Dove è finita l’indipendenza della magistratura? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 aprile 2016 C’è chi sostiene che il principio dell’indipendenza della magistratura è sacrosanto (la maggioranza degli Italiani lo sostiene), e chi ha qualche perplessità. Comunque il principio dell’indipendenza è sancito dalla nostra Costituzione. È una delle caratteristiche più importanti del sistema giudiziario italiano, che lo rende diverso da altri sistemi giudiziari (come quello francese e quelli anglosassoni) dove il pubblico ministero risponde all’esecutivo o all’elettorato. Ora c’è un problema: se la magistratura deve essere indipendente, lo deve essere da tutto. Non solo dal potere politico. Perché il valore dell’indipendenza è davvero un valore solo se si afferma come tale e non semplicemente come strumento di limitazione di un altro potere (e cioè il potere politico). Il caso di Doina Mattei - la ragazza che dopo nove anni in cella per un omicidio preterintenzionale aveva ottenuto la semilibertà, e ieri è stata di nuovo arrestata - ci spiega in modo quasi lampante che purtroppo non è così. E cioè che per la magistratura è ormai difficilissimo rendersi indipendente dal potere mediatico. L’usanza da parte dei giornali, delle televisioni, dei web, di svolgere i processi fuori dai tribunali, giudicare, emettere sentenze, punire, ponendo la magistratura di fronte a "fatti compiuti", è ormai la norma. Ed è la norma per i giudici che emettono sentenze di assoluzione dover affrontare la furia dei giornali e dell’opinione pubblica. È successo tante volte. Eternit, Sollecito e Amanda, terremoto dell’Aquila, poliziotti del caso Cucchi... Tutto questo limita l’indipendenza e la dignità della magistratura. Stavolta le cose sono andate così: i giornali e poi il web hanno scoperto che Doina era libera (anzi semilibera, perché la sera doveva tornare in cella), dopo solo nove anni di galera. Hanno deciso che nove anni (più altri nove di semilibertà) sono troppo pochi. Si sono indignati. Hanno gridato allo scandalo. Hanno chiesto ai magistrati d’intervenire e di riportare Doina in prigione. Il magistrato di sorveglianza, che aveva permesso la parziale scarcerazione, ha preso spunto dalla presenza di Doina su Facebook (dove ha anonimamente postato alcune sue foto "spensierate") e ha deciso di sospendere la semilibertà e di far rinchiudere di nuovo Doina. Probabilmente, in punta di diritto, il provvedimento è in regola. Si tratta di vedere come si interpreta la legge e come si interpretano le misure di restrizione della libertà che erano previste nel provvedimento di concessione della semilibertà. Però francamente nessuno al mondo può credere che il magistrato veneziano abbia preso la decisione di sospendere la semilibertà perché era preoccupato dagli interventi di Doina su Facebook. Il magistrato si è posto, molto comprensibilmente, il problema di come affrontare l’ondata di proteste sollevata dai media. E ha compiuto la scelta più semplice e popolare: punire severamente Doina e chiudere il caso. Cosa si può fare per porre i magistrati nelle condizioni di lavorare, di indagare, di decidere e di giudicare in piena autonomia e non sotto la pressione dei media? Non arrendersi. Purtroppo non sono più i tempi nei quali grandi intellettuali come Mario Gozzini godevano di grande prestigio e potevano scrivere, in tranquillità, leggi moderne e garantiste come quella, approvata nel 1986, sulla semilibertà. Oggi Gozzini, se fosse vivo, sarebbe esposto alla gogna. Considerato un complice dei malfattori, al pari degli avvocati. Non solo dai forcaioli dichiarati, ma anche da giornalisti molto prestigiosi e stimati, come Massimo Gramellini, per esempio, vicedirettore di un giornale borghese, colto e d’élite come La Stampa, che ieri ha scritto un articolo su Doina, in prima pagina, che sembrava la requisitoria di qualche prosecutor del Massachusetts durante i processi alla streghe. No, non c’è più spazio per Gozzini. Oggi prevalgono intellettuali un po’ meno colti ma più sanguigni. Tipo Salvini. Della pena e del sorriso di Doina Matei di Luigi Manconi (Senatore Pd) Il Manifesto, 14 aprile 2016 L’impossibile "redenzione". Contro applicazione dell’articolo 21 per la giovane donna condannata per omicidio. Un giustizialismo dozzinale che va oltre lo spirito di vendetta. In altri tempi sarebbe stata letta come una bella storia edificante. Edificante, cioè, come la letteratura virtuosa e devozionale: ovvero quella capace di costruire modelli positivi e di proporre buoni esempi. Quindi, in grado di edificare moralmente il lettore. Una storia in qualche modo a lieto fine, pur nella tragedia cui rimanda, e ricca di lezioni significative: una giovane donna che, per sua responsabilità e complice un destino malvagio, uccide un’altra giovane donna e finisce in carcere con una condanna esemplare (per quella stessa fattispecie penale le sanzioni medie irrogate equivalgono alla metà). Qui, a seguito di un faticoso e doloroso itinerario di espiazione, si emancipa progressivamente dal suo crimine. Legge, scrive, si istruisce, lavora e compone versi. Vince un premio nazionale di poesia, riservato ai detenuti e intrattiene relazioni con molti interlocutori (compresi studenti e docenti dell’Università di Perugia). Mantiene costantemente quella che viene definita "buona condotta" nelle diverse carceri che ha conosciuto; riceve sempre ottimi giudizi da parte degli operatori penitenziari; e intrattiene con tenacia, rapporti assidui con i due figli, rimasti in Romania e affidati alla sorella. Fino a quando, scontata metà della pena, ottiene l’applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento carcerario, quello che consente il lavoro esterno diurno. Sembrerebbe la realizzazione della concretissima utopia dell’art. 27 della Costituzione dove, al comma 3, parla di "rieducazione" del condannato. Come detto, in altri tempi, un tale racconto sarebbe stato intitolato "Redenzione". Ma oggi questo apologo morale sulla grandezza del pentimento e del riscatto viene sfigurato e sporcato. Così il fatto che in quelle foto "sorridesse" diventa un inesorabile capo di imputazione. Questo giustizialismo dozzinale non ha nemmeno la grandezza della ferocia che lo spirito di vendetta talvolta assume: è cattivismo miserrimo da vagone ferroviario. Tante le cause, ma ce n’è una che mi interessa in particolare. Ed è il peso crescente che, insieme alla codardia interessata del ceto politico e all’ignavia farisaica di quello intellettuale, assumono, nella produzione di allarmi sociali, "gli sguardi cattivi della gente". Quest’ultimo è il titolo di un racconto di un autore, Claudio Piersanti, che ha scritto bei libri dai bellissimi titoli. La giustizia non sia emotiva di Beniamino Migliucci (Presidente Ucpi) Il Tempo, 14 aprile 2016 Il caso Matei ha provocato forti reazioni emotive. Ci si è chiesti come mai una persona condannata a 16 anni potesse essere già libera prima del tempo. Non sempre si spiega che le norme del nostro ordinamento penitenziario consentono la concessione di benefici per favorire il graduale reinserimento del condannato nella società e che le misure alternative allontanano dal delitto, mentre la carcerazione provoca recidiva. Il regime di semilibertà può essere adottato solo dopo la espiazione di almeno metà della pena e nel caso in cui siano stati registrati progressi significativi. La semilibertà è stata sospesa dal magistrato, dopo che erano apparse delle fotografie su Facebook. Non è possibile una valutazione puntuale senza conoscere le prescrizioni imposte, né il provvedimento del giudice nel dettaglio. Il Tribunale dovrà verificare se esistano i presupposti per la revoca, che può essere disposta quando il comportamento sia tale da rivelare la impossibilità di recupero del reo. La pressione mediatica e l’emotività non dovranno condizionare la valutazione perché un sorriso o una foto in bikini possono certo pregiudicare un percorso intrapreso positivamente. Se le condotte sono queste, non sembrano tali da evidenziare inidoneità al trattamento, anche perché le foto parrebbero scattate durante un permesso premio, del quale la condannata si era resa meritevole. D’altro canto, non sempre un viso corrucciato rivela pentimento e un sorriso esprime mancanza di rispetto verso chi ha provato dolore. Quanto odio per Doina, perché siamo diventati così? di Angela Azzaro Il Dubbio, 14 aprile 2016 C’è chi contro di lei chiede il ripristino della pena di morte. Partiamo dai fatti di questi giorni. Il Messagero "scopre" il profilo finto di Doina Matei su Facebook, la donna condannata a 16 anni per l’omicidio preterintenzionale di Vanessa Russo, e fa un articolo pubblicando le foto che la ritraggono sorridente e in costume. Quelle immagini fanno il giro del web e delle redazioni dei giornali, suscitando molta indignazione. Ventiquattrore dopo il magistrato di sorveglianza sospende la semilibertà. Perché Doina non è libera, non ha finito di scontare la pena, di giorno lavora in una cooperativa sociale, la sera torna in carcere. Sono passati più di otto anni da quando sta scontando la pena, ma per molti che commentano quelle immagini solo l’idea che Doina possa sorridere, possa anche lei rifarsi una vita, è un’offesa nei confronti della vittima. Non c’è spazio per la speranza, per il perdono. Non c’è spazio per l’articolo 27 della Costituzione che parla di rieducazione e di pene che non siano contrarie al rispetto della persona. Non c’è neanche spazio per la legge Gozzini che prevede le misure alternative al carcere. Doina, secondo molti, deve stare in galera per tutta la vita. L’avvocato Nino Marazzita, che difende la donna romena, ha confermato il legame tra le foto su facebook e la decisione del giudice di sorveglianza. L’ordinanza di sette righe non fa un diretto riferimento, in sette succinte righe sospende semplicemente la semilibertà. Ma il legame, ribadisce l’avvocato, è evidente. La sequenza dei fatti del resto lascia poco spazio ad altre ricostruzioni: la decisione è arrivata poche ore dopo la polemica mediatica. I toni dei commenti sui social e sotto gli articoli dei giornali sono di varia natura. Si va dalle critiche, più o meno garbate, rispetto alla mancanza di buongusto di Doina alla richiesta di ripristinare la pena di morte. Nei confronti di Doina c’è un’aggravante: non solo ha ucciso, anche se non voleva. Doina è romena. È straniera. Doina ha ucciso un’italiana. Doina è una poco di buono. La domanda che sorge leggendo questi commenti è come si possa nutrire tanto odio e tanto rancore nei confronti di una donna che tenta di rifarsi una vita, ma in generale come si possa provare odio nei confronti di un sistema di garanzie che ha lo scopo di non scadere mai nella vendetta. Beccaria oggi inorridirebbe e insieme a lui chi ha cuore lo stato di diritto. Chi ha a cuore la pietà. La convinzione è che quel sorriso possa ledere i diritti e il ricordo della vittima. A prima vista potrebbe sembrare un ragionamento esatto. Ma a pensarci bene anche in questa frase apparentemente condivisibile e innocente è sotteso lo spirito di vendetta. Doina deve soffrire, Doina non deve scontare la pena, deve essere sottoposta a un trattamento che si avvicini il più possibile al fine vita. Veronica Russo non torna in vita, non si lenisce il dolore, più che legittimo, dei genitori della ragazza uccisa. Si prova piacere nel vedere che un’altra persona soffre, che anche un’altra donna viene privata di un sorriso. Le urla di gioia che hanno accolto la notizia della sospensione della semilibertà confermano questa analisi. La vittima interessa in maniera relativa, importante è esprimere il sentimento di disprezzo nei confronti del reo, considerato come un appestato. Qualcuno, appunto, lo ha detto in maniera esplicita: ah che bello se ci fosse la pena di morte. E allora, io mi chiedo, come è stato possibile che siamo diventati una società fondata sull’odio, sulla vendetta, sulla ghigliottina? Sentimenti simili sono sempre esistiti, ma oggi sono più diffusi e radicati nella cultura delle persone. Qualcosa di brutto e di profondo è avvenuto in una società che non sa più pensare il perdono. Qualcosa di grave, che va analizzato e contrastato. Prima che sia troppo tardi. Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 14 aprile 2016 Oggi avrei potuto congratularmi per la notizia che Carmelo Musumeci, il più noto e tenace degli ergastolani "ostativi", quelli ai quali, fottendosene della Costituzione, cala addosso una condanna che pretende di essere senza remissione possibile, ha potuto, per la prima volta dopo 25 anni, trascorrere la Pasqua con figli e nipoti. Però oggi leggo anche che una signora romena condannata per omicidio preterintenzionale a 16 anni, avendo scontato positivamente il tempo previsto della legge così da ottenere i primi permessi e la semilibertà, è stata privata di quei "benefici" per aver pubblicato su Facebook sue fotografie al mare, in costume e con un viso sorridente. La notizia sarebbe passabile se si documentasse che nella misura disposta dal giudice fosse ordinato alla "beneficiaria" di non andare al mare (a Venezia), di non comunicare attraverso Facebook, di non indossare un costume da bagno, e di non sorridere mai più, o almeno di non sorridere in fotografia. Aspettiamo dunque di leggere le disposizioni relative del giudice che ha disposto la revoca. Ma prima del giudice erano arrivati i giornali, compresi i più importanti, alcuni dei quali avevano ritenuto di farne a lungo la prima notizia del giorno, con titoli gonfi di indignazione e di scandalo. Il Corriere chiama la signora "la killer dell’ombrello". Se non fraintendo grossolanamente, "omicidio preterintenzionale" vuol dire che l’orrenda morte della giovane Vanessa Russo di cui la donna fu causa, e per la quale ha ricevuto una condanna pesantissima, non era stata voluta. L’espressione "killer dell’ombrello" evoca compiaciutamente una persona dedita all’uccisione altrui attraverso l’ombrello. Leggo anche che chi ha addosso una colpa come quella della giovane donna dovrebbe tenere un contegno tale da non rinnovare o esacerbare la pena delle vittime. Ne deduco che chi ha addosso una tale colpa debba tenere per sempre e anche nella propria vita privata un contegno compunto e penitente: che, se fosse possibile, e umanamente non lo è nemmeno per il più abile impostore, sarebbe il peggiore oltraggio alle vittime e alla società. Aggiungo, benché sia superfluo, che ho una specie di super-diritto a dire la mia opinione, essendo stato imputato e condannato senza essere colpevole e, non senza, ma contro le prove. Superfluo, perché se fossi stato colpevole e condannato giustamente, ne avrei lo stesso diritto di chiunque altro. Con il privilegio di un’attenzione in più a una società che moltiplica denunce e dossier anonimi e festeggia l’intimità frivolmente violata. Una società che non lo fa nemmeno tanto per la carriera, per vendere di più, per eliminare i rivali e altre magnanime convenienze: lo fa perché le piace, e perché ci ha fatto l’abitudine e non saprebbe più farne a meno. Su un grande giornale, o su un piccolo infame Facebook. Il Ministro Orlando: "giusta la decisione su Doina Matei" di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 14 aprile 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando spiega che il magistrato di sorveglianza ha fatto bene a togliere la semilibertà alla rumena accusata di omicidio: e non perché sorrideva, ma perché ha usato un mezzo per comunicare con il mondo intero. Al netto delle polemiche mediatiche, il magistrato di sorveglianza ha fatto bene a togliere la semilibertà a Doina Matei, condannata per omicidio per aver ucciso Vanessa Russo colpendola con un ombrello in un occhio durante una lite in metropolitana. "Non ha fatto altro che applicare la legge". A confermarlo è il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che spiega che la decisione non è stata presa "perché Doina sorrideva nelle foto", ma semplicemente perché il regime a cui era sottoposta prevedeva la limitazione dei mezzi di comunicazione: e sicuramente l’uso di Facebook, che permette di comunicare col mondo intero, non era previsto. Questo dimostra, spiega ancora Orlando nel corso di #Corrierelive, che le pene alternative funzionano. E hanno aiutato l’Italia a superare la procedura di infrazione della Corte di giustizia europea per il sovraffollamento delle carceri: "L’equazione carcere uguale sicurezza funziona solo se ha determinati requisiti, altrimenti il carcere finisce per diventare un a scuola di criminalità", spiega Orlando in studio con Alessandra Arachi, Tommaso Labate e Dino Martirano. L’emergenza carceri - Nonostante la situazione sia migliorata rispetto a qualche anno fa, esiste ancora "un’emergenza perché abbiamo un modello distorto -spiega Orlando - Se fossimo stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo saremmo stati puniti per violazione dei diritti umani e non sarebbe stata certo una patente, anche economica, piacevole per l’Italia. Il secondo aspetto, sempre economico, è quello della spesa: noi spendiamo tre miliardi di euro per l’esecuzione penale, molto più della media europea, e abbiamo i tassi di recidiva tra i più alti. Tutti i politici hanno compreso col tempo che avere pene alternative significa garantire più sicurezza ai cittadini". Ecco il motivo per cui il ministero della Giustizia ha messo su gli stati generali dell’esecuzione penale, che, iniziati nel carcere modello di Bollate lo scorso anno, si concluderanno la prossima settimana a Rebibbia. Un’occasione di confronto e sensibilizzazione che ha coinvolto tutti gli operatori. Il caso Doina Matei - "L’interessata aveva una serie di prescrizioni connesse con la semilibertà, poteva usare solo dei numeri di telefono specifici, e usare Facebook non le era consentito -spiega Orlando- Una persona in semilibertà non può ancora essere del tutto libera di comunicare con il mondo. Il regime di semilibertà prevede che io possa avere dei benefici se non mi comporto male. Il meccanismo di solito funziona, e funziona in un aspetto che riguarda proprio i cittadini, perché è stato verificato che chi ha la possibilità di restituire qualcosa alla società con il lavoro spesso non torna a commettere reati". Il fallimento dell’indulto e dell’amnistia - "Indulto e amnistia hanno solo fatto rinviare le riforme strutturali. Noi abbiamo fatto un’altra scelta, quella di affiancare le pene alternative alla carcerazione. Quando eravamo vicini al massimo della carcerazione avevamo 89 mila persone in stato di detenzione, tra 70 mila detenuti e gli altri sottoposti a regime alternativo. Attualmente i delinquenti sottoposti a qualche forma di pena sono aumentati rispetto a quando le carceri scoppiavano". La rieducazione - "Tenerli in area comune è un po’ meglio che tenerli sulla branda ma ci vuole un passo in più , che è quello che vogliamo fare con gli stati generali dell’esecuzione penale. La sostanza del messaggio che vorremmo mandare è spingere verso la socializzazione. Ma dobbiamo individualizzare il trattamento. Non possiamo affiancare le persone per il tipo di reato, ma per il profilo della persona, e per i motivi che lo hanno spinto a compiere quel reato". Non isole felici, ma una media migliore dappertutto - "Io penso che vada modificato il senso comune di tutti: non avere piccole isole felici ma un sistema che mediamente funzioni un po’ meglio. Ieri ho visto tutti i magistrati di sorveglianza, oggi tutti i direttori di carcere: l’obiettivo è quello di migliorare la media poco alla volta su tutto il territorio nazionale". Lo stralcio delle carceri? "Impossibile" - È pensabile uno stralcio della materia penitenziaria per organizzarla da sola visto che il tempo per una delega di governo è troppo vicina alla scadenza per essere esercitata? "No, perché ci sono altri interventi, come la deflazione sulla Cassazione, che andrebbero trattati allo stesso modo urgentemente. Noi interveniamo 40 anni dopo la riforma del 75, con una società molto diversa, e dobbiamo farlo in maniera strutturale. All’epoca non c’era ancora l’immigrazione, c’era un’unica religione nelle carceri, la droga non era ancora esplosa: ci sono molte cose che vanno riviste perché questa è una società molto diversa e il carcere è uno specchio della società che ci circonda". Non più di 50 mila detenuti - Qual è la cifra ottimale perché non ci sia sovraffollamento? "La cifra a cui ci stiamo attestando oggi, 52-53 mila, richiede ancora un po’ di sforzi per arrivare ai 50 mila ideali. Ci sono carceri che vanno chiusi, come in Veneto. Dobbiamo usare meglio le colonie agricole, e poi fare più lavoro sul rimpatrio dei detenuti: io ho firmato degli accordi per il rimpatrio ma i meccanismi sono ancora molto farraginosi. Ho trovato numeri molto bassi su questo fronte, non c’erano i presupposti legislativi. Ad esempio, non avevamo un trattato con il Marocco per il rimpatrio dei detenuti. Eppure la comunità marocchina è numerosa. I numeri stanno migliorando, ma possiamo fare di più. Dobbiamo fare un lavoro più serio. Ad esempio con le Regioni perché i tossicodipendenti possano svolgere parte della detenzione in comunità". Uno statuto per le vittime - "Il tema delle vittime è spesso strumentalizzato. Noi siamo il primo governo che ha fatto qualcosa per il ruolo della vittima nel corso del processo. Abbiamo previsto una serie di norme di sostegno alla vittima, ed è in via di attuazione un fondo per risarcire le vittime di reati violenti. Alla fine dovremmo costruire uno statuto della vittima nel nostro ordinamento, che passi anche per forme di mediazione penale". Il peccato di Doina: "In semilibertà Facebook non si usa" di Simona Musco Il Dubbio, 14 aprile 2016 Orlando si schiera col giudice sulla detenuta rimessa in cella. Doina Matei non avrebbe dovuto pubblicare quelle foto su Facebook, quelle foto che la vedono sorridente sulla spiaggia, nell’unico giorno di permesso premio accordatole dal giudice. Anzi, non avrebbe dovuto usare Facebook, "uno strumento aperto all’universo mondo", come dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ed è per questo motivo che la giovane, oggi 30enne, condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio di Vanessa Russo, la 23enne uccisa nel 2007 con un ombrello dopo una lite in metropolitana a Roma, che da nove mesi si trovava in semilibertà, è tornata in carcere. Una decisione presa dopo il "can can mediatico", come è stato definito dal suo legale, Nino Marazzita, che ha accompagnato la pubblicazione delle sue foto sul social network. Doina aveva ottenuto la semilibertà dopo aver scontato nove anni di carcere. Da qualche mese, alla donna, madre di due figli e finita a fare la prostituta dopo essere arrivata in Italia con il sogno di una vita migliore, era stato accordato il permesso di lavorare di giorno e far rientro in carcere di sera. Prima in una pizzeria, poi in una comunità per ex detenuti. Ma a spingere il magistrato di sorveglianza Vincenzo Semeraro a firmare il provvedimento che l’ha fatta tornare in carcere sono state quelle foto scattate durante il permesso premio, che Doina ha trascorso in una spiaggia vicino Venezia. "Non ha fatto nulla di illegale, è tutta colpa della troppa pressione mediatica che c’è attorno a questo caso", tuona Marazzita. Che racconta il percorso di reinserimento di Doina. "Ha sempre rispettato tutte le regole in forma e sostanza per nove mesi. Proprio per la buona condotta tenuta, per i suoi comportamenti encomiabili, le è stato concesso un giorno di vacanza. Il suo peccato grave è stato quello di scattare delle foto...", sottolinea Marazzita. "Questa ragazza, dopo tutti gli errori commessi, ha fatto un enorme sforzo di recupero. Per un giorno di vanità è scoppiata una bomba mediatica". Nei prossimi 30 giorni verrà fissata l’udienza per discutere se la sospensione verrà tradotta in un annullamento della semilibertà o se Doina potrà continuare a reinserirsi gradualmente nella società, fino a scontare la sua pena totalmente. "Probabilmente, si è cercato di arginare le polemiche nate non appena la notizia si è diffusa, e l’unico modo era rispedirla in carcere - ha sottolineato ancora il legale. Ma non ha violato nessuna norma, sono convinto che riuscirò a ripristinare la semilibertà". Il nodo, dunque, secondo il legale, sta nelle polemiche sollevate da parte di chi ha trovato di cattivo gusto la scelta di farla uscire dal carcere prima di aver scontato definitivamente la pena. Ma il guardasigilli Orlando non ci sta. Nessun vuoto normativo, come urlano le associazioni a tutela dei detenuti, secondo il guardasigilli la norma parla chiaro. "L’interessata aveva una serie di prescrizioni connesse con la semilibertà, poteva comunicare solo con un elenco determinato di persone", ha spiegato Orlando. Il ministro ne ha parlato tra l’altro in una lunga intervista a Corriere tv dedicata al tema del carcere: ha escluso l’adozione di provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto ("sono misure che spesso dissuadono dall’affrontare i nodi strutturali, i 53mila detenuti attuali costituiscono una cifra fisiologica"), poi è tornato sul caso Doina e ha respinto tutte le critiche. Come quelle di Luigi Manconi: per il senatore dem a questo punto si fa prima a "sospendere direttamente l’articolo 27 della Costituzione che, al comma 3, prevede la rieducazione del condannato... ci risparmieremmo tante discussioni oziose e, soprattutto, l’idea stessa, così tediosa e sdolcinata, del riscatto sociale". Manconi: "Torna in carcere per aver sorriso. Messaggio gravissimo" di Alessandro Da Rold lettera43.it, 14 aprile 2016 Il senatore Pd e presidente della Commissione Diritti umani del Senato sulla semilibertà revocata alla romena: "Torna in carcere per aver sorriso. Messaggio gravissimo. La pena non deve essere vendetta". Colpevole di aver postato una foto su Facebook dove sorride, Doina Matei, la ragazza romena di 30 anni che il 26 aprile del 2007 uccise Vanessa Russo conficcandole un ombrello nell’occhio dopo una lite nella metro di Roma, ritorna in carcere. Il giudice di sorveglianza le ha revocato con decreto la semilibertà nella tarda serata di martedì 12 aprile 2016. Condannata a 16 anni per omicidio preterintenzionale, reato che ha una pena massima di 18, la Matei sta ancora scontando la sua pena, dopo nove anni già trascorsi dietro le sbarre. Eppure sui giornali, persino su La Stampa con la penna di punta Massimo Gramellini, si sostiene che la giovane avrebbe dovuto avere "il pudore di tenere per sé" le sue emozioni gioiose. Luigi Manconi, senatore del Partito democratico, presidente della commissione Diritti umani del Senato e da anni attento alla condizione dei detenuti e delle carceri in Italia, spiega a Lettera43.it: "Vorrei che si pensasse a quale messaggio negativo lancia questa storia, perché una persona torna in carcere per aver sorriso". E poi aggiunge: "Sta ancora scontando la sua pena, non è stata liberata, è in regime di semilibertà perché se l’è guadagnato con la rieducazione in carcere". D. Qual è il messaggio negativo di questa storia? R. In tempi meno cattivisti di questi, la vicenda di Doina Matei sarebbe stata definita un esempio edificante in senso proprio. D. Ovvero? R. Una storia capace di proporre modelli virtuosi. D. Virtuosi? R. Stiamo parlando di una giovane donna che ha scontato metà della sua pena avendo ottenuto giudizi estremamente positivi sulla sua condotta in carcere. D. Insomma, la pena sta funzionando. R. Ha iniziato un faticoso e assai interessante percorso di socializzazione. Ha vinto un premio nazionale di poesia per detenuti. Ha avuto relazioni con la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Perugia. D. Giusta quindi la semilibertà? R. Come prevede il regolamento carcerario, dopo aver scontato metà della pena ha usufruito della possibilità di svolgere lavoro esterno diurno, tutto qui. D. Ma c’è chi parla di "vergogna del legislatore italiano". R. Questa è una storia che dimostra quanto previsto dalla Costituzione all’articolo 27, cioè la rieducazione del condannato che qualche volta, raramente, può avere un risultato positivo. D. E invece? R. Tutto questo è stato rovesciato nel suo opposto e Doina Matei ha visto sospesa la misura del lavoro esterno per un motivo molto semplice: perché sorrideva, questa è la sua colpa. Il messaggio è gravissimo. D. Come si è arrivati a tutto questo? R. È un problema diffuso che va dagli organi di informazione al senso comune. Un magistrato di sorveglianza in genere molto intelligente e sensibile si è visto costretto da una sollevazione popolare che raccoglie il peggio di internet ad adottare un provvedimento negativo. D. In Italia sembra ci sia una totale ignoranza di cultura giuridica. R. È una mentalità che continua a ritenere che la pena deve essere vendetta. Per il reato di omicidio preterintenzionale è stata condannata a 16 anni carcere. Non è stata liberata come scrivono alcuni giornali, tutt’ora sta scontando la sua pena secondo una modalità prevista dal nostro ordinamento penitenziario e dalla nostra Costituzione. D. Eppure sui social network e sui giornali si continua a parlare di troppa benevolenza della pena. R. Alla gente che urla che l’Italia è un Paese indulgista, lassista e perdonista voglio ricordare che l’autore della strage di decine di persone in Norvegia è stato condannato alla pena massima, cioè a 22 anni di carcere. Se in Italia si vuole la pena di morte lo si dica apertamente. D. La politica fa la sua parte cavalcando questi casi? R. La politica ne è corresponsabile. Questioni concrete e poca ideologia dietro l’elezione di Davigo a capo dell’Anm di Alfredo Mantovano Il Foglio, 14 aprile 2016 L’elezione di Pier Camillo Davigo a presidente dell’Anm non ha un tratto così ideologico come potrebbe apparire. Motivo l’affermazione con un flashback risalente a circa un mese fa. Come tutti sanno, le elezioni dell’Anm hanno fatto registrare un passo indietro di Area, la corrente di sinistra che riunisce Magistratura democratica e Movimenti, e di Magistratura indipendente: dall’una e dall’altra sono usciti i voti che hanno dato consistenza al nuovo raggruppamento interno alla magistratura, Autonomia e indipendenza, il cui leader, per l’appunto Davigo, ha conseguito una quantità di consensi tale (oltre mille voti) da condurlo al vertice dell’associazione - per lo meno nella fase iniziale, essendosi concordata una rotazione negli incarichi della Giunta. Con questa dinamica, gli orientamenti ideali hanno poco a che fare: il decremento di Magistratura indipendente deriva dalla percezione di essa come filogovernativa e ha certamente inciso il fatto che Cosimo Ferri, esponente di rilievo del gruppo, sia da tre anni sottosegretario alla Giustizia di un esecutivo che ha adottato decisioni sgradite ai magistrati. Il decremento di Area deriva da una ragione analoga: il gruppo resta culturalmente egemone - soprattutto negli orientamenti della formazione interna - e vanta propri esponenti nelle posizioni più significative del pianeta giudiziario (non è un caso che proprio in Cassazione il gruppo non abbia perso voti), ma è apparso come non particolarmente battagliero su questioni che riguardano la vita quotidiana dei giudici italiani, dalla diminuzione delle ferie alla limatura degli stupendi. In un quadro complesso, un elemento che ha avuto peso nelle scelte elettorali dei togati è stata l’attenzione ai problemi più concreti: sarà pure corporativo, ma non è ideologico. Questo riguarda soprattutto i più giovani, in un corpo che negli ultimi tre, quattro anni si è molto ringiovanito, grazie alle riforme su anzianità e pensionamento. Ed è un dato obiettivo che i giovani magistrati siano oggi molto sensibili alle questioni sindacali di chi aveva la loro età trent’anni fa. Oggi, una delle difficoltà maggiori negli uffici giudiziari è l’assenza di numerosi magistrati con qualifiche elevate: la riduzione da 75 a 70 dell’età della pensione - in sé sacrosanta - è stata realizzata in un tempo così breve da non aver reso possibile neanche un parziale ricambio. Non è una voce che scomoda i massimi sistemi, ma delle sue ricadute tutti attendono che ci si occupi presto e bene. Davigo è l’espressione della componente che assicura attenzione su questo versante, e che non a caso ha visto confermare i suoi consensi anche nelle elezioni celebrate il 3 e il 4 aprile: quelle per il rinnovo dei consigli giudiziari, una sorta di Csm in scala distretto di Corte di appello. Il suo parlare fin troppo diretto, al di là della condivisione o meno di ciò che dice, è apparso ai più garanzia di un interesse più marcato per le questioni concrete della magistratura. Volendo sintetizzare - e con tante ulteriori precisazioni che sarebbero necessarie - il voto di un mese fa per i vertici nazionali dell’Anm e quello di una decina di giorni fa per i consigli giudiziari vanno nella direzione di chiedere all’Anm di essere più "sindacato" a tutela del corpo che partito autonomo. È prevedibile che l’agenda del confronto col governo riguarderà in misura maggiore gli aspetti di funzionalità del lavoro: dal riavvio dei concorsi per il personale ausiliario alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie, rispetto alla quale il testo conclusivo dei lavori della Commissione presieduta da Michele Vietti esige un immediato confronto. Certo, poi esistono nodi in piedi da decenni, sui quali non è immaginabile che il nuovo presidente dell’Anm scelga di fare silenzio: in primis, la riforma delle intercettazioni. Ma qui il terreno potrebbe essere meno accidentato di quanto si immagini, se il governo decidesse di riprendere in mano la questione dopo la rinuncia del premier a riformare la materia, e se decidesse di cogliere i segnali emersi negli ultimi mesi. Che sulle intercettazioni, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, i procuratori della Repubblica di alcune delle più importanti sedi giudiziarie abbiano adottato delle circolari, non è privo di significato; le circolari, come tutti sanno, sono indirizzate sia ai sostituti delle singole procure sia alla polizia giudiziaria da esse dipendenti, e pongono dei vincoli all’utilizzo delle conversazioni captate e alla loro pubblicità. Se si è giunti a provvedimenti del genere, il problema non è un’invenzione di chi di volta in volta subisce l’intrusione: esiste, è grosso, e va affrontato. Uno strumento parziale come la circolare del capo dell’ufficio, ovviamente operativa solo nel circoscritto territorio della Procura che lo adotta, è sufficiente a limitare gli abusi da intercettazione? La domanda è evidentemente retorica. Come è retorico chiedersi se rassicurino garanzie a macchia di leopardo, dipendenti dalla professionalità e dall’iniziativa di chi opera sul territorio. Si ricorre allo strumento della circolare perché - al di là di quanto si dichiara nelle interviste o nei convegni - la legge è inadeguata. L’adozione delle circolari è dunque argomento solido a sostegno di una seria riforma della materia. Che, per garanzia di tutti, non può che provenire dal Parlamento. Dal Parlamento, non dal Governo, visto il rilievo, anche costituzionale, dei diritti in discussione. Fino alla rinuncia di Renzi, l’esecutivo pareva voler modificare il regime delle intercettazioni con una stringata e generica delega a se stesso, contenuta in un più ampio disegno di legge in discussione. Per concludere: non è obbligatorio che dal nuovo vertice dell’Anm - da tutti riconosciuto forte e autorevole, anche qui al netto degli orientamenti e delle posizioni politiche - derivi una maggiore difficoltà di interlocuzione per il governo. A condizione che quest’ultimo affronti i nodi effettivi, e non parta da una prospettiva di scontro - coincidente quasi sempre con battute a effetto, sul quale dovrebbero prevalere la realtà e la gravità dei problemi sul terreno. Chi decide sulle intercettazioni di Stefano Rodotà La Repubblica, 14 aprile 2016 Fu proprio questo giornale, subito accompagnato dall’attivismo della Rete e poi dal risveglio delle piazze, ad avviare nel 2010 la campagna "No bavaglio", che impedì l’approvazione di una pessima legge sulle intercettazioni che avrebbe limitato gravemente la libertà d’informazione. Ma da allora in poi si è assistito ad uno stillicidio di polemiche e di proposte, quasi sempre insincere e strumentali, che andavano sostanzialmente nella stessa direzione. Si diceva che era necessario tutelare la privacy dei cittadini, perché le intercettazioni avevano fatto nascere una sorveglianza di massa. Tesi del tutto infondata, ma che cercava di offrire una giustificazione ad iniziative di una classe politica che voleva costruirsi una rete di protezione che la mettesse al riparo da una conoscenza diffusa di fatti che avrebbero messo in evidenza corruzione, conflitti d’interessi, evasione fiscale, prepotenze privatistiche. Erano i tempi in cui Berlusconi lanciava appelli che riprendevano l’invito attribuito a François Guizot, "Arricchitevi" senza farsi troppi scrupoli. Questa legittimazione anche di comportamenti illegali di massa, che ha molto pesato nel deperimento dell’etica civile, in realtà serviva a coprire la volontà di liberare l’esercizio del potere di governo da quella particolare e democratica forma di controllo resa possibile da una informazione puntuale che obbliga i soggetti pubblici a rendere immediatamente conto del loro operato. Si faticava, e si fatica ancora, ad acquistare piena consapevolezza di un dato istituzionale che negli Stati Uniti è stato messo in evidenza fin dal 1964. In quell’anno la Corte Suprema, decidendo un caso che vedeva il New York Times accusato da una persona di averla diffamata, stabiliva il principio secondo il quale le "figure pubbliche" ricevono una tutela giuridica attenuata proprio perché i cittadini debbono poter esprimere in ogni momento il loro giudizio su di loro, disponendo di tutte le necessarie informazioni. Questo circolo virtuoso si ritrova oggi nei più diversi Paesi, ha dato origine a moltissime sentenze, e riguarda in particolare proprio situazioni di cui oggi in Italia si discute intensamente, chiedendosi se sia legittimo rendere pubbliche informazioni sulla vita privata che possono sconfinare nel pettegolezzo. Per discutere con buona cognizione dei termini giuridici del problema, difficile come sempre accade quando si tratta di stabilire un punto d’equilibrio tra privacy e informazione, è necessario tener presenti alcuni specifici riferimenti. Il primo è rappresentato proprio dalla categoria delle figure pubbliche, che non comprende soltanto i politici, ma pure sportivi e persone del mondo dello spettacolo, e che si è venuta estendendo per effetto del dilatarsi del numero di persone che decidono appunto di "vivere in pubblico". L’esposizione allo "sguardo generale" non è il risultato di una imposizione, ma di una libera scelta della persona, che dev’essere consapevole del fatto che ciò produce conseguenze sull’intero sistema delle sue relazioni sociali. E la più rilevante di queste conseguenze è rappresentata proprio dal fatto che le figure pubbliche, come s’usa dire, hanno una più ridotta "aspettativa di privacy". Questo è il metro di giudizio al quale ricorrere quando si devono individuare i criteri per stabilire quali siano le informazioni personali legittimamente pubblicabili, provengano da intercettazioni telefoniche o da altre fonti. Criteri che, nel nostro sistema giuridico, hanno trovato una traduzione precisa nel modo in cui la questione è affrontata dall’articolo 6 del Codice di deontologia dell’attività giornalistica, che è un insieme di vere e proprie norme giuridiche, applicabili dai giudici civili, penali e amministrativi, e non solo da organi deontologici. La norma è molto chiara. "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le informazioni o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica". Ho sottolineato le parole "alcun rilievo" perché esse indicano una soglia particolarmente rigorosa e restrittiva per quanto riguarda l’individuazione dei casi in cui la pubblicazione di una informazione può essere ritenuta illegittima. Deve poi essere messo in evidenza il fatto che le parole adoperate in questo articolo - esercizio di "funzioni pubbliche" - corrispondono a quanto è scritto nell’articolo 54 della Costituzione, che impone a questi soggetti di comportarsi con "disciplina e onore". Siamo così di fronte all’attuazione di un criterio costituzionalmente rilevante. E, pur registrando il fatto che principi e regole costituzionali stanno conoscendo torsioni assai preoccupanti, sembra davvero difficile considerare prive di alcun rilievo le parole pubblicate in questi giorni, che connotano in modo del tutto disonorevole il modo in cui sono intese e praticate funzioni pubbliche, addirittura ministeriali, sì che appare del tutto arbitrario derubricarle a "pettegolezzo". Poiché siamo in materia propriamente costituzionale, bisogna aggiungere un’altra riflessione. Si è messo in evidenza, non da oggi, che le nuove norme sulle intercettazioni sono previste in una delega al governo di cui è stata ripetutamente sottolineata la genericità, e quindi l’incostituzionalità, per la mancanza di quei precisi principi e criteri direttivi ai quali fa esplicito riferimento l’articolo 76 della Costituzione. Si deve aggiungere che intervenire su diritti fondamentali, in questo caso quello all’informazione, dovrebbe indurre a non espropriare il Parlamento di questa delicatissima funzione, che consente all’intera procedura legislativa d’essere pubblica e controllabile, mentre la delega la affida al chiuso di commissioni ministeriali. Si è detto, infine, con una delle tante giravolte politiche di questi tempi, che non si vuole toccare la disciplina delle intercettazioni. Tre ragioni che consigliano di stralciare dal disegno di legge in discussione al Senato una parte cosi difficile e controversa. Caos intercettazioni? Utile a troppi di Davide Giacalone Libero, 14 aprile 2016 Tutti si lamentano delle conversazioni private pubblicate, ma non si cambia. Per i tanti interessi in gioco. L’inconcludenza è velenosa. Uccide. È la centesima volta che conversazioni private sono esposte al pubblico ludibrio. È la centesima anche che la politica freme, si duole, s’attiva e rincula. Ma guardate quel che succede: ci fu un tempo in cui gli italiani erano i più assidui frequentatori di elezioni, fra i cittadini delle democrazie vere, e ci fu un tempo, successivo, che riversarono sulla magistratura l’aspettativa di un mondo migliore, o, almeno, più onesto; ora l’affluenza alle urne è crollata, segno di larga sfiducia nei politici e nella politica, ma s’è inabissata anche quella nella giustizia e nei magistrati, visto che la Commissione europea, con l’Eurobarometro (per la prima volta attivato sul tema), ha misurato un disincanto e una non credibilità dell’indipendenza delle toghe tali da porci al terzultimo posto in Europa, appena sopra i bulgari e gli slovacchi. Insomma, noi discutiamo dei grandiosi conflitti fra politica e giustizia, non accorgendoci che il tema è altro: il divorzio fra l’opinione pubblica, da una parte, e la politica con la giustizia, dall’altra. Due esempi. Primo: la mancanza di rendicontazione. Vale per tutta la nostra vita collettiva, dalla giustizia ai conti pubblici: grandi scontri, epiche battaglie, esiti miserrimi e poi nessuno controlla come è andata a finire. Chi se ne frega, tanto oramai lo spettacolo è andato. Qualsiasi meccanismo funziona se si pianifica un’azione, con tempi e costi; la si gestisce adattandosi agli imprevisti; quindi si controlla come è andata. Se c’è il successo si premia progetto e gestione, altrimenti si cambia. Invece noi non cambiamo mai, o, meglio, cambiamo progettisti e gestori, che poi progettano e gestiscono sempre allo stesso modo. Secondo. Un problema si deve conoscerlo, mica solo annusarlo. Se uno dice: le intercettazioni sono utili alle indagini, ma sui giornali non deve finire quel che non è penalmente rilevante, se lo dice è perché non sa quel che dice. Non funzionerà mai. Se voglio dimostrare che Tizia prende ordini da Caio è rilevante anche il boudoir. Così non ne usciranno mai. E non solo la rinuncia a riformare è una resa, ma l’idea che la faccenda possa essere demandata all’autoregolamentazione delle procure è roba a caratura golpistica. Semmai si affermi: 1. intercettare resta utilissimo per sapere e prevenire (chi non vorrebbe intercettare i terroristi?); 2. una volta che sai di un possibile reato ne osservi i protagonisti, bloccandoli non appena il loro agire conferma il loro dire, costituendo la prova con cui farli condannare; 3. le intercettazioni non vanno mai nel fascicolo, mai al processo, perché sono servite a raggiungere le prove, non sono le prove. A quel punto, se esce un fiato, sappiamo per certo che c’è da perseguire un ulteriore reato. Troppo facile? No. È che ciò toglierebbe pane da troppe bocche: da quelle dei magistrati in cerca di visibilità; dei giornalisti che s’inciuciano con l’esibizionista; dei politici che cavalcano il colpevolismo così come l’innocentismo. Tanto nessuno ricorda, nessuno rendiconta. Il ministro Costa frena sulla riforma dei termini. E Orlando conferma la stretta sulle intercettazioni Riforma della prescrizione, stop da Ncd. "L’accordo non c’è" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2016 Renzi dice che ci sono troppe inchieste e poche sentenze? Certo, c’è la prescrizione ", ha ricordato appena lunedì scorso il neo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, ribadendo, come tanti altri magistrati, a cominciare dal presidente della Cassazione Giovanni Canzio, che la modifica è fondamentale per rendere giustizia. Ma ancora ieri l’Ncd di Angelino Alfano ha alzato le barricate. Non vuole che veda la luce quella modifica passata alla Camera ormai 13 mesi fa e chiusa in un cassetto in Commissione Giustizia del Senato. L’ex viceministro della Giustizia Enrico Costa, oggi ministro degli Affari Regionali, l’uomo delle trattative per Ncd, è stato chiaro: "Non mi risulta che ci sia alcun accordo di maggioranza in tal senso" ha detto, rispondendo a distanza al relatore in commissione Giustizia Felice Casson (indipendente del Pd) che poco prima aveva confermato che "la prescrizione sarà discussa e votata all’interno della riforma del codice penale e di procedura penale. È già inserita nell’elenco degli oltre 30 disegni di legge all’esame". Ma il presidente della Commissione, Nico D’Ascola, senatore Ncd, si impunta. D’altronde è lui che insieme al collega di partito Costa ha fatto franare nei mesi scorsi le trattative con il Pd sulla prescrizione: "Il ddl non è ancora formalmente collegato, se lo sarà lo vedremo soltanto alla fine della discussione generale, settimana prossima". D’Ascola si riferisce al ddl approvato alla Camera (1844) e che fermerebbe la prescrizione dopo una condanna in primo grado, solo se si conclude l’appello entro due anni. Ma, in realtà, c’è un altro disegno sulla prescrizione, primo firmatario Enrico Cappelletti di M5s, che è stato già inserito nella riforma, anche se, però, non risulta dai verbali. In ogni caso, l’inclusione della prescrizione nella discussione complessiva non dovrebbe avere ostacoli, nonostante il muro di Ncd, perché il Pd, almeno su questo punto di partenza di una battaglia che sarà rovente, sembra deciso. "Non si può più tardare -ha detto il capogruppo in commissione Giuseppe Lumia, andremo avanti su questa strada. La modifica è urgente per qualificare l’azione giudiziaria nel nostro Paese che deve essere tesa ad accertare la verità processuale e a colpire i reati a partire dalla corruzione". Vedremo se il premier Renzi, bravissimo a cacciare in un angolo la minoranza del suo partito, sulla prescrizione vorrà imporsi all’alleato di governo. Se il no di Ncd persisterà si potrebbe creare una maggioranza con M5s che è a favore di un giro di vite sulla prescrizione. Tutta un’altra storia quella delle modifiche alla legge sulle intercettazioni. Dentro la riforma penale c’è anche la delega in bianco che la Camera ha votato a favore del governo e che probabilmente sarà modificata in Senato. In quel caso, dovrà tornare alla Camera e solo dopo il sì definitivo il governo potrà metterci mano. Proprio sulle intercettazioni ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha risposto a un question time alla Camera e confermato le intenzioni del governo. "È prevista l’introduzione di disposizioni volte a garantire la riservatezza delle comunicazioni intercettate attraverso prescrizioni che incidono" anche sull’utilizzabilità di quelle registrazioni per provvedimenti cautelari, "fatte sempre salve le esigenze di indagine". Ha poi confermato che non esiste uno spreco di denaro pubblico da parte dei magistrati: "Nell’ultimo quinquennio le spese per le intercettazioni si sono ridotte del 25%". Infine, una stoccata alla commissione Giustizia del Senato: "Questo tema è già all’esame del Senato da diverso tempo, credo per ragioni di meditazione e approfondimento". I referendum tenuti in ostaggio di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 aprile 2016 L’istituto democratico del referendum ha per vocazione la possibilità di respingere o confermare "qualcosa", una legge, un valore, una norma, un principio. Si sta inesorabilmente trasformando, invece, in una guerra senza quartiere pro o contro "qualcuno", da demolire o plebiscitare, da ripudiare o da osannare. Se in Italia un cittadino volesse votare nel referendum a favore delle trivelle in mare, ma volesse anche, legittimamente, che il governo Renzi fosse indebolito, cosa può fare: scegliere "qualcosa", il merito del quesito referendario, oppure trovare il pretesto per dare una spallata a "qualcuno"? E come può sciogliere il dilemma l’elettore che fosse a favore di Renzi ma che nel referendum di ottobre volesse votare contro la riforma costituzionale sottoposta a consultazione popolare? Con questa deformazione, il referendum ne esce ovviamente snaturato e stravolto. Era già sfibrato prima, con la sequenza infinita di appuntamenti disertati dagli elettori con la conseguente mancanza del quorum richiesto. Ma così l’istituto referendario viene alterato fino a renderlo irriconoscibile. Magari lo vorrebbero rivitalizzare con una forte personalizzazione della battaglia referendaria, ma il merito dei quesiti svanisce. I temi spariscono. Il pro o contro si sposta e accade, come nel referendum del prossimo 17 ottobre, che il dibattito si trasferisca sulla liceità o meno dell’astensione. Impegnando il governo su un terreno che non dovrebbe essere il suo e mobilitando addirittura i giudici costituzionali, che entrano volentieri in una diatriba politica già incandescente. Non ce n’era bisogno. In passato non è quasi mai stato così. Nei referendum più rilevanti della storia repubblicana il merito dei quesiti ha pressoché sempre prevalso sul "qualcuno". Nella battaglia sul divorzio, Pannella da una parte e Fanfani dall’altra hanno certo calamitato simpatie ed avversioni, ma noi ricordiamo bene che il divorzio è stato una svolta civile nella storia del nostro Paese. È stato così anche per il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla depenalizzazione dell’aborto o per quello che ha cancellato la possibilità stessa di costruire centrali nucleari. Una fortissima connotazione politica e personale ha pesato sul referendum sul taglio dei punti di scala mobile, che segnò la disfatta politica per il Pci berlingueriano dopo la morte del leader comunista e la vittoria di Bettino Craxi. Lo stesso Craxi che, con l’invito ad andare al mare nel referendum sulla preferenza unica voluto da Mariotto Segni, ha a sua volta conosciuto il sapore amaro della sconfitta senza prevedere che in quel referendum stessero condensandosi tutti gli umori di rigetto del sistema dei partiti della Prima Repubblica. Ma i temi erano chiari, il merito delle questioni era rispettato e noi oggi ricordiamo le parole divorzio, aborto, nucleare, scala mobile, legge elettorale e molto meno il nome dei leader vincitori o sconfitti. Poi l’abuso dei referendum, la moltiplicazione dei quesiti fino al parossismo, la difficoltà di concentrare l’attenzione pubblica su temi tanto variegati e dispersivi, tutto questo ha inevitabilmente minato la stessa credibilità di quell’istituto. I referendum annullati per mancanza del quorum sono stati innumerevoli. E quello sulla riforma costituzionale voluta dallo schieramento di Berlusconi e allora bocciata dalla sinistra non suscitò grandi passioni, passando quasi inosservato. Ma il referendum trasformato in plebiscito è un rimedio peggiore del male. Sbagliano i promotori a mettere in collegamento il referendum sulle trivelle con le turbolenze del governo dopo le dimissioni della ministra Guidi. Ma anche il premier non fa una scelta saggia facendo del referendum sulla riforma del Senato l’ordalia decisiva per la sua carriera politica, in un Armageddon finale del Renzi contro tutti, soprattutto perché si è sempre detto che le regole delle istituzioni non sono monopolio di un governo, e anche di una maggioranza parlamentare. Non ci sono nemici da "spazzare via" attraverso il referendum, come usa dire il premier, ma solo avversari di una riforma che continueranno a combattersi anche quando la riforma delle istituzioni dovesse essere approvata. Per fare una discussione anche accesa, democraticamente appassionata, su "qualcosa" e non per l’apoteosi o la rovina di "qualcuno". Referendum, ora Renzi teme il passo falso di Andrea Colombo Il Manifesto, 14 aprile 2016 Il premier preoccupato: la sua sovraesposizione con l’invito all’astensione a rischio boomerang. Anche i ministri Franceschini e Madia annunciano che si terranno lontani dalle urne. La presidente della camera Laura Boldrini: "Non votare è la conferma del disamore per la politica". Il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi del Codacons e dei radicali sulla scelta di fissare il referendum in data diversa da quella delle elezioni comunali. Il voto sulle trivelle resta convocato per domenica prossima. Poco male se lo scherzetto costerà 300 milioni. L’importante è evitare che i votanti superino il 50%, e non si badi a spese. Nel quartier generale di Renzi sono contenti. Ci voleva una notizia rassicurante, tanto più perché da quelle parti si è diffuso un tangibile nervosismo, la sensazione, condivisa dallo stesso capo, di aver sbagliato strategia. Gli ufficiali renziani ancora non temono il raggiungimento del quorum, che per il premier sarebbe disastroso, però danno per possibile l’afflusso del 40% di votanti: l’asticella che separa un risultato accettabile da una sconfitta politica secca, pur se non esiziale come sarebbe il superamento del quorum e la vittoria dei "sì". Anche perché, segnalano alcuni dei più vicini al capo, una percentuale alta di votanti renderebbe poi inevitabile il paragone con quanti voteranno nel referendum del prossimo ottobre, e se in quell’occasione la percentuale dovesse scemare, sarebbe imbarazzante. Insomma, siamo alle previsioni metereologiche. I renziani contano su una domenica di caldo eccezionale, prevista dai nipotini del colonnello Bernacca, e si fregano le mani: saranno in tanti ad andarsene al mare. Spiano i sondaggi, che nei giorni roventi di Tempa rossa erano arrivati sulla soglia del fatidico 40% ma ora sono lievemente scesi. Si complimentano con se stessi per aver spostato con le cattive il voto sulle mozioni di sfiducia a martedì prossimo, dopo il referendum. Con il sottosegretario targato Pd Vito De Filippo, ex presidente della Basilicata, indagato per Tempa rossa, il dibattito sarebbe stato la miglior pubblicità possibile per il referendum. Ma la paura resta. Lui, Renzi, non lo ammetterebbe mai apertamente, ma dicono che oggi consideri uno sbaglio l’essersi esposto tanto su quel referendum. Un po’ perché gli sarebbe stato facile lasciare libertà di voto tirandosi fuori dalla mischia, e molto perché proprio la sua discesa in campo spinge anche la destra verso le urne. Gli esponenti della Lega e di Fi annunciano voti diversificati: Brunetta per il no, la Brambilla per il sì e così via. Però molti andranno a votare non per le trivelle ma per Renzi, e se la scelta dovesse essere fatta anche da molti elettori di destra del nord, dove il problema trivelle è assai meno avvertito che nel sud, allora sì che sarebbe un guaio. Inoltre, è stata sempre la sovraesposizione del premier a rendere la faccenda un caso istituzionale di rilievo. Ieri la presidente della Camera Laura Boldrini è tornata sull’argomento: "Andrò a votare perché ritengo che sia un dovere. Non andare a votare è la conferma del disamore per la politica e della disillusione". Per quanto il Pd ci voglia girare intorno, lo spettacolo dei quattro vertici istituzionali, il capo dello Stato, i presidenti delle camere e quello della Consulta, che vanno a votare mentre il premier e i suoi ministri di fiducia invitano all’astensione sarà giocoforza parecchio increscioso. Ieri altri due ministri renziani di peso, Franceschini e Madia, hanno annunciato che domenica si terranno lontani dalle urne. La Boschi farà lo stesso, ma senza nemmeno avere il coraggio di dirlo apertamente come i colleghi in questione: "Seguirò le indicazioni del mio partito". Il quale però è tanto spaccato da far sì che questo referendum sia anche una prova generale del prossimo, quello di ottobre sulla riforma costituzionale. L’area che domenica intende andare a votare, sia pure in modo differenziato, con Bersani per il "no" e Speranza impegnatissimo sul fronte opposto, è la stessa che non ha ancora sciolto la riserva sul voto autunnale, in attesa di una provvidenziale modifica dell’Italicum. Quella revisione non arriverà, Renzi lo ha garantito una volta di più proprio ieri. Ma se la minoranza voterà no al referendum sulla riforma costituzionale, tanto più in una prova che lo stesso Renzi ha trasformato in plebiscito su se stesso, la convivenza nello stesso partito diventerà impossibile. Possibile terrorista? Sì, se sei immigrato e navighi in rete di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2016 Gennaro Migliore: "il carcere non deve essere uno strumento di lesione di diritti o una sorta di dimenticatoio nel quale rinchiudere persone di cui non occuparsi più". Si entra in carcere per reati comuni, ma si esce terroristi. E dopo la strage a Charlie Hebdo, il massacro di Bataclan a Parigi e quello di Bruxelles, è emerso un unico filo conduttore: i maggiori responsabili delle stragi erano stati reclutati in carcere. Salah Abdeslam, arrestato recentemente, uno dei membri del commando responsabile degli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 era in prigione tra il 2008 e il 2009, dove incontrò il classico "cattivo maestro": Djamel Beghal, teorico della jihad. Lo stesso che convertirà anche Amedy Coulibaly, il terzo attentatore della rivista satirica. Anche i fratelli Khalid e Ibrahim, i due terroristi identificati per aver commesso il massacro a Bruxelles hanno subito nel passato una carcerazione. La detenzione speciale in Italia - I regimi speciali per i sospettati di terrorismo già esistono, ma con il decreto antiterrorismo promosso dal ministro dell’Interno Alfano dopo le stragi di Parigi c’è il rischio di incarcerare anche immigrati che hanno solo visionato del materiale "sospetto" su internet. Dal 2009 è stato creato appositamente un nuovo livello sicurezza, denominato Alta sicurezza secondo livello (As2), con particolari caratteristiche: isolamento dagli altri reclusi, colloqui e telefonate in numero ridotto (quattro al mese invece di sei), ora d’aria da svolgersi in aree particolari, porta della cella blindata sempre chiusa. E inoltre niente radio né televisione, divieto di leggere giornali arabi, libri e vestiti centellinati, posta controllata e fornelli del gas consegnati giusto il tempo necessario per cucinare e subito ritirati. Ma soprattutto nessuna possibilità di entrare in contatto con gli altri detenuti, anche per evitare il rischio di proselitismo tra gli islamici imputati di reati comuni. In pratica un circuito speciale all’interno di quello speciale ad alta sicurezza. Attualmente sono circa una quarantina, tutti maschi, i detenuti islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato previsto dall’articolo 270 bis del codice penale. Nella sua versione attuale venne infatti istituito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle, quando la situazione politica internazionale, con le guerre in Iraq e Afghanistan, radicalizzò ulteriormente l’attività dei gruppi islamici. La conseguenza fu quella di estendere un reato che puniva gli atti di violenza compiuti contro lo Stato italiano anche a quelli messi in atto contro altri paesi. Per molti penalisti, si tratterebbe di una mostruosità giuridica. "È chiaro che lo Stato debba difendersi, ma ho forti dubbi che gli episodi che ci troviamo a trattare in Italia possano essere inquadrati come terrorismo internazionale", spiegò ad esempio Carlo Corbucci, legale di molti imputati per il 270 bis e autore del libro "Il terrorismo islamico in Italia: realtà e finzione". Ma a preoccupare Corbucci sono soprattutto le successive modifiche apportate all’articolo 270. "L’ultima versione, il 270 quinqes, arriva a colpire anche chi scarica materiali, o semplicemente li visiona, dai siti internet considerati vicini ad Al Qaeda", denunciò il legale. Ebbene, con l’attuale decreto antiterrorismo, tutto ciò viene ancora di più accentuato. Rischio radicalizzazione - Il termine radicalizzazione è entrato nel linguaggio corrente della maggior parte delle istituzioni, pubbliche o private, in particolare in ambito penitenziario è ritenuta come il nemico principale del trattamento. Indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l’esistenza di due allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico. Il primo riguarda la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati. Il secondo fenomeno, diffuso in misura crescente particolarmente nel Regno Unito, riguarda l’imposizione della legge islamica (la cosiddetta sharia) all’interno delle carceri ad opera di gruppi di detenuti fondamentalisti. In Italia c’è stato un caso emblematico di radicalizzazione in carcere. Si tratta di Domenico Quaranta, un imbianchino disoccupato convertito all’islam nel penitenziario di Trapani e riarrestato il 17 luglio 2002, per il compimento di attentati incendiari, fortunatamente falliti, nella Valle dei Templi ad Agrigento ed all’interno della metrò di Milano, lasciando striscioni con scritte inneggianti ad Allah ed ai mujaheddin in Afghanistan. Pur essendo un soggetto di basso livello culturale ed instabile mentalmente, i monitoraggi esperiti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, hanno attestato che lo stesso, nel penitenziario di Palermo Ucciardone ove è ancora ristretto, abbia condotto la preghiera dei detenuti ristretti per il reato di terrorismo internazionale, che gli hanno formalmente riconosciuto la figura di imam. Il dibattito su come evitare la radicalizzazione in carcere, dopo i recenti attentati, si è ancora più accentuato al livello politico. Il ministro della giustizia Andrea Orlando, ad esempio, nel febbraio del 2015 aveva spiegato che le carceri "sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam, con capacità di proselitismo, ma al contempo bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l’effetto boomerang come Guantánamo". Lo stesso Orlando, il 26 gennaio del 2016, ha fatto sapere che l’Italia sta seguendo "con preoccupazione" il fenomeno della radicalizzazione, la quale "ha come focolaio gli istituti penitenziari". Dall’altro canto, durante una presentazione alla Camera del progetto "Sprigioniamo il lavoro" che da inizio aprile è partito negli Istituti penitenziari di Parma, il capo del Dap Santi Consolo ha fatto sapere che "Le reazioni inconsulte sicuramente sono sbagliate" e che bisogna partire dalla dignità dei detenuti onde evitare fenomeni di radicalizzazione. Durante il convegno gli ha fatto eco Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia con delega per detenuti e trattamento: "In Italia abbiamo un problema di recidiva e un problema incipiente di radicalizzazione all’interno delle carceri; sapete tutti che Salah Abdeslam, il terrorista che è stato arrestato, responsabile della strage al Bataclan, era stato reclutato in carcere e che oggi il reclutamento e la radicalizzazione in carcere sono fenomeni da tenere sotto stretto controllo. Non voglio polemizzare con chi parla dei barconi mentre dovrebbe parlare dei terroristi, ma se non c’è un’attenzione molto efficace anche sul tema della radicalizzazione in carcere, con una capacità di investimento nei mediatori, nelle attività di risocializzazione, nelle attività lavorative, noi avremo più preoccupazioni e più insicurezza nel nostro Paese. Il carcere deve essere una parte funzionale della società. Non deve essere uno strumento di lesione di diritti o una sorta di dimenticatoio nel quale rinchiudere persone di cui non parlare e non occuparsi più". Il pm Sabella: se vogliamo "salvare" il 41bis togliamolo a Provenzano globalist.it, 14 aprile 2016 Sabella, il "cacciatore di boss" ha dichiarato: non ha senso mantenere quel carcere duro per uomo in stato vegetativo. Se vogliamo salvare il valore e il senso del 41bis per i mafiosi, dobbiamo dirci che non ha senso mantenere quel carcere duro per uno come Bernardo Provenzano che l’età e la malattia" hanno ridotto ad un vegetale". A dirlo non è uno qualunque, ma Alfonso Sabella, magistrato che ha fatto della lotta alla mafia il costante del suo impegno. "Cacciatore di mafiosi", tanto da dare questo titolo ad un libro nel quale ha ripercorso le tappe più importanti del suo lavoro; lavoro che lo hanno visto protagonista nella cattura dei boss più pericolosi, in Italia e Oltreoceano. Sabella ha fatto la considerazione sulla situazione di Bernardo Provenzano parlando alla Biblioteca Nazionale di Roma, alla presentazione del libro "L’inferno di Pianosa", scritto da Cetta Brancato con Rosario Enzo Indelicato, l’uomo che visse una drammatica detenzione al 41bis in quell’isola. Detenzione ingiusta e attraversata costantemente dalla tortura fisica e psicologica. La presentazione ha finito con l’essere un confronto-bilancio sul carcere duro. Con Sabella, presente il professor Flick, uno dei maggiori studiosi di diritto nel nostro Paese, che è stato ministro della Giustizia ed anche giudice costituzionale. Sintesi del confronto: il 41 bis è stato pensato per situazioni di eccezionalità, quando eccezionalmente violenta si fece la guerra della mafia allo Stato, non può essere la normalità; una applicazione automatica, quasi burocratica e a pioggia. Non è possibile che oggi i"41bis" siano quasi dieci volte quelli della fase più acuta e stragista dell’offensiva mafiosa. E poi, nelle carceri molto è stato fatto in questi anni per migliorare le condizioni del detenuto, ma tant’altro si deve fare, sul piano delle strutture, nella preparazione del personale. Nel dibattito, il tema della tortura, ancora non riconosciuto dal nostro sistema penale. Alfonso Sabella, che ha scherzato sul fatto che lo si conoscesse come "magistrato sbirro" per la determinazione che lo ha sempre caratterizzato nella ricerca e cattura dei superlatitanti è sicuro che per "salvare il 41bis", per evitare che si getti discredito e si vanifichi un regime che può servire solo se applicato nei casi necessari, si devono evitare "rischi" come quello che si sta correndo con l’insistenza su un ex padrino ormai alla fine. Ricordiamo che Bernardo Provenzano, conosciuto come "Ziu Binnu" ed anche col soprannome di "U tratturi" per la sua violenza di boss, fu catturato esattamente dieci anni fa, dopo una latitanza record di 45 anni. E catturato non lontano da Corleone. Sezioni Unite: niente avviso sull’assistenza legale in caso di sequestro preventivo della Pg di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2016 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 13 aprile 2016, n. 15453. Nel sequestro preventivo su iniziativa della polizia giudiziaria non c’è l’obbligo di avvisare l’indagato, presente al momento dell’atto, della possibilità di farsi assistere da un legale. Ad assicurare le garanzie difensive c’è il controllo esercitato in tempi brevi dal giudice, al pari di quanto accade per le misure cautelari personali. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 15453 depositata ieri, sciolgono il contrasto sull’applicabilità dell’avvertimento (articolo 114 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale) in caso di sequestro preventivo d’urgenza da parte della polizia giudiziaria. Come sempre quando le questioni arrivano alle Sezioni unite, c’è una nutrita e annosa giurisprudenza, con orientamenti contrapposti. Secondo una scuola di pensiero, la tutela prevista dal codice di rito sarebbe limitata ai sequestri o alle perquisizioni della Pg finalizzati alla raccolta delle prove. Invece, la seconda tesi prescinde dalla natura probatoria dell’atto, scegliendo la via dell’estensione dell’avvertimento anche ai sequestri preventivi d’urgenza. La Cassazione sceglie il primo orientamento, proprio sulla base della differente natura dei due atti. Il legislatore ha espressamente previsto (articolo 356 del codice di rito) la facoltà di assistenza legale, senza diritto di preventivo avviso al difensore, in caso di perquisizioni o sequestro che possono assumere valore di prova in dibattimento (articoli 352 e 354). Una tutela - applicata ad atti che incidono sulla libertà personale, il domicilio e la proprietà privata disposti dalla Pg - che non offre le stesse garanze di imparzialità del pubblico ministero. Ma, anche se a procedere è sempre la polizia giudiziaria e i valori in gioco non sono poi diversi, nel caso del sequestro preventivo, a legislazione vigente, non si può affermare l’applicabilità dell’avvertimento. Il sequestro preventivo d’urgenza (articolo 321, comma 3-bis del codice di rito) consente di attribuire poteri pre-cautelari sia al Pm sia alla Pg, in modo da scongiurare, in tempo utile, il rischio che la disponibilità della cosa renda più gravi le conseguenze di un reato o agevoli la commissione di altri crimini. La norma è stata modellata sulla falsariga dell’articolo 384 del Codice di procedura penale, relativo al fermo personale; ipotesi rispetto alla quale non c’è accenno a garanzie difensive. La Cassazione precisa che di fatto esiste un’equiparazione tra il sequestro preventivo della Pg, indicato come "fermo reale", e il fermo di un indiziato. La funzione meramente cautelare e provvisoria della misura fa escludere la possibilità del presidio difensivo fin dal momento dell’esecuzione dell’atto. A tutela del diretto interessato c’è il controllo immediato da parte del giudice. Il verbale di sequestro preventivo va, infatti, trasmesso al Pm entro 48 ore e quest’ultimo, se non dispone l’immediata restituzione delle cose sequestrate, deve chiedere la convalida al giudice entro le successive 48. Il sequestro sarà inefficace se i termini non sono rispettati o se il giudice non lo avalla entro 10 giorni dalla richiesta. La Consulta rinvia al legislatore le scelte sull’uso degli embrioni per la ricerca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2016 Corte costituzionale - Sentenza 13 aprile 2016 n. 84. La dignità dell’embrione, come entità che ha in sé il principio della vita, ha un valore di rilevo costituzionale. La Consulta, con la sentenza n.84 depositata ieri, giudica inammissibili i dubbi sul contrasto con la Costituzione di alcuni articoli della legge 40, in particolare per la parte in cui vieta di donare ai fini di ricerca scientifica gli embrioni non impiantabili nell’ambito della procreazione medicalmente assistita. Il giudice delle leggi, nel precisare che sul punto la parola spetta al legislatore, ha ricordato la precedente giurisprudenza con la quale la Consulta (sentenza 229 del 2015) ha escluso la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della legge 40, che vietano la soppressione degli embrioni anche se affetti da malattia genetica. Una decisione basata sulla premessa che l’embrione non è riconducibile a mero materiale biologico e sulla considerazione per cui il vulnus alla tutela della sua dignità non trova giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela dell’interesse antagonista. Partendo da questi presupposti giuridici, la Consulta afferma che la tutela dell’embrione non può essere affievolita per il solo fatto che si tratta di embrioni malati e come ogni altro valore costituzionale è soggetta a bilanciamento. Ed è proprio sul bilanciamento dei diversi valori in gioco - tutela dell’embrione e ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute individuale e collettiva - che il giudice remittente chiedeva il parere della Consulta per abrogare il divieto di donazione degli embrioni soprannumerari. Ma sul punto la Corte costituzionale passa la parola al legislatore, chiarendo che anche la Corte di Strasburgo ha fatto la stessa scelta. Infatti, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Parrillo contro Italia) ha affermato che l’Italia non è l’unico stato membro del Consiglio d’Europa a vietare la donazione di embrioni umani per destinarli alla ricerca, ritenendo così che il Governo non avesse superato il suo margine di discrezionalità nel subordinare la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano alla condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche collegate alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, qualora esistano metodi alternativi. Di fronte a quella che qualcuno ha definito una scelta tragica tra il rispetto del principio della vita e le esigenze di ricerca - sottolinea la Consulta - la linea di composizione tra i diversi interessi rientra nell’ambito di intervento del legislatore, che "quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale". La scelta invocata, secondo la Consulta, è di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, da sottrarsi al sindacato della Corte costituzionale. La via legislativa è stata la sola possibile anche per gli stati europei che, come ricordato da Strasburgo, hanno adottato "un approccio permissivo" nei confronti della ricerca sulle cellule embrionali. La Cassazione "abbrevia" la prescrizione per l’abusivismo edilizio di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2016 Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 13 aprile 2016, n. 15427. Più difficile la prescrizione dei reati urbanistici, per la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione penale n. 15427, depositata ieri. Concludendo una vicenda di condoni edilizi nati dalla legge 47/1985 (cioè con procedure più volte prorogate fino al 31 dicembre 1993), i giudici hanno cristallizzato due princìpi sulla prescrizione quinquennale: se si presenta al Comune istanza di accertamento di conformità (articolo 36, Dpr 380/2001), il processo è sospeso e quindi il quinquennio non decorre; la prescrizione ricomincia a decorrere se il Comune non si pronuncia entro 60 giorni. È quindi inutile che l’imputato o il difensore chiedano al giudice di mantenere a lungo sospeso il processo, sperando nel fluire del quinquennio in attesa che l’ente si pronunci. Per meglio comprendere l’utilità della sentenza, giova ricordare che la condanna penale è un serio rischio per chi costruisce abusivamente, sia per le conseguenze professionali su imprese e tecnici sia perché gli articoli 31 e 44 del Dpr 380 prevedono che il giudice penale ordini la demolizione delle opere, se non ha già provveduto il sindaco. Per frenare le macchine sanzionatorie amministrativa (comunale) e giudiziaria (penale), gli autori degli abusi ricorrevano a procedure intricate, chiedendo la sanatoria (possibile fino a tutto il 1993) o un accertamento di conformità" nel caso in cui l’abuso risultasse genericamente sanabile: in tale situazione, per ragioni che la Cassazione ha più volte definito "imperscrutabili", i procedimenti amministrativi si arenavano e non rispettavano i corretti tempi di decisione (60 giorni dall’istanza di accertamento). Così, facendo leva sull’inerzia dei Comuni, gli imputati ottenevano lunghe sospensioni dei processi, che si concludevano quando gli enti si pronunciavano sfavorevolmente. Ma anche in caso di provvedimento sfavorevole gli imputati ottenevano vantaggi, perché con poca lealtà, chiedevano comunque di calcolare a loro favore gli anni passati in attesa del provvedimento. Tutto ciò rendeva agevole accumulare i cinque anni entro i quali si consuma il potere sanzionatorio penale (compreso, quindi, il potere del giudice di disporre la demolizione). In sostanza, attraverso labirinti penali ed amministrativi, si generava una sostanziale impunità. Con la sentenza di ieri, la prescrizione penale resta di cinque anni, ma non subisce più interruzioni chieste per mera strategia processuale: l’imputato potrà far valere, come periodo valido ai fini del quinquennio, solo i primi 60 giorni dall’istanza di accertamento di conformità. Tutti gli altri periodi di sospensione del processo, ottenuti con poca trasparenza, non gli saranno utili ai fini del calcolo e quindi non danneggeranno il potere d’intervento della magistratura penale. Non potendo intervenire sulla durata della prescrizione (una modifica normativa non potrebbe essere retroattiva), la Cassazione snellisce quindi il procedimento, restituendo linearità e tempi definiti ai poteri giudiziari e all’operato dei Comuni. Oltraggio se l’offesa al pubblico ufficiale è potenzialmente udibile da terzi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 aprile 2016 n. 15440. È sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale "possano essere udite dai presenti" perché scatti il reato di oltraggio. Infatti, il bene giuridico fondamentale tutelato dall’articolo 341-bis del codice penale è il buon andamento della pubblica amministrazione, per cui "già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo - mentre compie un atto del suo ufficio - perché gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 13 aprile 2016 n. 15440, confermando la condanna per "minaccia grave" e "oltraggio" ai danni di un agente da parte di un extracomunitario. L’uomo di origine marocchina aveva aggredito verbalmente un appuntato della Guardia di Finanza che, dopo essersi qualificato, lo aveva invitato a smettere di molestare le persone che sostavano fuori dal bar da cui era stato fatto uscire per le invettive rivolte contro il titolare che si rifiutava di fornirgli altri alcolici. Proposto ricorso, la Suprema corte ha bocciato tutti i motivi presentati dall’imputato. Quanto alla questione di costituzionalità, i giudici di Piazza Cavour, richiamando una sentenza della Consulta (341/1994), hanno ricordato che "la plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e in veste il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione". Con riguardo all’oltraggio, prosegue la Corte, "è sufficiente a integrare il reato la semplice possibilità che le espressioni lesive possano essere udite dai presenti, perché già la potenzialità può compromettere la prestazione del pubblico ufficiale, disturbato mentre compie un atto del suo ufficio - dall’avvertire condizioni potenzialmente lesive per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte". In quest’ottica, prosegue la sentenza, "non è necessario che gli astanti sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di udirle o, comunque, di rendersi conto del comportamento oltraggioso", in quanto "la presenza di astanti è condizione atta a rendere più impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale". Neppure è stato accolto l’ulteriore motivo sollevato dall’imputato secondo cui le espressioni offensive sarebbero state rivolte all’agente "non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, non contenendo riferimenti alla sua qualifica". Per i giudici infatti si tratta di "una artificiosa distinzione concettuale" che trascura il fatto che "le espressioni aggressive conseguirono all’intervento del finanziere nella sua veste di pubblico ufficiale già palesata all’imputato". Infine, con riguardo alla qualificazione della minaccia come "grave", la Cassazione ha affermato che "non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata perché rilevano l’insieme delle condizioni concrete nelle quali è espressa". E che la minaccia di morte rivolta all’appuntato ed ai suoi familiari, proveniva da un soggetto che aveva "reiterato i suoi comportamenti aggressivi nonostante l’intervento del pubblico ufficiale e che potenziò la sua minaccia evidenziando che l’entità della pena che poteva derivargliene non lo dissuadeva". Inoltre, chiarisce ancora la sentenza, "l’apprezzamento della gravità della minaccia non necessariamente deve collegarsi allo specifico evento prefigurato (nella fattispecie la morte) ma è sufficiente che allarmi il soggetto passivo anche in vista di danni minori eppure gravi". Infine, conclude la Corte, "il fatto che il soggetto passivo sia in qualche misura esposto per la sua professione a condotte minatorie non lo rende impermeabile agli effetti psicologici delle stesse". Veneto: Confagricoltura-Prap; aree verdi in carcere, i detenuti possano lavorare la terra Il Gazzettino, 14 aprile 2016 Accordo tra Confagricoltura e amministrazione penitenziaria del Veneto che coinvolge gli istituti penitenziari di Verona, Padova, Venezia, Vicenza, Treviso, Belluno e Rovigo. Destinare le aree verdi dei penitenziari del Veneto ad attività agricole, trasformare e commercializzare i prodotti, formare i detenuti per inserirli nelle aziende regionali. Sono questi i punti principali del protocollo d’intesa firmato a Mestre nella sede di Confagricoltura Veneto tra Lorenzo Nicoli, presidente regionale dell’associazione agricola e Enrico Sbriglia, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto. L’accordo, di durata biennale, è finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo delle persone in esecuzione penale interna ed esterna con il coinvolgimento in attività imprenditoriali legate all’agricoltura, che passeranno, soprattutto, attraverso i corsi di formazione proposti, in collaborazione col Provveditorato e le Direzioni, da Confagricoltura Veneto e il supporto di imprese e cooperative del settore che potranno dare lavoro al personale formato. Il progetto coinvolgerà gli istituti penitenziari di Verona, Padova, Venezia, Vicenza, Treviso, Belluno e di Rovigo, con un’azione ad ampio raggio che prevede di realizzare o potenziare nelle aree verdi filiere produttive con caratteristiche ecocompatibili, sviluppando qualsiasi settore produttivo e agro industriale per la trasformazione. Lo scopo è quello di valorizzare e commercializzare i prodotti derivati dall’attività lavorativa dei detenuti, accedendo anche ai fondi dell’Unione Europea relativi alle politiche di sviluppo rurale per professionalizzare le persone detenute nel campo agricolo. Nel progetto sono previsti percorsi di formazione per creare opportunità di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti in ambito agricolo, soprattutto per figure professionali di difficile reperibilità. In futuro si prospetta anche la possibilità di riservare una percentuale delle produzioni ottenute nelle aree verdi delle carceri alla vendita diretta al personale penitenziario e alle persone detenute, praticando prezzi di promozione e di fidelizzazione, i quali terranno conto dell’impegno profuso dalla comunità penitenziaria. Verrà considerata, infine, l’opportunità di chiedere agli enti pubblici la possibilità di concedere in comodato d’uso aree agricole o forestali non ancora valorizzate, per implementare il lavoro nel campo agricolo delle persone detenute in regime di misure alternative alla pena. Le persone detenute nei penitenziari veneti sono 2.116, di cui 115 donne. Sicilia: Crocetta nomina Giovanni Fiandaca a Garante dei detenuti di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2016 Un incarico prestigioso per il giurista, che il governatore definì negazionista della Trattativa, svolgerà a titolo gratuito, e che il presidente ha deciso di assegnare a lui perché "ha condotto una battaglia democratica per la tutela di ogni cittadino". Due anni fa lo aveva attaccato frontalmente sulla pubblica piazza, adesso invece lo elogia apertamente beneficiandolo addirittura di un incarico pubblico. È una clamorosa marcia indietro quella operata dal governatore Rosario Crocetta nei confronti di Giovanni Fiandaca: il presidente della Sicilia ha infatti nominato il giurista palermitano garante dei detenuti della Regione. Un incarico prestigioso, che Fiandaca svolgerà a titolo gratuito, e che Crocetta ha deciso di assegnare al giurista perché "ha condotto una battaglia democratica per la tutela di ogni cittadino". Il governatore, però, va oltre: e accantonando ogni tenore istituzionale spiega di essere "felice", perché Fiandaca "consapevole del grande carico di lavoro che lo attende, ha accettato: grazie Giovanni". La nota diffusa da Crocetta per comunicare l’ultima nomina del suo governo, insomma, ha toni assolutamente entusiastici, che fanno a pugni con le dichiarazioni al vetriolo rilasciate dallo stesso presidente nella primavera del 2014. Fiandaca aveva appena pubblicato il suo saggio, La mafia non ha vinto (scritto insieme allo storico Salvatore Lupo), in cui contestava aspramente l’inchiesta della procura di Palermo sulla Trattativa Stato - mafia e il Pd siciliano, tormentato come sempre da violenti guerre intestine, aveva quindi ben pensato di candidarlo alle elezioni europee. Una scelta contestatissima da parte dello stesso Crocetta, che durante la campagna elettorale aveva riservato parole imbevute nel cianuro per il professore palermitano. "Questo partito è arrivato a candidare Fiandaca che è il negazionista della Trattativa Stato-mafia e che vuole l’abolizione del 416 bis: questo partito non può candidare nelle proprie liste chi vuole offuscare la battaglia e il successo di Pio La Torre", era stato l’attacco del governatore durante un comizio nella sua Gela. Immediata, all’epoca, la replica di Fiandaca. "Non può essere - aveva detto il giurista - l’antimafia di Crocetta, Lumia e Cardinale quella coerente con l’attuale visione politica del Pd: ne traggo conferma dalla presa di posizione dei vertici nazionali del Pd, che hanno confermato il sostegno alla mia candidatura". Così però non era stato: perché nonostante il sostegno dei vertici del partito, Fiandaca aveva mancato la conquista di un seggio a Bruxelles. E ora, dopo due anni di sostanziale silenzio pubblico, ha deciso di accettare l’offerta dello stesso governatore con cui aveva furiosamente battagliato in campagna elettorale. Ma non solo. Perché all’ombra di Palazzo d’Orleans, Fiandaca ritroverà anche un altro acerrimo nemico: e cioè Antonio Ingroia, l’ex coordinatore dell’inchiesta sulla Trattativa, che lasciata la magistratura è stato a sua volta nominato da Crocetta al vertice di Sicilia e-Servizi, la società che gestisce il sistema informatico della Regione. Dopo l’uscita del suo saggio - in cui in pratica veniva giustificata l’esistenza di una Trattativa tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra - Fiandaca aveva polemizzato più volte con Ingroia, ispiratore dell’inchiesta della procura di Palermo, che ai tempi dell’Università era stato tra l’altro suo studente. "Ingroia dice che io faccio raffinata disinformazione? Se lo ripete lo prendo a calci nel sedere, con affetto parlando", aveva promesso il professore. Che adesso, deposta l’ascia di guerra, ha accettato un incarico da parte del tanto odiato Crocetta, capace di tenere insieme nel suo governo non solo ex fan di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, ma anche il magistrato che aveva coordinato l’inchiesta sulla Trattativa e il giurista che con il suo libro aveva invece cercato di fare a pezzi la stessa indagine. Come dire che in Sicilia nulla si crea e nulla si distrugge: tutto è in costante trasformazione, per poi essere tranquillamente addizionato nei pressi di un qualche ufficio pubblico. Associazione Antigone Sicilia "Esprimo soddisfazione per la nomina del prof. Giovanni Fiandaca come Garante regionale dei detenuti. È la migliore scelta che poteva farsi; sono certo che il Suo lavoro darà i giusti frutti perché saprà attivare tutto il Suo sapere e la Sua autorevolezza affinché i diritti dei detenuti vengano riconosciuti. Spero che utilizzerà il massimo delle competenze interne alla Regione Siciliana e chiuda, quanto prima, l’inutile sede distaccata di Catania. Come Presidente di Antigone Sicilia, mi auguro di poterlo incontrare e collaborare per questi importanti fini". Lo dice Pino Apprendi, che, insieme a Vincenzo Scalia, si trovava alla Casa Circondariale di Agrigento per una visita programmata, quando ha appreso la notizia. Abruzzo: Difensore Civico sì, Garante dei Detenuti no di Eleonora Falci ilcapoluogo.it, 14 aprile 2016 L’avvocato Fabrizio Di Carlo è il nuovo difensore Civico della Regione Abruzzo: la sua nomina è arrivata alla quarta votazione, con sedici voti favorevoli. Il consiglio regionale ha così raggiunto uno degli obiettivi che si andavano stancamente trascinando da mesi negli ordini del giorno che si sono succeduti uno dopo l’altro. Pareva dunque fosse la volta buona anche per la nomina del Garante dei Detenuti: ma così non è stato. Il problema, sottolinea il Presidente D’Alfonso, è che "nello Statuto della Regione Abruzzo non è prevista una via d’uscita alla maggioranza qualificata". Che significa? Che non si hanno alternative all’approvazione se non la maggioranza qualificata: cosa impossibile allo stato dei fatti, visto che presupporrebbe il consenso dell’intera maggioranza unito a larga parte dell’opposizione, essendo la maggioranza qualificata pari a 21 sì. È lo stesso D’Alfonso a fare un paragone fra le nomine: "La candidatura di Di Carlo non è stata un baluardo di appartenenza, ma di competenza. Così come quella di Rita Bernardini: chi è che ha più di lei il "demone interno" per questo ruolo?" ricordando ancora una volta che, se c’è uno che, per la sua appartenenza politica e per la sua formazione cattolica, dovrebbe essere contrario alla candidatura, sarebbe proprio lui. Eppure non si arriva alla quadra. Uno spiraglio Forza Italia lo ha fatto intravedere, nell’intervento del consigliere Mauro Febbo: "Sul valore professionale e sulla stima nei confronti di Di Carlo non c’è dubbio. Avremmo preferito però che si aprisse un dibattito. Se ci fosse stata una apertura sul Difensore Civico, avremmo potuto discutere e aprire anche sul Garante. Ma così non è andata." Una dichiarazione che fa capire che da parte di Forza Italia non ci saranno certo sconti. Chi è sempre stato contro la nomina di Rita Bernardini, non fosse altro che per una sua precedente condanna che per le regole dei 5Stelle non può assolutamente renderla eleggibile, sono i consiglieri pentastellati che hanno chiesto si votasse per la nomina del Garante oggi. Richiesta respinta: "È una palese dimostrazione di quanto la Giunta non abbia a cuore la nomina del Garante dei detenuti, se non a fini politici" spiegano i 5 stelle. "È palese, infatti, che quando si parla di cariche che la Giunta può autonomamente assegnare si parla di competenza (l’appartenenza è o potrebbe essere implicita) quando si parla, invece, di nomine che devono coinvolgere tutto il Consiglio il valore della ‘competenzà assume un significato più debole, almeno per questa maggioranza di Governo". "È un fatto" conclude Pietro Smargiassi "che dopo le solite logiche di partito, volte solo a garantire il mantenimento di alcuni equilibri politici, e dopo mesi persi in inutili votazioni, buone solo a pesare la consistenza del Governo regionale, la Regione Abruzzo resta ancora una volta senza l’unica figura volta a garantire i diritti degli ultimi". Un consiglio che si chiude dunque ancora con un nulla di fatto ed il rinvio alla prossima seduta, quella del 19 aprile, dal duplice significato. Da una parte, il consiglio straordinario convocato per discutere di Tua e dei trasporti in Regione; dall’altra la fine del commissariamento che avverrà proprio con la convocazione del 19 aprile di D’Alfonso e Paolucci. Un’era sta per finire? Marche: il Consigliere Biancani "impegno comune per superare le criticità nelle carceri" anconatoday.it, 14 aprile 2016 Il Consigliere regionale interviene sui maggiori problemi delle carceri marchigiane, focalizzando l’attenzione soprattutto sulla cronica carenza degli organici. Situazione istituti penitenziari, Biancani: "Impegno comune per superare le criticità". "I recenti sopralluoghi presso gli istituti penitenziari marchigiani ed il confronto con alcuni rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria, organizzati dal Garante dei diritti Andrea Nobili, hanno messo in luce diverse problematiche, che tendono ad acuirsi nel corso del tempo, anche a causa di un nuovo aumento della popolazione carceraria, registrato negli ultimi mesi." Il consigliere regionale del Pd, Andrea Biancani, che questa mattina si è presentato regolarmente alla riunione indetta dall’Ombudsman con i rappresentanti sindacali della Polizia penitenziaria e poi posticipata di un’ora per difficoltà degli stessi a raggiungere la sede del Consiglio, formula una riflessione generale sulla situazione carceraria, ponendo al centro dell’attenzione l’inadeguatezza di alcune strutture e la carenza degli organici, anche alla luce di un colloquio avuto con lo stesso Nobili e con alcuni rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria, prima dell’inizio dell’incontro svoltosi questa mattina a Palazzo delle Marche. "È indispensabile - sottolinea - attivare tutti i canali a nostra disposizione per risolvere le maggiori criticità. Si tratta di fornire un supporto indispensabile alla sicurezza ed ai percorsi che devono essere posti in essere all’interno degli istituti, che vede proprio nella stessa polizia penitenziaria uno dei fulcri più importanti". Biancani ricorda l’impegno assunto attraverso la mozione approvata recentemente dal Consiglio regionale e rivolta al Ministero di Giustizia, nella quale vengono segnalati, tra l’altro, "un non adeguato numero di educatori impegnati nelle attività trattamentali; l’insufficiente organico degli operatori di polizia penitenziaria; il sostegno e l’ampliamento dei percorsi destinati alla risocializzazione ed al reinserimento dei detenuti; una diversa attenzione nei confronti di quelli con varie forme di dipendenza; il miglioramento delle relazioni con i familiari; le barriere architettoniche e i problemi strutturali dei vari penitenziari. Attraverso la mozione - fa presente il consigliere - abbiamo anche impegnato la Giunta a valutare il rifinanziamento della legge 28/2008 al fine di garantire la continuità delle attività trattamentali negli istituti penitenziari marchigiani". Velletri (Rm): detenuto di 58 anni trovato impiccato lanotiziaoggi.it, 14 aprile 2016 Un detenuto di 58 anni, ieri mattina, si è tolto la vita, impiccandosi alle sbarre della finestra. L’uomo era recluso ad un regime detentivo "aperto" dove la condizione detentiva prevede l’apertura delle camere detentive per circa 14 ore ed una vigilanza dei reparti disposti su tre piani con una sorveglianza dinamica composta da tre unità destinate al giro per gli stessi e supportati da telecamere per il controllo dei corridoi delle sezioni detentive. Attualmente la situazione alla Casa Circondariale di Velletri e veramente precaria in termini di unità destinati al servizio di vigilanza composta da 176 unità rispetto ad un organico necessario di circa 263 unità (- 33%) a fronte di una popolazione detenuta di 560 presenze contro una capienza regolamentare di 411 posti detentivi (+ 36 %). A questi dati sconfortanti di sovraffollamento detentivo e di sovradimensionamento di agenti, non sembra scuotere alcun interesse da parte dell’Amministrazione Penitenziaria che invece sembra orientata a mettere il personale operante sempre più nella impossibilità di intervenire per salvare vite umane come in questo caso. La Uil-Pa Polizia penitenziaria si troverà costretta a dover assumere iniziative anche unitarie nei confronti di questa Amministrazione Centrale e regionale che sembra non avere alcun interesse a risolvere uno tra i casi più spinosi della regione Lazio come è dimostrato il Carcere di Velletri. Pisa: istigò a jihad su Facebook, detenuto trasferito in Alta sicurezza a Prato gonews.it, 14 aprile 2016 È stato trasferito dal carcere Don Bosco di Pisa al circuito alta sicurezza del carcere di Prato Jalal El Hanaoui, il marocchino di 26 anni arrestato nel giugno scorso con l’accusa di istigare alla jihad attraverso alcuni profili Facebook da lui gestiti direttamente. Il giovane, che risiede a Ponsacco da oltre 15 anni insieme alla famiglia, è stato trasferito sabato scorso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alla vigilia dell’udienza in corte d’assise, in programma venerdì, durante la quale è in programma la sua deposizione. "È un provvedimento che, allo stato, non ha alcuna giustificazione e non risponde ad alcuna logica - afferma il suo avvocato difensore, Marco Meoli - che prende corpo dopo mesi di reclusione durante i quali Jalal ha tenuto un comportamento esemplare, non ha mai creato problemi né al personale penitenziario, né agli altri detenuti. Anzi, recentemente si era iscritto a corsi di musica e partecipava serenamente alle attività previste in regime di detenzione". Secondo il legale, "si tratta di una scelta che cimpone un’inaspettata, improvvisa, limitazione alle possibilità di difesa nell’attesa della prossima udienza fissata per venerdì". L’ultima udienza era stata caratterizzata da un acceso botta e risposta tra giudice e pm riguardo alla testimonianza di un agente di polizia citato come teste dall’accusa e giudicata lacunosa da parte del presidente della corte d’assise. Reggio Calabria: convenzione per far svolgere lavori di pubblica utilità ai detenuti di Marina Malara strill.it, 14 aprile 2016 È stata firmata a Palazzo San Giorgio a Reggio Calabria la Convenzione per i Lavori di Pubblica Utilità promossa dal Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Agostino Siviglia. L’iniziativa si inserisce nell’alveo della normativa nazionale e del relativo regolamento promosso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il protocollo è stato sottoscritto dal Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, quale delegato del Ministro della Giustizia, e dal Sindaco, Giuseppe Falcomatà, alla presenza del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, in questi giorni in visita in Calabria per una serie di incontri istituzionali e per verificare le condizioni degli istituti penitenziari reggini e calabresi. La Convenzione prevede la possibilità per gli imputati di reati minori e di media rilevanza di chiedere la sospensione del processo e la messa alla prova, sulla scorta di quanto già sperimentato positivamente nel processo minorile. Fra le altre attività, gli imputati svolgeranno lavori di pubblica utilità a titolo gratuito, per finalità sociali e socio-sanitarie; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio ambientale; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio culturale e archivistico. La Città di Reggio Calabria si pone, con la firma di questo protocollo, al fianco dei comuni italiani più virtuosi che già hanno intrapreso questo percorso. Adesso gli imputati potranno svolgere lavori di pubblica utilità anche presso l’ente comunale . Ovviamente vige il divieto di retribuzione, quindi i lavori vanno svolti a titolo gratuito, mentre il comune dovrà pagare solo i contributi Inail e Inps. Per Agostino Siviglia tutto ciò mette in pratica una visione più ampia di welfare generativo. "Restituiremo alla società persone cambiate, perché supportate dall’istituzione" ha detto ancora Siviglia. Il Garante Nazionale Mauro Palma si è detto felice di essere a Reggio Calabria proprio in occasione della firma di questa convenzione che consente agli imputati di tornare a vivere il territorio, che nel frattempo cambia, preparati alle nuove regole, riducendo così il rischio di recidiva. Il presidente del Tribunale reggino, Luciano Gerardis, rivendica il lavoro fatto sul terreno dei diritti dei detenuti. "Non è il primo protocollo che firmiamo, ha detto. In questo senso non solo non siamo indietro ma siamo tra i primi in assoluto ed è un piacere farlo assieme all’amministrazione comunale con la quale abbiamo intrapreso percorsi comuni di legalità valorizzando la funzione rieducativa della pena e il recupero del condannato. Su questo terreno ci siamo e ci saremo sempre". Il Sindaco Falcomatà conferma quanto detto da Gerardis e ricorda progetti importanti come Civitas. Poi lancia una riflessione sulla figura del garante sulla quale ci sono da colmare ritardi perché a livello regionale non esiste legge. "Saremo da stimolo per colmare questo gap che la Calabria ha rispetto alle altre regioni, assieme alla sola Liguria. Inoltre, ha aggiunto Falcomatà, ci impegneremo affinché la nostra Città Metropolitana sia la prima tra quelle italiane ad istituire la figura del garante metropolitano che avrà competenza su tutto il territorio metropolitano, compreso Locri e Palmi". Ferrara: Sappe e Osapp; fuori luogo l’intervento di Marighelli a difesa della Comandante estense.com, 14 aprile 2016 Sappe e Osapp - Sindacati della polizia penitenziaria - replicano alle parole di Marcello Marighelli, Garante dei detenuti a Ferrara, intervenuto nei giorni scorsi in difesa della comandante del carcere estense, dopo l’annunciata "rivolta" nell’Arginone. "Tale intervento lo riteniamo fuori luogo - scrive Roberto Tronca, segretario del Sappe. Oggetto del contendere riguarda la gestione delle risorse umane svolta dal comandante, e per risorse umane si intende il personale di polizia penitenziaria; non si comprende, pertanto, a quale titolo Marighelli esprima il proprio parere. Il suo mandato esula completamente dall’operato del personale in uniforme, e del resto, mai in precedenza il Marighelli ha mai espresso il benché minimo interesse nei confronti del personale di custodia e dei suoi disagi e difficoltà. Mai ha cercato il minimo confronto, e quindi tutto questo interesse ci stupisce, dato che da quando svolge il proprio incarico, e stiamo parlando di diversi anni, non è mai stato palesato in precedenza". Per i sindacati è "risibile che definisca il comandante come un capro espiatorio. Tanto per cominciare, Marighelli, oltre ad ignorarci completamente, è comunque presente in istituto in modo saltuario, per un arco di tempo molto limitato; non si comprende, quindi, come si possa esprimere su una realtà che non conosce e che non ha mai voluto conoscere. È bene poi precisare che le sigle sindacali non hanno effettuato ‘processi sommarì, e quindi non hanno individuato il comandante come un ‘capro espiatoriò; tali considerazioni, invece di raffreddare i conflitti, li esasperano. Il comandante è ritenuto responsabile di determinati comportamenti, di determinate decisioni che hanno avuto come conseguenza la situazione attuale, ritenuta inaccettabile dalla stragrande maggioranza del personale di custodia; alla frattura si è giunti dopo avere cercato in ogni modo un dialogo, che è sempre stato negato; a questo punto ci chiediamo se Marighelli queste cose le sappia, e quindi a maggior ragione il suo intervento risulta essere fuori luogo". Ma l’intervento del garante è ritenuto anche "inopportuno "poiché Marighelli svolge un mandato che con il personale di custodia non ha niente a che vedere, e dato che per il personale stesso non ha mai mostrato alcun interesse, è del tutto inaccettabile che costui venga a dare consigli in tema sindacale su come raffreddare i conflitti. Egli è preoccupato dall’espressione "pugno duro", e dichiara che la nostra azione non deve contrastare l’azione di svolta politica penitenziaria degli ultimi anni; ebbene, è davvero grossolano che Marighelli esprima timori al riguardo. Tanto per cominciare - scrive Tronca - non è certo nostra intenzione fare niente del genere. Come organizzazioni sindacali di categoria siamo impegnati nella salvaguardia dei diritti del personale in uniforme. Noi, come organizzazioni sindacali, siamo preoccupati dal fatto di essere abbandonati a noi stessi, di subire aggressioni e di non poterci nemmeno difendere, in alcun modo ed in alcuna sede; siamo preoccupati dal fatto che diversi colleghi hanno riportato lesioni in seguito a colluttazioni avute con detenuti e la cosa sia quasi ritenuta normale, come se si trattasse di una sorta di rischio d’impresa. Tale considerazione è del tutto inaccettabile, con buona pace di Marighelli. Che poi egli liquidi superficialmente il fatto che non si sia investito in personale, mezzi e formazione, ed auspica che lo Stato dia maggiore riconoscimento al Corpo di Polizia Penitenziaria, ma anche a educatori, medici, infermieri, insegnanti e volontari - prosegue Tronca - non fa che confermare la sua scarsa conoscenza del personale e delle sue problematiche. Si legge, tra le righe del suo intervento, la convinzione che il personale di custodia sia semplicemente quello che apre e chiude le porte, e ciò, oltre ad essere anni luce dalla realtà, ribadisce la sua scarsa conoscenza degli aspetti che ci riguardano". L’attacco va infine più a fondo: "Vorremmo capire cosa intenda con l’auspicio che il carcere diventi sempre più uno spazio di educazione alla legalità. Se secondo lui il concetto è che i detenuti debbano essere liberi di poter fare ciò che vogliono, in aperto spregio alle più elementari norme non soltanto giuridiche ma anche di comportamento, forse è il caso che riveda le proprie convinzioni, e che magari si rilegga l’art. 41 dell’Ordinamento Penitenziario. Marighelli la verità del nostro lavoro non deve coglierla soltanto dal sindacalista che dichiara che il personale compie enormi sacrifici, perché così facendo scopre l’acqua calda. Sappia, Marighelli, che il personale non è più disposto a continuare a subire in silenzio e, pertanto, ringraziandolo, rispediamo al mittente i suoi consigli di superare i toni polemici, e pazienza se non li condivide; non è mai stata nostra intenzione fare polemiche, e non lo sarà mai. La nostra non è una polemica - conclude il sindacalista - e non riveste alcuna connotazione personale: semplicemente, abbiamo preso atto del fatto che non è più possibile alcun dialogo ed alcuna trattativa, e non abbiamo alcuna intenzione di recedere dai nostri propositi". Sulla questione, nel pomeriggio di mercoledì, intervengono anche i segretari regionali si Sappe e Osapp, Francesco Campobasso e Giovanni Marro. "È davvero singolare che il comandante di un reparto di polizia penitenziaria venga aspramente criticato dagli uomini del suo reparto, evidentemente attraverso le organizzazioni sindacali, e difeso dal garante dei detenuti - scrivono in una nota congiunta -. La difesa fatta ex ufficio dal garante dei detenuti di Ferrara non fa altro che confermare la necessità di procedere al più presto alla sostituzione del comandante in questione, per le ragioni che con relativa chiarezza abbiamo espresso in conferenza stampa. Relativa chiarezza perché ci sono fatti e atti che cristallizzano tali fatti che non possiamo certo rendere noti al pubblico, né tantomeno al garante, ma che sono stati posti all’attenzione delle autorità competenti, compresa la comandante. Siamo consapevoli e convinti che un nuovo modello di gestione del carcere e dei detenuti sia assolutamente opportuno - proseguono - ma deve essere un modello che sia funzionale a garantire la dignità e la sicurezza dei lavoratori e dei detenuti. Per rispondere a questioni di organizzazione generale, quindi, non solo su Ferrara, non possiamo tacere il fatto che non si può pensare di aprire le stanze in maniera indiscriminata, lasciando che all’interno del carcere avvengano gli stessi reati che avvenivano fuori (furti, aggressioni e violenze varie, tanto per citarne alcuni), e senza assumere, spesso, idonei provvedimenti, nei confronti di coloro che di tali fatti dovessero rendersi responsabili. Queste considerazioni, che fin dall’inizio abbiamo espresso con ogni mezzo opportuno ed in ogni occasione hanno indotto, di recente, il capo del Dipartimento a dare indicazioni più chiare e puntuali alle strutture periferiche, con una lettera circolare, sull’apertura delle stanze, che devono essere effettuate attraverso un’adeguata selezione dei detenuti. In altri termini, l’accesso e il passaggio dal regime chiuso a quello aperto deve essere un premio per coloro che lo meritano e quelli che non rispettano le regole devono ritornare nel regime chiuso. Ci auguriamo che il garante possa condividere tale impostazione, anche al fine di rendere il carcere più efficace, rispetto alla necessità di rieducare coloro che le regole non le hanno rispettate all’esterno. Era questo il riferimento al pugno duro - concludono Campobasso e Marro - e non altro" Alessandria: dal caso Tortora ai giorni nostri, come curare la febbre mediatica giudiziaria di Marco Caneva alessandrianews.it, 14 aprile 2016 Un noto avvocato penalista e una prestigiosa firma del quotidiano La Stampa a confronto sul rapporto tra la giustizia e l’informazione. Durante la serata anche la proiezione del video "Enzo Tortora. Storia di un galantuomo". È definito "circo mediatico giudiziario": il rapporto distorto tra informazione e giustizia è stato il tema del Giovedì Culturale dell’associazione Cultura e Sviluppo, ospiti Salvatore Scuto, noto avvocato penalista del foro di Milano, e Paolo Colonnello, cronista giudiziario del quotidiano La Stampa. È necessario far capire senza il filtro della politica e dell’ideologia cos’è veramente la giustizia: così Giulia Boccassi, presidente della Camera penale di Alessandria, moderatrice dell’incontro, ha introdotto la serata. L’informazione è ormai un soggetto che partecipa direttamente al processo. La stampa riesce spesso a condizionare le vicende giudiziarie. Pubblicare una posizione piuttosto che un’altra, fare filtrare una notizia in un certo momento riesce a "formare" l’opinione pubblica. E se entro certi limiti tutto questo è ovvio, sul tema dell’informazione giudiziaria, il confine viene spesso varcato per diventare una "patologia". Sono due i nodi del tema: il diritto di essere informati, tutelato dalla Costituzione, altra faccia della medaglia del dovere di informazione della stampa, e il diritto del cittadino a difendersi e ad essere tutelato, ricordando sempre il principio della presunzione di innocenza. Secondo l’avvocato Scuto, il primo diritto ha fagocitato il secondo perché la cassa di risonanza dei mass media non ha un contraltare. Ormai il rapporto tra informazione e giustizia è diventato patologico, insomma una vera febbre mediatica giudiziaria. Fu in occasione dell’arresto e del processo a Enzo Tortora, negli Ottanta, che l’informazione divenne protagonista sposando la tesi accusatoria, poi rivelatasi senza fondamento. Nel decennio successivo scoppiò la vicenda di Tangentopoli e anche in questo caso il mondo dei media seguì le procure, senza che le tesi contrarie trovassero altrettanto spazio sui giornali. In quegli anni, racconta ancora Salvatore Scuto, i giornali vendevano molto, c’era molta voglia di giustizia che talvolta si trasformava in voglia di vendetta nei confronti dei politici. Quando racconta dei processi, l’informazione maneggia materiali molto sensibili e proprio per questo ci sono norme costituzionali e del codice di procedura penale che regolamentano la pubblicazione degli atti e prevedono sanzioni. In pratica è consentito pubblicare solo per riassunto tutto ciò che riguarda un processo già terminato, ma le sanzioni non vengono praticamente mai applicate in caso contrario. Non sarebbe meglio, si chiede l’avvocato Scuto, se i giornalisti avessero tutti gli atti alla fine del procedimento giudiziario? Già dall’epoca di Tangentopoli si parlò di "rituali di degradazione" delle persone coinvolte e del processo. Attualmente in alcune trasmissioni televisive vanno ospiti, retribuiti, per parlare di atti di indagine non pubblicabili: i costi di produzione sono minimi, gli ascolti alti e questo si traduce in introiti pubblicitari elevati. Insomma tutto è fatto in nome dell’audience. Non si può escludere che i giudici popolari possano essere condizionati da alcune ricostruzioni televisive. Ben diverso è il docu-dramma che viene trasmesso negli Stati Uniti in cui vengono rappresentate le indagini e non il processo. Anche le forze dell’ordine, secondo l’avvocato Scuto, talvolta realizzano video che hanno fini "pubblicitari", come avvenuto nel processo al muratore imputato per l’uccisione della ragazzina di Brembate. Per l’avvocato è necessaria una precondizione di tipo culturale, prima ancora dell’intervento legislativo, la cooperazione tra media e mondo giudiziario deve avere dei limiti etici. A rappresentare il mondo dell’informazione è intervenuto Paolo Colonnello. Assediato da televisione, web e social media, il giornalismo è cambiato in peggio, secondo il giornalista de La Stampa. La cronaca nera fa audience perché lo spettatore sente l’esigenza di distinguersi dal male che esiste al mondo. Mentre nel processo penale si va per sottrazione, nel processo mediatico in televisione si aggiungono elementi, grazie ai giornalisti che prendono le parti delle persone coinvolte o a testimoni che vengono pagati per la presenza in trasmissione. Il processo mediatico insomma "droga la realtà". Anche Colonnello parla dei filmati realizzati per i media dalle forze dell’ordine rilevando che queste ultime hanno anche la necessità di far conoscere, e in qualche modo pubblicizzare, la loro attività, utile spesso alla carriera dell’investigatore. Il cronista della Stampa conclude ricordando la necessità assoluta di onestà, di umanità e onestà intellettuale quando si scrive e ricorda la frase di Indro Montanelli: "per fare il giornalisti bisogna essere galantuomini". Nella seconda parte della serata è stato proiettato il video Enzo Tortora, storia di un galantuomo, la ripresa del recital di Emanuele Montagna su drammaturgia di Michele Cosentini. Lo spettacolo racconta la vicenda umana e giudiziaria del presentatore televisivo, arrestato nel 1983 per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Le accuse dei pentiti si rivelarono infondate e ci furono errori nelle indagini. Tortora risultava spesso "antipatico" e il suo modo di essere condizionò molto le posizioni della stampa. L’assoluzione arrivò quattro anni dopo l’arresto, al termine del processo di appello. In conclusione Salvatore Scuto ricorda che per avere giustizia vanno sempre rispettate le condizioni umane del detenuto. Quando una persona sconta una pena non perde mai la dignità, se il carcere non redime, non rieduca e non reinserisce nella società è un fallimento del sistema. Come la difesa non è immedesimazione, la giustizia non è vendetta. Paolo Colonnello ricorda come l’ingiustizia più evidente nel caso di errori giudiziari sia il fatto che i magistrati non paghino, anzi alcuni facciamo carriera. Bisogna sempre avere dubbi, quando si decide della vita delle persone, conclude il giornalista. Melfi (Pz): una partita davvero speciale in visita al carcere di Ivan Cardia tuttomercatoweb.com, 14 aprile 2016 Una partita davvero speciale. È quella che ha disputato il Melfi presso la Casa circondariale della città federiciana. La squadra gialloverde al gran completo accompagnata dal Presidente Giuseppe Maglione e dal team manager Emilio Fidanzio, ha fatto visita ai detenuti del carcere. Una visita fortemente voluta e organizzata perfettamente dal direttore della casa circondariale Oreste Bologna che si è avvalso della preziosissima collaborazione dell’ispettore Rocco Gesualdi e del comandante Giuseppe Telesca. Da rimarcare anche la presenza della Caritas Diocesana, da sempre attenta alle problematiche legate al mondo dei carcere e non soltanto. Anche sua Eccellenza monsignor Todisco ed il Sindaco di Melfi Livio Valvano, con l’Assessore allo Sport Lucia Moccia, hanno partecipato all’evento, che ha regalato momenti di svago, ilarità e spensieratezza. Un momento toccante e profondo che da una parte ha consentito ai detenuti di vivere un ora di libertà affrontando una compagine professionistica, dall’altra ha consentito ai giovani calciatori gialloverdi, di conoscere una realtà completamente differente rispetto a quella che incontrano quotidianamente. Si è creata un atmosfera davvero bella, rilassata, amichevole. Un connubio piacevole con il Melfi che ha donato una muta di divise, palloni da gioco, scarpette e altro materiale tecnico. Nelle parole del Vescovo Todisco e del Primo cittadino, Livio Valvano, l’augurio che quest’incontro possa servire a dare lo stimolo giusto per i progetti futuri dei detenuti del carcere, che dopo aver commesso degli errori, hanno intrapreso il giusto cammino della redenzione e del riscatto. Il Melfi calcio non è nuovo ad iniziative del genere. Due anni fa la squadra federiciana, si recò in visita al carcere di Potenza, dove anche in quella circostanza, aveva affrontato una selezione composta da detenuti. Dovere di una squadra professionistica, è quello di avere sensibilità, rispetto ed attenzione, verso i più deboli, e chi ha bisogno di conforto e vicinanza. Esattamente questo è avvenuto attraverso la visita al carcere di Melfi. Regalare un ora di gioia con la disputa di una partita che non ha avuto sconfitti, ma tutti vincitori per un appuntamento che sarebbe auspicabile ripetere anche in futuro, per i sicuri effetti positivi che è capace di produrre. Da sottolineare alla fine della partita, lo scambio di doni, con il Melfi che ha ricevuto un trofeo ed un carro costruito manualmente dai detenuti del carcere. Per la cronaca la partita giocata sul campo interno in terra del carcere, sette contro sette, si è conclusa con un salomonico pareggio per 10 a 10, con alcuni detenuti che hanno mostrato capacità tecniche assolutamente rilevanti. Migranti, arrivi aumentati del 55%. Il Viminale: servono altri 15 mila posti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 aprile 2016 Circolare ai prefetti. L’allarme di Tusk: dopo stop nei Balcani, Mediterraneo unica via. Una circolare per sollecitare con la massima urgenza il reperimento di 15 mila posti. La richiesta trasmessa due giorni fa dal Viminale ai prefetti fornisce chiaramente il quadro della situazione in materia di accoglienza dei migranti. Perché fotografa una situazione grave che potrebbe diventare emergenza nelle prossime settimane. I dati indicano un trend preciso: nei primi tre mesi e mezzo del 2016 il numero degli arrivi è aumentato del 55% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Siamo a quota 23.957 persone giunte in Italia, quattromila in più anche del 2014 che fu l’anno record degli sbarchi. Adesso bisognerà riunire al più presto i "tavoli" regionali e cercare alloggi, dando priorità a donne e bambini, ma provvedendo comunque a tutti coloro che devono essere assistiti dopo essere arrivati sulle nostre coste. E nella consapevolezza che molte altre migliaia di persone arriveranno. "Un milione in Libia" - Arrivano dalla Libia, sono nella maggior parte africani. E questo fa aumentare la preoccupazione, perché vuol dire che questa rotta non viene ancora battuta dai profughi provenienti dalla Siria dopo la chiusura di quella balcanica. Ma anche perché - come ha confermato ieri il generale Paolo Serra, consigliere militare dell’inviato speciale Onu in Libia, Martin Kobler - in Libia ci sono un milione di potenziali migranti". E questo fa dire al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: "È allarmante vedere quanti migranti si preparano a utilizzare la rotta del Mediterraneo centrale: serve che mostriamo solidarietà all’Italia ora per evitare uno scenario come quello dei Balcani in futuro". I 112mila stranieri - Attualmente nelle strutture governative e in quelle messe a disposizione delle Regioni ci sono 112 mila persone. I centri sono "saturi" e per questo è stato chiesto ai prefetti di reperire altri posti, trovare centri di accoglienza per assistere gli stranieri. Tenendo conto che la maggior parte non avrà diritto all’asilo politico e dunque non potrà essere trasferito in altri Stati nemmeno nei prossimi mesi. La maggior parte degli sbarcati sono nigeriani (3.438), al secondo posto ci sono i gambiani (2.339) e al terzo i somali (1.812). Gli eritrei, unici ad avere diritto all’asilo pressoché automaticamente, sono solo 657. Missione ad Atene - I vertici della Direzione immigrazione della polizia ieri sono volati in Grecia per pianificare un’azione comune in vista dei flussi di arrivi che certamente aumenteranno in vista dell’estate. L’azione di prevenzione è fondamentale, come sottolinea il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti quando parla di "risultati abbastanza significativi perché dal primo gennaio 2015 a oggi sono stati arrestati 530 scafisti e 45 trafficanti di esseri umani". Ma non può essere certamente questa l’unica risposta. L’accordo di Dublino - La strada per cercare di fronteggiare la situazione dal punto di vista dell’assistenza degli stranieri la indica il capo del Dipartimento immigrazione Mario Morcone nel corso del bilaterale con la Germania quando rivendica la scelta di aver "realizzato l’accoglienza diffusa con un "burden sharing", la condivisione degli oneri tra Regioni che, purtroppo, l’Unione non è riuscita ancora a ottenere dai 28 Stati membri". Ma poi torna ad appellarsi all’Europa per ottenere, come del resto ha più volte sottolineato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, "una profonda revisione dell’Accordo di Dublino, verso le cui necessarie modifiche ci può essere disponibilità e apertura, se la stessa disponibilità e apertura verrà manifestata dagli amici dell’Unione Europea. Noi, anche per questo, nel recepimento delle direttive non abbiamo scelto di introdurre una lista dei Paesi sicuri autonoma, perché ci aspettiamo, sulla base della condivisione del metodo e del merito, una lista comune condivisa a livello di Commissione". Migranti: sovraffollamento e diritti violati a Lesbo, grida di dolore di chi aspetta il Papa di Niccolò Zancan La Stampa, 14 aprile 2016 Sul muro d’ingresso qualcuno ha scritto: "Nessuno è illegale". Davanti al cancello chiuso, l’avvocato Emmanouil Chatzichalkias sta discutendo con i militari di guardia: "Ma scusate - dice - come faccio ad avere il foglio firmato dal mio assistito, se non mi fate entrare per farglielo firmare? Vi rendete conto che è assurdo?". Sono le 9.40 del mattino. Un poliziotto arriva giù a passo spedito, tirando per il braccio un giornalista. "Era fra gli ulivi!", urla agli altri. "Stava fotografando dal sentiero!". Gli prendono i documenti e il telefono. Cancellano ogni singola fotografia, prima di dire: "Se ti vediamo un’altra volta nei paraggi, ti arrestiamo". Questo è il nuovo "Detention Center" di Moria, sulla collina dolce dell’isola di Lesbo. E proprio qui, dove oggi nessuno riesce ad entrare, sabato mattina si presenterà Papa Francesco. Verrà a mangiare con i migranti che stanno oltre il filo spinato. Lo vedi scintillare al sole - nuovo di zecca - lungo tutto il perimetro. E chissà se lasceranno quella scritta sul muro. Chissà se la situazione sarà ancora così com’è oggi: tende sull’asfalto e fra i container, persone che dormono per terra, anche bambini. I posti sono 2.500, i migranti oltre 3mila. La burocrazia va sempre più lenta dei nuovi arrivi. Anche se il flusso si è molto ridotto: martedì sono sbarcate in tutto 75 persone. E la settimana precedente, la settimana dei primi respingenti decisi con il nuovo accordo fra Unione Europea e Turchia, c’è stato un giorno in cui per la prima volta in 15 mesi non è sbarcato nessuno. Difficile dire se sia un dato indicativo. Il mare era molto mosso. Ma è certo che la rotta Balcanica ormai è praticamente chiusa. Adesso esiste questa nuova ineludibile frontiera d’Europa, il centro di Moria. Chiunque arrivi, deve passare da qui. Ma poi, una volta entrato, cosa succede? "Sono indignato" spiega l’avvocato Chatzichalkias. "Per adesso non viene rispettata la legge. Faccio un esempio. I pakistani stavano da una parte, al chiuso. Senza informazioni. Come se non potessero neanche provare a chiedere asilo politico: tagliati fuori. Ho dovuto insistere per poterli incontrare". Ed ecco un altro esempio dell’avvocato Chatzichalkias: "Sono venuto per conto di Reporters Sans Frontiers ad incontrare una giornalista afghana di nome Sonia Azizi. So che è detenuta all’interno, ma non la trovano. Per forza: ho verificato che spesso i nomi vengono registrati con lettere sbagliate. Mi occupo di un ragazzo che si chiama Said, ma il suo nome era registrato come Saeed. Non c’è organizzazione. Non c’è trasparenza. Non sono garantiti i diritti fondamentali. Là dentro ho visto anche un anziano in sedia a rotelle". Di notte qualcuno scappa da un buco nella rete, poi ritorna prima dell’alba. L’idea che tutti dovessero per forza stare dentro al centro - definito di "detenzione" proprio per questo motivo - si sta scontrando con il problema concreto dello spazio. Ecco perché, forse pensando all’arrivo di Papa Francesco, alcune famiglie siriane, già registrate, sono state trasferite in un campo aperto. Si chiama Karatepe, e faceva parte del precedente regime d’accoglienza. È tutto molto aleatorio. Lungo il filo spinato, le pecore spesso sono le uniche testimoni delle proteste che vanno in scena per motivi vari: uscire, poter telefonare, mangiare cibo diverso da quello che viene servito. François Bienfait è qui per noi, per tutti noi. Mandato dall’Europa a controllare che vengano rispettate le domande di asilo politico. "Che il caso di ogni singolo migrante sia trattato individualmente", dice per spiegare qual è la sua missione. Purtroppo fino ad adesso non sembra che stia succedendo. "Siamo in 60 dell’agenzia Easo - spiega Bienfait - ci occupiamo di supportare le richieste di protezione internazionale. Lavoriamo in stretto contatto con il governo greco. Ma abbiamo bisogno di rinforzi. Presto saremo in 120. E poi di più. L’obiettivo è dare una risposta a tutti entro due settimane". Ci sono 25 gradi, qualcuno fa il bagno. Stanno sgomberando il piccolo aeroporto di Mytilini. Per ragioni di sicurezza, nessun’auto può sostare nella zona. Stanno preparando l’arrivo del pontefice. Ci sarà il premier Alexis Tsipras ad accoglierlo. Andranno a deporre corone di fiori per i migranti annegati, nel tratto di mare in cui la Turchia si vede ad occhio nudo. Poi Papa Francesco varcherà il cancello del "detention center" di Moria, per verificare di persona come funziona questa nuova idea di Europa. Migranti. Il Presidente Mattarella: "Barriere zavorra per l’Europa" di Leo Lancari Il Manifesto, 14 aprile 2016 Il presidente della Repubblica contro la chiusura del Brennero. A Idomeni nuovi scontri tra polizia e profughi. La decisione dell’Austria di costruire una barriera al confine del Brennero non piace a Sergio Mattarella che la ritiene l’ennesima "zavorra" che impedisce all’Europa di progredire. Di più: "Lasciare senza risposte le migliaia di donne e uomini che fuggono da guerre, violenze e devastazioni che oggi bussano alle parte dell’Europa, non è possibile", dice il capo dello Stato. Prosegue l’offensiva italiana contro Vienna. Dopo la lettera di proteste al commissario Ue per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos con la quale i ministri Gentiloni e Alfano hanno contestato la decisione di Vienna di innalzare un muro anti-migranti al confine con l’Italia, ieri è stato il presidente della repubblica a prendere la parola per condannare il modo in cui l’Austria si sta muovendo senza tener conto delle regole europee. "Sono lieto che i rappresentante della Commissione Ue ieri (martedì, ndr) abbia pronunciato parole chiare su quanto sta avvenendo al Brennero", ha detto Mattarella riferendosi alle preoccupazioni espresse da Avramopoulos. Ignorando le proteste provenienti dall’Europa, l’Austria prosegue come se niente fosse i lavori per l’innalzamento del muro di metallo al confine italo-austriaco. In un colloquio telefonico proprio con Avramopoulos il ministro degli Interni austriaco Johanna Mikl-Lewitner ha provato a smorzare le polemiche spiegando che lo scopo della barriera non sarebbe quello di fermare i migranti, bensì di incanalarli verso i luoghi dive verranno effettuati i controlli Spiegazioni accolte con scetticismo da Avramopoulos. Per il momento Bruxelles preferisce restare in attesa per vedere come evolverà la situazione, rimandando la decisione su eventuali provvedimenti da adottare. Ma è chiaro, fanno capire fonti della Commissione Ue, che se la barriera verrà davvero costruita allora verrà valutata secondo i criteri di proporzionalità e necessità alla ricerca di possibili violazioni del codice Schengen da parte di Vienna, Pronta a far scattare una procedura di infrazione nel caso i riscontri dovessero dare esito positivo. Sull’entità dei possibili arrivi attesi per quest’anno in Italia le previsioni cambiano di giorno in giorno, Per il generale Paolo Serra, consigliere militare Onu per la Libia, ascoltato ieri dalla Commissione Eteri e Difesa di Camera e Senato, il 2016 potrebbe far segnare 250 mila arrivi contro i 154 mila dell’anno scorso. Tutti migranti economici rimasti intrappolati nel paese nordafricano con lo scoppio della guerra. Un equivoco si è creato quando il generale ha parlato di un milione di stranieri presenti in Libia, dichiarazione subito interpretato da qualcuno come annuncio di un’imminente invasione. È stato lo stesso Serra a chiarire in seguito i significato delle sue parole. "Il milione di persone era riferito ai lavoratori stranieri che la Libia non è più in grado di assorbire - ha detto - L’economia libica è infatti passata da 1,8 milioni di barili di petrolio al giorno agli attuali 300 mila. Non ho mai parlato di un milione di persone in partenza per l’Italia". Serra si è infine detto convinto che anche i 250mila arrivi potrebbero essere evitati se la comunità internazionale decidesse di fare qualcosa per risolvere la risi libica. A Idomeni, intanto, ieri la polizia macedone ha caricato per la seconda volta in pochi giorni i migranti. Gas lacrimogeni sono stati lanciati dagli agenti quando un gruppo di rifugiati si è avvicinato alla recinzione che separa i sue stati, Per sicurezza è stata annullata la prevista visita al confine dei presidenti di Macedonia, Croazia e Slovenia. Egitto: caso Regeni. Al Sisi "noi trasparenti, ucciso da gente malvagia" di Viviana Mazza Corriere della Sera, 14 aprile 2016 Le parole del presidente egiziano riportate da un quotidiano in lingua inglese. Accuse ai media del suo Paese: "Diffuse menzogne, dietro l’omicidio non ci sono i nostri servizi". "Noi egiziani abbiamo creato un problema con l’assassinio", ha esordito Abdel Fatah Al Sisi. E per un momento è sembrata un’apertura o un’ammissione sull’omicidio di Giulio Regeni, ma invece no. Il "problema" sono i media egiziani - ha spiegato il presidente - mentre i servizi di sicurezza sono innocenti. In un discorso trasmesso in diretta tv dal palazzo presidenziale il raìs ha ripetuto che i responsabili della morte del ricercatore italiano sono non meglio precisate "persone malvagie". I "nemici della nazione" - L’Egitto mantiene così la sua linea: la pista criminale oppure un complotto dei "nemici della nazione", nonostante gli attivisti per i diritti umani e gli esperti abbiano osservato che i segni di tortura sul cadavere di Regeni ritrovato il 3 febbraio scorso combaciano con il modus operandi dei servizi di sicurezza. Anche l’Italia manterrà la sua linea: il nostro governo non ha reagito ufficialmente mercoledì, volendo credere che il messaggio di Al Sisi sia rivolto all’interno, ma sembra evidente l’intenzione di dare al Cairo 15 giorni dal richiamo per consultazioni dell’ambasciatore Massari avvenuto sabato scorso. Se in queste due settimane l’Egitto non presenterà una risposta concreta, nuove misure potrebbero colpire turismo e intese culturali. Le accuse ai media - L’altro ieri il ministro degli Esteri Sameh Shoukry ha dichiarato che Il Cairo potrebbe consegnare agli investigatori italiani i tabulati dei telefoni cellulari nella zona della sparizione di Giulio e del ritrovamento del corpo, citando la possibilità di aggirare i presunti ostacoli di incostituzionalità, esaminando questi dati all’interno del Paese. Ma ha anche aggiunto che l’inchiesta potrebbe richiedere del tempo. Per la crisi con l’Italia, intanto, Al Sisi addita come responsabili i media locali. Gli investigatori egiziani hanno agito con la "massima trasparenza" - ha sostenuto - ma "gli amici italiani non credono alla nostra magistratura a causa della nostra stampa che ripete come un pappagallo le bugie architettate nei meandri dei social network". Bugie che, ha spiegato, mettono la nazione a rischio. "Non appena è stata annunciata la morte di quel giovane, la gente tra noi ha detto che era opera delle agenzie di sicurezza egiziane… mentre è opera di persone malvagie tra noi. Noi egiziani abbiamo iniziato a diffondere queste speculazioni e menzogne, e abbiamo creato un problema per noi stessi, un problema per l’Egitto". Egitto: caso Regeni, il governo italiano tace e l’Europa medita di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 aprile 2016 Il parlamento Ue preme sul Consiglio perché adotti sanzioni contro l’Egitto. Ma Mrs Pesc: "L’Europa è pronta ad esplorare i migliori modi che l’Italia potrà usare nella ricerca della verità". Nel giorno in cui Al Sisi blinda le sue forze di sicurezza, scusandole da una possibile incriminazione nell’omicidio di Giulio Regeni, il governo Renzi rimane in silenzio, in attesa di concludere le consultazioni con l’ambasciatore Massari rientrato a Roma, e con i partner europei. Gli eletti italiani a Strasburgo premono intanto sul Consiglio europeo perché l’Italia non venga lasciata sola nella crisi diplomatica che si è aperta con l’Egitto. Ma ogni decisione è rinviata: l’Alto rappresentante per gli affari esteri, Federica Mogherini, che secondo quanto riferito dalla sua portavoce Chaterine Ray "sta seguendo da vicino, con le autorità italiane", il caso, ed "ha incontrato il ministro degli Esteri Gentiloni a margine del G7 in Giappone", per il momento si dice solo "pronta ad esplorare i migliori modi che l’Italia potrà usare nella ricerca della verità". Tra i tanti possibili, ce n’è uno, per esempio, che viene caldeggiato da Amnesty e dall’Osservatorio permanente della rete per il disarmo: sospendere l’invio di armi in Egitto. "Lo scorso anno dalla provincia di Urbino sono stati esportati 3.660 fucili che sono andati con molta probabilità alle forze di sicurezza egiziane", denuncia Giorgio Beretta, analista dell’Opal, durante un seminario a Palermo sul "costo dell’insicurezza". Con quasi 307 milioni di euro di esportazioni, infatti, l’Italia si conferma il principale esportatore tra i paesi Ue e mondiale di armi comuni, con "autorizzazioni rilasciate dal governo nonostante sia tuttora in vigore la decisione del Consiglio dell’Ue di sospendere le licenze di esportazione all’Egitto di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna. L’Italia risulta l’unico Paese europeo ad aver fornito nel biennio 2014-15 sia pistole e revolver che fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di Al Sisi". "Se vogliamo essere credibili nei confronti dell’Egitto per chiedere la verità sul caso Regeni - conclude Beretta - dobbiamo sospendere immediatamente l’invio di armi e promuovere una risoluzione all’interno dell’Unione Europea". Infatti, nella risoluzione sul caso Regeni approvata a marzo dalla stragrande maggioranza del Parlamento europeo si invitavano soltanto gli Stati membri ad attenersi alle regole, in materia di "esportazione di tecnologie e attrezzature militari e cooperazione nel settore della sicurezza". Ma quel documento invitava anche Mrs Pesc "a riferire in merito allo stato attuale della cooperazione militare e di sicurezza degli Stati membri con l’Egitto e a definire, in stretta consultazione con il Parlamento europeo, una tabella di marcia recante le misure concrete che le autorità egiziane dovranno adottare per migliorare in maniera significativa la situazione dei diritti umani e conseguire una riforma globale del sistema giudiziario". Appunto di democrazia e di rispetto dei diritti umani hanno discusso i parlamentari europei delegati alle relazioni con i Paesi del Mashreq e i membri della sottocommissione Droi in una riunione congiunta con una delegazione di deputati egiziani. Proprio mentre lo striscione giallo della campagna "Verità per Giulio Regeni" veniva srotolato nel cortile della sede di Strasburgo, sostenuto in silenzio da una quarantina di deputati appartenenti a vari gruppi: Socialisti e democratici, Ppe, M5S, Lista Tsipras e Lega Nord. Il presidente del gruppo S&D, Gianni Piettella, ha poi chiesto esplicitamente alla Commissione di rivedere i rapporti con l’Egitto. Di sanzioni però al momento non se ne parla: secondo la portavoce di Mogherini, invece, "la Ue è in costante dialogo con l’Egitto su questo (Regeni, ndr) ed altri casi, e con l’Italia per trovare ogni altro modo per coordinarci". Intanto a testimoniare la storia e le idee di Giulio Regeni, che alle lotte democratiche aveva dedicato i suoi studi, saranno una trentina di ragazzi di Fiumicello, suo paese natale, che parteciperanno al Meeting di pace delle scuole d’Italia che si svolgerà nel prossimo week end ad Assisi, contemporaneamente alla Marcia della Pace. Il Meeting sarà dedicato a lui, al "ragazzo che non sapeva cosa fosse l’indifferenza".