A Roma gli Stati generali dell’esecuzione penale: un altro carcere "è possibile" di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 13 aprile 2016 A Rebibbia due giorni di confronto su istituti, detenuti e rischio recidiva. Il ministro Orlando: l’obiettivo è rieducare e reinserire nella società, mentre oggi chi va in prigione rischia di uscirne peggiorato. Un carcere diverso è possibile, anzi è necessario. Gli istituti di pena "debbono cambiare, per rendere effettivo il dettato costituzionale. Il carcere deve rieducare e reinserire nella società i detenuti, mentre oggi chi vi entra rischia di uscirne peggiorato...". È il ministro della Giustizia Andrea Orlando a illustrare ai cronisti l’obiettivo di fondo degli Stati generali dell’esecuzione penale. Un percorso di riflessione partito un anno fa dal carcere milanese di Bollate e che si chiuderà lunedì e martedì nel penitenziario romano di Rebibbia, con due giorni di dibattiti e confronto. Al centro delle riflessioni, il documento del comitato scientifico guidato dal professor Glauco Giostra, che fa sintesi delle proposte arrivate da 18 tavoli di lavoro ai quali hanno preso parte nei mesi scorsi 200 esperti che (attraverso riunioni, trasferte, ricerche e consultazioni) tracciano la rotta del nuovo modello di esecuzione penale (dal lavoro, alla salute, al trattamento, alla presenza di donne, minori e stranieri). All’inaugurazione sarà presente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (al suo primo ingresso in una struttura carceraria da capo dello Stato). E ai lavori interverranno il commissario Ue alla Giustizia Vera Jourova, 8 ministri (oltre al Guardasigilli, i titolari di Interno, Infrastrutture, Cultura, Istruzione, Lavoro, Salute e Agricoltura); relatori d’eccezione come il presidente della Cei Angelo Bagnasco; i vertici della magistratura e dell’avvocatura; esponenti dello sport come Demetrio Alberimi: del giornalismo come il direttore di Avvenire Marco Tarquinio; e dell’arte, come l’attrice Valeria Colino, protagonista dello spazio intitolato "Interpretare il carcere". L’intera manifestazione sarà visibile in diretta streaming nelle carceri italiane, per dare la possibilità ai detenuti di ascoltare riflessioni che parlano dei loro problemi quotidiani. "I temi legati alle carceri non vanno trascurati ma anzi compresi e approfonditi", afferma il ministro Orlando, invitando i media ad approfondirli, senza fermarsi agli eventi di cronaca. "Quando c’è un’evasione - aggiunge Giostra - si dimentica che, per un caso in cui il sistema non ha funzionato, ce ne sono altri 99 in cui ha tenuto". Occorre poi, aggiunge l’esperto, sfatare il falso mito del carcere come luogo in cui rinchiudere i mali della società: "Sarebbe possibile solo, per assurdo, se qualsiasi reato fosse punito con l’ergastolo. Invece la risposta è nel recupero positivo delle persone". Il documento finale sarà a disposizione del Parlamento, che sta esaminando la delega sulla riforma penitenziaria contenuta nel disegno di legge sul processo penale. L’intento è di fornire una piattaforma per interventi che migliorino il sistema, abbassino i costi (sui 3 miliardi di euro l’anno) e radichino nel dibattito pubblico un’idea diversa di carcere, finalizzata ad "abbassare il livello di recidiva, che in Italia è il più alto d’Europa", attraverso l’uso di pene alternative al carcere. Attualmente, osserva Orlando, "il rapporto è di un detenuto ammesso all’esecuzione penale esterna per ogni detenuto in carcere, mentre quando il nostro governo si era insediato era uno a quattro". Cambiare, dunque, è opportuno. Anche perché il carcere attuale non rigenera ma incattivisce: "Oggi chi entra in carcere rischia di uscirne peggiore: un piccolo delinquente può apprendere da grossi criminali - conclude il ministro. E molti giovani disorientati rischiano di essere ammaliati dai proclami di jihadisti radicali". Orlando: Stati generali a Rebibbia, per la nuova riforma del carcere di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 aprile 2016 Hanno lavorato per quasi un anno, attorno a 18 tavoli tematici, oltre 200 esperti - avvocati, magistrati, docenti, operatori penitenziari e sanitari, assistenti sociali, psicologi, volontari, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile, garanti delle persone private di libertà e detenuti stessi - coordinati da Glauco Giostra, chiamati dal ministero di Giustizia ad inventare "un modello di carcere all’altezza dell’articolo 27 della Costituzione". Il 19 maggio 2015, mentre l’Italia annaspava nel tentativo di uscire dall’ormai cronica emergenza per il sovraffollamento carcerario (dichiarata nel 2010 per la prima volta nella storia repubblicana), di far dimenticare le condanne ricevute dalla Corte europea dei diritti umani (sentenze Sulejmanovic e Torreggiani), e di aggirare le salate multe che avrebbe dovuto pagare, il ministro Andrea Orlando avviò nel carcere di Milano Bollate gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Un lungo percorso di approfondimento e analisi che ha prodotto in qualche modo - sostiene il Guardasigilli - "già un cambiamento in corso d’opera", e le cui relazioni finali saranno illustrate il 18 e 19 aprile prossimi all’auditorium del carcere romano di Rebibbia, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella. Andrea Orlando ieri, presentando il programma dell’evento conclusivo ha rivolto un appello ai media affinché aprano una discussione pubblica sull’esecuzione penale e sul carcere "priva di slogan e di stereotipi securitari", e promuovano, "con un approccio razionale, una riflessione più complessiva". "Bisogna sfatare l’idea che maggiore attenzione al trattamento rieducativo significhi abbassamento dei livelli di sicurezza - ha spiegato Giostra - è invece ormai accertato che l’espiazione non esclusivamente carceraria della pena abbassa sensibilmente la recidiva". Nella due giorni di Rebibbia prenderanno la parola, tra gli altri, anche il capo del Dap Consolo, il vice segretario del Consiglio d’Europa, Gabriella Dragoni, il vicepresidente del Cms, Legnini, il presidente della Cassazione, Canzio, il procuratore nazionale antimafia, Roberti, e perfino il presidente della Cei, Bagnasco e quello della Rai, Maggioni. Perché l’evento è sicuramente straordinario, se non fosse altro perché da questo lungo lavoro - a cui hanno partecipato a diverso titolo personalità varie, dalla Radicale Rita Bernardini all’ex calciatore Demetrio Albertini, dalla filosofa Tamar Pich alla presidente di Fuoriluogo Grazia Zuffa, fino all’architetto Luca Zevi e all’attrice Valeria Golino - è servito per "portare all’interno del carcere il contributo di chi vive fuori". E servirà "a riempire di contenuto la delega per il progetto di legge di riforma dell’esecuzione penale che interviene dopo quarant’anni". Ma attenzione, avvertono gli esperti del ministero: "Se è fallita la riforma del 1975, che pure era ottimamente concepita, è perché non ha trovato persone e luoghi adatti ad accoglierla". L’ambizione di Orlando ora è molto più alta, e non fatta solo di leggi. Carcere, basta con il populismo penale di Stefano Anastasia Il Manifesto, 13 aprile 2016 Sugli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Con un confronto in pubblico nel carcere romano di Rebibbia tra responsabili istituzionali e coordinatori dei diciotto tavoli di lavoro che hanno loro dato vita, si chiudono lunedì e martedì prossimi gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Si è trattata di una forma di partecipazione e di condivisione inedita che ha coinvolto direttamente alcune centinaia di persone (operatori professionali e volontari, studiosi, attivisti e conoscitori del mondo dell’esecuzione penale) nella elaborazione di possibili linee-guida per il futuro del penitenziario. La necessità era lì, evidente. Dopo la condanna della Corte europea per i diritti umani per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti in condizione di sovraffollamento, l’intero sistema penale - dagli operatori di strada ai vertici politico-amministrativi - ha lavorato nella direzione della riduzione della popolazione detenuta, con interventi legislativi mirati e con la giusta misura nell’applicazione delle norme incriminatrici e carcerogene. In poco più di due anni la popolazione detenuta è diminuita di circa 14mila persone, salvando il nostro Paese da nuove infamanti condanne. Ma questo risultato è stato il frutto di una eccezionale mobilitazione di tutti gli attori del sistema, altrettanto eccezionalmente sostenuta da una diffusa indignazione nell’opinione pubblica per le condizioni di detenzione riscontrate dalla Corte europea e ampiamente documentate dalla stampa e dai periodici rapporti di Antigone (il prossimo sarà presentato a Roma venerdì). Chiunque abbia seguito l’evoluzione del sistema penitenziario italiano negli ultimi venticinque anni, viceversa sa che il sovraffollamento penitenziario - in Italia come altrove - non è stato frutto eccezionale del caso, ma l’inevitabile conseguenza di un modello sociale e di un sistema politico fondati l’uno sulla esclusione sociale della marginalità e l’altro sulla raccolta di consensi nelle campagne di law and order. La condanna europea (come altre, analoghe decisioni delle corti supreme e sovranazionali in altri Paesi) ha semplicemente registrato la rotta di collisione tra quel modello sociale e i fondamenti dei nostri ordinamenti giuridici, riconosciuti nella dignità di ogni essere umano e nella universalità dei diritti fondamentali della persona. Il sistema ha reagito con prontezza ed efficacia, ma non ci si può nascondere che i risultati raggiunti sono tutt’altro che consolidati. Basti vedere i dati sulle presenze in carcere negli ultimi tre mesi per scoprire che la popolazione detenuta ha ripreso a crescere al ritmo di cinquecento persone al mese. Un segno preoccupante degli esiti che può avere un calo di tensione sulle condizioni di detenzione e, peggio, di nuove - assai prossime - contese elettorali intorno alla "sicurezza dei cittadini". Per questo erano necessari gli Stati generali dell’esecuzione penale: per consolidare un orientamento politico e culturale nella direzione della decarcerizzazione e delle alternative all’esecuzione penale detentiva. Pur nella babele delle lingue e nelle differenze culturali e professionali, i tavoli di lavoro hanno mostrato di voler andare in quella direzione. Adesso spetta al governo e al ministro fare tesoro di questa elaborazione diffusa, se non per una riforma compiuta del sistema penale e penitenziario, almeno per resistere alle sirene risorgenti del populismo penale che vedono nella centralità del carcere il proprio faro e la propria guida. Pene preventive o definitive. Comunque non bastano mai di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 aprile 2016 Ci sono due notizie interessanti, oggi, che riguardano la giustizia. La prima è la decisione del tribunale di prorogare fino al 2019 la carcerazione preventiva per gli imputati del processo di mafia-capitale. La seconda è che una ragazza romena, che si chiama Doina Matei, dopo aver trascorso in prigione nove anni per un omicidio preterintenzionale, ora è uscita in regime di semilibertà. La prima notizia non ha suscitato scalpore. La seconda sì. La prima notizia è passata sotto silenzio: cosa normale. La seconda ha fatto un gran baccano. Nessuno, mi pare, è rimasto colpito dal fatto che alcuni imputati per gli appalti truccati a Roma resteranno in carcere per quattro anni e mezzo in attesa che si concluda il processo. La seconda notizia invece ha smosso una grande indignazione. Popolare e anche d’elite. Hanno gridato la loro rabbia i "social" (cioè facebook, twitter e altri) e con loro anche i grandi giornali. Perché non solo Doina è andata libera dopo solo nove anni, ma si è anche fatta fotografare, spensierata, sulla spiaggia, e ha messo le foto su facebook. E ciò è stato considerato indecente e irrispettoso. Forse prima di ragionare è necessario ricordare cosa è successo nove anni fa, nel 2007. In un vagone molto affollato di una metropolitana romana, scoppiò una rissa tra due ragazze. Una italiana e una straniera. La prima si chiamava Vanessa Russo, la seconda era Doina. La ragazza rumena, a un certo punto, vibrò una ombrellata e colpì al volto Vanessa. Più precisamente, con la punta dell’ombrello la colpì su un occhio, e l’ombrello penetrò e uccise Vanessa. Doina non voleva uccidere Vanessa e questo fu riconosciuto al processo. Nessuno può pensare di uccidere una persona servendosi di un ombrello e dunque era da escludere la volontarietà dell’omicidio. E così il tribunale condannò Doina - che era una ragazzetta un po’ disadattata di 18 anni - a ben 16 anni di carcere. Quasi la pena massima, visto che il codice prevede per questo tipo di delitto il carcere dai 10 ai 16 anni (anche meno di dieci nel caso di attenuanti, come ad esempio la giovanissima età dell’aggressore). Da allora sono passati - dicevamo - nove anni. La legge Gozzini prevede che in caso di buona condotta, chiunque, dopo aver scontato la metà della pena, può godere di un regime di semilibertà. E cioè trascorrere fuori dal carcere la giornata, e poi tornare in cella la sera. Doina ha scontato la metà della pena ormai da un anno. Perché non avrebbe dovuto tornare in libertà? Dov’è lo scandalo? Forse perché è rumena? Forse perché nell’opinione pubblica si fa strada l’idea che per un delitto, qualunque delitto, è sempre bene dare l’ergastolo, visto che non c’è la pena di morte, e al diavolo il codice penale? Giornali serissimi, molto importanti, ieri hanno dato l’impressione di essere orientati in questo modo. Poi c’è la questione carcere preventivo. Cioè il caso di mafia-capitale. Anche qui, diciamolo subito, come nel caso di Doina, la legge è stata rispettata in modo rigoroso. La legge, e le sentenze precedenti della Corte di Cassazione, autorizzano una proroga così lunga della carcerazione preventiva, nel caso di delitti mafiosi. E come sapete, è stata riconosciuta la modalità mafiosa nei delitti romani, sebbene non risultino morti, né feriti, né agguati, che in genere sono le azioni caratteristiche della mafia. Dunque niente da obiettare sul piano della legalità. Ma qui si pone una questione di buonsenso. E forse di civiltà. È accettabile in un paese moderno e liberale come l’Italia, nel 2016, che una persona non condannata (e dunque considerata a tutti gli effetti innocente, come stabilisce la nostra Costituzione) possa trascorrere fino a quattro anni e mezzo in carcere in attesa di essere giudicata? Sì, certo, è tutto legale. Ma è anche, molto probabilmente, anticostituzionale. Il problema dell’eccesso del carcere preventivo (più di un quarto della popolazione carceraria non ha subito condanne definitive) sta diventando un problema molto grande in Italia. Che purtroppo la politica non ha il coraggio di affrontare, e la magistratura talvolta non può affrontare, talvolta non vuole. In questo caso la motivazione della carcerazione preventiva è la pericolosità degli imputati. Naturalmente è una motivazione che può essere messa in discussione, così come può essere messo in discussione il teorema sulla "mafiosità" della corruzione romana. Comunque è una motivazione. In moltissimi altri casi però la motivazione di lunghissime carcerazioni preventive non c’è. Mancano gli elementi necessari per arrestare (pericolo di fuga, pericolo di ripetizione del reato o pericolo di inquinamento delle prove) e la carcerazione avviene perché viene considerata dagli inquirenti un mezzo di indagine. Ma la domanda è questa: tenere in prigione una persona per facilitare le indagini, è lecito? E cioè: è corretto mescolare strumenti di indagine ed esecuzione della pena? Ed è giusto far scontare pene detentive anche molto lunghe a imputati forse innocenti? P. S. Ieri il Procuratore Pignatone, parlando alla Luiss, ha spiegato che "Roma non è una città in mano alla mafia ma è una città caratterizzata da presenze mafiose significative. La fortuna per noi inquirenti è che non ci sono omicidi né stragi. Non c’è bisogno di ammazzarsi perché ci sono soldi per tutti". Sono parole sicuramente sagge. Ma una criminalità che delinque senza uccidere, senza terrorizzare, senza estorcere nulla ai cittadini comuni, siamo sicuri che non sia semplicemente criminalità ordinaria? Cos’è che distingue la criminalità comune da quella mafiosa, se non la violenza e il terrorismo diffuso? Ancora aperti quattro Opg su sei: è passato un anno dalla "chiusura obbligatoria" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2016 È passato un anno dalla data ufficiale che rendeva obbligatoria la chiusura definitiva - pena il commissariamento delle regioni - di tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma ancora quattro Opg su sei restano aperti. Le regioni inadempienti non sono state commissariate come prevede la legge, ma in alternativa, nel febbraio del 2016, il garante dei detenuti della regione Toscana, Franco Corleone, è stato ufficialmente nominato dal governo come commissario unico per il definitivo superamento degli Opg. Nomina in bilico per una sua presunta incompatibilità tra carica di garante e di commissario. A oggi, a causa della scarsa diffusione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie con pochi posti letto (al massimo 20), senza sbarre e senza agenti di polizia, nate in sostituzione degli Opg, ci sono ancora 93 persone rinchiuse illegalmente negli ospedali psichiatrici. Nel frattempo l’associazione fiorentina "L’altro Diritto", sempre impegnata in prima fila contro le storture del sistema penitenziario e giudiziario, ha presentato i ricorsi in tre Regioni (Toscana, Emilia-Romagna, Sicilia), lamentando la violazione dell’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale. La legge non prevede più gli Opg e tre ordinanze di tre diversi magistrati di sorveglianza hanno accolto i ricorsi, dando tre mesi di tempo alla regione Toscana e 15 giorni alle altre due regioni per mettersi in regola. Tempo scaduto, ma i governatori hanno impugnato le ordinanze e così le hanno bloccate finché non ci sarà il giudizio definitivo della Cassazione. Il prossimo passo de "L’altro diritto" sarà quello di presentare una richiesta di intervento da parte della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ma a breve, se non verranno presi seri provvedimenti, si rischia l’esplosione di un’altra emergenza. A lanciare l’allarme è stato lo stesso commissario unico, Franco Corleone: "Sono le continue richieste di misure di sicurezza provvisorie: i magistrati emettono troppo spesso dei provvedimenti per una misura di sicurezza nella Rems e non vengono eseguite perché non c’è posto. E siamo arrivati a 116 persone al 1 marzo 2016". Un numero piuttosto elevato che non convince il commissario, sia perché non c’è posto e sia perché i magistrati emettono condanne finalizzate alla contenzione, senza valutare alcuna pena alternativa. Un rapporto tra giustizia e sistema territoriale della psichiatria che andrebbe, sempre secondo Corleone, rivalutato. Un dibattito ancora aperto, vista la tipologia delle persone condannate per reati commessi in ragione della loro situazione psichica e sociale. La popolazione degli ex Opg in via di trasferimento e di quelli in attesa di espiare la loro pena è composta per lo più da giovani, disagiati e completamente abbandonati. Inoltre, risulta che sono le donne a rischio di carcerazione più lunga. Tutto ciò è emerso grazie a un progetto promosso e finanziato dal centro per la prevenzione e il controllo delle malattie del ministero della Salute e coordinato dall’Istituto superiore di sanità. L’indagine era stata realizzata su un campione di 473 ricoverati (alla data di avvio delle valutazioni - 1 giugno 2013 - nei sei Opg erano presenti 1.015 pazienti, 835 dei quali ricoverati nelle cinque strutture coinvolte nel progetto). Il campione è costituito per circa il 90% da uomini. L’età media è pari a 42,5 anni. Il 73% circa dei pazienti partecipanti non è sposato e non ha figli e il 50% viveva con la famiglia d’origine prima del ricovero in Opg. Emerge una condizione di svantaggio sociale: basso livello di istruzione con condizioni lavorative ed economiche precarie. Oltre il 30% dei pazienti ha una malattia fisica grave, il 24% circa è obeso e l’80% è fumatore. Il 7,6% ha una disabilità da moderata a grave dovuta a patologie del sistema nervoso centrale. Foto su Facebook, così Doina Matei perde la semilibertà e torna in cella di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 13 aprile 2016 Doina Matei che il 26 aprile del 2007 uccise Vanessa Russo colpendola con la punta dell’ombrello in un occhio dopo una lite in una stazione della metropolitana di Roma. Doina dice che non sapeva, che non pensava, dice che la semilibertà se l’è meritata sul campo, meglio, fra le sbarre del carcere. Ma il magistrato di Sorveglianza di Venezia, Vincenzo Semeraro, quando ha visto quel profilo Facebook con le sue foto in costume al Lido di Venezia, non ci ha pensato molto e ha concluso che no, la semilibertà va sospesa. E così la trentenne romena Doina Matei che il 26 aprile del 2007 uccise Vanessa Russo colpendola con la punta dell’ombrello in un occhio dopo una lite in una stazione della metropolitana di Roma, è tornata a tempo pieno nel carcere lagunare della Giudecca. In questi giorni stava usufruendo di un permesso premio che le consentiva di dormire all’esterno e stava già pensando al prossimo per la Pasqua ortodossa del primo maggio. "Questo è un brutto passo indietro per la mia assistita - ha commentato l’avvocato Nino Marazzita, suo difensore. Forse dovuto all’effetto del polverone mediatico che si è sollevato sul caso dopo la pubblicazione di quelle foto. Ma la sospensione durerà giusto il tempo di discuterla davanti al tribunale di Venezia dove dimostreremo che fra i divieti non c’era quello specifico dell’uso del social network". Lo sconto di pena - La giovane donna dell’Est, condannata a 16 anni per l’omicidio di Vanessa che fu considerato preterintenzionale, cioè non voluto, dopo otto anni di reclusione aveva ottenuto la misura alternativa alla detenzione: fuori di giorno e dentro di notte, dalle 22 alle 6 del mattino. Uno sconto di pena riconosciuto per la buona condotta e per il suo pentimento. "Vanessa (la vittima aveva 23 anni, ndr) non aveva vissuto molti giorni felici, tutti gli altri glieli avevo tolti io - scrisse lei in un racconto, La ragazza con l’ombrello, aiutata dalla giornalista Franca Leosini. È soprattutto la felicità possibile che le ho sottratto che mi logora con tormento maggiore. Ho provato a dire alla madre, ai fratelli di Vanessa, il mio tormento, lo sgomento, il rimorso per quei suoi giorni senza futuro. Ho invocato il perdono. Non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel loro silenzio. Tocca a me comprendere il rifiuto, il disprezzo anche". Il post sul social network - Ma quelle foto su Facebook, quel volto sorridente, quel mare e quel costume, ad appena otto anni dalla tragedia, sono sembrate troppo. "Pena di morte", ha addirittura invocato qualcuno in Rete. "Esiste il diritto alla felicità anche per chi ha commesso un grave delitto, se la pena è stata regolarmente scontata", hanno replicato altri. "Sono sconvolta, non sapevo di non poter usare Facebook, mi spiace molto se ho fatto del male a qualcuno...", si è difesa Doina che già sognava l’affidamento in prova ai servizi sociali per tornare a vivere con i suoi bambini. "La nostra condanna è stare in galera, la condanna dei nostri figli è sentirci al telefono solo per dieci minuti a settimana", aveva scritto lei stessa in un articolo pubblicato da Ristretti Orizzonti. Classe 1985, quattro fratelli, Doina Matei ha alle spalle una vita difficile. Primo figlio a 14 anni, il secondo a 17, decise di venire in Italia per cercare di dar loro un futuro migliore del suo. "Ma l’Italia fu per me il buio delle notti, il gelo del marciapiede fino a sfiancarmi la carne e l’anima", scrisse. Faceva la prostituta. Poi il delitto e il carcere. "Il mondo senza cielo", nel quale è tornata ieri sera. In carcere senza colpa per 22 anni. Lo Stato deve risarcirlo con 7 milioni di Gianpaolo Iacobini Il Giornale, 13 aprile 2016 Condannato il ministero, per l’Italia è un indennizzo record Giuseppe Gulotta, diciannovenne, aveva confessato sotto tortura. Ventidue anni di galera per un crimine mai commesso: lo Stato dovrà risarcirlo con oltre 6 milioni e mezzo d’euro. Giuseppe Gulotta ha vinto anche l’ultima partita, stavolta ottenendo che la Corte d’Appello di Reggio Calabria condannasse il ministero dell’Economia a risarcirgli il quasi quarto di secolo passato dietro le sbarre con l’accusa di omicidio. La sentenza è arrivata l’altro giorno, a scrivere forse la parola fine alla storia del cinquantanovenne siciliano costretto in prigione per 22 anni da innocente. La cifra è record, ma lontana dai 56 milioni che il muratore di Alcamo aveva chiesto coi suoi avvocati per lenire le pene d’una vita spezzata. In carcere Gulotta s’era affacciato diciannovenne. È il 1976, febbraio: un suo vicino di casa, Giuseppe Vesco, lo accusa d’aver fatto parte del commando che un paio di settimane prima era entrato nella caserma dell’Arma di Alcamo Marina uccidendo due carabinieri. L’indiziato confessò si scoprirà più tardi sotto tortura. Spinto ad ammettere responsabilità inesistenti a furia di calci, botte e bevute forzate di acqua salata. Una verità raccontata ai giudici, ma mai creduta. Nel 1990 arrivò il verdetto definitivo di condanna. E da allora per Gulotta fu la morte civile in un penitenziario. Solo nel 2007, un ex ufficiale della Benemerita, Renato Olino, spinto dal rimorso, andò dagli inquirenti a rivelare la verità. Si apriì il processo di revisione. Nel 2010 il primo successo: la libertà vigilata; nel 2012 l’assoluzione. Incredibile, ma affatto raro, in Italia: la legge distingue tra errore giudiziario (quando una condanna viene in seguito annullata per fatti nuovi) e ingiusta detenzione (se alla carcerazione segue l’assoluzione). Stando ai dati del ministero della Giustizia, dal 1992 al 2014 "l’ammontare delle riparazioni ha raggiunto i 581 milioni, con 23.226 liquidazioni effettuate". Numeri freddi, che non restituiscono i drammi di storie personali cancellate molte, troppe volte per superficialità, per la fretta di chiudere un caso. Come quello che ebbe per protagonista l’imprenditore Daniele Barillà: arrestato nel 1992 mentre attendeva la fidanzata sotto casa, condannato perché ritenuto implicato in un vorticoso giro di cocaina, torna libero nel 2000. Quando si scopre che nell’inchiesta il suo nome è finito per sbaglio. Per uno scambio di persona. Con Barillà lo Stato ha pagato il suo debito versando 4 milioni di euro. Con Gulotta, invece, ha provato a fare il furbo. "Nulla gli è dovuto", ha argomentato l’Avvocatura in corso di causa: "L’errore fu indotto dal richiedente, attraverso la confessione". Quella estorta a suon di botte. La Corte ha ascoltato, preso nota, valutato. Alla fine ha deciso. Ed al ministero ha concesso lo sconto, non la vittoria. Il racconto del medico che assiste Provenzano. Dice solo: "Mmmmm..." di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 13 aprile 2016 Parla il dottor Rodolfo Casati, che vive anche lui blindato in ospedale. L’ex capo di Cosa nostra? Non capisce, non pronuncia parole, ha diverse lesioni cerebrali. E però resta lì, isolatissimo, al 41 bis. Mmmm, mam… forse mamma. I suoni escono inarticolati da un corpo che non è più un corpo, che giace immobile, sempre "allettato", che viene costantemente ripulito, poi riposizionato, infine nutrito con il sondino naso-gastrico. Che non ha più nessuna autonomia. Bernardo Provenzano, o quello che resta di lui a 83 anni, giace da due anni appena compiuti, dal 9 aprile del 2014, in una stanza blindata dell’ospedale S. Paolo di Milano, nel quartiere periferico della Barona, palazzoni popolari dignitosi proprio al limite dell’autostrada per Genova. La struttura carceraria, unica in Italia con ospiti "speciali", ha 22 letti, più due stanze separate e protette per detenuti al regime del 41bis. In una delle due arrivano detenuti a rotazione, l’altra è occupata in modo stabile da Provenzano. Da quando c’è lui, oltre ai 9 medici, 14 infermieri e 8 operatori sociosanitari, ai sempre presenti 3 agenti di polizia penitenziaria, si sono aggiunte due auto della polizia che stazionano nei lati nord e sud dell’ospedale. Considerando che i turni di lavoro sono di sei ore per ciascuno di loro, il totale di agenti fa un bel plotone di 28 persone dedicate ogni giorno a custodire un corpo ridotto allo stato vegetale. Che cosa dice, come si comporta Provenzano, invia o riceve "pizzini"? Lo chiediamo alle persona che lo conosce meglio, che in questi due anni è stata al suo fianco come medico e come primario della V Divisione di medicina protetta (cioè carceraria), il professor Rodolfo Casati. Un sorriso mesto, quasi rassegnato: "Provenzano non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso". Che cosa ha esattamente? "Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson, è in uno stato degenerativo gravissimo, anche se gli altri organi funzionano". Queste cose il dottor Casati le ha scritte ripetutamente, nel corso degli ultimi due anni, in relazioni che sono entrate nei fascicoli giudiziari di mezza Italia, da Palermo a Milano, transitando per Caltanissetta e Firenze, ma in gran parte inascoltate. Mmm, mam, forse mamma, è sicuramente una sorta di "pizzino" vocale, destinato a qualche complice di Provenzano per organizzare attentati e stragi. Questo devono aver pensato al ministero quando il 24 marzo scorso hanno deciso di prorogare lo stato di 41bis a questo vegetale-detenuto per il quale i medici hanno chiesto il ricovero in una struttura sanitaria per lungodegenti. E hanno vergato parole di questo tipo: "Seppure ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa". Parole del resto condivise non solo dai magistrati della procura di Palermo, ma anche dalla Cassazione, che ha respinto una richiesta di differimento della pena avanzata dai difensori. Il dottor Casati non commenta, lui scrive le sue relazioni, visita ogni giorno un paziente con cui non può parlare, che non parla, non si muove, non mangia autonomamente, ma che vive blindato con decine di uomini in divisa che sorvegliano un vegetale. In questo reparto sono passati, nel corso degli anni, detenuti come Totò Riina, Giovanni Brusca e i maggiori capi della camorra. Quali sono le patologie più frequenti? "In questi 15 anni ho visto passare 8.000 detenuti, circa 600 all’anno. In carcere ci si ammala di più, a causa della vita sedentaria, dell’eccesso di alimentazione e del fumo. Le patologie più diffuse sono le cardio-vascolari, in particolare le ischemie. Poi il diabete e le infettologie, Hiv e Hcv (epatite C). Con l’arrivo di cittadini di altri paesi - il 30% della popolazione carceraria- è tornata anche la tubercolosi. Paradossalmente la detenzione dal punto di vista della salute comporta un aspetto di positività, perché si scoprono magagne che magari da liberi venivano trascurate. In ogni caso noi abbiamo sempre la lista d’attesa". Il che la dice lunga sul significato della pena, della privazione di libertà. Non possiamo non chiedere a questo bravo cardiologo e internista come sia cambiata la sua vita in questi 15 anni, con la vita da blindato (anche lui controllato e sempre senza cellulare) e tante ore al giorno senza contatti con l’esterno. "Dal punto di vista clinico è molto stimolante perché ti obbliga a trattare patologie a 360%, non solo quelle in cui sei specializzato. Umanamente è un’esperienza che ti prende, vedi la vita e le cose in modo diverso. Senti racconti - perché loro raccontano e raccontano - drammatici, storie di vita che finiscono con il coinvolgerti, stili di vita a rischio. E capisci quanto sia sottile il confine tra una vita irreprensibile e l’illegalità". Corte Ue: indennizzi alle vittime di reato, chiesta la condanna dell’Italia di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2016 Con ricorso del 22 dicembre 2014, la Commissione europea ha contestato allo Stato italiano l’inadempimento degli obblighi di cui alla Direttiva europea del 2004 relativa all’indennizzo delle vittime di reato; in particolare, la presunta violazione riguarderebbe l’assenza di un sistema generale di indennizzo per le vittime di qualsiasi tipo di reato intenzionale violento commesso all’interno del territorio italiano. Prima di procedere davanti alla Corte di Giustizia, la Commissione aveva, a diverse riprese, a partire dal giugno del 2011, insistito affinché l’Italia adeguasse la propria legislazione alla direttiva; nel luglio 2013, oltretutto, il Tribunale di Firenze aveva proposto una questione pregiudiziale proprio su questo tema, su cui la Corte di Giustizia UE non si era pronunciata per questioni di incompetenza. Al ricorso presentato, le autorità italiane hanno opposto che la norma in questione lascerebbe in realtà un ampio margine di apprezzamento, ivi compreso quello di scegliere per quali fattispecie di reato prevedere l’indennizzo obbligatorio (sono numerose, infatti, le leggi dello Stato che già lo attribuiscono per taluni tipi di reati, come i delitti di terrorismo e associazione mafiosa). Per questo le richieste della Commissione sono da interpretarsi, per l’Italia, come un’intrusione nelle sfere di competenza nazionali non autorizzata dai Trattati, che non prevedono competenze dirette dell’Ue in materia penale; inoltre, l’ampio margine di apprezzamento si deduce dai lavori preparatori della direttiva, durante i quali erano stati stralciati alcuni progetti iniziali che prevedevano delle norme più specifiche sulla portata dell’indennizzo e sui crimini coinvolti, proprio per evitare che le istituzioni europee interferissero negli ambiti di competenza degli Stati membri. La Commissione ha rigettato questa interpretazione e ha replicato che comunque la questione non concerne tanto il diritto penale, quanto obbligazioni di natura civile, che pure trovano la loro fonte in una fattispecie di reato. Queste le conclusioni dell’avvocato generale della Corte Ue Yves Bot. La Corte costituzionale promuove la pignorabilità di un quinto dello stipendio di Giovanni La Banca Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2016 È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 545 del Codice di procedura civile, allorché non prevede l’assoluta impignorabilità della parte della retribuzione che è necessaria a garantire al lavoratore i mezzi necessari alle sue esigenze (Corte Costituzionale, sentenza 5 aprile 2016, n. 70). Le soglie di pignorabilità - L’articolo 545, comma 4 del Codice di procedura civile ha ispirato, da sempre, un notevole dibattito in diritto, atteso che tale norma potrebbe porsi in contrasto con la Costituzione, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella porzione della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita. In particolare, con la sentenza n. 70/2016 la Consulta ha chiarito che lo scopo della norma è quello di contemperare la protezione del credito con l’esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa. In tal senso, posto che la scelta del criterio di limitazione della pignorabilità e l’entità di detta limitazione rientrano nel potere costituzionalmente insindacabile del legislatore, quest’ultimo si è dato carico di contemperare i contrapposti interessi contenendo in limiti angusti la somma pignorabile e graduando il sacrificio in misura proporzionale all’entità della retribuzione: chi ha una retribuzione più bassa, infatti, è colpito in misura proporzionalmente minore. Nell’ambito delle soluzioni costituzionalmente conformi, cioè caratterizzate dal bilanciamento tra le ragioni del credito e quelle del percettore di redditi di lavoro esigui, il legislatore sta esercitando la sua discrezionalità in modo articolato, valorizzando gli elementi peculiari delle singole situazioni giuridiche piuttosto che una riconduzione a parametri uniformi. Lo stesso assoggettamento della retribuzione, da qualsiasi lavoratore percepita, alla responsabilità patrimoniale quale "bene" sul quale qualsiasi creditore può, nei limiti di legge, soddisfarsi, non si pone in contrasto con norme di carattere costituzionale. Conseguentemente, l’articolo 545, comma 4 del Codice di procedura civile, non è costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità della quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia. Il dibattito - Secondo i ricorrenti lo scopo dell’articolo 545 del Codice di procedura civile è quello di contemperare la protezione del credito con l’esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa e conseguentemente. Pertanto, per gli stipendi dovrebbe valere un regime analogo a quello indicato per le pensioni e per il pignoramento del reddito per la riscossione dei crediti tributari. Diversamente, la previsione della pignorabilità di un quinto delle retribuzioni anche di basso ammontare, si porrebbe in contrasto con le disposizioni costituzionali che esprimono un favor per il lavoro. La soluzione dei Giudici di legittimità - Gli strumenti di protezione del credito personale, non consentono di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore. Ciò in quanto la facoltà di escutere il debitore non può essere sacrificata totalmente, anche se la privazione di una parte del salario è un sacrificio che può essere molto gravoso per il lavoratore scarsamente retribuito. Non può essere mosso al legislatore il rilievo di non aver tenuto conto, nella disciplina dell’articolo 545 del Codice di procedura civile, dell’ipotesi n cui per effetto del pignoramento e nonostante i limiti di impignorabilità che sono fissati, la retribuzione scenda al di sotto di un determinato livello e non assicuri al debitore il minimo indispensabile per vivere. Resta il fatto in sé, ed è ben possibile che esso si verifichi specie quando la retribuzione sia bassa, ma trattasi di un inconveniente che non dà luogo all’illegittimità costituzionale della normativa de qua, proprio in ragione della esigenza di non vanificare la garanzia del credito. La ratio della limitazione posta all’espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente prevista nell’articolo 545 del Codice di procedura civile trova il suo fondamento nel fatto che nella generalità dei casi il lavoratore dipendente trae i mezzi ordinari di sostentamento per le necessità della vita da un’unica fonte, facilmente aggredibile, con ciò intendendo però stabilire soltanto dei limiti a un particolare mezzo di esecuzione ma non certo introdurre una deroga al principio della responsabilità patrimoniale, la quale resta pertanto piena e illimitata. Né può farsi riferimento all’articolo 3 della Costituzione, sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia - in via subordinata - all’articolo 72-ter del Dpr 602 del 1973, in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata. In primis, non può essere esteso ai crediti retributivi quanto affermato con riguardo alla pignorabilità delle pensioni, giacché proprio la Corte Costituzionale ha escluso la estensibilità della fattispecie ai crediti di lavoro per la diversa configurazione della tutela prevista dall’articolo 38 rispetto a quella dell’articolo 36 della Costituzione. Non è rilevante, in proposito, neanche la richiamata sopravvenienza del Dl 83/2015, il quale assimila la pignorabilità di stipendi e pensioni nel solo caso di somme accreditate su conto corrente bancario o postale. La disomogeneità delle situazioni sulla base delle quali è stato instaurato il giudizio emerge dunque da un esame obiettivo del contesto normativo complessivo e dalla sua evoluzione differenziata. Se il principio di eguaglianza implica un favor nei confronti di discipline quanto più generali possibili, è altresì innegabile che il giudizio di coerenza ex articolo 3 della Costituzione deve essere svolto per linee interne alla legislazione e che, in tale prospettiva, gli elementi addotti non consentono di inquadrare la scelta del legislatore sotto il profilo della disparità di trattamento. Sequestro limitato sul libretto della pensione di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 15099. Il sequestro preventivo per equivalente a garanzia della pretesa erariale non può riguardare il libretto della pensione dell’indagato, se non nella misura massima del quinto degli importi. La Terza sezione penale della Cassazione (sentenza 15099/16, depositata ieri) torna ancora una volta sul tema delle garanzie - nel caso specifico per omesso versamento Iva, articolo 10-ter del Dlgs 74/2000 - solo per ripristinare la gerarchia delle norme dell’ordinamento. Il Gip di Napoli prima, e il Riesame poi, tra giugno e settembre di due anni fa, avevano congelato una somma prossima ai 2,1 milioni di euro, nell’ambito di un’indagine preliminare, somma equivalente all’evasione Iva contestata all’indagato. Tra i vari motivi di ricorso, quest’ultimo aveva segnalato l’estensione della misura patrimoniale anche a un libretto postale acceso dall’indagato stesso con l’esclusivo fine di riscuotere la pensione erogata dall’Inps. I giudici di merito, nell’avallare la misura cautelare, si erano limitati a ravvisare la pertinenzialità del sequestro e ad escludere poi l’eccezione sulla impignorabilità della pensione in quanto norma - secondo quel punto di vista - applicabile solo alla confisca per equivalente nel caso di reato contro la Pa. Al contrario, sottolinea la Terza sezione, è dirimente la disposizione prevista all’articolo 1 del Dpr 180 del 1950 secondo cui, tra l’altro, "non possono essere sequestrati, pignorati o ceduti (...) gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che lo Stato, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e qualsiasi altro ente od istituto pubblico (...) corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati ed a qualunque altra persona". Di qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli. Le norme statali non "espropriano" le competenze legislative regionali di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2016 Con sentenza 5 aprile 2016, n. 67 la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 1, lettera b), della legge 11 novembre 2014, n. 164, e ha stabilito alcuni importanti punti di diritto sui problemi dei rapporti tra le leggi statali e quelle regionali in materia di urbanistica. In particolare, la Consulta ha affermato che: - nella potestà legislativa concorrente, le leggi statali "di principio" non richiedono, per essere efficaci, di specifiche disposizioni attuative; - il carattere "auto applicativo" di una disposizione non comporta affatto il carattere "di dettaglio" di essa; - la disciplina statale di principio non può automaticamente "espropriare" i legislatori regionali (e locali) dal potere di "conformare la regolazione statale alle proprie specifiche esigenze". Il fatto - La vicenda che ha dato origine a questa controversia è stata determinata da un ricorso della Regione Puglia alla Corte costituzionale nel quale si è sostenuto, tra l’altro, che l’articolo 17, comma 1, lettera b), della legge n. 164/2014, era in contrasto con gli articoli 3 comma 1, 117, comma 3, e 118, commi 1 e 2 della Costituzione. Questa disposizione ha introdotto l’articolo 3-bis nel Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, che stabilisce: "Lo strumento urbanistico individua gli edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi della pianificazione …. Nelle more dell’attuazione del piano, resta salva la facoltà del proprietario di eseguire tutti gli interventi conservativi, ad eccezione delle demolizioni e successive ricostruzioni non giustificate da obiettivi ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario". Secondo il ricorso della Regione Puglia lo Stato è intervenuto con disposizioni "autoapplicative" che sono "di dettaglio", e che sono di competenza delle Regioni. Ma la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, e ha - nella densa motivazione della sentenza - stabilito alcuni importanti punti di diritto. La sentenza - La Corte ha innanzitutto censurato il modo con il quale la Regione ricorrente ha sollevato l’eccezione di incostituzionalità, proponendo una duplice opzione ermeneutica, e questo modo è stato considerato "non perspicuo". In altri termini, secondo la Corte, le eccezioni di incostituzionalità devono essere prospettate ponendo in luce non censure alternative, ma un’unica censura, contenente l’eccezione di incostituzionalità. A parte questo rilievo, la Corte ha ritenuto che la norma indicata come incostituzionale conteneva una "prescrizione di principio", con un meccanismo riconducibile al sistema della cosiddetta "perequazione urbanistica", rivolto anche a promuovere la ripresa del settore edilizio, e tali "principi fondamentali di settore" salvaguardavano le attribuzioni legislative concorrenti regionali e quelle amministrative degli enti territoriali minori. Questi "principi" hanno perciò lo scopo di evitare disparità di trattamento per le attività di risanamento urbanistico su tutto il territorio della Repubblica e la Corte ha affermato che il "carattere auto-applicativo" della norma di principio impugnata, non implicava affatto il "carattere di dettaglio" della medesima, e in conseguenza "tale norma di principio non può essere considerata come automaticamente produttiva dell’effetto di espropriare i legislatori regionali del loro autonomo potere di conformare la regolazione statale alle proprie specifiche esigenze". La valutazione della sentenza - La sentenza, che ha una breve ma densa stesura, contiene una motivazione persuasiva. Si è innanzitutto fermata l’attenzione sul concetto di principio, considerato come una norma importante, che costituisce l’inizio di altre regole e norme dipendenti dalla prima. Anche in passato si affermava che il principio è un primum, dal quale dipendono altre cose, e questa concezione è valida anche oggi. La Corte ha poi stabilito, in una rigorosa ottica logica e giuridica, che la norma di principio ha una sua "forza" applicativa, e può essere efficace anche se non vi sono ulteriori e specifiche disposizioni attuative. Oltre a ciò - proseguendo nell’ argomentazione logica - la sentenza ha affermato che il carattere auto-applicativo di una regola di principio non comporta affatto che essa abbia il "carattere di dettaglio", riservata alla legislazione regionale concorrente. L’auto-applicazione, cioè l’efficacia diretta di una norma di principio, si pone su un piano logico diverso da quello delle disposizioni di dettaglio, alle quali si contrappongono proprio le disposizioni di principio. Come ulteriore conseguenza di questo corretto e concatenato modo di argomentare, si è affermato che tutto ciò non comporta "l’esproprio legislativo" per i legislatori regionali dal loro autonomo potere, rivolto ad adattare la disciplina statale alle loro specifiche esigenze. Le conseguenze per altri casi simili - Questa sentenza - bene costruita e argomentata - è quindi un necessario punto di riferimento per tutti gli altri casi simili che si possono presentare, e si potranno così evitare dei ricorsi (da parte delle Regioni, ma anche da parte dello Stato) che interpretano con criteri politici il sottile crinale della distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio. Toscana: accesso illimitato nelle carceri per i Garanti dei diritti dei detenuti controradio.it, 13 aprile 2016 Siglato un protocollo tra i Garanti comunali e Provveditorato. È consentito l’accesso dei garanti, senza alcuna limitazione oraria d’ingresso, con accesso a tutti gli ambienti del carcere. Un protocollo d’intesa finalizzato alla "tutela dei diritti dei detenuti" e al "miglioramento della qualità di vita e al rispetto della legalità negli istituti penitenziari toscani", in "sintonia con l’obiettivo del reinserimento sociale", è stato firmato dai garanti comunali dei detenuti e dal provveditorato dell’amministrazione regionale penitenziaria. A sottoscrivere il documento, assieme al provveditore Giuseppe Martone e al garante regionale Franco Corleone, sono stati i garanti di Firenze, Livorno, Pisa, San Gimignano, Lucca, Prato, Porto Azzurro e Pistoia. La firma è avvenuta a palazzo Panciatichi, sede del Consiglio toscano. Nel documento, il cui fine è "organizzare una collaborazione rapida, trasparente ed efficace con tutti gli uffici penitenziari della Toscana", si leggono alcuni impegni di rilievo, ad esempio "in tutti gli istituti penitenziari della regione è consentito l’accesso dei garanti, senza alcuna limitazione oraria d’ingresso, con accesso a tutti gli ambienti", oppure che "il garante potrà effettuare un colloquio specifico anche contestualmente alla visita" e che "il garante potrà altresì effettuare colloqui collettivi con gruppi di detenuti, o con le commissioni dei detenuti, su tematiche relative all’organizzazione dell’istituto e alla promozione di attività trattamentali, e potrà partecipare a riunioni organizzate dalla direzione dell’istituto". Secondo il protocollo firmato, il provveditorato regionale si impegna a "fornire preventivamente informazioni su eventuali modificazioni dei circuiti penitenziari della Toscana" ed i "criteri utilizzati per il trasferimento dei gruppi di detenuti". Il provveditorato e le direzioni degli istituti, inoltre, "si impegnano a non utilizzare dati sensibili personali raccolti attraverso test medico-sanitari". Sicilia: per il Garante dei detenuti sede vacante, con dirigenti e impiegati di Laura Arconti Il Dubbio, 13 aprile 2016 In Sicilia la figura del "Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale" è stata istituita nel 2005 (art. 33 della legge regionale n. 5 del 19 maggio 2005) e successivamente integrata in parte con l’art. 16 della legge regionale n. 18/2/2008; il mandato, affidato dal Presidente della Regione con proprio decreto, ha una durata di sette anni. Nel 2006 è stato nominato Garante il senatore Salvo Fleres, che ha svolto la funzione fino alla scadenza del mandato, il 16 settembre 2013, e da allora il presidente della Regione Rosario Crocetta non ha ritenuto opportuno procedere a una nuova nomina per due anni. La Legge Regionale 7 maggio 2015, n. 9 (legge di stabilità regionale 2015) con l’articolo 98/5 ha modificato i requisiti prescritti dalla norma originaria, prevedendo che il Garante potesse essere nominato esclusivamente fra "i dirigenti di ruolo dell’amministrazione regionale". Su questa base, con Decreto Presidenziale 401/2015 del 6 ottobre 2015, è stata nominata Garante la dottoressa Maria Antonietta Bullara, dirigente regionale di ruolo, che ricopre anche la carica di Direttore Generale del Dipartimento Regionale delle Politiche Sociali presso l’Assessorato del lavoro. L’incarico è stato conferito per sette anni, ma ben presto è cessato, perché la successiva legge di stabilità regionale 17/03/2016 ha rovesciato la normativa, e con l’articolo 22 ha stabilito che non possano essere nominati i dipendenti della regione, dirigenti e non, sopprimendo la norma del 2015. Di fatto, l’incarico di Garante regionale delle persone detenute è nuovamente vacante in Sicilia. Non c’è il Garante, ma l’Ufficio del Garante (che ha ben due sedi, a Palermo ed a Catania) è rimasto aperto con una decina di funzionari e impiegati che percepiscono stipendi ma non possono operare: non sono neppure autorizzati ad aprire la corrispondenza che arriva dalle carceri agli uffici, all’indirizzo del Garante che non c’è. I Radicali che vivono ed operano in Sicilia hanno più volte sollecitato il presidente della Regione a nominare il Garante, e nel gennaio del 2015 hanno presentato un esposto alla procura regionale della Corte dei Conti per il danno erariale conseguente alla mancata nomina del Garante. Il costo delle due sedi e del personale (in stipendi e contributi) è stato stimato in circa 500 mila euro all’anno. Non basta: il 16 dicembre 2015 Riccardo Arena scrive sul "Giornale di Sicilia" che il giudice monocratico della quinta sezione del Tribunale di Palermo, Fabrizio Anfuso, ha condannato per assenteismo nove impiegati regionali dell’Ufficio del Garante a dieci mesi ciascuno, con pena sospesa, ed alla confisca del maltolto. Sembra che l’accusa di assenteismo risalisse ai tempi del Garante Fleres, ma questo - dei tempi processuali - è tutto un altro discorso. Nell’aggiornamento dell’8 marzo 2016 il ministero della Giustizia continua a riportare, alla voce Garante per la regione Sicilia, il nome di Maria Antonietta Bullara. Il Garante nazionale, che ha a disposizione tutta la struttura ministeriale, è evidentemente meno informato di una cittadina novantenne, che lavora soltanto con il proprio computer e il proprio telefono privato. Campania: Sanità penitenziaria; Beneduce incontra il commissario ad acta Polimenti di Esther Pollio corsoitalianews.it, 13 aprile 2016 "Sono soddisfatta per l’esito. Il commissario ad acta è già pronto ad intervenire": questo il primo commento di Flora Beneduce, consigliere regionale Campania, in merito all’incontro avvenuto con Joseph Polimeni, commissario ad acta, e Adriana Tocco, Garante dei Detenuti della Campania. Tema del dialogo tra i due è stata la sanità penitenziaria su cui Flora Beneduce è da tempo impegnata per ottenere miglioramenti. In seguito alle visite che la Dottoressa Beneduce ha effettuato nelle case circondariali, la sua battaglia ha assunto toni sempre più forti in difesa prima di tutto della dignità di questi uomini, puniti dalla legge per gli errori commessi, ma non per questo da trattare come "non uomini". Il diritto alla cura sanitaria è insostituibile, a prescindere dagli errori che un uomo o una donna possano aver commesso. "Avere un interlocutore cui esporre le criticità è un importante passo avanti verso la risoluzione di problemi annosi e complessi - afferma Flora Beneduce, componente della Commissione Permanente Sanità e Sicurezza Sociale- ho posto all’attenzione del Commissario Polimeni il disagio del personale sanitario in condizioni di precarietà, la negazione per i detenuti al diritto alla salute, anche a causa delle lunghe attese per le visite specialistiche e l’assenza di figure professionali con formazione specifica". "Il commissario ad acta ha mostrato la volontà di riattivare per la sanità penitenziaria tutti gli organismi precipui già previsti per legge e di effettuare una attenta ricognizione dello stato attuale delle criticità presenti - spiega Flora Beneduce- per la stabilizzazione dei personale precario medico e infermieristico, è stata proposta una soluzione operativa. Rispetto agli interventi chirurgici di grave complessità si è pensato alla dislocazione presso strutture convenzionate oltre alla realizzazione di punti sanitari nelle carceri per le cure di routine. La mia attenzione resta altissima e sono sicura che anche Polimeni manterrà gli impegni assunti". Pordenone: Stefano Borriello sarebbe deceduto a causa di una polmonite "batterica" Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2016 Il Difensore civico di Antigone deposita un esposto presso la Procura. La scorsa settimana, il Difensore civico di Antigone, Simona Filippi, ha depositato presso la Procura della Repubblica di Pordenone un esposto per chiedere che venga fatta luce sulle responsabilità che hanno portato alla morte del giovane Stefano Borriello. Dopo un silenzio durato otto mesi, il consulente del Pubblico ministero rende noto che Stefano sarebbe morto per una "banale" "polmonite batterica" e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata: "non è di sicura efficacia il trattamento antibiotico neppure nell’ipotesi di tempestiva somministrazione di cure antibiotiche dedicate". Sembra che dinnanzi a queste conclusioni, l’intenzione della Procura sia quella di archiviare il procedimento. Ci chiediamo allora: è possibile che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite "batterica" e che dinnanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Come si possono non considerare le evidenze legate a queste patologia: la polmonite "batterica" è caratterizzata da sintomi ben precisi (febbre alta, dolore puntorio al petto e un’obiettività polmonare caratteristica), ha un decorso di diversi giorni prima di portare alla morte e, soprattutto, se correttamente diagnosticata esistono terapie risolutive (con antibiotico terapia). La presunta immunodepressione di cui sarebbe stato portatore il giovane comunque non avrebbe impedito la cura della polmonite. Per un fatto analogo, lo scorso mese di marzo, la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane avvenuta nel carcere romano di "Rebibbia" per "polmonite": "una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita". Il Difensore civico depositerà a breve una relazione medica in cui verranno specificatamente ricostruito il decorso clinico che ha portato alla morte di Stefano e sin da ora chiede che, dinnanzi a questa assurda morte, la Procura non chiuda le indagini con una richiesta di archiviazione. Gorizia: Arcigay; sezione per omosessuali nel carcere? servono azioni di formazione di Daniele Particelli queerblog.it, 13 aprile 2016 La decisione del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto di realizzare una sorta di sezione riservata ai detenuti omosessuali nel carcere di Gorizia è stata accolta da accese polemiche, al punto da spingere l’ente a valutare soluzioni alternative a patto che queste consentano di tutelare i tre detenuti gay dichiarati ospitati nella struttura. Sì, perché al momento si tratta di tre detenuti che si dividono una superficie di 63 metri quadrati nell’ala del carcere recentemente ristrutturata: hanno a disposizione due stanze e un bagno, con una zona giorno e un angolo cottura e i tre posti letto necessari nella zona notte. La sezione è aperta ormai dallo scorso agosto, ma la polemica è divampata soltanto di recente, quando sono intervenute anche le associazioni Lgbt, a cominciare da Arcigay che nei giorni scorsi si è espressa attraverso Nacho Quintana Vergara, presidente di Arcigay Friuli: garantire il benessere della popolazione carceraria dichiaratamente omosessuale è un dovere. Ma non è possibile realizzare un’iniziativa del genere in queste condizioni, in piena carenza di personale e in strutture non adeguate. Di per sè l’istituzione della sezione protetta costituisce un passo avanti nella tutela dei diritti degli omosessuali, ma è evidente che la misura risulta inefficace se non viene garantita ai detenuti la fruizione alle attività rieducative. […] I carcerati omosessuali sono più esposti a casi di violenza e pochissimi sono quelli che decidono di dichiararsi, proprio per evitare ritorsioni e atti persecutori. E in effetti i problemi sarebbero sorti, come scrive Il Messaggero Veneto: l’istituzione della nuova sezione ha causato grattacapi anche al personale e alla Polizia penitenziaria, costretta a fare i salti mortali per garantire il controllo costante dell’area distaccata ricavata per accogliere i detenuti omosessuali. La ridistribuzione dei turni ha cancellato in molti casi ferie e permessi per gli agenti: attualmente risultano in servizio quaranta poliziotti, a fronte dei 43 previsti dalla pianta organica. Ma soltanto 28 agenti risultano effettivamente in servizio, a causa di assenze a vario titolo. Oggi anche Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay, è intervenuto sulla questione proponendo una riflessione più ampia: una decisione da non banalizzare, che merita una discussione nel merito che tenga conto del contesto. Non conosco personalmente quel contesto, ma la questione merita di essere affrontata con attenzione, fuori dalle tifoserie. L’obiettivo che il provveditore mette in chiaro è quello della tutela delle persone omosessuali recluse nella struttura. Infatti, apprendiamo dalle cronache che proprio i detenuti hanno fatto richiesta in questo senso. D’altro canto è comprensibile l’allarme di chi intravede in questo provvedimento il rischio di una segregazione, perciò in qualche modo lesiva delle persone a cui è rivolta e il rischio di isolamento dei detenuti omosessuali. Per uscire da questa ambiguità occorre che la separazione fisica degli spazi sia solo una delle azioni messe in campo, cioè che sia uno strumento nell’ambito di un complesso di azioni di tutela e inclusione e non un obiettivo o ancor peggio il rimedio a un’emergenza. Dal nostro punto di vista è apprezzabile l’attenzione che il provveditore di Gorizia ha posto sull’incolumità dei detenuti omosessuali e ci auguriamo che a questa attenzione corrispondano iniziative di formazione e di contrasto alle discriminazioni, fondamentali in tutti i luoghi della vita pubblica, incluso il carcere. Apriremo su questo una interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, che per primo deve porsi il tema della formazione degli agenti di polizia penitenziaria per affrontare e prevenire situazioni a rischio e mettere in campo azioni educative fra i detenuti di contrasto alle discriminazioni. Ferrara: il Garante; la "rivolta" degli agenti? la Comandante è un capro espiatorio estense.com, 13 aprile 2016 Il Garante dei diritti dei detenuti interviene in difesa di Lisa Brianese. dopo il duro attacco dei Sindacati Sappe e Osapp. È il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Ferrara, Marcello Marighelli, a giungere in soccorso del comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, Lisa Brianese, oggetto di pesanti giudizi e accuse da parte dei sindacati Sappe e Osapp che, con uno sciopero di astensione dalla mensa del personale di polizia penitenziaria, ne hanno chiesto la rimozione e assegnazione ad altro incarico. La "rivolta" promossa dai due sindacati era stata intrapresa per la "frattura insanabile" tra il comandante e il personale, dato che gli agenti lamentano un "pesante clima" instaurato da Lisa Brianese in particolare "tra il personale che opera all’interno delle sezioni detentive a diretto contatto con i detenuti". Considerazioni e "toni polemici e nella sostanza non condivisibili", replica ora Marighelli. "La situazione di non piena attuazione dell’Ordinamento Penitenziario e le condizioni di non rispetto della dignità dei detenuti nelle carceri italiane - spiega il Garante dei diritti dei detenuti - era stata denunciata dai più alti livelli istituzionali ancor prima della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, conosciuta come sentenza Torreggiani, che aveva censurato il sistema penitenziario del nostro Paese per trattamento disumano e degradante. Da quelle autorevoli denunce e dalle prescrizioni della Corte Europea l’Amministrazione penitenziaria ha sviluppato un’azione molto significativa per la piena applicazione nelle carceri dell’ordinamento penitenziario, per ridurre l’affollamento e garantire ai detenuti il rispetto della loro dignità". "Certamente - ammette poi Marighelli - le soluzioni adottate non sono state sufficientemente sostenute da investimenti in personale, mezzi e formazione professionale, ma questo, se può motivare rivendicazioni sindacali tese a ottenere più risorse, non può mettere in discussione la svolta della politica penitenziaria degli ultimi anni". Per Marcello Marighelli, dunque, "la richiesta di rimuovere una Comandante, da pochi mesi impegnata nel difficile compito di attuare i nuovi indirizzi di "umanizzazione della pena" in una realtà molto complessa, può apparire come la ricerca di un capro espiatorio e perciò preoccupa anche perché avviene in un contesto ove è comparsa una espressione come "pugno duro". Nella attuale situazione del carcere di Ferrara, caratterizzata da una popolazione detenuta diminuita nel numero, ma più problematica per gravità dei reati commessi, per condizione di emarginazione sociale e di salute fisica e psichica, se si vuole fare un passo oltre la polemica in atto si colga la verità di quanto affermato da un sindacalista della polizia penitenziaria che "il personale compie enormi sacrifici per effettuare al meglio il proprio lavoro", affinché lo Stato dia maggior riconoscimento all’impegno del Corpo di Polizia Penitenziaria, senza dimenticare il personale educativo, i medici e gli infermieri, gli insegnanti ed i volontari". La speranza del Garante è che "la situazione di tensione possa essere superata aprendo un confronto costruttivo che veda l’apporto di tutti coloro che lavorano perché il carcere diventi sempre più uno spazio di educazione alla legalità". Firenze: con Telefono Azzurro nasce la ludoteca per figli dei detenuti a Sollicciano Redattore Sociale, 13 aprile 2016 Nell’istituto penitenziario fiorentino uno spazio con illustrazione fiabesche pensato per i bambini che vengono a trovare i propri genitori. Inaugurato anche uno sportello di ascolto e supporto alla genitorialità finanziato dalla Regione. Nel carcere fiorentino di Sollicciano nasce una ludoteca e uno sportello di ascolto. La ludoteca, gestita da Telefono Azzurro, è una grande stanza piena di giochi e illustrazioni dove potranno divertirsi i figli dei detenuti, che vengono a Sollicciano a trovare i propri genitori. Si tratta di uno spazio accogliente con le pareti celesti che evocano il cielo, dipinte da alcuni detenuti, con raffigurazioni di alberi, fate, fiori e animali. "È un luogo - spiega Sylke Stegeman, responsabile del progetto - che serve per attenuare l’impatto con il contesto carcerario ai figli dei detenuti". Dentro la stanza, dove i volontari del carcere terranno occupati i bambini attraverso attività ludico creative, ci sono libri, piccoli tavolini e sedie, tastiere musicali, peluche e divanetti. In questo luogo, denominato Foresta magica, i figli attenderanno i propri genitori detenuti, prima di poterli incontrare nel Giardino degli Incontri (area dei colloqui) ma in futuro gli incontri tra detenuti e figli potrebbero avvenire direttamente dentro la ludoteca. Insieme alla ludoteca, è stato inaugurato anche uno sportello di ascolto, un nuovo servizio, unico nel suo genere in Italia e gestito dalla cooperativa Insieme, per la popolazione detenuta e i suoi familiari. Tutti i detenuti, e tutti i loro familiari, potranno trovare negli psicologi dello sportello, tutti i giorni tranne la domenica e il lunedì, un aiuto e un sostegno per la genitorialità e le relazioni familiari. Il servizio mira alla valorizzazione e al potenziamento delle competenze genitoriali dei detenuti. Su questo progetto, importante è stato il sostegno economico dell’assessorato alle politiche sociali della Regione Toscana, pari a 35 mila euro. Presente all’inaugurazione anche l’assessore Stefania Saccardi: "Sono progetti importanti perché non è affatto banale, per un bambino con un genitore detenuto, capire il mondo del carcere". All’inaugurazione dei due nuovi spazi anche la direttrice de carcere Marta Costantino: "Il carcere è il posto più brutto del mondo e vedere luoghi come questi è un tentativo di rendere il carcere un luogo meno brutto". Padova: il Cappellano Don Marco Pozza "un modo per entrare in cella con il detenuto" di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 13 aprile 2016 In carcere non puoi usare Internet, spiega il cappellano del penitenziario di Padova. "L’uso e la lettura della parola diventa decisivo". "Il carcere non ti toglie solo la libertà fisica, ma ti isola dalle relazioni, dalla comunicazione vitale. Basta pensare a Internet che è proibito. Cosa faremmo noi senza la e-mail? O privi di un cellulare? In prigione non se ne può fare uso. A volte, allora, un solo libro, o un giornale, qui dentro possono significare la salvezza dalla disperazione e dalla solitudine". Lo sperimenta tutti i giorni, frequentando la sua speciale "parrocchia", come affettuosamente la chiama. Lui è don Marco Pozza, 36 anni, prete "controvento", scrittore (l’ultima sua fatica L’agguato di Dio, Edizioni San Paolo, parla proprio del mondo carcerario), teologo, ma soprattutto, da quattro anni, cappellano del carcere di massima sicurezza "Due Palazzi" di Padova. La sua parrocchia sta qui dentro ed è composta da seicento anime, in una struttura creata per mantenerne la metà. "Ma fino a poco tempo fa ce ne stavano stipati addirittura un migliaio, di cui la metà stranieri", precisa. Anche gli ergastolani sono parecchie decine. "Abbiamo reclusi da oltre trent’anni, che quando sono entrati usavano ancora le lire, non conoscevano Internet, e la "rete" era solo quella usata dai pescatori. Ebbene, se questi detenuti hanno una minima percezione di come sia cambiato il mondo di fuori, nel frattempo, è solo grazie ai giornali che entrano in cella", spiega il sacerdote. Nel carcere padovano, da tanti anni, è attiva la redazione di Ristretti Orizzonti, un giornale diventato fonte imprescindibile per l’informazione carceraria in Italia, a cui collaborano molti detenuti. "Un’esperienza straordinaria per la quarantina di reclusi che vi lavorano, oltre ai tanti volontari", spiega don Marco. "Lo dico spesso: entrando al "Due Palazzi" credevo, da buon cristiano, solo nella risurrezione dei morti. Dopo aver visto i miracoli che accadono, nonostante tutto, qui dentro, credo anche nella risurrezione dei vivi". L’esperienza di confrontarsi con scrittura e lettura quanto conta? "Organizzare il pensiero e metterlo per iscritto è un lavoro preziosissimo che ti insegna a organizzare la vita stessa. L’uso della parola è decisivo. Più d’uno è ?finito qui dentro proprio per l’uso sbagliato di una parola". Cosa si legge in carcere? "Un certo numero di copie di un quotidiano locale e di uno nazionale, grazie anche alla Caritas. Poi ci sono detenuti che sono abbonati ai loro quotidiani locali". Che utilizzo se ne fa? "Oltre che un mezzo d’informazione, un giornale è un compagno nei momenti di maggior solitudine, durante le feste, quando nessuno viene a trovarti. Per gli stranieri diventa un testo per imparare l’italiano". Come lo si legge? "Mi ha sempre colpito il fatto che più d’un carcerato usi la penna per sottolinearlo. Per discutere certi passi, per evidenziarne gli errori". Fatti e personaggi più seguiti? "Di gran lunga quelli che raccontano di papa Francesco. Una delle pochissime fonti, se non l’unica, che considerano autorevole e vicina". Anche Famiglia Cristiana da anni entra nelle celle. "Fino a due anni fa si consegnava regolarmente. Io la distribuisco la domenica come si fa in ogni parrocchia, dopo la Messa. Quando manca i detenuti se ne accorgono. E la chiedono. Ne ritagliano gli articoli e li appendono in cella. Certo è uno strumento di comunicazione tra i tanti, una goccia nell’oceano, eppure quando manca anche l’oceano se ne accorge. Eccome". Cosa vi trovano d’interessante? "Tutto, ma in particolare i tanti articoli riguardanti il carcere, le esperienze d’accoglienza, le lettere. D’altra parte è proprio leggendo una lettera al giornale, che fra Beppe Prioli, il "frate degli ergastolani", scoprì la sua vocazione fra i carcerati". Che ne pensa dell’idea di invitare i lettori a regalare un abbonamento a un carcerato? "Un gesto di misericordia bellissimo. È un modo di visitare il carcerato, senza entrare in cella fisicamente". Anche don Marco Pozza, come tanti cappellani che operano nelle carceri italiane, attende gli abbonamenti offerti dai lettori di Famiglia Cristiana per distribuirli tra i detenuti. E come lui, anche tanti sacerdoti, suore, missionarie e missionari, educatori e volontari che operano nelle case famiglia per l’infanzia e l’adolescenza, nelle case di riposo, tra le famiglie in difficoltà e che considerano la nostra rivista uno strumento valido per la loro missione. È l’iniziativa di Famiglia Cristiana, in collaborazione con l’Associazione don Zilli, fedele al mandato di don Giacomo Alberione, di "fare la carità della verità". Nell’Anno Santo della misericordia voluto da papa Francesco si chiede ai nostri lettori di regalare un abbonamento alla nostra rivista a chi è meno fortunato e non può permetterselo. Per aderire all’iniziativa, tesa a raggiungere chi vive in situazioni di disagio economico o di altre difficoltà, è sufficiente utilizzare il bollettino che si trova all’interno di questo numero ed effettuare il versamento di 89 euro, pari al costo dell’abbonamento di Famiglia Cristiana oppure versare una cifra che la propria generosità ritiene opportuna. Perugia: Teatro Stabile, al carcere di Capanne attivato un laboratorio teatrale tuttoggi.info, 13 aprile 2016 Venerdì 15 aprile, in occasione de "La giornata del teatro nelle carceri" ci sarà una dimostrazione del lavoro svolto. Il Teatro Stabile dell’Umbria in collaborazione con l’Amministrazione Carceraria ha attivato presso il Carcere di Capanne un laboratorio teatrale rivolto ai detenuti e tenuto da due degli attori della Compagnia dei giovani, Francesco Bolo Rossini e Vittoria Corallo. Venerdì 15 aprile, alle 9,30, in occasione de La giornata del teatro nelle carceri ci sarà una dimostrazione del lavoro svolto presso il Carcere di Capanne a Perugia. "Gli obiettivi che ci siamo posti - raccontano i due artisti - sono quelli di utilizzare il teatro come una fonte inesauribile di passaggi: dal dentro al fuori. E quando si parla di carcere il dentro e il fuori non sono solo individuali o metaforici, ma significativamente materiali. Per questo, tutto il nostro percorso laboratoriale si sta svolgendo intorno alla creazione e all’esplorazione di questi passaggi; partendo dal dentro più nascosto e fragile, come l’immaginazione o l’emozione, al fuori più immediato: lo spazio e l’altro. Scoprire come relazionare il proprio mondo personale al mondo esterno più fisico e spaziale, e successivamente a tutti i mondi esterni e personali racchiusi negli altri. Con la stessa attitudine pensiamo di affrontare questa giornata in cui si racconta il teatro in carcere: attraverso la nostra curiosità e il nostro desiderio principale di creare passaggi. Il passaggio che ci interessa sperimentare in primo luogo è quello tra noi attori, i detenuti, e il pubblico che parteciperà a questo evento. Servirà ad aprire insieme una porta che non sia solo un dialogo verbale, ma un’ esperienza condivisa. L’incontro sarà così strutturato: inizieremo con delle letture estratte dai testi scelti per lo spettacolo conclusivo che si terra a maggio, "Lo straniero" di Camus e "Il Candido" di Voltaire. Questa sezione del lavoro ci permetterà di esprimere sia gli aspetti poetici che tecnici riguardanti i testi selezionati ed i loro contenuti. Si proseguirà con un momento laboratoriale aperto e organizzato in cui i detenuti, insieme a noi, prepareranno e condurranno dei giochi e improvvisazioni teatrali. Questo perché pensiamo che possa essere interessante svelare i processi creativi e le modalità che stanno all’origine della formalizzazione teatrale, cioè gli spettacoli. A questo proposito per coinvolgere ulteriormente gli spettatori verrà offerta l’opportunità di partecipare attivamente ai giochi e alle improvvisazioni, che avremo preparato insieme ai detenuti del laboratorio. Sarà un momento fondamentale per costruire un vero ponte fondato sulla condivisione dell’esperienza e sulla rottura delle barriere troppo spesso rintracciabili nei ruoli che ci definiscono. Perché il teatro è anche questo: un luogo in cui ci si incontra nuovi, senza ruoli prestabiliti, e dove si prova a mettersi nei panni degli altri, a volte trovandosi simili e quindi capaci di comprendersi senza giudizi". Al termine della rappresentazione alcuni detenuti, che hanno frequentato il corso di "addetto alla cucina" gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro di Perugia, offriranno agli ospiti presenti un aperitivo. Bologna: il cinema entra in carcere, alla Dozza si terrà un festival cinematografico di Carlo Valentini Italia Oggi, 13 aprile 2016 Non sarà solo proiettato ma sarà anche insegnato. Grande schermo, buio in sala, poltroncine antirumore. È il cinema. Ma dentro al carcere. Sì, a Bologna è possibile recarsi al cinema all’interno del carcere della Dozza, dove in 700 sono dietro alle sbarre. Unica formalità: occorre prenotarsi e presentarsi con un documento. Poi è possibile assistere alla proiezione, seduti tra i detenuti. È la prima volta che accade in Italia: tanti festival sul carcere, mai finora uno dentro al carcere. Tanto che, ironicamente, all’esperimento è stato messo nome: Cinevasioni. Spiega Filippo Vendemmiati, direttore artistico di questa singolare manifestazione: "Questo progetto rappresenta una doppia sfida. La prima nei confronti dell’istituzione carceraria, la seconda al mondo del cinema. Riuscirà "il linguaggio universale" del cinema a oltrepassare il muro più spesso, quello che nella storia dell’uomo separa la società dei "liberi" da quella dei "ristretti?"". Le condizioni delle carceri sono state in questi anni monitorate soprattutto dai radicali, che sono spesso riusciti a renderle più vivibili. Dice Rita Bernardini, ex-segretaria dei radicali e animatrice delle iniziative sulle carceri: "Con 52mila detenuti presenti in Italia in 195 istituti di pena, di cui 91 decisamente sovraffollati, le carceri italiane provocano recidiva. C’è un solo carcere che può essere definito modello ed è quello di Bollate in provincia di Milano, dove il grado di ritorno alla normalità ed integrazione dopo la pena è molto alto rispetto alla media delle carceri italiane". L’obiettivo rimane quello di un maggiore uso delle pene alternative, per esempio svolgendo lavori nelle comunità. Quando ciò non è possibile occorre creare all’interno del carcere iniziative rivolte alla riabilitazione e al reinserimento, evitando quella recidiva che diventa una dispendiosa (per la società) e alienante (per il soggetto) catena senza fine. Al festival nel carcere della Dozza partecipano lungometraggi scelti, come in tutti i festival che si rispettano, da una commissione ad hoc. Mentre la giuria che assegnerà i premi è composta in larga parte da detenuti. E chissà che tra loro non ci sia chi si dimostrerà più abile di qualche critico cinematografico di grido. Sono un centinaio i film iscritti alla selezione, tra i quali saranno scelti i 12 in concorso. Ma vi saranno anche gli ammessi con riserva, che andranno cioè in cartellone nei mesi successivi: il festival, che si svolgerà dal 9 al 14 maggio, farà da battistrada a una programmazione che si protrarrà nel tempo, in modo che il cinema nel carcere bolognese diventi un’abitudine, com’era un tempo per le parrocchie. "Non si capisce perché", dice uno dei detenuti che sta partecipando all’organizzazione del festival, "in carcere si può leggere un libro o guardare la tv ma non si può vedere un film nella sua sede naturale: col grande schermo. Con un po’ di buona volontà è una lacuna che si può colmare". Non c’è red carpet (almeno in questa prima edizione) ma tanto interesse. La sala ha una capienza di un centinaio di persone. Metà dei posti saranno riservati ai detenuti. La maggior parte di loro ha chiesto di assistere alle proiezioni e saranno accontentati a rotazione. Il programma ufficiale sarà presentato il 4 maggio (ore 11.30) alla Casa del cinema di Roma. "Insieme al festival", aggiunge Vendemmiati, "organizziamo in carcere un corso di apprendimento delle tecniche cinematografiche in modo che i detenuti interessati possano avere le basi per un inserimento lavorativo e quindi immaginare un percorso nuovo, fuori dal carcere". Aggiunge Angelita Fiore, una delle docenti (sono una ventina i detenuti, prevalentemente italiani, che ogni settimana partecipano alle lezioni): "Quello che insegniamo nel corso di cinema è guardare la realtà con altri occhi e con una consapevolezza diversa, quella appunto del cinema. Del resto da dietro le sbarre spesso il fuori può essere solo pensato o visto proprio come se si trattasse di un film". Un sito Internet (Cinevasioni) propone la cronaca della marcia d’avvicinamento al festival, al quale ha dato il suo sostegno RaiCinema, che trasmetterà l’opera vincitrice e la farà commentare dai detenuti-giurati. Dice la direttrice del carcere, Claudia Clementi: "Non è detto che una persona privata della sua libertà debba privarsi anche di altro. All’interno della struttura detentiva c’è già la musica, col coro Papageno voluto a suo tempo dal maestro Claudio Abbado, c’è un gruppo teatrale e varie espressioni artistiche. Ora proponiamo pure il cinema e lo apriamo alla città". Il premio al film vincitore non avrà il valore venale della statuetta degli Oscar ma un più importante significato simbolico. Si tratta di una farfalla (di ferro) pronta a prendere il volo, costruita dalla Fid, ovvero Fare Impresa in Dozza, l’officina all’interno del carcere, nella quale lavorano insieme detenuti e lavoratori metalmeccanici in pensione. Mentre il manifesto (disegnato da un detenuto) rappresenta una cinepresa che rompe le sbarre e trapassa pure lo schermo di un televisore mentre un uomo, da dentro una cella, si prepara a girare. Qualche mese fa, quindi prima che il festival prendesse forma, le cineprese sono entrate nel carcere bolognese per la realizzazione di un documentario (Dustur, che in arabo significa costituzione, realizzato dal regista romano Marco Santarelli e presentato lo scorso mese a Parigi, al Festival du Rèel) su un’esperienza-pilota destinata ai detenuti extracomunitari: l’insegnamento della costituzione italiana attraverso una comparazione con quelle dei loro Paesi. Dice Santarelli: "È la prima volta che in carcere si affrontano argomenti di questo tipo, e soprattutto che vengono messi a confronto valori e articoli della nostra costituzione con quelli delle costituzioni arabe. L’ideatore è stato Fra Ignazio, un volontario religioso con una storia particolare, ha vissuto tanti anni in Siria, dove ha imparato l’arabo, ha una laurea in giurisprudenza e un dottorato in diritto islamico". È quindi un proficuo gemellaggio quello tra il carcere della Dozza e il cinema. Tanto che sarà documentato un altro progetto, concretizzatosi due anni fa: la creazione di un polo universitario interno per permettere ai detenuti di laurearsi. Attualmente gli iscritti sono 26, fra cui due donne. La maggioranza ha scelto il corso di laurea in giurisprudenza, ma ci sono anche studenti di lettere, scienze politiche, agraria e veterinaria. Secondo Giorgio Basevi, il docente responsabile del polo universitario penitenziario, gli studenti potrebbero diventare 101. Infatti alla Dozza ci sono 50 detenuti con un titolo valido per l’iscrizione e 51 sono trasferibili. "Con l’istituzione del polo universitario penitenziario", dice Basevi, "tutti i detenuti della regione che vogliono iscriversi all’università potranno chiedere di essere trasferiti a Bologna, velocizzando tutte le procedure". Vengono a tenere lezioni, a turno, 40 docenti oltre a 22 tutor. "A breve", continua Basevi, "vogliamo telematizzare le sessioni d’esame, collegando via computer lo studente in carcere con il docente che potrà rimanere in università". Il carcere si sforza di avere un volto umano. Non sempre ci riesce: a fine marzo un detenuto (54 anni), internato per avere aggredito con un martello un taxista, è stato trovato morto in cella (i magistrati stanno indagando) e nel reparto femminile la presenza di una madre con due figli di 18 e 5 mesi (recidiva per furto) ha provocato l’intervento del Garante dei detenuti. Il carcere è un luogo certamente di dolore. Che ora chiede aiuto anche al cinema. Benevento: "Fine pena il futuro oltre le sbarre", docu-film dei detenuti di Capodimonte ilquaderno.it, 13 aprile 2016 Lunedì 18 aprile, alle ore 20.30, al Multiplex Torre Village, si terrà la prima cinematografica del docu-film "Fine Pena il futuro oltre le sbarre". Sarà proiettato per la prima volta al Torre Village di Benevento il lungometraggio ha per protagonisti i detenuti della Casa Circondariale di Benevento. Il docufilm "Fine pena il futuro oltre le sbarre" si è sviluppato intorno alle storie di quattro dei trenta partecipanti al laboratorio teatrale, e s’inserisce nell’ambito delle attività previste dal progetto "Limiti", un intervento finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, nato in risposta a un bando del 2012 denominato "Giovani per il sociale". Il bando prevedeva l’inserimento di un gruppo di giovani operatori culturali (under 35) in un contesto volto al reinserimento in società di giovani in condizioni di disagio. A tal proposito gli "storici" della Solot hanno coinvolto un gruppo di "nuove leve" dello spettacolo e della comunicazione, che orbitavano intorno alla compagnia, nell’ideazione e gestione di questo progetto rivolto a un gruppo di trenta detenuti, under 35 anch’essi, ospiti della struttura penitenziaria di Benevento. "Limiti" presentato al pubblico a dicembre 2014, ha visto operatori e detenuti attori impegnati in un laboratorio teatrale della durata di 6 mesi, strutturato sul concetto di limite, che ha poi dato vita ad uno spettacolo molto complesso, replicato più volte di fronte a numerose platee composte da esperti del settore, associazioni culturali e impegnate nel sociale, e soprattutto studenti (universitari e scuole superiori) il cui interesse si è fatto via via sempre più forte tanto da far nascere la volontà nei docenti di "aderire" al progetto e di seguirne tutte le attività, anche collaterali. La particolarità del progetto ed il proficuo svolgimento dello stesso hanno catturato l’attenzione dei responsabili del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale al punto da incaricare, fra le oltre 500 associazioni vincitrici del bando, gli operatori dell’Ats Motus Solot a relazionare sulla loro esperienza, al convegno tenutosi a Napoli, a Palazzo San Giacomo, lo scorso novembre, alla presenza di rappresentanti governativi e delle istituzioni. Lo svolgimento delle attività all’interno della Casa Circondariale di Benevento è stato documentato (attraverso riprese video, foto, diario di bordo) per testimoniare della positiva evoluzione dei giovani protagonisti. "Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire", di Dario Ippolito recensione di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 13 aprile 2016 Se Dario Ippolito non avesse scritto in modo cristallino, sincero, politicamente corretto undici pagine di Prologo al suo libro "Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire" (Donzelli, pp. 112, euro 16,50) non sarebbe incorso nelle attenzioni critiche e rancorose della destra giornalistica italiana. Avrei potuto in questa recensione parlare della relazione tra libertà e diritto, di Hobbes e Beccaria, di Voltaire e Jefferson oppure di pena di morte, habeas corpus, Stato confessionale e Stato laico. Ma nel solco di Guido Vitiello (il Foglio del 26 marzo) e Nicola Porro (il Giornale del 20 marzo) mi soffermo anch’io sul tema liberali di destra, liberali di sinistra, nonché collocazione politica del garantismo. E anch’io parto dall’incipit del Prologo di Dario Ippolito: "Garantismo è parola svilita, deturpata dall’abuso. Spesso, e comprensibilmente, suscita sospetto, insofferenza. Evoca nell’immaginario di molti, cavilli procedurali e scaltrezze curiali. È equivalente, per chi ne diffida, di impunità e privilegio: di legalità sacrificata sull’altare del formalismo giuridico. Irrita come il fumo negli occhi". Il nobile pensiero e la illustre storia garantista - ha ragione Dario Ippolito - sono stati violentati, derisi nel ventennio berlusconiano. Si sono contrapposti in modo corporativo, irriguardoso per le nostre intelligenze i fronti del garantismo specioso, opportunista (della destra non liberale italiana) e del giustizialismo forcaiolo, proibizionista, populista (della sinistra non liberale italiana). Porro chiede a Ippolito perché la lotta per le garanzie si debba fare per Adriana Faranda e non per Silvio Berlusconi? Provo a rispondergli. Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati una palestra - su scala europea - di giustizia repressiva, di scivolamento verso il sostanzialismo penale nel nome della lotta al terrorismo. La parole chiave era "emergenza" che ha giustificato la riduzione delle garanzie. La legge Reale (che non si può dire fosse un liberale autentico) ha prodotto una compressione dei diritti fondamentali a partire da quelli di difesa e di libertà di movimento. Arresti arbitrari e pene elevatissime per reati di opinione hanno colpito un po’ chi capitava. Era il 1978 quando i radicali promossero il referendum per l’abrogazione della legge Reale. 7 milioni e mezzo di persone votarono per cancellare quella legge illiberale. Ma ben 24 milioni si schierarono per il no, ovvero per la sua permanenza nella legislazione italiana. Tra quei 24 milioni c’erano i non garantisti di destra, di centro e di sinistra. Dunque la Faranda, citata da Porro, ha subito le leggi emergenziali decise da altri nel nome dello stato di eccezione. Nel caso di Silvio Berlusconi, essendo lui il decisore politico, le leggi sono state cambiate ma nel senso opposto a quello che un garantista di ispirazione illuminista avrebbe voluto: la giustizia è diventata strumento di classe, duro, inflessibile con i poveri e clemente, generoso, lassista con i colletti bianchi. Dunque Silvio Berlusconi, a volte riuscendoci a volte no, ha provato da premier e politico a scardinare il principio liberale dell’uguaglianza davanti alla legge. Lui le leggi le faceva a differenza della Faranda. Negli anni che era al Governo, insieme alla Lega, ha fatto carta straccia del principio di offensività penale. Cosa dice Porro della legge Cirielli che prevedeva tempi lunghi di prescrizione solo per taluni reati (quelli dei ricchi) e pene severe per altri reati (quelli dei poveri di solito pluri-recidivi)? Se Silvio fosse stato un garantista liberale avrebbe tagliato la prescrizione a tutti o ridotto le pene per tutti. E cosa pensa Vitiello dell’opposizione della destra (e di parte della sinistra) all’introduzione del delitto di tortura nel codice penale? Spieghi a Ippolito cos’ha di liberale prevedere il reato di immigrazione irregolare, fattispecie penale priva di qualunque offensività criminale? Il libro di Ippolito è un memorandum colto, storicamente preciso, filosoficamente profondo che dovrebbe essere letto più volte da tutti coloro che si auto-definiscono liberali e di sinistra. Dovrebbe essere recitato nelle aule di tribunale e nelle aule parlamentari. Dovrebbe essere conosciuto a memoria da chi si ritiene parte di un campo liberale e progressista del quale però, va ricordato a futura memoria, ha fatto parte anche chi affermava quanto segue: "L’immigrazione onesta, quella di chi viene per trovare un lavoro è un bene per l’Italia. Siamo però convinti che ci voglia intransigenza nei confronti di altri tipi di immigrazione: quella criminale, che deve essere penalmente perseguita subito e duramente, e quella clandestina, contro cui bisogna intervenire per evitare che l’Italia diventi il vespasiano d’Europa" (Antonio Di Pietro, 2008). Dunque la lettura e la rilettura dei classici si spera facciano chiarezza, ridiano dignità alla parola "garantismo" e tolgano terreno sotto i piedi a chi invece si definisce orgogliosamente "giustizialista" e di sinistra. L’ergastolano Annino Mele torna in libreria con "Quando si vuole" Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2016 S’intitola "Quando si vuole" il nuovo lavoro, fresco di stampa, di Annino Mele, l’ergastolano scrittore di Mamoiada, attualmente rinchiuso nel carcere di Opera. Dopo circa tre anni trascorsi in Sardegna, tra Cagliari-Buoncammino, Tempio Nuchis e infine Uta, Mele ha chiesto e ottenuto un trasferimento a Milano per poter mantenere un rapporto più costante con il figlio. Si tratta del settimo libro nella produzione letteraria dell’autore. Una pubblicazione delle edizioni "Sensibili alle foglie" che ha visto la collaborazione del detenuto con la giovane antropologa Giulia Spada con la quale ha condiviso riflessioni e scrittura. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha effettuato con i volontari costanti colloqui in carcere con l’ergastolano. "Questo libro, scritto a quattro mani, mescola - si legge nella quarta di copertina - ricordi ed esperienze personali degli autori con elementi analitici del contesto ambientale della Sardegna e della situazione carceraria attuale. Il testo è diviso in due parti. La prima concerne la tematica ambientale, la seconda il carcere. Entrambi sardi, sulle problematiche specifiche della loro terra - in particolare la salvaguardia del patrimonio boschivo e la tradizione di allevamento di suini allo stato brado - gli autori propongono anche indirizzi di orientamento, corredati da progetti dettagliati. Riguardo al carcere, essi presentano la situazione delle nuove strutture costruite in Sardegna sia dal punto di vista delle loro speculari esperienze dirette - l’uno dentro e l’altra in visita - sia le inchieste giornalistiche prodotte dall’Associazione Socialismo Diritti Riforme. Attingendo alla loro fantasia, immaginano una riqualificazione del Buoncammino di Cagliari e, rifacendosi alla loro esperienza personale, ci portano dentro alle dinamiche istituzionali attuali delle moderne prigioni. E infine ci chiedono di mettere un poco della nostra volontà per portare cambiamenti che restituiscano dignità alla terra e agli esseri umani che la abitano". "Annino Mele - sottolinea nella prefazione la giornalista Flavia Corda, che ha seguito la vicenda Mele, giovanissima cronista nuorese, dal suo arresto nel 1987 - é sicuramente un detenuto diverso dagli altri e questo gli costerà caro. Lo é perché vuole esserlo. É al corrente dei suoi diritti anche di detenuto e pretende che siano rispettati, non solo per se ma anche per i suoi compagni di ventura. É un ergastolano ma non si sente sconfitto. É prigioniero ma dice "mi sento libero" e liberamente esprime i suoi pensieri. Un detenuto ingombrante insomma. Lui ne é consapevole e seppure dietro le sbarre non rinuncia a lottare perché la detenzione sia davvero un percorso di riabilitazione, come previsto dai diritti costituzionali, e non di abbrutimento o peggio di lenta inesorabile estinzione. Progettare una esistenza quando sai di non avere possibilità di uscire - aggiunge - non é cosa facile. Ma sembra che per lui nulla sia alla fine impossibile, e forse un domani davvero quelle sbarre si apriranno. Questo libro vuole fare riflettere sul senso dell’ergastolo, sulle incertezze dei regolamenti per i quali "quando si vuole" certe cose sono possibili e altre no. In generale sulla utilità di un sistema carcerario che ancora, troppo spesso, viene inteso come un mondo a parte. Qualcosa che non ci riguarda. Ma attenzione: perché in carcere può finire chiunque di noi, come le cronache stanno a ben dimostrare. Per un nostro errore o per uno sbaglio di altri. Allo stesso modo in cui può capitare di finire all’ospedale. Solo allora, toccando con mano, si comprende. Facciamo tutti un piccolo sforzo per capire". Il testo si avvale della postfazione di Giulio Petrilli, responsabile del "Comitato contro l’ingiusta detenzione" avendo sofferto 6 anni in regime di carcere speciale per poi essere assolto. Migranti. "Ingiustificata la barriera austriaca" di Carlo Lania Il Manifesto, 13 aprile 2016 Europa. L’Italia protesta con Bruxelles per la decisione di chiudere il confine. Avramopoulos: "Non ci sono prove di una deviazione di flussi dalla Grecia". "La decisione dell’Austria di ripristinare i controlli interni con l’Italia non appare suffragata da elementi fattuali". Non si è fatta attendere la risposta di Roma alla decisione presa da Vienna di cominciare i lavori per la costruzione di una barriera al confine del Brennero. Dopo un primo momento di sorpresa per l’improvvisa accelerazione austriaca, ieri i ministri degli Interni Alfano e degli Esteri Gentiloni hanno scritto al commissario Ue per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos per esprimere la contrarietà del governo italiano per la scelta di Vienna. "Le misure annunciate inducono a chiedere con estrema urgenza la verifica da parte della Commissione europea delle loro compatibilità con le regole del Codice frontiere Schengen e con i principi generali di necessità, proporzionalità e leale cooperazione" scrivono i due ministri. Nel governo le ultime mosse austriache suscitano a dir poco irritazione. Specie dopo l’incontro avvenuto venerdì scorso a Roma tra il titolare degli Interni e la collega austriaca Johanna Mikl-Leitner che sembrava aver messo a tacere i timori di Vienna circa un’ipotetica invasione di migranti pronti a risalire dalla Sicilia su su fino al confine. Accordo che prevedeva controlli comuni e a campione su tutti i mezzi in uscita dal Brennero, mettendo così fine allo spettro di un nuovo muro nel cuore dell’Europa. Ma che è durato appena 96 ore, subito mandato in soffitta dalla decisione di Vienna di innalzare una barriera di 250 metri lungo il confine. "Se fosse vera sarebbe inspiegabile e ingiustificabile" commenta da Washington Alfano, mentre da Teheran Matteo Renzi avverte "gli amici" austriaci: "Ho chiesto agli uffici e all’ambasciatore Calenda (Carlo Calenda, rappresentante dell’Italia a Bruxelles, ndr) di verificare tutti i passaggi normativi a livello europeo per chiedere conto delle cose che sta facendo l’Austria", dice il premier. Diplomazia a parte, nei piani alti del Viminale si fa fatica a mantenere la calma. "Sì perché se c’è qualcuno che non rispetta le regole sono proprio gli austriaci", è il commento più diffuso. Il riferimento è ai pachistani e afghani che da giorni Germania e Austria stanno rispedendo indietro perché ritenuti non in diritto di presentare domanda di asilo, ma che anziché essere indirizzati verso la Grecia, paese dal quale sono arrivati la scorsa estate e come vorrebbero le regole di Dublino, sono inviati in Italia. "Più di mille persone negli ultimi giorni", fanno sapere dal Viminale. Dove prevale la convinzione che le decisioni in arrivo da Vienna altro non siano che manovre in vista delle elezioni presidenziali del 24 aprile. "Anche se stanno andando un po’ oltre. Capiremo presto dove vogliono arrivare", si fa capire. Nel frattempo, però, si organizza la risposta politica. D’accordo con Renzi, Alfano e Gentiloni mettono giù quella che ha tutto il tono di una protesta formale contro Vienna. E mentre la solita Mikl-Leitner un po’ provocatoriamente definisce "non comprensibile" l’agitazione italiana ("la densità dei controlli al Brennero dipende dal successo delle misure italiane", fa sapere la ministra), da Roma si contattano anche le istituzioni di Bruxelles. E infatti dalla commissione europea arrivano parole preoccupate per la nuova barriera. "Le reintroduzioni dei controlli alle frontiere devono essere eccezionali e temporanee" commenta la portavoce Natasha Bertaud, specificando che "non ci sono prove di una deviazione dei flussi migratori dalla Grecia all’Italia". E nel pomeriggio il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos telefona alla Mikl-Leitner per chiedere spiegazioni. Da parte sua Vienna rivendica le decisioni assunte, nella convinzione del governo di coalizione di riuscire a fermare in questo modo l’avanzata della destra nazionalista e xenofoba del Partito della Libertà, dato in crescita dai sondaggi. Dietro le paure austriache ci sono gli ultimi dati relativi agli sbarchi in Sicilia, saliti a 24 mila dall’inizio dell’anno, il doppio di quelli registrati nello stesso periodo del 2015. Numeri che ovviamente vengono visti con preoccupazione anche dal Viminale, dove però si sottolinea anche come l’andamento assunto dagli sbarchi nei primi mesi non è detto che debba proseguire nel resto dell’anno. E, soprattutto, si fa notare come tra i migranti in arrivo non ci siano siriani, cosa che dimostra come la chiusura della rotta balcanica non abbia provocato una ripresa automatica di quella del Mediterraneo centrale. L’incremento del numero di barconi provenienti dalla Libia potrebbe quindi significare una scelta precisa da parte dei trafficanti di uomini di sfruttare il più possibile i migranti prima che il nuovo governo libico metta in atto controlli più rigidi ostacolando così il business delle partenze. La disfida del Brennero, difficile come l’intesa turca sui migranti di Marco Zatterin La Stampa, 13 aprile 2016 Il 24 maggio di Schengen? Poco ci manca. I ministri degli Esteri e degli Interni italiani hanno consegnato ieri alla Commissione una dichiarazione di protesta nei confronti della barriera anti-migranti austriaca sul valico del Brennero. "La decisione dell’Austria di ripristinare i controlli interni con l’Italia non appare suffragata da elementi fattuali", scrivono Roma. Sarà il commissario Avramopoulus a mediare. A occhio, il verdetto è facile, quasi scontato. Ma dietro Vienna c’è Berlino, il che cambia le cose, non a vantaggio del governo. Il tema dei migranti tornerà a Strasburgo col dibattito sull’accordo per il rinvio di migranti e richiedenti asilo dalle isole greche verso la Turchia. Presenti Juncker e Tusk. Dire che l’intesa avanza a rilento è un complimento. Si discuterà ancora a lungo di migranti e sicurezza, con la bella stagione che renderà solo il confronto più infervorato. "Dopo i fatti di Parigi la Commissione ha messo a punto un pacchetto di norme sul terrorismo e ci abbiamo messo sei giorni - ha avvertito ieri il presidente Jean Claude Juncker. E ora, sei mesi dopo, ancora nessun segnale concreto". Purtroppo ha ragione. Uno passetto arriva fra oggi e domani. L’approvazione a Strasburgo del Pnr, il registro pubblico dei passeggeri. Ripesco dal programma di lunedì. "È un passo avanti non privo di incertezze. Per tre motivi: sarà comunque l’unione di ventotto sistemi che dovranno coordinarsi e cooperare; non è vincolante il controllo dei voli interni e, senza, il Pnr serve a poco; gli esperti di Privacy dicono che è impugnabile con facile successo alla Corte di Giustizia Ue. Comunque, l’entrata in funzione richiederà mesi". Sarà un’offensiva comune globale a salvarci, un’Europa unita e concorde. Certo non qualche dato in più in computer che non sempre dialogano. Per non parlare del ritorno agli stati singoli, soli e senza il legame a dodici stelle. Tornano i barconi nel Mediterraneo, raddoppiati gli sbarchi in Italia rispetto al 2015 di Fabio Albanese La Stampa, 13 aprile 2016 Oltre 24 mila persone sono arrivate nei primi mesi dell’anno. Per ora non si contano morti. Più di duemila solo ieri, 1.854 lunedì scorso. Quella attraverso il Canale di Sicilia è tornata a tutti gli effetti la rotta privilegiata delle migliaia di migranti che partono dalla sponda sud del Mediterraneo, soprattutto Libia ed Egitto. Lo avevano detto e ripetuto le organizzazioni umanitarie impegnate nel soccorso ai migranti, e d’altronde anche le autorità italiane lo temevano, che il Mediterraneo sarebbe tornato ad affollarsi di gommoni e barconi e che le coste del sud Italia, Sicilia soprattutto, sarebbero tornate ad essere meta principale degli sbarchi. Il Viminale ha fatto sapere che in questi poco meno di tre mesi e mezzo del 2016, gli arrivi di profughi sono il doppio rispetto all’analogo periodo dello scorso anno (24 mila contro 12 mila). La "novità" è che, complice anche il bel tempo di questi giorni e un mare calmo, nel conteggio dei migranti recuperati in mare, soprattutto al largo della Libia, non ci sono vittime ma solo persone salvate. Particolare non di poco conto se si pensa che appena un anno fa, il 18 aprile del 2015, si verificò quella che al momento resta la più grave tragedia del mare da quando si parla di rotte migratorie, nella quale circa 800 persone morirono annegate, la maggior parte intrappolate nella stiva di un barcone colato a picco. Due scafisti sono attualmente sotto processo a Catania mentre nei prossimi giorni dovrebbero iniziare le operazioni di recupero del barcone e dei resti dei migranti annegati. Solo ieri, il dispositivo di salvataggio di cui fanno parte Guardia costiera, Marina militare e Guardia di finanza, assieme a imbarcazioni di altri paesi del dispositivo Frontex e a navi mercantili, ha salvato a 30-40 miglia dalla Libia 2154 persone che erano a bordo di 17 diverse, e fatiscenti, imbarcazioni, quasi tutti vecchi gommoni. Uno sforzo enorme e ininterrotto, visto che appena il giorno prima le persone salvate erano state quasi altrettante, su otto imbarcazioni: 1854 migranti che sono stati sbarcati stamattina in diversi porti della Sicilia, 375 sull’isola di Lampedusa, 740 a Trapani, 739 ad Augusta. Tutti, assicurano i comandanti delle imbarcazioni che li hanno soccorsi e confermano i volontari della Croce Rossa che li hanno accolti sulle banchine dei porti, sono in buone condizioni di salute. Ci sono molte donne e molti bambini e solo pochi sono siriani: la maggior parte arriva da paesi dell’Africa subsahariana, e dunque si tratta più di migranti "economici" a rischio espulsione una volta identificati negli hotspot, che profughi di guerra in cerca di asilo. Il ministero dell’Interno ritiene che l’aumento del flusso di migranti nel Mediterraneo non sia la diretta conseguenza della chiusura della "rotta balcanica" quanto piuttosto una strategia degli scafisti in Libia, preoccupati che il nuovo governo di Tripoli possa avviare una stretta sui controlli. "Il Canale di Sicilia è molto affollato - ha detto il comandante di nave Diciotti della Guardia costiera, Gianluca D’Agostino, stamattina nel porto di Trapani - statisticamente più dell’anno scorso. E l’Italia sta dando una risposta che deve renderci tutti orgogliosi". Tuttavia, il sistema di accoglienza in Italia mostra già la corda, con 111 mila stranieri ospiti, quattro hotspot attivi (Lampedusa, Pozzallo, Taranto e Trapani) più uno mobile che si muove da Catania verso i punti di sbarco. Il governo conta di aprire entro poche settimane una quinta struttura in Sicilia: si pensa di riconvertire a hotspot il Cara di Mineo. Medici senza frontiere dal canto suo lancia l’allarme: in Italia ci sarebbero almeno diecimila richiedenti asilo e rifugiati che vivono al di fuori del sistema ufficiale di accoglienza, condizioni che Msf definisce "inaccettabili" in un rapporto presentato oggi a Roma. Trapani, corsa all’affare migranti, sotto inchiesta i padroni dei Centri di accoglienza di Attilio Bolzoni La Repubblica, 13 aprile 2016 In questo momento a Trapani non c’è affare che renda meglio. Li aspettano dopo ogni naufragio, li cercano uno per uno, fanno carte false per trascinarli nelle loro case. Fra Marsala e Petrosino, Erice, Salemi, Mazara del Vallo e Alcamo è resuscitato persino il mercato immobiliare. C’è razzia di vecchi fabbricati, soprattutto nelle campagne. Li comprano in contanti per trasformarli in residence, in bed and breakfast, in villette plurifamiliari o in un qualunque altro tipo di locale sotto il cui tetto possa trovare ricovero l’ultimo carico venuto dal mare. È il grande commercio nella provincia siciliana più prossima all’Africa, con Capo Bon lì davanti a poche ore di navigazione. Ci si sono tuffati dentro in tanti, anche quelli che dieci e quindici anni fa trafficavano con gli appalti della sanità o con le energie alternative e con i rifiuti. Per l’emergenza hanno riconvertito le loro attività pure i ras di centri per anziani o per disabili, con i migranti il profitto è garantito. Basta avere le entrature giuste, in prefettura e in qualche comune. Erano in tremila l’estate scorsa, tremila al giorno per 32-35 euro al giorno. Sono poco più di duemila dall’inizio di gennaio, diventeranno ancora tremila e probabilmente molti di più quando tornerà il bel tempo. E poi ci sono i minori, fra i quattrocento e i cinquecento. Per loro, al giorno di euro se ne pagano 80. Un giro da 50 milioni l’anno e una trentina di "case di accoglienza" che sono scivolate quasi tutte in un’inchiesta giudiziaria che sta scoperchiando uno scandalo dalle profondità ancora sconosciute. I fili li muovono potenti ex assessori della Regione, onorevoli della zona già condannati per reati di mafia, professionisti di holding e mega consorzi specializzati nell’ospitalità per grandi masse. Resta solo da capire ormai se siano stati certi trapanesi a copiare dal Salvatore Buzzi di Mafia Capitale che diceva "con gli immigrati si fanno molti più soldi della droga", o se invece sia andata al contrario con la Sicilia ancora una volta laboratorio, anticipatrice di tendenze criminali. "Di sicuro questo è un modello molto simile a quello di Roma", spiega il procuratore capo di Trapani Marcello Viola. Le vergogne sono affiorate con Sergio Librizzi, direttore della Caritas locale fino a quando è stato arrestato - e poi condannato a 9 anni di reclusione - per una vicenda di violenze sessuali. Don Sergio chiedeva prestazioni a giovani migranti in cambio di documenti per l’ottenimento dell’asilo politico, ma intanto era socio occulto di una cooperativa che controllava - così scrivono i magistrati - "in via diretta o indiretta, tutti i centri di accoglienza presenti nella provincia di Trapani… mediante una rete clientelare di cui fanno parte anche membri delle forze dell’ordine, del mondo del volontariato, della diocesi trapanese e dell’apparato amministrativo locale". Era una potenza Don Sergio. Riceveva pure soffiate sulle visite ispettive, sapeva tutto in anticipo. Dal ricatto sessuale al grande business. Le indagini hanno svelato una trama fra il sacerdote e il suo vescovo Francesco Micciché, un patto per allungare le mani sul popolo degli sbarchi. Carabinieri e polizia hanno ricostruito una mappa con tutti i personaggi del racket, cooperative e opere pie e istituti di assistenza e beneficenza fanno sostanzialmente riferimento a tre "cartelli". Dietro il primo gruppo c’è Giuseppe Giammarinaro, un ex deputato regionale dc che comandava a Salemi quando nel 2011 sindaco era Vittorio Sgarbi e il Comune è stato sciolto per mafia. Nella cerchia di Giammarinaro - che è in attesa di una sentenza del Tribunale per una misura personale e patrimoniale di prevenzione a suo carico - ci sono prestanome di uomini politici locali che in passato hanno intrallazzato nell’edilizia, nelle discariche, nell’eolico e nel fotovoltaico. Tutti si sono riciclati nel nuovo mercato. Il secondo gruppo è capitanato dall’ex deputato regionale Onofrio Norino Fratello, uno che qualche anno fa ha patteggiato una condanna a 18 mesi per concorso esterno. È rimasta famosa la sua battuta davanti al giudice: "Se patteggio, posso ricandidarmi?". Originario di Alcamo, Norino Fratello ha abbandonato disabili e anziani per puntare tutto sui migranti. Il terzo gruppo è quello di Giuseppe Scozzari, alla testa di un colosso per la gestione dei centri di accoglienza. In provincia di Trapani ha come braccio operativo le cooperative "Insieme", ma i suoi interessi sono estesi anche lontano dalla Sicilia. A Gorizia è sotto processo per associazione a delinquere finalizzata alla truffa per la guida finanziaria delle sue strutture, quelle che gestivano il centro di permanenza temporanea e il centro di accoglienza richiedenti asilo in Friuli. Sono loro che dettano legge nella Trapani dei migranti. Ma come è potuto accadere tutto questo? "Con l’emergenza sbarchi ho avuto paura di essere travolto dai numeri e ho ritenuto che la scelta più giusta fosse quella di disseminarli in piccole realtà e non in un unico centro", risponde il prefetto di Trapani Leopoldo Falco. Una decisione coraggiosa e anche di buon senso. Accoglienza diffusa al posto di strutture- prigioni, con affidamenti diretti alle cooperative - ma adesso il ministero gli ha imposto bandi pubblici - dietro informative di polizia che però non si sono sempre rivelate molto attendibili. Poi è emersa l’altra faccia dell’ospitalità trapanese. "E io ora mi sento come uno che cammina bendato su un campo minato", dice ancora il prefetto. Lui va e viene dalla procura per portare documentazione: "Non mi dichiaro sconfitto, se poi riteniamo che Trapani sia un territorio a rischio, i migranti allora mandiamoli in Lombardia… ma la Lombardia non li vuole". Dati quasi ufficiali raccontano che questo "giro" abbia portato in provincia 500 nuovi posti di lavoro. Si capisce perché nessuno vuole restarne fuori. Un centro di accoglienza ce l’ha anche "Sicilia Bedda", un gruppo folcloristico di Salemi. Tarantelle e profughi. Egitto: caso Regeni, basta tortura. E ci riguarda di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 13 aprile 2016 Verità per Giulio, Egitto paese non sicuro. E ovviamente l’Italia dovrebbe essere diligente e finalmente votare la legge sulla tortura che giace da tempo in parlamento. Dopo due mesi di melina è ormai chiaro che le autorità egiziane non vogliono o non possono collaborare all’indagine; ed è chiaro che si tratta dell’ennesimo episodio di sevizie ad opera di organi di sicurezza dello Stato, in nome appunto della "ragion di Stato". Non va neppure esclusa l’ulteriore ipotesi di uno scontro fra le due principali mukhabarat egiziane, in frequente e spietata concorrenza tra loro. Cosa che non dovrebbe sorprenderci, se si pensa alle rivalità intestine ai servizi segreti in tanti Paesi occidentali. Ricordo ancora la battuta orecchiata anni fa a Washington: la mission prioritaria di ogni Agency era quella di celare alle altre le informazioni in proprio possesso. La National Security Agency, ad esempio, rifiutava di condividere le sue informazioni con i colleghi della Cia, definiti simpaticamente Tbar (Those Bastards Across the River) visto che la sede di "quei bastardi" stava aldilà del Potomac. Richard Helmes, quando dirigeva la Cia, asseriva di intrattenere migliori rapporti con il Kgb che con la Nsa. Adesso, concluso con un nulla di fatto l’incontro italo-egiziano della settimana scorsa, nei palazzi romani ci si chiede: che fare? Anzitutto - consiglierebbe Barack Obama - "don’t do stupid shit". Le "stupidaggini" da evitare sono almeno quattro: 1° non rompere le relazioni diplomatiche (le ambasciate servono proprio nelle congiunture critiche); 2° non congelare le relazioni economiche e commerciali (miriadi di concorrenti sognano di rimpiazzare le imprese italiane); 3° non adire i tribunali internazionali (sarebbero incompetenti nella fattispecie); 4° non mischiare il caso di Giulio Regeni con quello dei due marò (ai quali la melina indiana, diversamente da quella egiziana, ha comunque finora risparmiato una formale condanna per omicidio). Sottolineo questi punti perché una certa Destra tende a solleticare l’innata retorica patria ("armiamoci e partite!") senza pensare alle conseguenze in genere disastrose per noi. Che fare dunque? Come prima cosa inserire subito l’Egitto nella lista dei Paesi a rischio per i visitatori italiani. Inoltre, in punta di diritto, l’Italia potrebbe convenire in giudizio l’Egitto presso un tribunale italiano, essendo ovvia la longa manus di una mukhabarat (dunque dello Stato) nell’omicidio di Giulio; ma sarebbe una procedura torpida, tortuosa e di scarso impatto. Esiste un’alternativa? Forse sì, e politicamente ben più efficace. È noto che le dittature si trincerano dietro lo scudo della ragion di Stato ogni volta che violano diritti umani; e le autocrazie arabe, in particolare, si trincerano dietro la scusa del pericolo islamista. Domanda: forse che Ben Ali, Asad, Mubarak, Saddam Hussein, il generale al-Sisi (e mettiamoci pure Guantanamo, Abu Ghraib e Bagram) sono riusciti a sconfiggere l’islamismo? Al contrario: torture, esecuzioni e detenzioni illegali hanno partorito falangi di nuovi terroristi. È giunta l’ora di dire basta al ricatto perché di ricatto si tratta. Ed è ormai un’arma spuntata. Occorre evitare, tuttavia, che Giulio Regeni sia incasellato come un caso unicamente italiano. La battaglia contro l’uso sistematico di torture, detenzioni e sparizioni tocca valori e convenzioni universali. Il Comitato di Coordinamento egiziano per i Diritti e le Libertà - ad esempio - nel 2015 ha registrato 1840 casi di sparizioni, quasi tutte giovani vittime. Fossero anche un decimo, non basterebbero 184 vittime a suscitare l’ira della gioventù del mondo? Il nome di Giulio dovrebbe essere uno soltanto delle centinaia di nomi da scolpire via internet nella memoria collettiva. La diplomazia italiana di concerto con quella europea avrebbe, volendo, un nobile compito da portare a termine nei due mesi prossimi: fare del 26 giugno 2016 - ossia del giorno che le Nazioni unite dedicano alle vittime della tortura in base all’imbelle Convenzione adottata il 26 giugno 1987 - un’occasione di risveglio delle coscienze, oggi pericolosamente attutite, alla brutale realtà della tortura. E ovviamente l’Italia dovrebbe essere diligente e finalmente votare la legge sulla tortura che giace da tempo in parlamento. Una volta fatti i nostri compiti a casa, l’Italia potrebbe chiedersi: se siamo stati capaci nel 1998 di trascinare la maggioranza dei Paesi dell’Onu a firmare lo Statuto di Roma per istituire la Corte Penale Internazionale, non potremmo fare lo stesso per dire basta alla tortura? Solo allora potremo dichiarare di aver reso giustizia a Giulio Regeni. India: la via della politica è la scelta più efficace per il caso marò di Antonio Armellini Corriere della Sera, 13 aprile 2016 Gli indiani interpretano come segno di debolezza la nostra ricerca di appoggi, dall’Ue agli Usa. Meglio concentrarci sulle argomentazioni giuridiche, poi Modi deciderà con Renzi. La Corte Suprema di Delhi dovrà decidere oggi su una ulteriore proroga per Salvatore Latorre. Nel frattempo, continua all’Aja l’esame da parte del tribunale arbitrale della nostra richiesta di adottare una "misura provvisoria" che consenta a Massimo Girone di tornare in Italia, e a Latorre di restarci, sino alla fine dell’arbitrato. Il guazzabuglio rischia di far perdere l’orientamento. Il Tribunale del Mare ha decretato la scorsa estate ad Amburgo la sospensione della giurisdizione tanto dell’Italia come dell’India in pendenza dell’arbitrato. Il che vuol dire che è caduto formalmente per noi l’obbligo di chiedere nuove autorizzazioni per Latorre, ma al tempo stesso è venuta meno la meno la possibilità per l’India di modificare la posizione di Girone. Le competenze si incrociano e i due procedimenti non sono formalmente collegati: più che mai tuttavia, le argomentazioni giuridiche si incrociano con quelle della politica La magistratura indiana, dopo averla contestata, ha riconosciuto la competenza dell’Aja: autorizzando Latorre potrebbe indirettamente spianare la strada per noi all’Aja. Se il tribunale arbitrale dovesse concedere la "misura provvisoria" richiesta, il rientro di Girone toglierebbe all’India uno strumento di pressione negoziale, ma farebbe abbassare il livello di tensione facilitando la ricerca di una soluzione. Se così non dovesse essere, le cose si farebbero per noi molto più difficili. L’arbitrato stabilirà intorno al 2018 quale dovrà essere la giurisdizione; dopodiché ci sarà il processo, in Italia o in India. La prospettiva di dover lasciare per anni le cose come stanno sarebbe per noi devastante e scandalizzarsi per tempi che erano assolutamente prevedibili non serve a nulla. Che ci piaccia o no, in questa storia siamo demandeurs e dovremo porre attenzione a qualsiasi segnale possa manifestarsi. L’Ue ha espresso a Bruxelles sostegno all’Italia, ma attenzione a non contarci troppo. L’economia indiana cresce a ritmi del 7% ed è difficile immaginare che Francia, Germania o Gran Bretagna siano disponibili - aldilà delle dichiarazioni di rito - a mettere a rischio per noi le loro posizioni su quel mercato (quelle dell’Italia si vanno erodendo una ad una e sarebbe il caso di pensarci, perché prima o poi la saga dei marò finirà e, a quel punto, rischieremo di trovarci del tutto fuori da un Paese chiave anche per la nostra economia). Contiamo sull’appoggio americano, ma anche qui attenzione. Ribaltando la linea sostenuta per decenni, abbiamo bloccato la firma di accordi che dovrebbero completare la definitiva legittimazione internazionale dell’India come potenza nucleare. La questione preme a Obama tutto sommato più di quanto prema a Delhi; potremmo trovarci a dover cedere a una forte pressione americana, prima e senza che da parte indiana si siano date le assicurazioni che cerchiamo. Evocando all’Aja il tema dell’insufficienza delle garanzie italiane per il ritorno di Latorre e Girone, nel caso il processo dovesse tenersi a Delhi, gli indiani hanno aperto una finestra negoziale la cui reale portata andrà verificata presto. Incassata la vittoria elettorale contro Sonia Gandhi, la vicenda dei marò è rimasta per Narendra Modi un fastidio sul piano internazionale: minore ai suoi occhi di quanto immaginiamo, ma comunque sufficiente a fargli pensare di risolvere una controversia da cui aveva tratto quanto poteva servirgli. Al tempo stesso, l’usura di due anni di governo carico di promesse non realizzate, sta alimentando una opposizione crescente al suo programma di modernizzazioni: i marò potrebbero tornare ad essergli tatticamente utili per recuperare l’appoggio dei tradizionali alleati dell’estremismo induista, da cui aveva preso le distanze. Se ne vedono le prime avvisaglie e lo scenario per noi potrebbe farsi più pericoloso: ragione di più per non perdere tempo. L’India ragiona in termini di rapporti bilaterali di forza e tende a leggere come un segnale di debolezza la nostra ricerca di appoggi esterni, dall’Ue come dagli Stati Uniti. Dobbiamo continuare ad argomentare con forza le nostre ragioni giuridiche, che ci sono. È fondamentale rilanciare quel canale politico riservato che ha dato a volte l’impressione di funzionare a corrente alternata, in un susseguirsi non sempre chiaro di inviati e di mediatori. Da questa vicenda usciremo tanto coi giudici quanto con la politica e Narendra Modi, quando sarà il momento, vorrà decidere da solo. Con Matteo Renzi e basta. Libia: la nuova vita di Gheddafi Jr raccontata dai suoi carcerieri "ha preso moglie" di Francesco Battistini Corriere della Sera, 13 aprile 2016 Prigioniero delle milizie di Zintan, il figlio del Colonnello si è comprato la "protezione". Vive in una casa (e non in cella) con la nuova moglie e la figlia. Ma sogna il passato. "L’altro giorno chiacchieravo con Saif…". Saif chi? Il figlio di Gheddafi? "Sì, lui". Ma non è in prigione? Seduto nel cortiletto fra concessionarie Toyota e venditori di finestre anodizzate, all’angolo del semaforo dove i nigeriani aspettano i furgoni dei caporali, dove il figlio del dittatore fu catturato e mai più liberato, l’interlocutore sorride: "Essere prigionieri non significa non avere una vita - sorseggia il cappuccino Massoud Rojban, colonnello delle milizie di Zintan. Saif è un uomo molto rispettato, qui, lo trattiamo secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma vuole sapere che cosa ci dicevamo?". Certo… "Pensavo all’arrivo di Serraj a Tripoli, questo primo ministro mandato dalla comunità internazionale, e scherzando gli ho chiesto: Saif, una volta eri tu il premier designato da tuo padre, non vorresti comandare ancora in Libia? Ha preso la bottiglietta sul tavolo, l’ha svuotata per terra e mi ha guardato: credi che l’acqua possa tornarci dentro, una volta che l’hai buttata via?". La prima cosa che una nuova Libia deve fare, se mai nascerà, è affrontare i suoi fantasmi. A Zintan, ce n’è almeno due: Saif e l’Isis. Il primo è da cinque anni il bottino di guerra, o l’investimento, di queste milizie: non sta in una cella, anzi "se ne va in giro tranquillamente, ha una comoda casa, una nuova moglie e una bambina di tre anni". Per incontrarlo serve il consenso impossibile di tutti i capi-milizie, dagli zintaniani ai berberi, e se uno dice sì è l’altro a dire no: accontentatevi dei pettegolezzi e di sapere che "lo trattiamo bene". Fra qualche mese Saif, secondogenito che papà chiamò La Spada dell’Islam, compie 44 anni. Ha sulle spalle una condanna a morte di Tripoli e un mandato di cattura internazionale. Ogni tanto l’ingegnere "è depresso", se ripensa alla dolcevita che fece: la London School of Economics, i ricevimenti a Buckingham Palace, i compleanni con Blair e Alberto di Monaco e i Rothschild, i weekend milanesi con le brasiliane nelle suite del Principe di Savoia. Ma a Zintan, se non altro, si paga protezione e sopravvivenza. Milioni l’anno. Dipinge, guarda la tv, parla di politica. Fa anche un po’ d’affari. E da vicino osserva l’altro fantasma che agita questa parte di Libia: Fethalah Dahki, l’uomo che comanda lo Stato islamico a Ben Walid. "Lui lo conosce bene, era un amico di suo padre e oggi vive in una villa che fu dei Gheddafi". I libici dicono Green Daesh, Isis Verde, per distinguerlo da quello nero del Califfo e alludere ai nostalgici della verde Jamahiriya gheddafiana che lo guidano: "I capi dello Stato islamico li conosciamo bene, molti sono ex ufficiali del regime - è sicuro il capitano Ahmed Yakhlef, 52 anni, capo dell’intelligence di Zintan -. Un altro di loro si chiama Salem Waher ed è un ex colonnello che accompagnava in giro i figli di Gheddafi. Sono i destini diversi della Rivoluzione. In fondo, tutti noi siamo ex: Waher, io, il generale Haftar che oggi guida l’esercito da Tobruk, abbiamo fatto l’accademia militare e combattuto insieme in Ciad. Poi loro hanno mollato Gheddafi e sono stati in America. Waher ha imparato le tecniche di combattimento. Quand’è tornato, ce lo siamo trovati dall’altra parte della barricata". O vittoria o morte, scrivono con qualche ricordo coloniale sui muri di Zintan. La vittoria è lontana, perché qui le milizie stanno con Haftar e Haftar è contro Serraj. La morte, più probabile: bloccate sotto Sabratha, le brigate del Califfo sono comparse fra le montagne del Nefusa un paio di volte negli ultimi tre mesi. Cercavano le armi nascoste nelle grotte. L’ovest libico è il fronte dov’è più facile avere rinforzi di foreign fighter tunisini, ma non è chiaro che ci faccia l’Isis da queste parti. Né quanti uomini abbia. Però l’appeal è forte: cittadine come Al Asaba sono passate dal contrabbando al più redditizio jihadismo, stipendio fisso e un po’ d’eroismo. "Una mattina alle 5 c’è stato uno scontro duro con l’Isis - dice il colonnello Rojban. Li avevamo a portata di voce. Avevano preso una torretta. Ci hanno gridato: "Combattete quanto volete, tanto Dio è con noi!". Il colonnello non è tipo da spaventarsi: "Questa gente non c’entra nulla con la Libia. Abbiamo buttato giù Gheddafi: da quella torretta, butteremo giù anche loro".