limitata "alle aree dove il tasso di disoccupazione è sotto la media del Land". Infine l’integrationsgesetz, riduce a 6 settimane il tempo massimo di attesa per i corsi di integrazione, aumenta il limite dei partecipanti da 20 a 25 e impone la distribuzione omogenea dei richiedenti asilo "per evitare hotspot sociali". Come, dove e quando verranno "spalmati" i migranti lo decideranno i governatori dei 16 Land nella riunione del 22 aprile. Cannabis, sottosegretario francese: "sì a legalizzazione parziale droghe leggere" di Anais Ginori La Repubblica, 15 aprile 2016 La proposta del socialista Le Guen, che è anche medico, riaccende l’eterno dibattito anti-proibizionista: "Vietarla non ha portato alla diminuzione del consumo". Le cifre al 2014: 17 milioni di persone l’hanno provata è 700mila ne fanno un uso regolare. "La proibizione della cannabis non ha portato alla diminuzione del consumo, anzi". Il deputato e sottosegretario socialista Jean-Marie Le Guen riaccende l’eterno dibattito anti-proibizionista, proponendo una "legalizzazione parziale" delle droghe leggere, con ad esempio un divieto solo per chi ha meno di 21 anni. La Francia è uno dei paesi europei dove il consumo è più alto: nel 2014 17 milioni di persone hanno già provato la cannabis e 700mila ne fanno un uso regolare. Quasi metà dei ragazzi (48%) ha già provato la cannabis prima di 18 anni, e uno su sei ne fa un consumo regolare. Dal 2011 a oggi l’età del primo spinello è sempre più anticipata, il 20% ha già provato tra 11 e 13 anni secondo l’Ofdt, Observatoire français des drogues et des toxicomanies. La Francia è anche uno dei paesi con le leggi più repressive. La coltivazione di canapa per uso personale non è autorizzata. È previsto il carcere fino a vent’anni e una multa fino a 7,5 milioni di euro. Le Guen, che è anche medico, ha raccontato: "Mi sono sempre battuto contro il consumo di tabacco e alcool, e continuerò a farlo anche contro la cannabis, ma per aiutare i giovani bisogna convincerli, non fare proibizionismo". La sinistra francese è da sempre divisa sul tema. "Nessuno sta pensando a una misura del genere" ha replicato Stéphane Le Foll, portavoce del governo, definendo quella di Le Guen una "posizione personale". In passato, altri ministri di sinistra, come l’ecologista Cécile Duflot o l’ex Guardasigilli Christiane Taubira, hanno ipotizzato la legalizzazione anche per lottare contro un traffico che alimenta la criminalità e stimato a oltre un miliardo di euro all’anno. Il think tank di sinistra Terra Nova ha pubblicato un rapporto per studiare l’impatto economico dell’anti-proibizionismo. In caso di depenalizzazione per il consumo ad uso personale ci sarebbe un taglio di oltre 300 milioni di euro sulle spese per processi, carceri e polizia. Nel caso invece di una parziale legalizzazione, con un prezzo della cannabis fissato dallo Stato, ci sarebbe un gettito fiscale tra 1,8 e 2,2 miliardi di euro all’anno, secondo Terra Nova. La riapertura del dibattito non è casuale in un momento in cui l’esecutivo è ai ferri corti con le associazioni di studenti in piazza per protestare contro la riforma del mercato del Lavoro. Le dichiarazioni di Le Guen sono probabilmente un messaggio ai giovani e un tentativo di riconquistare l’elettorato di sinistra a un anno dalle presidenziali e una gauche mai così impopolare. Ma sia François Hollande che Manuel Valls si sono più volte espressi contro qualsiasi ipotesi di legalizzazione. "Sono convinto, come il presidente, che una società deve sapere mettere dei divieti" ha ribadito il premier. A destra le posizioni sono ancora più nette. Nicolas Sarkozy ha più volte dichiarato che levare il divieto sulla cannabis sarebbe "irresponsabile", mentre per Alain Juppé è un "pessimo segnale lanciato ai giovani". "La Turchia di Erdogan calpesta i diritti umani e la libertà di stampa" di Sara Volandri Il Dubbio, 15 aprile 2016 Denuncia del Consiglio d’Europa. Nel mirino oppositori e giornalisti. Nella sua lotta contro il terrorismo la Turchia sta calpestando le garanzie dei cittadini e la libertà di stampa. A lanciare l’allarme è il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, alla fine della visita di nove giorni che ha condotto nel Paese. Il riferimento è alle operazioni antiterrorismo nel sud est del Paese. Sono sempre di più le città a maggioranza curda in cui viene imposto il coprifuoco e l’esercito esegue raid contro i militanti del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, sostenuto dalle masse popolari, prevalentemente agricole, e considerato illegale dai turchi. Nelle operazioni, denunciano molte organizzazioni non governative, non vengono colpiti soltanto i combattenti per l’indipendenza, ma anche civili. "Negli ultimi mesi il rispetto per i diritti umani si è deteriorato a una velocità allarmante" ha osservato Muiznieks. Il commissario ha sottolineato che la Turchia "ha il diritto e il dovere di combattere il terrorismo" ma che nel farlo deve rispettare lo stato di diritto. "Nutro seri dubbi sulla legalità degli ordini imposti a interi quartieri" ha aggiunto, osservando che una decisione amministrativa basata su una legge che neanche contiene la parola "coprifuoco" è "una base molto debole per imporre drastiche restrizioni ai diritti fondamentali ad un’enorme popolazione per mesi e mesi". Dito puntato anche sulla proporzionalità delle operazioni antiterrorismo che hanno avuto come conseguenza la distruzione di vaste zone e lo sfollamento di migliaia di persone dalle città. "Le autorità turche hanno il dovere di condurre inchieste effettive sull’accaduto e risarcire senza indugio la popolazione locale che chiaramente ha sofferto enormi danni". Strasburgo lancia l’allarme anche per il deterioramento della libertà d’espressione. Muiznieks punta tra l’altro il dito sull’aumento esponenziale "nel numero di processi per insulto al Presidente", sul fatto che la Turchia detiene il record per numero di richieste di oscuramento di indirizzi Twitter e sui "danni irreparabili alla libertà di stampa e al pluralismo" causati dalla presa di controllo di giornali e televisioni. Ma le bordate non arrivano soltanto dalla Francia ma anche da oltre oceano. Nel rapporto annuale sui diritti civili redatto dagli Stati Uniti, a proposito della Turchia si afferma che ha usato le leggi antiterrorismo o di sicurezza nazionale per "reprimere l’attività della società civile. Il governo ha utilizzato le normative antiterrorismo, così come una legge contro gli insulti al presidente, per asfissiare il confronto politico legittimo e il giornalismo investigativo". I metodi voluti da Erdogan continuano insomma a fare discutere. Egitto. Caso Regeni, l’Europa in attesa. Pressing italiano su Mogherini di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 aprile 2016 L’europarlamentare Sergio Cofferati: "Lavoriamo perché il Consiglio dichiari l’Egitto paese non sicuro". Il silenzio italiano, e soprattutto europeo, sta diventando pesante. E non proprio perché da tanta quiete si debba presagire l’arrivo di una tempesta. Non una parola è stata pronunciata dal governo Renzi per rispondere alla provocazione suprema del generale Al Sisi, che - forte della nascente "partnership strategica" da sugellare nel fine settimana con l’alleato francese, e incassato il "piano Marshall" di Re Salman - ha tentato di mettere una pietra tombale sulla possibilità di ottenere la verità riguardo l’omicidio di Giulio Regeni. L’Italia è in attesa, prima di prendere quelle "misure proporzionate e adeguate" promesse dal ministro Gentiloni all’indomani del richiamo per consultazioni dell’ambasciatore Massari, che i canali diplomatici e politici rimessi in moto - questa volta soprattutto a Strasburgo - producano qualche effetto. Gli unici passi possibili, nel frattempo, sono quelli mossi dalla procura di Roma che ieri ha inviato una nuova rogatoria internazionale per richiedere una volta ancora alle autorità egiziane quei documenti investigativi che ormai sembrano sepolti sotto le parole del presidente golpista. L’8 febbraio scorso partì da Piazzale Clodio la prima rogatoria, che venne poi rinnovata quando il fascicolo consegnato agli inquirenti italiani il 14 marzo al Cairo si mostrò poco più di niente. La rogatoria inviata ieri è stata suddivisa in tre parti dal pm Colaiocco che l’ha stilata. Tre distinte richieste riguardanti testimonianze, tabulati telefonici e dati di celle telefoniche. Gli inquirenti italiani vogliono acquisire almeno i verbali delle testimonianze di tutte le persone sentite in merito alla scomparsa di Regeni, il 25 gennaio, e al ritrovamento del suo cadavere, il 3 febbraio. E ottenere le dichiarazioni (anche in audio) raccolte durante le indagini sulla presunta banda di cinque criminali, additati dal ministro degli Interni Ghaffar come responsabili dell’omicidio del ricercatore (pista riproposta di fatto da Al Sisi), ma uccisi dalla polizia egiziana. In circostanze tutte da chiarire, come chiedono i parenti. E proprio di questi cinque "criminali" la procura di Roma vuole acquisire - è la seconda parte della rogatoria - i tabulati telefonici, insieme a quelli di altre otto persone. Infine, l’ultima richiesta riguarda i dati raccolti dalle celle telefoniche nella zona in cui Giulio presumibilmente è stato rapito e in quella dove è stato ritrovato senza vita, sulla strada che collega Il Cairo ad Alessandria. Intanto a Strasburgo gli europarlamentari italiani stanno lavorando all’interno dei propri gruppi per costruire iniziative politiche assieme ai loro omologhi di diverse nazionalità. "Stiamo cercando di coinvolgere anche gli altri europarlamentari, all’interno della nostra "famiglia" socialista e nella Gue, la sinistra, a cominciare dai francesi - racconta Sergio Cofferati, S&D - al fine di sollecitare Mogherini a compiere passi formali. Dopo la risoluzione sul caso Regeni votata un mese fa dal Parlamento europeo, ora l’obiettivo è far dichiarare all’Europa l’Egitto paese non sicuro". Ma la strada è lunga. Per intanto bisognerà aspettare di sapere se Hollande nella sua missione di affari al Cairo avrà tenuto conto delle "sollecitazioni" italiane e delle ong francesi. Al suo rientro, sostengono alcune voci, dovrebbe riferire a Matteo Renzi. Una marcia Perugia-al Sisi. Per illuminare l’altra storia di Giulio Regeni di Flavio Lotti (Coordinatore Tavola della pace) Il Manifesto, 15 aprile 2016 Anticipazione della Perugia-Assisi. In marcia la scuola e la comunità di Fiumicello. Dobbiamo fare in modo che la vicenda del giovane ricercatore assassinato al Cairo possa generare nuove passioni e impegno. Domani saremo ancora una volta ad Assisi insieme a cinquemila giovani di più di cento scuole di tutt’Italia. Ad aprire il corteo saranno un lungo striscione arcobaleno e una scritta: "Abbattiamo i muri". E gli amici di Fiumicello, la comunità di Giulio Regeni. Nelle stesse ore in cui Papa Francesco e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, con un atto di straordinario coraggio politico, saranno tra i profughi dell’isola di Lesbo, torneremo a marciare sulla via della nonviolenza. Sarà un’anticipazione della Perugia-Assisi che il prossimo 9 ottobre tornerà a riunire il popolo della pace e allo stesso tempo un evento originale. Protagonista sarà la scuola, una scuola invisibile agli occhi dei grandi media abituati a vedere solo gli episodi di incuria, violenza, gossip e polemica politica. Una scuola fatta di studenti costretti a crescere in un mondo schifoso, dove ogni giorno veniamo a sapere di una nuova orribile strage di innocenti, di uomini trucidati, di bambini affogati, di donne violentate, di ospedali e scuole bombardate, di lapidazioni, decapitazioni, torture, sofferenze disumane, di muri che si costruiscono, di istituzioni che crollano, di porte che si chiudono, di lavoro che scompare, di paure che crescono. Una scuola fatta di insegnanti e dirigenti scolastici che credono in quello che fanno, che cercano costantemente di innalzare la qualità dell’educazione dei propri studenti, di innovare i percorsi didattici all’insegna dell’educazione alla cittadinanza glocale, alla responsabilità e alla pace, di aprire le aule al territorio e al mondo che le circonda. Ad Assisi porteranno i risultati di un anno di scuola in cui si è cercato di fare i conti con le sfide cruciali del nostro tempo come le guerre e le migrazioni e con i grandi temi dell’informazione, dell’ambiente, dell’economia, dei diritti umani, dei giovani, dell’Europa e del Mediterraneo. Alcuni studenti ci diranno dell’impegno che hanno profuso per pensare e progettare la "pace a km 0", nella propria scuola, quartiere, città. E sarà una grande lezione per tutti quelli che non sanno mai cosa fare per la pace. Con altri, che sono andati alla ricerca del significato autentico delle parole, cercheremo di capire come si fa a disertare la guerra quotidiana delle parole e costruire un argine a quelli che speculano sulle paure e sull’indignazione dei cittadini, che vogliono sostituire il buonismo con la cattiveria, che ad ogni dichiarazione approfondiscono le divisioni, creano nuovi nemici ed erigono nuove barriere. Assieme a loro ci saranno cinquanta ragazzi e ragazze, giovani, insegnanti, animatori culturali, preti e amministratori locali di Fiumicello arrivati ad Assisi per illuminare l’altra storia di Giulio Regeni. A tre mesi dalla sua barbara uccisione, mentre il generale Al Sisi è costretto ad uscire allo scoperto negando l’evidenza, noi vogliamo accendere i riflettori sulla storia di una persona cresciuta in una famiglia e in una comunità che si prende cura dei suoi figli in modo aperto e responsabile. Ad Assisi oggi ascolteremo la storia di un ragazzo che non sapeva cosa fosse l’indifferenza, che aveva voglia di conoscere, di capire, di pensare in grande, di andare sino in fondo nelle cose, di essere parte attiva di una società ormai senza confini, impegnato a migliorare questo nostro mondo. Mentre continuiamo a chiedere verità e giustizia per la sua fine tragica dobbiamo fare in modo che la sua storia di responsabilità possa girare nelle scuole di tutto il paese e generare nuove passioni e impegno. Lo dobbiamo fare con la consapevolezza che la storia di Giulio Regeni è anche la storia di tante ragazze e ragazzi a cui non diamo mai la giusta attenzione, il giusto rispetto e rilievo, il meritato ascolto e riconoscimento. Giovani che rimbalzano alle cronache solo dopo una tragedia, com’è stato per Valeria Solesin. Giovani che non possiamo più permetterci di lasciare ai margini. La pace si allontana e le sfide che dobbiamo affrontare sono immense. Eppure ci sono tanti giovani che abitano questo mondo globalizzato e non si rassegnano all’evidenza, che fanno i conti con il proprio potere e le proprie responsabilità, che cercano di capire cosa non va nel nostro modo di vivere e di "fare società" e di cambiare qualcosa nella propria vita costruendo nuovi rapporti economici, sociali, internazionali e con la natura. Sulle loro spalle ci sono il debito pubblico e tutti i problemi che non siamo riusciti a risolvere. Evitiamo di caricarci anche i nostri fallimenti e le nostre frustrazioni. Facciamogli spazio, incoraggiamoli ad esplorare strade nuove, lasciamoli andare ma non lasciamoli soli. Accompagniamoli senza pretendere di dargli troppe lezioni e imporre il nostro protagonismo. Con la cura e l’umiltà dei genitori di Giulio. Messico: nella metà delle carceri messicane sono i narcos a dettare legge di Mario Lucio Genghini blogosfere.it, 15 aprile 2016 In più della metà delle carceri messicane è stato acclarato che a "esercitare il controllo interno, attraverso la violenza" sono i narcos. I trafficanti in stato di prigionia, forti di appoggi esterni, impongono le loro leggi, sostituendosi alle autorità. A dirlo è un rapporto della Commissione Nazionale per i Diritti Umani (Cndh). L’ente aggiunge che la malavita può "gestire" i penitenziari grazie alla forte disorganizzazione, alla mancanza di fondi e alle pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivono i prigionieri. Le carceri messicane, con una popolazione di circa 250 mila detenuti, sono vicine al collasso. Ne è testimonianza quanto accaduto in un istituto di detenzione di Monterrey, poco prima della visita di Papa Francesco nel paese latinoamericano. Qui, come si è verificato spesso altrove, è stato organizzato un tentativo di fuga, attraverso rivolte che hanno trovato la complicità di una parte del personale interno. Ovviamente, in Messico, la prima urgenza è quella sociale, ma la complicità tra politica e malavita è forte. E forse anche per questo motivo che il disegno di legge sull’ Esecuzione delle sanzioni penali è fermo da tre anni. Eppure bisognerebbe prendere atto dell’implosione di un sistema. Solo nel 2015 si sono registrati 23 "suicidi", 55 casi di abusi, 54 omicidi, 250 disordini e 1382 risse interne. Siamo difronte a 2.110 episodi di violenza. Cndh si è recata in 130 carceri (il 36% del totale) ed ha riscontrato gravi lacune in tutti i settori. Dal sovraffollamento alla mancanza di attività di lavoro per i detenuti. Ma c’è da segnalare anche la mancanza di personale di sicurezza e custodia e gli scarsi mezzi per far fronte agli incidenti, alle risse, alle lesioni, alle insubordinazioni. Il sovraffollamento porta con sé effetti devastanti, come il dilagare di malattie infettive. Inoltre, non ci sono programmi adeguati per contrastare la tossicodipendenza. "I dati (raccolti ndr.) non permettono di concludere che il sistema carcerario è opportunamente organizzato e in grado di operare su una base di rispetto dei diritti umani, in cui il lavoro, la formazione, l’istruzione, la salute e lo sport dovrebbero essere i mezzi per raggiungere il reinserimento sociale dei detenuti", ha dichiarato il presidente della Cndh, Luis Raúl González Pérez. Secondo Cndh, i penitenziari sono diventati zone franche dove tutto può accadere. È il caso di Piedras Negras, un istituto di Saltillo dove, secondo una ricerca della Procura Generale dello Stato, tra il 2008 e il 2011 più di 150 persone sono state uccise da cellule legate al crimine organizzato. Mauritania: "io, l’occhio del mondo al processo di un ragazzo condannato a morte" di Gianluca Abate Corriere del Mezzogiorno, 15 aprile 2016 Il giudice Nicola Quatrano "osservatore" al dibattimento in Mauritania per apostasia. Quando domani mattina partirà con destinazione Nouakchott, Repubblica islamica della Mauritania, Nicola Quatrano metterà in valigia una sola certezza: "Quella di assistere a un processo d’appello che deve ribaltare una sentenza di primo grado ingiusta e tecnicamente errata. Punto. Nessuno scontro tra civiltà, nessuna campagna anti-islamica in chiave occidentale. Sarò semplicemente l’occhio del mondo aperto in quell’aula". Ché Quatrano - giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli - è l’osservatore internazionale che ha il compito di controllare l’andamento del processo a carico di Mohamed Cheikh ould Mohamed ould M’kheitir, il contabile di trent’anni condannato a morte per apostasia al termine di un dibattimento durato appena un giorno e celebrato tra incredibili pressioni popolari e mediatiche. Ed è per questo che l’Unione delle Camere penali italiane e il Comune di Napoli (che a M’kheitir ha conferito la cittadinanza onoraria il 2 luglio 2015) hanno deciso di inviare un "osservatore". La sentenza: "Si è preso gioco del Profeta" - Comprendere perché si tratti di una presenza necessaria lo spiegano, meglio d’ogni altra cosa, le 25 pagine della sentenza con cui il 24 dicembre 2014 il tribunale penale di Dakhlet-Nouadhibou ha condannato M’kheitir alla pena capitale "per essersi preso gioco del Profeta e per il reato di ateismo". Il ragioniere, che lavorava presso una società di carico e scarico della Mauritania, è stato processato per un articolo sul periodo della conquista dell’Islam ("La religione, la religiosità e i fabbri") nel quale faceva alcune riflessioni sugli aspetti della società islamica, scrivendo di voler "cercare di fare una separazione tra spirito religioso e religiosità di alcuni eventi" e domandandosi: "La religione che noi pratichiamo ha vari volti. Come possono vari volti darci un unico vero volto?". M’kheitir non ha negato neppure per un attimo di essere l’autore di quello scritto, e ai giudici ha spiegato - come riporta la stessa sentenza - che "non ha alcuna consapevolezza circa il fatto di essersi preso gioco del Profeta, e se involontariamente avesse commesso un tale errore nella sua vita, allora si sarebbe pentito". È per questo che ci si attendeva una pena di 2 anni di prigione, il massimo previsto per un apostata che abbia riconosciuto la propria apostasia. E invece no, perché i giudici hanno respinto la richiesta di pentimento sostenendo che questa "non può essere accolta dopo che sono state appurate le prove del reato di ateismo". M’kheitir, tanto per capire, è accusato anche di "non aver chiesto la benedizione di Dio sul Profeta" per ben 17 volte. Gli contestano, in pratica, di aver omesso di aggiungere l’inciso "che la pace e le benedizioni di Dio siano su di lui", obbligatorio dopo che si scrive il nome del Profeta. Una "dimenticanza", ha protestato l’imputato. Non è servito a nulla. Il giudice: "Negati i diritti di difesa" - È in questo clima che, lunedì prossimo, i giudici della corte d’appello si riuniranno per riesaminare il caso. E, questa volta, ad ascoltarli ci sarà anche Nicola Quatrano. "I miei poteri concreti, formalmente, sono meno di zero. Ma sarò l’occhio e le orecchie del mondo su questo caso, e questo costituisce la mia forza. Parliamo di Paesi dove lo Stato di diritto non esiste, e la presenza di un osservatore internazionale non passa inosservata ai giudici: ora sanno che tutto ciò che faranno verrà raccontato". E di cose da raccontare, in questo caso, ce ne sono già tante. "La difesa non garantita, innanzitutto. L’avvocato di fiducia aveva rinunciato al mandato per le pressioni subìte, così gliene hanno assegnato uno d’ufficio. Il quale, però, ha dedicato la sua arringa non a difendere l’imputato, ma a giustificarsi del fatto che lo difendesse. E poi le tante associazioni islamiche ammesse come parti civili: non accade quasi mai, in questo caso invece hanno fatto parlare tutti. Venti persone contro due, se vogliamo contare anche l’avvocato. Ecco, direi che in questo caso non si possa parlare di giusto processo". La moratoria sulla pena di morte - Qualche notizia buona, però, inizia a filtrare dalle nebbie della giustizia africana. "Lo spostamento del processo nella capitale Nouakchott, innanzitutto: mi sembra, in uno sforzo di ottimismo, di poter cogliere in questo un segnale positivo, quasi a voler sottrarre il processo alle pressioni. E poi la mobilitazione della comunità islamica di Napoli guidata dall’imam Abdallah Cozzolino, un’iniziativa che ha un duplice valore simbolico, perché ci dice che l’Islam non è un monolite e - soprattutto - che il suo problema è quello di tutte le religioni: un orrore quando sono strumenti che il potere utilizza per mantenere ordine e privilegi, assolutamente non terrificanti nella loro fisiologia. E la critica della comunità islamica alla sentenza dimostra anche che non siamo davanti a una campagna dell’Occidente contro l’Islam, a una guerra di religione o a uno scontro di civiltà. Si tratta, nella sua tragica semplicità, solo di una sentenza ingiusta ed errata sul piano tecnico. E spero che i giudici d’appello lo riconoscano". Comunque vada, M’kheitir adesso almeno non rischia la morte. "L’unica nota confortante è che la Mauritania ha aderito alla moratoria sulla pena capitale promossa dall’Italia all’Onu, quindi la condanna non sarà eseguita. Ma M’kheitir è detenuto in una cella lurida e piena di scarafaggi, dove è stato sei mesi senza potersi lavare, tagliare i capelli, le unghie. E io, francamente, non so se sia peggio essere giustiziati o essere condannati a morire in quel carcere". Nigeria: in un video le ragazze di Chibok "Ma il governo non fa nulla per loro" di Anna Lombardi La Repubblica, 15 aprile 2016 A due anni dal sequestro di 210 giovani da parte di Boko Haram, lo scrittore nigeriano Okey Ndibe accusa i leader del paese: "Non si sono impegnati per ritrovarle e non proteggono quante sono riuscite a fuggire". "Il rapimento di 210 ragazze di Chibok, due anni fa, da parte di Boko Haram ha ferito profondamente la società nigeriana. Ed è una ferita che non si rimarginerà facilmente. Siamo un paese a pezzi: che non ha fiducia nel governo né nell’esercito. E che non sa più guardare al futuro". Sono amarissime le parole di Okey Ndibe, uno dei più autorevoli scrittori nigeriani viventi. Cinquantasei anni, giornalista e romanziere (in Italia è pubblicato il suo Il prezzo di Dio, ed. Clichy), nonostante viva negli Stati Uniti, è attentissimo ai problemi del suo paese. A due anni dal rapimento, un video mostra che le ragazze sono vive. Non le dà speranza? "Naturalmente. Ma anche se dovessero essere liberate domani, non mi faccio illusioni. L’esperienza di questi due anni le segnerà per il resto della vita. Anche se tanti sono sinceramente preoccupati per la per la loro sorte, la Nigeria non è pronta a riaccoglierle. La nostra è una società dove le donne vengono discriminate e abusate anche quando hanno subito violenze terribili. Mi auguro che la comunità internazionale si impegnerà a prendersi cura di queste ragazze perché il governo nigeriano non sarà in grado". La sua è un’accusa grave… "Quando le ragazze vennero rapite nel 2014 il vecchio governo non fece nulla per ritrovarle. Addirittura ci fu chi, nelle ore successive, negò che il rapimento fosse realmente accaduto. Altri dissero che i genitori erano in combutta con i terroristi. Le cose non sono cambiate. Il presidente Buhari ha recentemente ammesso di non essere in grado di localizzarle. Eppure sappiamo che almeno un governo occidentale ha fornito informazioni in tal senso. In questa storia ci sono troppi misteri". Cosa imputa al governo? "Purtroppo in Nigeria l’unica cosa che conta è accaparrarsi un potere che viene poi usato solo per i propri interessi e non per il benessere di quelli che pure dovrebbero essere il futuro della società: i giovani. Poveri, giovani e donne sono come dei paria: lo dimostra il modo in cui a queste ragazze è stata negata la dignità di vivere e studiare. Si sapeva benissimo che in quella regione le scuole fossero un obiettivo dei terroristi. Nessuno ha fatto niente per proteggerle". Come ha reagito la gente in Nigeria?? Quanto ha influito questa tragedia sulle loro vite? "Gli indignati sono moltissimi. Condividono il dolore dei genitori di quelle ragazze e sono consapevoli che non è solo di un problema locale, ma che sulla sorte delle ragazze di Chibok c’è l’attenzione del mondo intero, che ora non può più far finta di ignorare quanto i governi nigeriani siano carenti. Purtroppo però all’interno del Paese la sorte delle ragazze è l’ennesima occasione di lite politica. Ci si rimbalza responsabilità. Provo vergogna e dolore per tutto questo". La comunità internazionale sta facendo abbastanza? "Probabilmente sì: purtroppo quel che conta è quel che non si fa in Nigeria. Dove visto che non si punta sull’istruzione scolastica, l’ignoranza porta alcune comunità ad agire nei confronti delle vittime con la stessa violenza dei terroristi che ne sono stati carnefici?. C’è chi torna incinta del figlio di un terrorista. Non importa che sia stata stuprata: subisce l’ostracismo di tutto il villaggio. La verità è che queste ragazze, libere o prigioniere che siano, sono lasciate sole". È possibile che cambi qualcosa? "Da noi manca il concetto di sostegno sociale delle vittime. Una volta portate via, le ragazze non vengono più considerate parte della comunità. Questa particolare natura della società nigeriana non mi rende particolarmente speranzoso. Ed è per questo che parlo di società ferita: l’istruzione può cambiare le cose. Ma in un paese dove i terroristi attaccano le scuole e il governo non fa nulla per difenderle, la cura sarà difficile da trovare. Perché se non si punta tutto sull’istruzione dei giovani e delle donne, il futuro scompare".