L’abdicazione della politica di Ezio Mauro La Repubblica, 12 aprile 2016 L’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità. Una volta, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato preciso dai loro elettori, scattava il "referendum": i delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche, portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure. Assente nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale, con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema generale di democrazia rappresentativa. Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare "i limiti dei partiti" dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare "la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare". E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale il referendum inquieta il potere costituito, settant’anni fa come oggi: "Il referendum - disse - si basa proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento". Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore di non essere soltanto un "designatore" ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare nel modo che ritiene giusto ma "si deve votare perché partecipare al voto significa essere pienamente cittadini", anzi "fa parte della carta d’identità del buon cittadino". Il potere dunque deve imparare, settant’anni dopo, che il "buon cittadino" è tale quando va alle urne per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere-abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale così com’è stato concepito. Non c’è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo dall’altro. La risposta su questo punto non può che essere radicale, assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento costituzionale: il referendum è programmaticamente - si potrebbe dire istituzionalmente - un elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente "perché il suo scopo è proprio questo", nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione "la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà politica del popolo". D’altra parte, almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge. Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco. Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema. Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica, come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza delle premesse su cui sono nate. Le spine e la rosa: al referendum vince o perde l’Italia (non Renzi) di Michele Ainis Corriere della Sera, 12 aprile 2016 Al consulto sulle riforme costituzionali è in gioco il futuro del Paese. Chi l’avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle) armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova. Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito. Al referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi. La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l’angolo non c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle. Sarebbe stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine. Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo "nel dettaglio", come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su Federalismi.it. Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più. Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente. Ma intanto ecco l’elenco degli esami. Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state? Secondo: l’efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L’iter legis, per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici? Terzo: le garanzie. Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca sega le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato. Ma sta di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient. Con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi. In compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali. Ma il compenso compensa lo scompenso? Quarto: la partecipazione. Quali strumenti di decisione e di controllo restano in tasca ai cittadini? E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca? Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum. Però i regolamenti parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari, però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e d’indirizzo). Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22 anni (la legge sui referendum è del 1970). Dunque è questione d’ottimismo, di fiducia. E voi, siete ottimisti o pessimisti? Il presidente della Consulta: si deve votare per il referendum di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 "Presidente, che cosa pensa dell’invito all’astensione al referendum sulle trivelle?". La domanda è di quelle che sembrano destinate a rimanere senza risposta, visto che mancano soltanto sei giorni dal voto e il premier Matteo Renzi ha lanciato nei giorni scorsi un appello all’astensione. E invece il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi risponde: "Si deve votare. Ogni cittadino è libero di farlo nel modo che ritiene giusto ma credo che si debba partecipare al voto per essere pienamente cittadini". Mormorii nel salone Belvedere di Palazzo della Consulta, dov’è in corso l’annuale conferenza stampa del presidente della Corte. Che insiste: "Nell’urna ognuno resta libero di decidere, ma la partecipazione al voto fa parte della carta d’identità del buon cittadino". Una posizione molto netta, accolta ovviamente con entusiasmo dalla minoranza del Pd, che accusa Renzi di "sbagliare due volte", e soprattutto dal Movimento 5 Stelle. "Renzi bastonato dalla Consulta" twitta Alessandro Di Battista mentre Beppe Grillo chiama in causa il Capo dello Stato Sergio Mattarella, ex giudice della Consulta, affinché "prenda una posizione". Intanto lo fa il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti, che proprio ieri ha fatto sapere di aver deciso di andare a votare ma di votare "no". Da Palazzo Chigi Renzi si limita a dire che "il referendum è importante ma non c’è niente di nuovo da dire". Profilo basso, insomma, anzi bassissimo. C’era anche Mattarella a Palazzo della Consulta, da cui si è allontanato dopo aver ascoltato la relazione di Grossi sull’attività della Corte nell’anno appena trascorso. Il Capo dello Stato non ha ascoltato, quindi, le parole del suo ex collega ma andrà a votare, seguendo la tradizione dei suoi predecessori al Quirinale. Davanti al Capo dello Stato, Grossi ha fra l’altro elencato i numeri della giustizia costituzionale (nell’ultimo anno la Corte ha dovuto lavorare a ranghi ridotti per il ritardo del Parlamento nell’eleggere ben tre giudici mancanti) con i suoi 276 provvedimenti, di cui 145 relativi a giudizi incidentali, 38 dei quali di illegittimità costituzionale. Secondo il presidente, le domande poste alla Corte segnalano "la riemersione, nel tessuto sociale, di bisogni non compiutamente soddisfatti dalla legislazione: come se le ragioni politiche delle scelte risultassero, alla prova dei fatti, relativamente insufficienti o comunque inadeguate". Grossi ha poi insistito sul fatto che la Corte non è un "castello murato" né un "custode, quasi museale, di valori imbalsamati, ma è un organo di garanzia per i cittadini, che trova nell’ordinamento costituzionale anche il futuro". Questo cercheranno di far capire i giudici nei prossimi giorni, andando per la prima volta a parlare nelle scuole. "Giudici missionari li ha definiti Grossi. Quanto all’alto numero di "inammissibilità" dichiarate dalla Corte, il presidente ha spiegato che gran parte delle ordinanze che arrivano alla Corte sono spesso "affette da vizi genetici". Ciò non vuol dire che i giudici siano incapaci. "No - risponde il presidente -. La qualità della nostra magistratura è egregia ma il problema è nell’organizzazione e sta diventando un problema strutturale: ci sono troppo pochi giudici e c’è un carico eccessivo di lavoro. I giudici sono oberati di oneri e non possono fare a meno di essere frettolosi. Diamo loro la distensione del tempo che consente di meditare". Soltanto sul Ddl Boschi e sulle intercettazioni il presidente si è scusato per non poter rispondere, data "la delicatezza" di entrambi i temi. Ha invece affrontato il tema dell’Europa e dei migranti. "L’Unione europea ha un difetto d’origine - ha spiegato: nasce dal mercato. E le visioni troppo economicistiche che provengono da questa Europa possono minare i valori del nostro Stato sociale. Perché non c’è dubbio che lo Stato disegnato dai nostri costituenti è uno Stato sociale di diritto, in cui ognuno, anche il più debole, ha una gamma di diritti di cui non può essere espropriato. E i migranti appartengono a questa categoria". Islamiche evasioni. Viaggio tra i detenuti musulmani in Italia di Cristina Giudici Il Foglio, 12 aprile 2016 Perché aumenta la radicalizzazione, come si monitora e si combatte. Storie inedite e numeri poco pubblicizzati. L’ultimo è stato un macedone, Vulnet Maqelara, alias Karlito Brigante, arrestato alcune settimane fa a Roma. ùAveva cambiato nome in omaggio al protagonista del celebre film "Carlitòs way", uno spacciatore portoricano, la cui aspirazione al paradiso era però molto terrena. Radicalizzato nel carcere di Rebibbia da un tunisino diventato poi mujahed (cioè combattente) dello Stato islamico. Il fenomeno della radicalizzazione in carcere è diventata una faccenda dannatamente seria. E non solo perché le cellule che hanno colpito negli scorsi mesi Parigi e poi Bruxelles erano formate soprattutto da ex delinquenti votati al jihad o perché Salah Abdeslam si era radicalizzato in carcere, ma anche perché in Italia il monitoraggio sistematico avviato dall’intelligence penitenziaria, dal 2008 in collaborazione con il comitato di analisi strategica dell’Antiterrorismo, il C.a.s.a, dimostra la stessa tendenza: ora la minaccia viene dalle celle, dove vivono in promiscuità i delinquenti comuni. I detenuti condannati per terrorismo internazionale e ristretti nella sezione di alta vigilanza nel carcere di Rossano Calabro sono un piccolo gruppo: 22. Di loro si sa tutto, comprese le loro preghiere fanatiche per ringraziare Allah nei giorni delle stragi compiute in Europa. Ciò che invece non si conosce, o si teme di non riuscire a contrastare in modo efficace, è la miscela esplosiva che si sta innescando nelle sezioni dove transitano i detenuti per reati minori legati soprattutto allo spaccio di droga: ansia di riscossa, voglia di purificarsi da una vita vissuta violando le legge di Allah, rabbia e desiderio di vendetta possono favorire processi di radicalizzazione molto veloci e difficili da controllare. Che spesso coinvolge anche detenuti italiani convertiti. Al punto che al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la linea adottata è quella di non far trapelare fino a che punto si sia diffuso il fenomeno perché, come dimostra l’allarme segnalato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, Gennaro Migliore, è impossibile tracciare i movimenti e ascoltare le parole nei vari dialetti arabi di 10.500 detenuti musulmani, di cui 7.500 osservanti della loro religione. Ieri Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, ha comunicato a Repubblica un altro "dato allarmante": "Metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione". Secondo la Digos in Lombardia, le segnalazioni sulle radicalizzazioni negli istituti penitenziari sono già aumentate. E non solo riguardo ai carcerati che si lasciano crescere la barba o nelle conversazioni inneggiano allo Stato islamico, ma anche nei confronti di chi va oltre e magari ritaglia un giornale, sottolinea il nome di un integralista e ci mette di fianco una sura del Corano e comunica con l’esterno. Oppure si fa portare in carcere testi fondamentalisti. Al Dap si stima siano 350 i detenuti monitorati per questa ragione, ma il numero è più alto perché è difficile stabilire il confine fra chi improvvisamente osserva rigidamente le prescrizioni coraniche e chi è in fase di radicalizzazione. Perché se un detenuto arriva a dire - come è successo nei corsi organizzati di cultura araba da frate Ignazio De Francesco nella biblioteca del carcere bolognese Dozza per cercare di smontare i dogmi dell’integralismo galeotto attraverso lo studio comparato delle costituzioni arabe e delle tradizioni islamiche - che persino vendere droga a un miscredente è un atto di jihad, allora il rischio è più esteso di quanto si immagini. E forse non è sufficiente l’impegno sistematico avviato da consiglio ispettivo del Dap di fare un monitoraggio su larga scala. Anche se, come ha scoperto il Foglio, nell’arco di dieci anni, sono stati 50 mila i detenuti "attenzionati" a rischio di radicalizzazione. Ecco perché sono aumentati i corsi dedicati agli operatori del carcere e gli agenti penitenziari per aiutarli a decifrare i segnali che indicano la radicalizzazione. E non solo quelli esteriori, come ci ha spiegato un funzionario del Dap che per anni ha monitorato il fenomeno. "Non è sufficiente osservare chi si fa crescere la barba, diventa rigido e ostile alle istituzioni, si chiude a riccio, isolandosi dal resto della comunità carceraria, e passa le sue giornate a parlare di religione e di politica. Bisogna conoscere i simboli, le numerose sigle delle varie formazioni jihadiste, le scritte in arabo che appaiono in cella, i codici che indicano la radicalizzazione avvenuta". "In carcere le dinamiche sono diverse. Assomigliano a quelle della criminalità organizzata. Si fa qualcosa per ottenere qualcosa. Ci si inserisce in un circuito per offrire dei servizi in cambio di protezione", ci dice una nostra fonte al Dap, dove è stato deciso di vietare alla stampa gli ingressi in carcere nel giorno della preghiera collettiva. Il fenomeno è tanto più preoccupante perché poi chi si radicalizza si mimetizza, smette di esternare le sue convinzioni e lavora nell’ombra. Ed è solo attraverso un lavoro di mediazione culturale che a volte si riconoscono i sintomi della malattia. A spiegarcelo è un ex detenuto, ex corriere di droga, che ha frequentato anche le galere francesi. Samad Qanna oggi è fuori da carcere, lavora e si sta laureando in Giurisprudenza. Protagonista di un documentario di Marco Cantarelli girato nel carcere bolognese, ci ha raccontato come si crea il fenomeno di radicalizzazione. "Quando si entra in carcere ci si divide per ‘mestierè. Chi fa rapine si aggrega ai rapinatori, chi spaccia o fa il corriere della droga idem", dice Samad al Foglio. "Si perdono i contatti con la propria comunità religiosa che giudica severamente chi commette reati e ci si allontana dalla famiglia. E allora i carcerati più vulnerabili diventano facile preda di chi fa proselitismo. Tutto accade quando si comincia a marcare la separazione fra noi, detenuti e vittime, e loro, le istituzioni, la società esterna, considerate responsabili della nostra emarginazione. E quando la contrapposizione fra noi e loro si acuisce, la rabbia cresce insieme al desiderio di vendetta. E ci mette al servizio di qualsiasi progetto violento. A volte può essere solo di un’organizzazione criminale che offre protezione e supporto anche all’esterno. Ciò che importa è una cosa sola: vendicarsi. E quando, come accade più sovente ora, l’ansia di riscatto e di vendetta si mescola alla religione, a un’interpretazione grezza del Corano, ci si avvia verso la radicalizzazione. Del resto basta studiare le statistiche europee: la maggioranza degli integralisti vengono dal carcere. Sono piccoli criminali. Non è una novità. Del resto non è stato un detenuto anche al-Baghdadi?", osserva Samad. "La rabbia che si trasforma in odio religioso è come un virus che si contagia con molta rapidità. Magari il seme della radicalizzazione non sedimenta subito. È un pensiero che cresce, come un tarlo che scava il cervello. E poi esplode di colpo". Del resto basta ascoltare i discorsi che ha avviato con la sua scuola in carcere frate Ignazio De Francesco, che ha vissuto in Siria e in Egitto, conosce bene l’arabo e sostiene che la cultura sia l’unico antidoto contro la rabbia che si alimenta nelle carceri dove avviene "la shariatizzazione della radicalizzazione", dice al Foglio. "Un ragazzo per esempio mi ha detto: ‘Se mi teneste in carcere 20 anni io non potrei avere la certezza di essere perdonato da Dio. Solo la pena sciaraitica mi potrebbe liberare dal mio peccato. Solo il taglio della mano per i furti e i colpi di frusta per il commercio o il consumo di stupefacentì". "Io però credo - continua De Francesco - che un’osservazione critica, attenta, ma anche desiderosa di mettersi a fianco delle persone, sia utile. Il lavoro di intelligence e di monitoraggio non sono sufficienti. Ognuna di queste persone è una bomba che va disinnescata con il ragionamento, con un insegnamento sulla civiltà araba e sulla religione musulmana che loro conoscono solo attraverso qualche sura usata per giustificare la loro ideologia". La radicalizzazione in carcere non è un fenomeno recente. Il primo caso di cui si parlò, nel nostro paese, riguardava proprio un italiano: Domenico Quaranta, convertito all’islam nel penitenziario di Trapani e riarrestato nel 2002 per attentati incendiari falliti, nella Valle dei Templi ad Agrigento e all’interno della metrò di Milano, dove lasciava striscioni con scritte inneggianti ad Allah e ai mujaheddin in Afghanistan. Considerato dagli inquirenti mentalmente instabile, i monitoraggi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dimostrarono che, una volta finito nel carcere dell’Ucciardone, conduceva la preghiera dei detenuti ristretti per il reato di terrorismo internazionale che gli avevano formalmente riconosciuto la figura di imam. Perché poi è anche questo il problema: in alcune carceri sono previste delle preghiere collettive, in altre si destina una cella come spazio comune per permettere ai detenuti di pregare in piccoli gruppi. Con imam improvvisati che trasformano i riti in invocazioni di odio. In 52 istituti penitenziari ci sono luoghi di culto ufficiali definibili come moschee; in altri 132 istituti ci sono soltanto stanze utilizzate come luogo d’incontro. Ora è stato siglato protocollo con l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (Ucoii), firmato subito prima gli attentati di Parigi del novembre 2015, negli otto istituti dove maggiore è la presenza degli islamici. Una scelta che può destare perplessità perché si tratta di figure spirituali ultraconservatrici dell’islam politico, cresciuto nell’alveo della Fratellanza musulmana. Al punto che alte associazioni islamiche presenti in Italia si chiedono per esempio se non fosse meglio rivolgersi alla Consulta per l’Islam italiano, più ecumenica e con un’intesa già in essere con il ministero dell’Interno? E invece, come ci ha spiegato un mediatore culturale di lingua araba, nessuno sa riconoscere le invocazioni che vengono espresse alla fine della preghiera dagli imam autoproclamati in carcere, che finiscono spesso con questa frase rivolta agli infedeli: "Mandateli all’inferno, terremotateli". Un messaggio chiaro sulla missione che devono compiere una volta usciti dal carcere. Il Dap ha elaborato uno studio approfondito curato da Francesco Cascini, responsabile fino al 2014 dell’ufficio ispettivo del Dap, per conto dell’istituto superiore di studi penitenziari, in cui è stata analizzata e sviscerata la questione dell’islamizzazione in carcere: "La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere". Con analisi comparate con la radicalizzazione negli altri paesi europei. Si tratta di una lunga a narrazione del fenomeno che è cominciato all’alba del terzo millennio. I detenuti radicalizzati aumentano e così le segnalazioni, le perquisizioni, i trasferimenti per spezzare sodalizi ritenuti troppo pericolosi perché, non dimentichiamolo, è in un carcere italiano, dove per la prima volta da un un’intercettazione ambientale è emerso il progetto eversivo di voler fare un attentato a Parigi. "I detenuti radicalizzati si riconoscono in molti modi. I Multazimun (strettamente osservanti) hanno un atteggiamento maniacale sul rispetto degli orari della preghiera e si esprimono con tono solenne e ispirato, spesso citando versetti del Corano", si legge nello studio. "Invece i Mutashaddid (fondamentalisti) sono figure frequentemente nominate dai musulmani ma che all’interno del carcere sembrano spesso apparire come una presenza immateriale e celata perché le loro posizioni di intransigenza e intolleranza verso il sistema non si manifestano apertamente". Sono loro i cattivi maestri che cercano di non destare sospetti o attirare le attenzioni da parte degli operatori per nascondere la loro opera di reclutamento. Quando nel 2008 è stato creato un coordinamento fra l’intelligence penitenziaria con il comitato di analisi strategica dell’Antiterrorismo, i detenuti considerati a vari livelli pericolosi - di cui si controllava la corrispondenza epistolare, i colloqui e le telefonate, le letture, le frequentazioni, la destinazione dei loro flussi finanziari - erano solo 57. Oggi il numero è salito a oltre 300, anche se alcune stime ufficiose calcolano che siano 500. "Ma se prima, quando in carcere e fuori operava la rete gerarchica di Al Qaida, la radicalizzazione avveniva con gradualità, oggi invece avviene in tempi rapidissimi velocissima", ci ha fatto notare un educatore penitenziario. Perché le carceri non sono solo serbatoi di integralisti, ma anche detonatori. Come è successo ad esempio a un adolescente scappato in Siria da una comunità di accoglienza cattolica a Milano nel 2014. Probabilmente indottrinato all’esterno, durante un campeggio dei tabligh, missionari salafiti dediti al proselitismo, è stato proprio a San Vittore che la sua vita, fino ad allora caratterizzata da espedienti e di uso di droghe, ha cambiato direzione. In una cella. Per questo motivo il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Sappe, afferma che il cambiamento di politiche penitenziarie ora più garantiste, come richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, stia favorendo l’islamizzazione. Ad essere messa sotto accusa è la vigilanza dinamica che opta per l’osservazione del detenuto lasciato fuori dalla cella tutto il giorno. "La promiscuità fuori dalle celle e la scarsa presenza degli agenti favorisce la radicalizzazione", punta il dito il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ma forse la vigilanza dinamica che permette di scontare una pena meno afflittiva non c’entra nulla. Semplicemente il carcere è sempre stato uno specchio che riflette ciò che accade nella società esterna. E se le galere non sono mai servite, tranne che per percentuali residuali, allo scopo della pena che dovrebbe essere rieducativa e non vessatoria, allora accade così anche con i detenuti di fede musulmana. Fuori l’integralismo cresce e dentro, favorito dalla concentrazione di molti musulmani che vivono di espedienti, si amplifica. Le celle, ancora di più se chiuse e sovraffollate, di detenuti comuni sono stati in questi ultimi cinque anni serbatoi di integralisti. Che poi sono quasi sempre delinquenti di piccolo cabotaggio, che vengono messi davanti a una scelta obbligata dai loro reclutatori. Il loro messaggio è banale: se vuoi salvarti dall’inferno, ti devi mettere al servizio della guerra santa. In Italia non si è ancora arrivati al punto, come nel Regno Unito, dove l’imposizione della sharia in carcere avviene con violenza, ma la situazione è da bollino rosso. E solo un’opera di de-radicalizzazione da parte di mediatori culturali o imam esterni, insieme al monitoraggio costante, può (forse) arrestare il fenomeno. Come ha scritto in un breve saggio di riflessione Frate Ignazio de Francesco per raccontare l’esperienza della scuola di de-radicalizzazione cui ha partecipato anche l’islamologo dell’università cattolica Paolo Branca, "il ritorno alla religione dei detenuti musulmani sono totalmente auto-gestiti dai detenuti stessi. Tra loro emerge sempre qualche leader, che inizia spesso con l’incarico di muezzin, passando in modo del naturale alla guida della preghiera e alla predicazione del venerdì. Tiene buoni rapporti con il personale di custodia e si conquista così una certa fiducia. La soluzione è pratica e a costo zero ma non c’è bisogno dilungarsi per dire quanto sia problematica". In ogni caso dal tam-tam di Radio Carcere emerge che il segnale della radicalizzazione non è soltanto la barba lunga. A Rossano Calabro, la cosiddetta Guantanamo italiana, c’è chi fuma e chi è "addirittura" omosessuale. Così come non è plausibile negare, come fanno al Dap per minimizzare, che dal magma della radicalizzazione in carcere emergano terroristi. Lo dimostra il fatto che Karlito Brigante, radicalizzato in carcere, aveva solo due desideri: andare in Siria e trasformarsi in un’autobomba. Il Dap: in corso accertamenti su 400 detenuti a rischio di radicalizzazione islamista di Francesca Caferri La Repubblica, 12 aprile 2016 Dopo gli attentati di Bruxelles, una decina di detenuti nelle carceri italiane ha esultato. Applaudivano, urlavano "Allah Akbar", alzavano il volume del televisore che trasmetteva le immagini di morte in diretta da Zaventem e dalla fermata della metro di Maelbeek. Quando ci furono le stragi di Parigi, gli agenti della Polizia penitenziaria ne raccolsero 80 di segnalazioni di questo genere. Vuol dire che si è abbassato il rischio radicalizzazione nelle nostre prigioni? "Nient’affatto, ma adesso i fanatici sanno che li controlliamo meglio, quindi tendono ad uscire meno allo scoperto", spiega una fonte qualificata del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Ieri su "Repubblica" il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti ha lanciato un allarme sui minorenni: "In cella ci sono 500 ragazzi abituati a stare su Internet che possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la jihad". Stando però all’ultimo rapporto riservato finito sul tavolo del Casa (Comitato di Analisi strategica antiterrorismo presso il Viminale) i minori non sono l’unico motivo di preoccupazione per gli investigatori. Su 18.000 detenuti stranieri, ce ne sono 11.000 musulmani e di questi 7.400 sono praticanti. Nel rapporto stilato dal Dap ci sono 400 nomi su cui sono in corso accertamenti: si tratta di 200 monitorati ad alto rischio di radicalizzazione, 150 attenzionati e 50 segnalati. Nella prima categoria si concentrano i problemi: sono persone che nascondevano in cella la bandiera nera dell’Is (una decina di casi), o che hanno rivendicato in più occasioni il sostegno allo Stato Islamico, accompagnandolo con un vistoso cambiamento delle abitudini (barba lunga, tunica, atteggiamento da predicatore). Gli attenzionati sono quelli che subiscono la loro influenza, mentre i segnalati sono a un primordiale stadio di radicalizzazione. Non stiamo parlando di chi ha sulle spalle l’accusa di terrorismo internazionale (ad oggi 32 casi, ospitati nelle prigioni di Rossano, Nuoro e Sassari), ma di chi sconta pene minori per furto, immigrazione clandestina, spaccio. E tra le mura di un carcere trova un qualche motivo per affiliarsi idealmente al Califfato. Ai 200 monitorati i reparti speciali del Dap riservano un trattamento particolare: le telefonate dei detenuti sono registrate e i colloqui con i familiari avvengono in presenza di un agente. Per evitare il proselitismo, inoltre, da qualche settimana sono stati inseriti negli istituti 20 imam "certificati" dall’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. Prima venivano scelti tra gli stessi carcerati. Terrorismo, l’allarme nelle carceri minorili italiane non esiste di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2016 "Reclutamento in carcere, 500 minori a rischio Jihad", titola oggi Repubblica attribuendo la frase virgolettata al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, tuttavia, ci dicono che, a oggi, le carceri minorili ospitano solo 449 detenuti in tutta Italia e che di questi solo 174 sono effettivamente minorenni. Se poi leggiamo le parole di Roberti nel corpo dell’intervista, correggiamo solo parzialmente l’informazione: "Cito un dato allarmante che mi è stato trasmesso pochi giorni fa: metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la Jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione". Effettivamente in cella ci sono circa (molto circa) 500 ragazzi, non tutti minori, ma non sono affatto abituati a stare su internet e ad entrare in contatto con i siti jihadisti. In carcere il web non si usa affatto, se non per lodevoli eccezioni comunque sempre estremamente controllate e supervisionate. Se diamo inoltre uno sguardo alle nazionalità vediamo che, dei 441 ragazzi presenti nelle nostre carceri al 31 dicembre 2015, 244 erano italiani e 54 provenivano da altri paesi Ue a presenza musulmana residuale. 12 erano serbi, 4 moldovi, 10 provenivano dal continente americano. Dei 500 menzionati dal procuratore e dal titolo di Repubblica rimbalzato qua e là, ne rimangono 117, che oltre a non andare su internet non si vede perché debbano essere pregiudizialmente considerati "a rischio altissimo di radicalizzazione". Apprezzo molto le parole di Roberti quando, nella stessa intervista, afferma che "bisogna rispondere garantendo diritti: abolire il reato di immigrazione clandestina, ridurre le attese per le domande d’asilo, combattere lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari". Continuiamo su questa linea, fuori e dentro le carceri. In procuratore parla di un "dato allarmante" che non c’è. Ci sono invece dei ragazzi. Ci sono dei ragazzi che i bravissimi operatori che lavorano nelle carceri minorili sapranno ben gestire, sapranno aiutare a reintegrarsi nel tessuto della scuola, della formazione, del lavoro, delle relazioni famigliari. Ci sono dei ragazzi che dobbiamo convincere a non tornare più a delinquere attraverso l’esempio di noi adulti, dell’istituzione che hanno attorno, garantendo loro diritti e inserendoli in un modello educativo. Ci sono dei ragazzi da affrontare attraverso il dialogo. Ci sono dei ragazzi che non possiamo permetterci di etichettare come potenziali terroristi. Il Sottosegretario Migliore "nel 2015 i detenuti stranieri rimpatriati sono stati 149" Public Policy, 12 aprile 2016 "Negli anni 2014-2015 si è registrata una sia pur contenuta crescita del numero complessivo dei detenuti trasferiti nei Paesi di origine: 133 per il 2014 e 149 per il 2015. La Romania è il Paese che ha registrato il maggiore incremento nelle consegne, passando dalle 70 unità del 2014 alle 110 nel 2015". È quanto ha detto in commissione Giustizia alla Camera il sottosegretario Gennaro Migliore in replica a un’interrogazione di Jole Santelli (FI) sull’attuazione delle procedure di rimpatrio previste dalla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, in relazione alla possibilità di scontare la pena nel proprio Paese d’origine. Migliore ha ricordato come la Convenzione di Strasburgo del 1983 "ha un ambito applicativo esteso a ben 45 Paesi, ma richiede il consenso del condannato" mentre la decisione quadro 2008/909/Gai abbia "invece, un ambito di applicazione più ristretto, i soli Paesi europei, ma non richiede il consenso". Attualmente, "sono in vigore accordi per il trasferimento dei condannati con Cuba, Hong Kong, Perù, Tailandia, India, Kazakhstan, Repubblica Dominicana ed Egitto" e il Parlamento ha, inoltre, "autorizzato la ratifica sul trattato con il Brasile". Ancora il sottosegretario, per l’importanza connessa all’elevato numero di cittadini di origine marocchina detenuti nelle carceri italiane, ha richiamato "il trattato con il Marocco, già sottoscritto dal ministro della Giustizia ed attualmente in attesa della sola ratifica parlamentare". Inoltre è stata avviata dallo stesso dicastero "l’organizzazione di una serie di incontri con gli organi giudiziari competenti nazionali e dei Paesi i cui cittadini hanno il più elevato tasso di presenza negli istituti penitenziari" italiani, come l’Albania e la Romania. Con cui "sono stati stipulati anche accordi aggiuntivi per consentire i trasferimenti, pur in assenza del consenso del condannato, ove sussistano determinati presupposti". Con l’Albania, inoltre, è stato stretto un accordo secondo cui l’Italia "potrà chiedere l’esecuzione nel Paese delle condanne emesse dai giudici italiani nei confronti dei cittadini albanesi localizzati in Albania, ed è stata, altresì, riaperta la procedura per la destinazione di un magistrato di collegamento italiano". Intercettazioni, niente accelerazioni di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 La parola d’ordine, tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno, è tenere l’asticella bassa. Sui magistrati, sulle intercettazioni, e anche sul referendum sulle trivelle ormai vicino (si vota domenica 17 aprile, si veda l’articolo a pagina 23). Da qui il no comment alle parola del presidente della Consulta Paolo Grossi che ieri ha indirettamente invitato a votare per il referendum, quando è noto che la posizione ufficiale del premier e del Pd è per il non voto in modo da far mancare il quorum e far fallire la consultazione popolare. Se l’obiettivo è quello di non far andare la gente alle urne, non replicare è la cosa migliore. E lo stesso dicasi delle intercettazioni, dopo le dimissioni di Federica Guidi dal Mise in seguito alla pubblicazione sui giornali di un’intercettazione con il suo compagno Gemelli nell’ambito dell’inchiesta di Potenza sul petrolio. Inchiesta che, stando all’interpretazione di molti renziani, sembra sia stata congegnata apposta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema del petrolio e quindi del referendum sulle trivelle. Un intreccio scottante, quello intorno alle inchieste e ai rapporti con la magistraura, che ha dunque invitato alla cautela Palazzo Chigi dopo quella che sembrava un’accelerazione tra venerdì e sabato scorso. Nessun intervento nuovo sarà fatto in materia di intercettazioni - si ripete - c’è solo da approvare in Senato la riforma del processo penale che tra i suoi tanti articoli contiene anche la delega al governo sulle intercettazioni. Ma si tratta, spiega il responsabile giustizia del Pd, David Ermini, di una riforma "che non ne toccherà minimamente l’utilizzo". "I magistrati hanno il diritto di utilizzare come meglio credono le intercettazioni per l’amministrazione della giustizia - spiega Ermini. Ma abbiamo posto un rilievo sulla pubblicazione di quelle poco rilevanti sui giornali per quelle persone che nulla hanno a che fare con il processo". Come nel caso dell’ex ministra Guidi, non indagata dai Pm di Potenza. D’altra parte, da Londra, è anche la ministra per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, a ricordare che sulla pubblicazione delle telefonate "serve un equilibrio migliore". E lo stesso Matteo Renzi ha parlato nei giorni scorsi dell’inutilità di rendere pubblici "pettegolezzi". Lasciando sullo sfondo l’argomento nei suoi colloqui con i cronisti ieri alla Camera. Salvo su un punto, quello del presunto dossier contro Graziano Delrio citato da Guidi e sul quale indaga la Procura di Roma: "Graziano Delrio è una delle persone più specchiate che ci siano, chiederne le dimissioni come fa l’opposizione è una barzelletta da respingere al mittente: se chi ne chiede le dimissioni avesse un decimo della moralità di Delrio sarebbe già una gran cosa". La riforma del processo penale andrà dunque avanti, ma senza fretta per non incorrere in campagna elettorale (si vota nelle grandi città il 5 giugno) nell’accusa di voler intervenire contro i magistrati per mettere a tacere le inchieste come Berlusconi. E a questo punto è molto probabile che il sì del Senato, dopo quello della Camera, ci sarà dopo l’estate. E saranno comunque sempre i giudici - precisa ancora Ermini - a stabilire ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Aggiunge da parte sua il neo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - dopo aver precisato di non volere commentare prima di aver riunito la giunta dell’associazione dei magistrati - che "si può discutere dell’idea di obbligare al segreto anche dopo il deposito dell’intercettazione". Se non proprio un cambio di passo, almeno prove di disgelo. Anche se Davigo ci tiene a puntualizzare che ci sono "molte inchieste e poche sentenze", come ha detto Renzi nei giorni scorsi, "perché c’è la prescrizione". E il leader Anm ammette: "I processi durano troppo perché ce ne sono troppi". Intercettazioni. ecco perché la riforma resta urgente di Carlo Nordio Il Messaggero, 12 aprile 2016 Ammonito dai salutari precetti del nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati ("la disciplina delle intercettazioni esiste già, non vedo il problema", ha detto il dott. Davigo) il premier Renzi ha replicato che non intende metter mano a nuove modifiche in materia. Non è chiaro se intenda rinunciare alla riforma che langue in parlamento, lasciando le cose come stanno, o se, al contrario, intenda mantenerla senza modificarne il contenuto. Dal tono e dal carattere del presidente del consiglio è presumibile che sia giusta questa seconda interpretazione: non ci saranno proposte più restrittive, ma la riforma va avanti. Questa cautela può anche essere comprensibile. Se, come recita l’Ecclesiaste, c’è un tempo per ogni cosa, la vicenda di Potenza non rappresenta il momento migliore per cambiare le regole del gioco: anche se questo gioco (quello delle intercettazioni) è pericoloso, e soprattutto truccato. Che sia pericoloso lo abbiamo già scritto tante volte, e Renzi se n’è accorto da tempo: la captazione delle conversazioni e la loro divulgazione sui giornali è lo strumento più incisivo ed efficace per eliminare figure di primo e di secondo piano della vita politica, economica e amministrativa. E poiché non v’è conversazione che sia immune da interpretazioni interessate e faziose, ogni soggetto intercettato è esposto al rischio di sentirsi imporre "un passo indietro", in attesa dei "chiarimenti della magistratura": tempo medio, un decennio. La vicenda Guidi è su questo emblematica. Indagando su un reato indefinito e vaporoso, come il traffico di influenze, ogni lamento di Margherita, la fanciulla abbandonata da Faust, è ritenuto rilevante. E così, nella più perfetta legittimità, le sconsolate espressioni della ministra sono finite in prima pagina, non con l’elegante ritmo di Goethe, ma nell’esasperata assimilazione a una sguattera guatemalteca. Qualcuno ha detto che quelle frasi non erano degne di un ministro. No. È la porcheria delle intercettazioni che non è degna di un paese civile. Ma l’aspetto peggiore è che il gioco è truccato. E, cosa anche più grave, che questo trucco continua a non esser capito nemmeno dai sostenitori della pur timida riforma ora sospesa. I quali, a cominciare dal primo ministro, vedono la soluzione del problema nel dovere dei magistrati di individuare le conversazioni rilevanti, secretando o distruggendo i pettegolezzi e le intimità. Mentre il problema sta proprio lì: nel fatto che il Pm e il Gip sono arbitri assoluti nel selezionare le conversazioni e nel valutarne la rilevanza. Cosicché se i gemiti e i palpiti di due innamorati irruenti sono considerati utili per dimostrare la concertazione di un ipotetico reato, essi finiranno nel fascicolo processuale e di lì, sempre nella più perfetta legittimità sulle prime pagine dei giornali. O anche, come pure è accaduto, recitati con enfasi da motivati attori nell’arena di un talk show. Si può immaginare qualcosa di più ignobile? Forse sì. Al peggio non c’è limite. Che fare allora? Per adesso, aspettare che passi la bufera. Come s’è detto, questo è tempo di tattica prudente, anche trattenendo i comprensibili nervosismi. Ma, una volta riacquistato l’animo freddo e pacato, si riconsideri l’intero complesso delle intercettazioni nella sua valenza positiva e negativa. Perché, a fronte di alcuni modesti vantaggi che esse offrono in sede processuale, esse costituiscono, così come sono applicate, una vergogna unica nell’intero mondo occidentale. E se anche fossero indispensabili, e non lo sono quasi mai, questo non dimostrerebbe nulla, perché l’utilità di un fine non giustifica la brutalità del mezzo: altrimenti anche la tortura sarebbe uno strumento investigativo efficace, e la pena di morte un deterrente adeguato. Se gli atti sono accessibili si contrastano i pettegolezzi di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 12 aprile 2016 Se l’informazione corretta è cara al governo, dovrebbe stabilire nelle nuove norme come i giornalisti possono disporre di ciò che è noto all’indagato e non è più riservato: si evitano fughe di notizie favorite dai magistrati e si aiuta l’opinione pubblica. Caro direttore, davvero grande è la confusione sotto il cielo. Pier Camillo Davigo, nuovo presidente dell’Anm, sabato appena eletto ha dichiarato che le norme sulle intercettazioni ci sono già e lo ha fatto perché il giorno prima, dopo la pubblicazione di quelle di Potenza, da più parti si era tornati a parlare della loro riforma. Diversi giornali domenica, perciò, hanno addirittura aperto sul tema e, a conferma della bontà della tesi di Davigo, hanno ricordato quelle circolari, assai apprezzate dal governo, che i vertici di alcune importanti procure hanno indirizzato ai propri sostituti, per meglio disciplinare l’uso e il deposito delle conversazioni intercettate, con inevitabili riflessi sulla loro successiva divulgazione. Quelle circolari hanno, infatti, quale unico punto di riferimento, com’è ovvio che sia, le norme vigenti ed indicano le modalità per la loro miglior applicazione, non essendo consentito ai magistrati discostarsi da quel che il codice di rito già prevede, né scrivere nuove regole di comportamento. Se le circolari vanno nella giusta direzione, come si sostiene, allora vuol dire che l’impianto normativo funziona, il che spiega la sorpresa ed i timori del procuratore di Torino Armando Spataro per i troppi consensi che la sua ha ricevuto. Né l’urgenza di intervenire può trarre linfa dalla divulgazione delle intercettazioni di Potenza, nessuna delle quali risulta irrilevante per le indagini o riguarda soggetti ad esse estranei - questi i limiti alla loro pubblicazione, individuati dalla delega - avendo piuttosto rivelato profili di estremo rilievo sui criteri di gestione della cosa pubblica. La delega al governo sul tema, che attende di essere approvata, intanto, è stata definita dallo stesso relatore in Commissione Giustizia al Senato Felice Casson troppo generica, al punto da rasentare l’illegittimità costituzionale, il che lascia ampi margini di manovra a chi dovrà esercitarla. Questo lo stato dell’arte fino a quando, domenica sera, il presidente del consiglio ha detto che il governo non ha intenzione di mettere mano alla riforma delle intercettazioni - anche se il coro non appare unanime - confidando sul buon senso e la responsabilità dei giudici, molti dei quali, ha aggiunto, non passano informazioni su vicende familiari e pettegolezzi. È proprio questo il punctum dolens. Il premier, come chiunque affronti il tema della pubblicazione degli atti e non solo delle intercettazioni, infatti, parte dal presupposto - ahimè corretto! - che le carte vengano "passate" dai magistrati, dai giudici o dagli avvocati ai giornalisti, che non possono chiederne copia agli uffici e debbono accontentarsi di quel che trovano. E questo, mentre si pretende giustamente da loro professionalità e rispetto delle regole, non è più accettabile. Ferruccio de Bortoli, qualche giorno fa, ha commentato sul Corriere il cosiddetto decreto Madia, che rimodula le formalità con cui il cittadino può prendere visione degli atti amministrativi e, pur segnalando l’opportunità di qualche intervento, ha sottolineato l’importanza di norme che incentivano la trasparenza amministrativa e il controllo diffuso. Quella legge, però, non si occupa dell’accesso agli atti processuali, regolato oggi solo dall’articolo 116 Codice di procedura penale, che si limita a riconoscere a "chiunque vi abbia interesse" la mera facoltà di avere copia degli atti di un procedimento penale, rilascio subordinato al consenso del magistrato o del giudice competente. Ecco, sulla scia dei principi che hanno ispirato quel decreto e nell’ambito della riforma del codice di procedura penale, per dimostrare che davvero, al di là degli eventuali abusi già sanzionabili, la buona informazione è cara al governo, varrebbe la pena di approntare le modifiche necessarie per stabilire i modi e i tempi, con i quali i giornalisti, titolari non di un mero interesse, ma del diritto di informare, possano prendere visione ed avere copia, pagando il dovuto, di quegli stessi atti che, noti all’indagato, non sono più riservati. Chissà che non sia proprio questa la soluzione giusta per bandire i pettegolezzi - come auspica il premier - anche con la collaborazione fattiva dei magistrati, responsabilizzare i giornalisti, se necessario, e rendere anche e soprattutto un buon servigio all’opinione pubblica. Se il M5S sostituisce il Pd come "partito delle Procure" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 C’è stato un tempo in cui la sinistra era "giustizialista", "la sponda politica della magistratura" e le Procure ne erano addirittura "la mano armata". Era il tempo di Mani pulite e, via via, del ventennio berlusconiano, delle "persecuzioni giudiziarie" e dei "giudici politicizzati", della "grande riforma della giustizia", della rivendicazione del "primato della politica" contro la "dittatura delle Procure". I "garantisti" di allora tuonavano, dentro e fuori i palazzi della politica e delle istituzioni, contro la sinistra "forcaiola e giustizialista", che tuttavia, in nome della "legalità" e della difesa dell’autonomia e indipendenza della magistratura, riempiva (ancora) le piazze anche se in Parlamento non riusciva a bloccare leggi ad personam e norme anti-giudici ma si limitava alla "riduzione del danno". Poi, con la caduta di Berlusconi e con l’avvento di Matteo Renzi, il film è cambiato, se è vero che neppure un anno fa (era il 22 settembre 2015), dal suo banco di Montecitorio, lo storico esponente forzista Francesco Paolo Sisto applaudì con un "Benvenuti tra noi!" i colleghi del Pd per la piroetta sulla riforma delle intercettazioni, eterno cavallo di battaglia del centrodestra contro gli "abusi" delle Procure e dei media ma argomento (quasi) tabù per il Pd di allora. Che oggi, invece, ne fa uno degli emblemi della sua battaglia "garantista", lasciando così al Movimento 5 Stelle il ruolo di paladino delle Procure o del partito dei cosiddetti giustizialisti. Nel tempo che viviamo, dunque, i grillini hanno occupato lo spazio che fu del Pd, quanto a difesa dell’operato delle Procure, soprattutto contro la corruzione politica. Tra l’altro, spesso le parole e i toni del premier Renzi evocano quelli dell’ex premier Berlusconi contro la magistratura: meno violenti ma non meno delegittimanti. Per esempio, quando insinuano un uso strumentale delle intercettazioni o la lentezza dei tempi per arrivare a sentenza come espedienti per tenere sulla graticola la politica. Scenari in teoria non fantascientifici seppure da dimostrare, e ciò al di là degli errori in cui incorrono anche i pm. Ma quanto meno inopportuni se vengono rilanciati a ogni inchiesta che tocca o lambisce la politica. I 5 Stelle, quindi, hanno gioco facile a schierarsi con le Procure. Giustamente, Renzi auspica una giustizia veloce, soprattutto se in ballo ci sono interessi politici o economici, mentre Berlusconi lavorava per allungare i processi o per farli morire prematuramente. E tuttavia, la macchina giudiziaria è ancora carente di giudici, di cancellieri e di norme che ne rendano più efficace il funzionamento. Ha buon gioco, quindi, il neopresidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, a chiedere al governo di attivarsi su questi fronti invece di ironizzare maliziosamente sui ritardi o sugli scopi reconditi delle inchieste. E questa è musica per le orecchie dei 5 Stelle. Il garantismo del Pd è sempre stato a fasi alterne: timido sul carcere (il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha dovuto redarguire i suoi compagni di partito per alcune posizioni "giustizialiste"), deciso sugli avvisi di garanzia che, non essendo sentenze di condanna, non giustificano le dimissioni. Quanto alle intercettazioni, il ddl Mastella (governo di centrosinistra) è stato una delle proposte peggiori in materia, al punto da essere rilanciata poi da Berlusconi (ma senza successo). L’attuale proposta di riforma è un foglio bianco tutto da riempire... Tirato da una parte all’altra, oggi il garantismo viene rivendicato dal Pd come cifra dell’azione politica di governo, mentre per i 5 Stelle è solo un alibi, strumentale alla tutela di interessi di parte e finalizzato a ridimensionare l’azione delle Procure. "Garantismo è parola svilita, deturpata dall’abuso", scrive il filosofo del diritto Dario Ippolito in un denso libricino dal titolo "Lo spirito del garantismo" (Donzelli editore). È una parola che da tempo suscita sospetto e insofferenza, evoca cavilli procedurali, suona falsa, viene associata all’idea di impunità e di privilegio. Garantismo, ricorda invece Ippolito, è "il sistema di regole e principi funzionali alla protezione dei diritti individuali. Protezione necessaria tanto rispetto all’illegalità violenta dei crimini, quanto alla violenza istituzionale degli apparati repressivi". In sostanza, la sicurezza e la libertà non sono minacciate soltanto dalla criminalità, ma possono esserlo anche da pene eccessive, da arresti e da processi sommari, da controlli arbitrari e pervasivi di polizia, ovvero, per dirla con il giurista Luigi Ferrajoli, "da quell’insieme di interventi che va sotto il nome nobile di "giustizia penale" e che, forse, nella storia dell’umanità, è costato più dolore e ingiustizie dell’insieme dei delitti commessi". Tutti gli ostacoli sulla strada di un’intesa tra governo e giudici di Francesco Grignetti La Stampa, 12 aprile 2016 Le agende contrapposte del premier e del neopresidente Davigo. Piercamillo Davigo contro Matteo Renzi, sul ring della giustizia si vanno profilando due strategie diverse. E saranno scintille, c’è da giurarci. Come per le intercettazioni. Davigo dice che non merita occuparsene. Il governo avrebbe previsto una riforma, all’esame del Senato, per frenare le pubblicazioni che ledono la privacy, ma già ci stanno ripensando. Giustizia civile - L’analisi di partenza è comune: in Italia il tasso di litigiosità porta a troppi processi. Davigo usa parole che faranno venire l’orticaria agli avvocati: "Contro una domanda patologica di giustizia è necessario rendere poco conveniente il non osservare la legge". E quindi, per scoraggiare la corsa a fare causa, oltre a mazzolare la classe forense, "in Italia c’è un terzo di tutti gli avvocati d’Europa", il neopresidente dell’Anm chiede formidabili tassi di interesse giudiziale, e gli alti costi sostenuti dallo Stato per il processo "devono essere posti a carico di chi ha torto". Il governo s’è mosso nella stessa direzione con quel decreto che tagliò le ferie ai magistrati, ma con gran cautela. Richiamava lo stesso principio del "chi perde, rimborsa le spese del processo". In pratica, però, c’è soltanto un freno alle esenzioni, fenomeno dilagante. "La compensazione potrà essere disposta dal giudice solo nei casi di soccombenza reciproca". Anche il tasso legale di interesse è stato innalzato, equiparandolo a quello che si applica ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ma non è iperbolico. Prescrizioni - Anche qui si parte da una diagnosi comune. Alla prescrizione si deve mettere mano. Ma le ricette sono molto diverse. Davigo chiede di "modificare radicalmente il sistema". Per il neopresidente dell’Anm, lo scandalo non è la soglia della prescrizione in sé, ma che non si tenga conto delle interruzioni nei conteggi. Negli Usa - ricorda - il termine di prescrizione (tranne per i reati imprescrittibili) è di 5 anni, ma una volta esercitata l’azione penale la prescrizione non decorre più. In Italia s’impugna tutto, "persino le sentenze di patteggiamento", e i conteggi corrono. Il governo sta portando avanti una riforma che ha avuto il via libera dalla Camera, il 24 marzo dell’anno scorso, e però si è impantanata al Senato perché osteggiata dagli alfaniani e dalle opposizioni, sia pure per motivi opposti. Il testo prevede di ritoccare i tempi con sospensioni di 2 anni dopo una sentenza di condanna in primo grado, 1 anno dopo una condanna in appello, 6 mesi nel caso di rogatorie all’estero, 3 mesi per perizie complesse chieste dall’imputato. La sospensione non varrebbe in caso di assoluzione. È una riforma che a Davigo non convince assolutamente: la prescrizione - disse - "dovrebbe fermarsi con il rinvio a giudizio". Ai magistrati è parso addirittura in controtendenza la novità introdotta dal Parlamento per i termini rigidi (data da cui si comincia a conteggiare il tempo di prescrizione) entro cui il magistrato deve iscrivere una persona nel registro degli indagati. Depenalizzazioni - È la prima delle riforme che Davigo sogna, per diminuire il pazzesco carico di lavoro dei magistrati e concentrare le forze sui processi per i reati gravi. Perciò "occorre varare una massiccia depenalizzazione, trasformando in illeciti amministrativi numerosi reati per i quali il costo dei procedimenti penali è superiore al danno cagionato". Anche il governo sa che la partita della giustizia si gioca con le depenalizzazioni. Ci sono stati finora due provvedimenti: la possibilità di archiviare i processi per "lieve tenuità del fatto" (e la legge ai magistrati è piaciuta); la trasformazione dei pochi reati che prevedevano solo una sanzione pecuniaria, in illeciti amministrativi (e ai magistrati è parso un provvedimento minimale). Ma già questo timido passo ha scatenato i giustizialisti, vedi Lega e M5S. La Ue: giustizia ancora lenta, poca fiducia nei giudici di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 La Commissione europea ha colto ieri l’occasione del quarto rapporto annuale sulla giustizia nei 28 paesi Ue per ribadire l’urgenza di modernizzare il sistema giudiziario italiano, che nonostante recenti miglioramenti rimane farraginoso, e ritenuto poco indipendente. La presa di posizione giunge a ridosso delle prossime raccomandazioni-paese che verranno pubblicate in maggio. Non si possono escludere nuovi richiami sulla situazione della giustizia in Italia. Secondo le ultime statistiche della Commissione europea, relative al 2014, sono sempre necessari oltre 500 giorni per risolvere in primo grado una lite commerciale e amministrativa. Il dato è migliorato rispetto al 2013 e al 2012, ma è peggiorato rispetto al 2010. L’Italia è al terz’ultimo posto, prima di Malta e Cipro. Rispetto ad altri paesi, l’Italia ha pochi magistrati (poco più di 10 ogni 100mila abitanti), ma un gran numero di avvocati (circa 375 per ogni 100mila abitanti). Il rapporto comunitario fa il punto anche della percepita indipendenza della magistratura italiana. Il 60% circa delle persone interpellate considera l’indipendenza dei magistrati "piuttosto o molto cattiva". La stessa percezione hanno le imprese. Peggio in questa categoria fanno la Bulgaria e la Slovacchia. Tra i Ventotto paesi dell’Unione, la giustizia è ritenuta la più indipendente in Danimarca e in Finlandia. A metà classifica si trovano paesi come la Francia e il Belgio. Da qualche anno, ormai, la Commissione europea insiste perché i paesi modernizzino il sistema giudiziario. Nelle raccomandazioni-paese del 2015 questa preoccupazione era la terza su sei. Nel rapporto pubblicato ieri, l’esecutivo comunitario fa notare che l’Italia aveva promesso riforme nel campo dell’informatizzazione della giustizia, nel settore delle professioni legali e nel diritto processuale. Nel 2015, nei tre campi, gli annunci sono stati messi in pratica. In una conferenza stampa, la commissaria alla Giustizia, Vera Jourova, ha riassunto la situazione italiana, notando "spazio di miglioramento per garantire qualità alla giustizia e una migliore comunicazione". Al tempo stesso, ha detto di "apprezzare gli sforzi del governo italiano". A proposito della percepita mancata indipendenza della magistratura, ha detto che questa potrebbe essere, almeno in parte, "un retaggio di tempi passati". Il riferimento è sembrato anche ai governi di Silvio Berlusconi. Il problema dell’indipendenza della magistratura in Italia non riguarda tanto il rapporto dei magistrati con il governo quanto la commistione della magistratura con la politica. Nel Consiglio superiore della Magistratura, i magistrati sono rappresentati sulla base di correnti politiche. In questo contesto economico incerto e mentre alcuni governi hanno tendenze nazionaliste, la politicizzazione della giustizia è d’attualità anche in altri paesi, come la Polonia o l’Ungheria. Infine, è da notare - in un momento in cui le intercettazioni telefoniche così come le fughe di notizie sulle indagini giudiziarie sono tema di dibattito politico - che Italia e Cipro sono i soli paesi che non hanno inquadrato in modo formale le relazioni tra i tribunali e la stampa. In 14 paesi sui 26 presi in considerazione, il sistema giudiziario si è dotato di figure di portavoce in primo grado, secondo grado e in Cassazione, dando loro precise linee-guida nei rapporti con i giornalisti. Fallimenti, va rivisto anche il penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 L’esposizione del mondo del credito verso imprese in ristrutturazione resta assai elevata, nell’ordine dei 120-130 miliardi. Quanto a investimenti, sono 28 i punti fissi persi dall’inizio della crisi. E allora a una riforma del diritto fallimentare è meglio procedere con cautela. Tenendo presente però che, se si deciderà di condurre in porto la delega Rordorf, ci vorrà anche la revisione dei reati di bancarotta. Sono alcuni degli elementi emersi ieri al convegno milanese organizzato da Deloitte su "Risanamento d’impresa e tutela penale dell’economia". La fotografia del settore bancario è stata scattata da Tullio Piemontesi di Unicredit-Special Crediti che, nel suo intervento, ha anche messo l’accento su alcuni degli indici che più segnalano la sofferenza di un’impresa. E che più fanno sollevare le antenne alle banche. Tema delicato. Tanto più che lo schema di legge delega appena approdato in Parlamento (se ne parlerà a breve alla Camera, in commissione Giustizia) molto scommette sull’emersione tempestiva della crisi prima che sfoci nell’insolvenza, con il debutto delle procedure di allerta. E allora, per Piemontesi, le spie più significative sono rappresentate dall’assottigliarsi del flusso di cassa, dalla ristrutturazione delle rete vendite e dalla sostituzione dei fornitori. Piemontesi ha invece ridimensionato il tema dell’afflusso di finanza all’impresa in crisi, nella convinzione che, una volta che l’impresa è entrata in una spirale di forte negatività, di ulteriore benzina non ha proprio bisogno. Il procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, ha sottolineato come la tutela dell’economia sana sia un faro dell’azione della Procura anche per la necessaria salvaguardia dei livelli occupazionali. Ma ciò non vuol dire chiudere gli occhi sulle patologie. E allora, sull’amministrazione straordinaria, ha sottolineato Greco, è indispensabile lavorino manager capaci (il capo di gabinetto del ministero dello Sviluppo economico, Vito Cozzoli, ha annunciato la prossima approvazione di un decreto sui compensi giocato in misura maggiore sulla premialità dei risultati, anche se già oggi l’80% degli interventi rispetta i programmi di risanamento previsti). Sul versante delle fattispecie penali, Greco ha ricordato che alcuni reati che dovrebbero essere contestati soprattutto in funzione preliminare all’esplodere della crisi d’impresa - come il conflitto d’interessi e l’appropriazione indebita - rischiano di vedere compromessa la loro forza, anche deterrente, vuoi per le sanzioni esigue vuoi per le condizioni di procedibilità a querela. A Milano, poi, l’anno scorso sono diminuiti sia i fallimenti (di 150 unità) sia i concordati (di 80), mentre i principali creditori sono quelli pubblici con le consuete difficoltà di Equitalia a riscuotere quanto dovuto. Quanto alla voluntary disclosure, Greco ne ha messo in evidenza un elemento: dei 60 miliardi interessati dall’operazione, le segnalazioni sono state divise in parti quasi uguali tra uomini e donne (65mila a 60 mila). La Lombardia da sola ha totalizzato quasi la metà dei rientri. Nell’intervento di Greco è poi emerso il rammarico per la difficoltà dei realizzi nell’ambito delle procedure concorsuali: su 3.759 lotti ne sono stati aggiudicati, a valori assai bassi, 560. Francesco Mucciarelli, docente di Diritto penale alla Bocconi, dopo avere ricordato l’assai esiguo numero di detenuti per reati di criminalità economica (a riprova che non è il nostro sistema penale a fare da deterrente a progetti di investimento esteri in Italia) si è detto perplesso sulla nuova, abbozzata, fattispecie di bancarotta prevista dalla delega Rordorf come spinta penale a fare emergere la difficoltà d’impresa, ma, se la riforma della Legge fallimentare venisse realizzata, sarebbe indispensabile anche riscrivere la parte penale. E Alberto Maffei Alberti, docente di Diritto commerciale a Bologna, ha contestato, ai fini della continuità d’impresa, il ridimensionamento della revocatoria a fronte dell’introduzione di farraginose procedure di allerta. Il diritto di difesa è da provare di Angelo Costa Italia Oggi, 12 aprile 2016 Condizione per il riconoscimento di sentenze straniere. La Corte di cassazione è intervenuta su una decisione pronunciata in California. La sentenza straniera potrà essere riconosciuta in Italia solo se verrà provato che sia stato rispettato il diritto di difesa. Lo hanno affermato i giudici della prima sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6276 dello scorso 31 marzo. Il caso sul quale i giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi vedeva Tizio che chiedeva alla Corte d’appello il riconoscimento di una sentenza straniera pronunciata nello stato della California. La Corte d’appello, però, rigettava la domanda di riconoscimento della sentenza in questione e dei provvedimenti connessi in quanto veniva constatato che non era stato rispettato il diritto di difesa del convenuto e che la sentenza, come modificata, non era riconoscibile in base all’art. 64, lettera b) della legge n. 218/1995. Anche gli Ermellini arrivavano alla medesima conclusione, perché la sentenza straniera era venuta fuori da un procedimento che non rispettava le regole interne del nostro ordinamento e d’ordine pubblico. Infatti Tizio nella domanda di riconoscimento non aveva provato che l’atto introduttivo del giudizio di modifica nella legislazione straniera fosse stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si era svolto il processo e che, quindi, si era incorso in evidente violazione dei diritti essenziali della difesa del convenuto. Tizio si doleva del diniego di riconoscimento assumendo essenzialmente che non solo era mancata ogni pronuncia sulla sentenza, ma anche che non si era tenuto conto della particolare procedura prescritta dalla normativa californiana, per la quale era sufficiente la notificazione della modificata decisione e deduceva che la seconda fase del procedimento non necessitava di alcun contraddittorio, costituendo appendice solo eventuale della prima, subordinata all’inadempimento del debitore, sicché la mancata notifica dell’atto introduttivo non aveva comportato violazione del contraddittorio e del diritto di difesa. Ed infine secondo i giudici della Cassazione la natura e le peculiarità del caso giustificavano la compensazione per intero delle spese del giudizio di legittimità e non ricorrevano i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. Violenza alla persona, per reato occasionale si avvisa la vittima di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 11 aprile 2016 n. 14831. La vittima di un reato commesso con violenza sulla persona deve essere informata se al suo aggressore viene revocata o sostituita una misura cautelare, anche se con quest’ultimo non ha una relazione e la violenza subìta è occasionale. La Cassazione (sentenza 14831) estende ancora la tutela alle vittime della violenza di genere e lo fa a breve distanza dalla decisione con cui le Sezioni unite (sentenza 10959 del 17 marzo scorso)hanno chiarito che anche lo stalking rientra tra delitti commessi con violenza sulla persona, con conseguente diritto della persona offesa ad essere informata sulla richiesta di archiviazione. Nel caso esaminato i giudici respingono il ricorso contro l’inammissibilità della richiesta di revoca o trasformazione degli arresti domiciliari per consentire all’imputato di seguire un percorso di disintossicazione della droga. L’inammissibilità era scattata perché la stessa richiesta non era stata prima notificata alla vittima, come imposto dall’articolo 299 comma 3 del codice di rito. Onere che, secondo la difesa, non ci sarebbe stato visto che il reato era occasionale, mentre la tutela sarebbe circoscritta ai rapporti interfamiliari o affettivi. Su questa conclusione non poteva influire l’estensione dell’obbligo di notifica, in sede di conversione del Dl 93/2013 (cosiddetta legge sul femminicidio 119/20213) anche a misure diverse dall’allontanamento dalla casa familiare o dal divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. A parere della difesa si trattava, infatti, di interventi che non svelavano l’intenzione del legislatore di ampliare l’ambito di tutela, estendendolo anche ai delitti in cui alla violenza sulla persona non si accompagnava un pregresso legame autore-vittima. La Cassazione però non è d’accordo. I giudici ricordano che la legge 119/2013 attua, in parte, sia la direttiva 2012/29/Ue sui diritti, l’assistenza e la protezione delle vittime di reato, sia la Convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne e domestica, ratificata dall’Italia con la legge 77 del 2013. Un quadro con il quale si intende rafforzare l’informazione alle vittime a tutto campo. La direttiva europea impone di fornire informazioni dettagliate al fine di consentire alle parti offese di "prendere decisioni consapevoli in merito alla loro partecipazione al procedimento". Alla parte lesa, anche in base alla Convenzione di Istanbul, deve essere data notizia anche dell’eventuale evasione del suo aggressore. La Cassazione pur consapevole che una parte della giurisprudenza si muove proprio nel senso indicato dal ricorrente, escludendo dunque dalla tutela i reati occasionali, prende una strada diversa. E lo fa guardando proprio alla ratio della legge interna come a quella delle norme comunitarie internazionali che la "ispirano". Per i giudici il legislatore non ha inteso in alcun modo subordinare la tutela all’esistenza di rapporti pregressi. Nè è sostenibile, come pretendeva il ricorrente, che lo spostamento in una casa di cura non comporti una modifica della misura cautelare rispetto ai domiciliari. Non c’è calunnia se il fatto è vero di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 Corte di cassazione - Sentenza 5740/2016. Il portiere che denuncia l’amministratore per diffamazione relativamente a un fatto realmente accaduto, non può essere condannato per calunnia anche se il "fatto" non costituisce reato (Corte di Cassazione, sentenza n. 5740/2016). In base all’articolo 368 del Codice penale, è punito per il reato di calunnia "chiunque con denuncia, querela (...) incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato" con una pena che varia in base alla gravità del reato attribuito. Qualora, invece, il fatto attribuito ad una persona sia stato realmente commesso ma, pur se descritto nella querela come reato, non lo sia, il querelante non può essere condannato per calunnia se ha comunque riportato la verità. Questo il principio di diritto contenuto nella sentenza n. 5740 del 2016 della Corte di Cassazione penale, con la quale è stato accolto il ricorso di un portiere di uno stabile condannato, sia in primo che in secondo grado, per il delitto di calunnia. Il portiere, infatti, aveva denunciato per diffamazione l’amministratore per aver inserito nell’ordine del giorno di una futura assemblea i provvedimenti da adottarsi, nei confronti suoi confronti, accusato di aver occultato/aperto la posta di proprietà del condominio. Sosteneva il custode che in tal modo veniva ‹‹esposto personalmente al sospetto ed alla curiosità altrui, mettendo in dubbio la sua reputazione›› e di aver preso conoscenza del suo licenziamento, deliberato dall’assemblea, a seguito delle reiterate accuse, nei suoi confronti, da parte dell’amministratore. Quest’ultimo, a sua volta, lo querelava per calunnia. Per i giudici di legittimità, per il delitto di calunnia, è richiesta l’attribuzione a taluno di un fatto realmente accaduto ed inquadrabile come reato, nella consapevolezza dell’agente dell’innocenza dell’incolpato. Non integrerebbe, invece, il delitto di calunnia la denuncia di un fatto realmente accaduto ma non riconducibile ad alcuna norma incriminatrice, nonostante l’eventuale qualificazione prospettata dal denunciante sia quella di reato. In pratica, se si riporta un fatto realmente accaduto attribuito ad un soggetto inquadrato come reato e non lo sia, non si può essere condannato per calunnia se il fatto è vero. Un conto è riportare nella querela, come reato, anche se non lo è, un evento realmente verificatosi imputabile ad una persona, altro è attribuire ad un soggetto, con consapevole falsità, un reato che non ha commesso. Nella fattispecie, avendo il portiere-denunciante, per i contenuti esposti nell’accusa (l’ordine del giorno dell’assemblea e licenziamento), riportato comportamenti realmente accaduti e attribuiti a chi ne era stato l’autore, non poteva essere ritenuto colpevole di calunnia, pur spettando, poi, all’autorità giudiziaria verificare se il comportamento descritto in denuncia costituiva o meno un reato. Abuso d’ufficio per il medico intramoenia che non versa all’Asl le somme riscosse di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 Tribunale di Firenze - Sezione II penale - Sentenza 7 dicembre 2015 n. 4109. È configurabile il reato di abuso di ufficio per il medico libero professionista che esegue prestazioni in regime di intramoenia gratuitamente o senza rilasciare la relativa documentazione fiscale, omettendo di versare quanto dovuto all’Azienda sanitaria. Se la somma non versata è però irrisoria, il fatto è da considerarsi di particolare tenuità. Ad affermarlo è il Tribunale di Firenze con sentenza 4109/2015. I fatti - Protagonista della vicenda è un medico autorizzato a svolgere attività professionale libera intramoenia, il quale, tuttavia, a causa della limitatezza degli spazi disponibili nella struttura pubblica esercitava l’attività in uno stabile esterno. Da alcune indagini di polizia sorte in seguito alla segnalazione di un utilizzo illecito dei badge marcatempo, era emerso che uno dei due medici aveva effettuato visite specialistiche, nell’ambito dell’attività intramoenia, invitando la clientela a contattare direttamente le segretarie di studio, senza fare uso delle agende elettroniche messe a disposizione dall’Asl per la gestione delle prenotazioni, creando in tal modo i presupposti per ricevere il pagamento diretto delle prestazioni e omettendo di fatturare tali prestazioni e versare quanto dovuto all’Asl. Il medico veniva così tratto a giudizio per rispondere del reato di abuso d’ufficio. Le motivazioni - Durante il processo la gravità delle violazioni commesse dal medico veniva fortemente ridimensionata, riducendosi a soli sei incontri con una stessa paziente, due dei quali comprovati da ricevuta fiscale, altri due pagati 80 euro ciascuno senza il rilascio di ricevuta e altri due effettuati gratuitamente. A fronte di questo quadro fattuale, il Tribunale ritiene sì sussistente il reato di abuso d’ufficio, ma allo stesso tempo configurabile la nuova causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ebbene, affermano i giudici, "la riscossione di somme da parte del medico libero professionista per prestazioni effettuate in regime c.d. intramoenia senza il rilascio della relativa documentazione fiscale e senza il successivo versamento all’Azienda sanitaria delle somme così riscosse integra gli estremi di una condotta sanzionata dall’art. 323 c.p. perché il servizio medico risulta realizzato in violazione delle norme di legge e di regolamento che disciplinano il particolare servizio reso". E nel caso di specie, la violazione riguarda sia le norme regolamentari che impongono modalità di prenotazione specifiche delle visite mediche, sia quelle che disciplinano il pagamento delle prestazioni libero professionali. In particolare, quest’ultimo profilo è emerso con la scelta del medico di rendere due prestazioni completamente gratuite, rendendo impossibile di fatto il versamento all’Azienda sanitaria della percentuale prevista sul compenso percepito dal professionista. Tuttavia, posto che tale somma è pari ad un massimo del 5% del corrispettivo dovuto al medico e che la condotta ha riguardato poche visite con una sola paziente, sussistono gli elementi per ravvisare gli estremi della causa di archiviazione di cui all’articolo 131-bis c.p. Tortura, la legge che non c’è e l’orrore per il caso Regeni di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 12 aprile 2016 Se su Google scrivi "tortura" e poi clicchi "immagini", ti appare una vera e propria galleria degli orrori fatta di antiche stampe, illustrazioni, disegni, fotografie. Consiglio di farlo, per vedere con gli occhi dove è arrivato e per dove è passato l’uomo, la nostra specie prepotente così descritta in maniera magistrale nel saggio "Razzismo e noismo" di Luigi Luca Cavalli Sforza e Daniela Padoan. Consiglio di farlo e poi di firmare, come ho fatto io, una delle petizioni (di Antigone, Amnesty, Detenuto Ignoto...) perché in Italia sia inserito nel codice penale il reato di tortura. Perché da anni, nonostante un proliferare di leggi e leggine su qualunque cosa - da quella sui velocipedi che devono essere "alti al massimo metri 2,20", a quella sulla pesca sui trichechi - in parlamento non si riesce ad approvare una legge che preveda il reato di tortura. Questo nonostante le promesse e gli impegni di tanti, in prima battuta del Pd, che nel 2012 aveva promosso la campagna "una firma per tre giuste cause" (introduzione del reato di tortura, abolizione della ex Cirielli e abolizione del reato di immigrazione clandestina). Questo nonostante la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950, e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, all’articolo 3 scriva espressamente: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Non vorrei dirlo, neppure pensarlo, ma evidentemente un conto sono le parole, un altro i fatti. Forse scrollarci di dosso la necessità della violenza, della punizione, della tortura è più difficile di quanto si creda, quasi un patrimonio da difendere, come se fosse in qualche modo utile...quasi un deterrente. Una difesa dai cattivi, da parte di noi buoni...senza vedere che ad esempio la prigione di Abu Ghraib non ha certo sconfitto il terrorismo, e neppure sarà sconfitto da leggi eccezionali come quelle in vigore nella Francia di Hollande. Dunque firmiamo in tanti... Mi sembra il minimo. Il minimo anche alla luce di quell’orrore che ha patito Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano torturato e ucciso a Il Cairo, e rientrato a casa in una bara, con il volto quasi irriconoscibile anche per sua madre. Sinceramente non so con quale coerenza il nostro governo possa protestare per la tortura subìta da un proprio cittadino all’estero e chiedere verità e nello stesso tempo non prevedere e non approvare una legge contro la tortura in Italia. Un paradosso. Di nuovo la conferma che le parole sono solo parole. E che la verità, nel caso di Regeni, non interessa più di tanto, e che riempie i giornali e le tv forse solo per commuovere un po’. E spero con tutto il cuore di sbagliare. Certo, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni ha disposto il richiamo a Roma per consultazioni dell’ambasciatore a Il Cairo Maurizio Massari. Certo questo ha un significato. E altre azioni sarebbero in vista. Ma non basta, non può bastare in alcun modo. Perché non vorrei che fosse il solito teatrino tipo la tela di Penelope che di giorno si tesse e di notte si disfa. Il solito teatrino di chi predica bene e razzola male. Ma con che forza oggi il governo italiano pretende dall’Egitto giustizia e verità (e guai non farlo) se nello stesso tempo, ieri, gli ha venduto le armi? Forse le stesse armi che sono servite a torturare Regeni. Davvero possiamo credere che le armi servano a combattere i cattivi? Gli altri? Ricavo il dato dall’Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia), citato da Radio Popolare : "Nel 2014 il governo Renzi ha approvato la vendita verso Il Cairo di oltre 30 mila pistole prodotte in provincia di Brescia e nel 2015 di 3.661 fucili, per la maggior parte prodotti da un’azienda in provincia di Urbino. L’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea ad avere fornito nel biennio 2014-2015 pistole, revolver, fucili e carabine alle forze dell’ordine del governo di Al Sisi". Ma non è solo una questione di coerenza. In quanto a violenze e torture la stessa Italia non ha certo storie passate del tutto limpide o edificanti. Due esempi: il primo nel 2001 quando alla caserma Bolzaneto a Genova centinaia di giovani furono letteralmente torturati per giorni e giorni; il secondo nel 2003 quando agenti della CIA con la complicità dei nostri servizi rapirono a Milano e trasferirono in Egitto (guarda caso!) l’imam Abu Omar, anche lui poi torturato e seviziato. Due esempi che all’Italia sono costati la condanna da parte di Strasburgo. Non l’unica se poi pensiamo alla condanna della Cedu per i trattamenti disumani e degradanti nelle carceri.. o a quell’obbrobrio del 41 bis che da misura emergenziale ed eccezionale è diventata la quotidianità, anzi la norma, un simbolo intoccabile...ma concretamente il segno della tortura. Mi chiedo: forse è per questo, per questa nostra incapacità di riconoscere i nostri torti, che non si riesce ad approvare la legge contro la tortura? C’è un interessante saggio di Michele Cascavilla dal titolo "Diritti, persone, società" edito da Morcelliana, viaggio sui diritti umani intesi anche come categoria utile a contrastare oppressioni e dittature. Tra i pensatori citati si incontra Dietrich Bonhoeffer (di lui, di come è morto sotto tortura, ha parlato anche il teologo Vito Mancuso). Bonhoeffer, protestante sceso in campo in prima persona contro il nazismo ("non si può promettere il regno di dio se non sono soddisfatti i bisogni primari" appunto i diritti di libertà appunto i diritti universali dell’uomo), ci indica la strada che è quella dell’impegno e non della resa. In prima persona. Per non voltarsi dall’altra parte, per non stare a guardare le nefandezze e gli orrori. Perché bisogna fare, bisogna agire. Come a esempio una firma contro la tortura. In Italia, nel mondo. Affinché i diritti umani diventino fatti e non parole. Senza se e senza ma, validi sempre, per tutti, in ogni luogo, in ogni circostanza. Per evitare, come fa l’esaltato Kurtz di "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad, di renderci conto dell’orrore solo al momento della morte. O di non rendercene conto affatto come il nazista de "Il torto del soldato" di Erri De Luca. Con Davigo l’Anm punti a una doverosa separazione dei poteri di Luigi Labruna Il Mattino, 12 aprile 2016 In un momento di grande turbolenza politica nel Paese, innescata da (sacrosante) indagini giudiziarie, non è un segno di unità e di forza della magistratura l’ascesa per acclamazione del dottor Davigo alla presidenza dell’Anni. Il ricorso a questo metodo plebiscitario di votazione, talvolta inquietante e nella fattispecie inconsueto (lo Statuto dell’associazione prevede, all’articolo 21, che il presidente sia eletto "a maggioranza assoluta dei votanti" tra i componenti del Comitato direttivo centrale da tale organismo), non è certo illegittimo. Di fatto, però, ha inibito l’emergere limpido delle non poche differenziazioni esistenti tra i magistrati e copre le profonde rivalità e i duri contrasti che oppongono l’un l’altra le numerose correnti in cui è frazionata la magistratura. Situazione ben nota e di cui è prova ulteriore il compromesso "emergenziale" e "tutto politico" raggiunto tra i capi corrente - e immediatamente reso pubblico, a scanso di equivoci, dagli interessati - secondo cui, mentre il Comitato direttivo resta in carica quattro anni, la presidenza del noto pm milanese durerà un anno soltanto, dopo di che egli dovrà passare la mano a un esponente di una diversa fazione. Decisione, questa, a sua volta, inquietante, che certo non vale ad accrescere l’autorevolezza istituzionale del neopresidente e che (per fare un esempio banale) ricorda quella, altrettanto strana, adottata dai grillini per i presidenti dei loro gruppi parlamentari che ruotano, mi pare, ogni sei mesi. Davigo è, per fortuna, un magistrato ben noto, con la fama di uomo dòtto e intransigente guadagnata facendo parte attivamente, negli anni Novanta del secolo scorso, del gruppo di pubblici ministeri raccolti intorno al procuratore capo Borrelli e di cui era considerato "il dottor sottile", mentre Antonio Di Pietro ne era operativamente la punta di diamante o il piccone. Un gruppo di magistrati, quello, che, circondato da un favore popolare tumultuoso, ebbe il merito di scoperchiare e combattere senza pietà il malaffare e la corruzione dilagante soprattutto nel ceto politico e nei partiti. Cosa che determinò l’assunzione da parte dei giudici di "un ruolo obbiettivamente decisivo nella vita del Paese" e - son parole del procuratore generale della Cassazione Sgroi -costituì per la magistratura, "caricata di responsabilità anomale", l’avvio di "improprie supplenze" e il rischio di "uno stravolgimento della sua collocazione istituzionale". Il fatto che ora i magistrati si affidino (a termine) ad un magistrato tanto connotato è il segno, da un lato, della percezione di una rinnovata grave emergenza causata dal diffuso malaffare che sta facendo strame, a tutti i livelli, della vita pubblica del Paese e, dall’altro, della loro preoccupazione di avere come interlocutore istituzionale un capo del governo (e del pd) non più direttamente sotto schiaffo e che cerca di non essere coinvolto nei pasticci e negli affari poco limpidi dei suoi. Ed è astutamente pronto a ostentare, con indubbia capacità retorica, posizioni di apparente decisionismo, anche nel campo della Giustizia, volte a ripristinare un corretto rapporto tra i poteri dello Stato, in sintonia con un rilevante sentire comune ormai insofferente nei confronti della invasività, accompagnata non di rado da obbiettiva inefficienza, con cui questa opera. Opinione pubblica che, soprattutto, non sopporta più l’estrema durata dei processi, la straordinaria utilizzazione di intercettazioni eterne (effettuate per di più anche a strascico e dando spesso l’impressione di ricercare non, come stabilisce la legge, le prove di gravi reati di cui esistano già gli indizi, ma a scoprire l’esistenza di questi, anche se solo congetturati); la divulgazione continua di fatti così acquisiti, non di rado di mera natura pruriginosa e di non chiara rilevanza penale; le troppe inchieste, condotte con eccessivo clamore nei confronti di inquisiti o imputati eccellenti, che finiscono nel nulla (e non a causa della prescrizione) dopo aver causato danni irreparabili all’onore, alle carriere, alle famiglie, ai beni di innocenti. Lo scontro, si fa per dire, è immediatamente avvenuto. E mentre Renzi ancora pochi giorni fa - nel pieno della tempesta sugli affarismi e le volgarità relativi a Tempa Rossa che ha investito il suo governo e suoi fedelissimi - pronunciava parole baldanzose ("brr...che paura") immediatamente bollate dall’Anni come "inopportune" e "viziate da interesse di parte", vantandosi di voler riformare (anzi di aver già riformato) la Giustizia, di voler porre un freno alle intercettazioni e ripristinare un corretto rapporto tra politica (non più subalterna ai pm) e magistratura, è bastato che Davigo pronunciasse a sua volte parole più dure ("non ci sono governi amici", "pretendiamo rispetto") che subito il presidente del Consiglio ha fatto marcia indietro precipitandosi a rassicurare i giudici. "Non metterò mano alla riforma" ha giurato, forse incrociando le dita. Ha fatto naturalmente una pessima figura. E tutto è rimasto come prima, rivelando ancora una volta che, tra due poteri entrambi diversamente in crisi, la politica per ovvie ragioni continua ad essere sempre la più debole e inconcludente. La speranza è che le rassicurazioni di Davigo (innanzitutto: "Nessuno si è sognato dimettere in discussione il potere legislativo") trovino totale riscontro nella realtà. Soprattutto che il rispetto che giustamente egli invoca sia un rispetto non a senso unico. E sia la premessa per eliminare imbarazzanti commistioni tra magistrati e politica che abbondano e durano. E che ispiri la sua opera di presidente della associazione dei magistrati non solo (e più che) al Vangelo, di cui ha parlato in qualche intervista, alla Costituzione della Repubblica, a cui è certamente, son sicuro, egualmente fedele. E che almeno, grazie alla sua forte guida, l’Anm si avvalga sino in fondo degli strumenti associativi (eticamente obbliganti) che ha disposizione (e non sono pochi) per evitare che propri associati continuino a fare politica, ad accettare di ricoprire, da magistrati (magari in aspettativa) cariche dalla chiara valenza politica, a candidarsi dappertutto e a tornare a fare i giudici subito dopo essere stati parlamentari, sindaci, assessori in città in cui sino alla vigilia hanno fatto i pm e così via. E che spenda tutto il suo (rilevante) peso politico e la sua giusta influenza per sostenere in ogni sede non solo le ragioni corporative di cui correttamente si fa paladina ma, in primo luogo, le ragioni di una doverosa separazione dei poteri realizzata effettivamente e non a chiacchiere come è avvenuto sinora. Friuli Venezia Giulia: aperta prima sezione carceraria per detenuti omosessuali di Anna Dazzan Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2016 Il Provveditore Sbriglia: "decisione presa a fin di bene". Il Garante Roveredo: "così si costruiscono nuovi ghetti". Il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, Enrico Sbriglia, giura che la decisione è stata presa a fin di bene. Eppure la scelta di aprire per la prima volta in via istituzionale una sezione per omosessuali nel carcere di Gorizia, ha acceso una grande polemica tra chi pensa che questa sia una certamente una ghettizzazione bella e buona, chi denuncia che le strutture italiane non siano adeguate per mancanza di personale e chi, il Provveditorato appunto, ritiene che sia un atto dovuto "per non aggiungere ulteriori difficoltà a chi si trova già in un’oggettiva situazione di disagio". Ma ormai la sezione è attiva e anche se non può essere una decisione messa nero su bianco in ragione del codice dell’ordinamento penitenziario, i suoi toni tendono decisamente al grigio scuro. "C’è un principio generale da cui non si può prescindere nel raggruppamento dei detenuti, ma è altrettanto vero che ogni decisione viene presa nel rispetto del principio più importante enunciato all’articolo 1 del codice, ovvero il criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". Quello che il Provveditore Sbriglia vuol dire, è che le uniche separazioni assicurate dal codice penitenziario sono quelle degli imputati dai condannati, dei minori di venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione. Oltre che, ovviamente, a quella tra uomini e donne. Ma se anche è cosa nota che esistono "situazioni analoghe come le stanze riservate ai transessuali a Roma e Napoli (Rebibbia e Poggioreale, oltre alla sezione gay a Belluno, ndr)", questa è la prima volta che la divisione assume una conformazione istituzionale. E lo fa, al netto delle molte critiche, su esplicita richiesta degli stessi detenuti che si dichiarano omosessuali all’atto della carcerazione e che fanno domanda di trasferimento alla luce di comprovate situazioni discriminatorie e di violenza. Inoltre Gorizia non è stata scelta a caso. "È da tempo che stiamo ragionando su come far fronte a una difficoltà oggettiva. Il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto ha pensato a un posto che vantasse un alto grado di civismo, e il capoluogo isontino è parso adeguato". Proprio quello di Gorizia, però, agli occhi del Garante territoriale per i diritti dei detenuti Pino Roveredo, è il carcere meno adatto per iniziare un percorso simile. "È la prima volta che viene istituita ufficiosamente una sezione per omosessuali in Italia: se il principio di assicurare giusta dignità a tutti è assolutamente giusto, non capisco però perché sia stata scelta, senza che fossero interpellati i soggetti preposti alla tutela dei detenuti, una struttura fatiscente e con un organico sottodimensionato come quella di Gorizia, dove gli stessi detenuti gay erano costretti in un sotterraneo con catena e lucchetto". Calabria: le mamme di ‘ndrangheta fanno togliere i figli ai boss di Luciano Gulli Il Giornale, 12 aprile 2016 In Calabria circa 30 ragazzi sono stati allontanati dalla famiglia mafiosa. A chiederlo ai giudici le madri, per salvarli da un destino criminale segnato. Prima una isolata, una paccia, pazza. Poi un’altra, anche lei fatta passare per "pazza". La terza di lì a poco. Infine, quando si sono contate, all’inizio dell’anno, hanno scoperto di essere già 25, tra la Piana e la Locride. Venticinque mogli di ndranghetisti, madri di una trentina di ragazzi non ancora maggiorenni che in capo a tre anni (dal 2012) hanno fatto tutte la stessa scelta rivoluzionaria: allontanare i figli dalla famiglia prima che fossero "arruolati"; sottrarli al destino dei padri (in carcere, o morti ammazzati) sfilandoli dal "contesto" e mettendoli nelle mani della Giustizia: quella dei giudici e dei Tribunali: i "nemici", visti col cannocchiale delle ndrine. Giudici ai quali le mamme di ndrangheta, sfidando l’ira dei mariti e la cultura omertosa dell’ambiente in cui esse stesse sono diventate grandi, hanno chiesto provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale. Non una confisca dei figli, avviati a una deportazione coattiva, ma un’opportunità. Rinunciare temporaneamente ai figli per allontanarli dall’area del contagio, regalandogli un destino formidabile: quello di diventare ragazzi normali, senza virgolette; ragazzi che studiano o lavorano, con un avvenire davanti, non dietro le spalle. Sono andate a chiedere aiuto di nascosto, da sole, sfidando quello che da queste parti, fatalisticamente, si chiama "destino". Madri contro le ndrine. Una roba mai vista. Una crepa in un mondo che sembrava monolitico, impenetrabile, ma che si allarga silenziosamente seminando il più inaudito dei dubbi all’interno di un tessuto sociale che dubbi non ne aveva, sul fatto che "valesse la pena". Un sovvertimento di valori in piena regola, come una brutta scossa di terremoto. Col carcere non più visto come una "medaglia al valore" di cui andare fieri; ma come la più colossale delle fregature, come può esserlo solo la perdita della libertà. Merito della credibilità che si è saputo conquistare Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria dal 2011. E dei risultati che, anno dopo anno, sono arrivati. La maggior parte della trentina di ragazzi affidati al Tribunale sono stati allontanati dalla Calabria. E sempre più spesso, scrive Eleonora Delfino sulla Gazzetta del Sud, chiedono un sostegno per continuare a vivere lontano. Si diffonde la consapevolezza virtuosa, condivisa, di un mondo che ignora la paura di cadere in un’imboscata della cosca rivale, o di imbattersi nella tagliola dei carabinieri. Molti continuano o hanno ripreso a studiare; alcuni hanno trovato impiego in quei lavori socialmente utili che talora si rivelano davvero utili, socialmente. Frequentano associazioni di volontariato che promuovono la legalità, lavorano di concerto con psicologi e pedagogisti, scoprono infine il mondo degli "altri", di chi vive normalmente del suo lavoro, di chi progetta sui libri un futuro lontano dalle scorciatoie che la famiglia aveva apparecchiato per loro. Una buona notizia dal Sud, finalmente. Anche se il lavoro svolto fin qui dal Tribunale dei minori potrebbe essere messo in forse da una riforma, già votata dalla Camera e ora in discussione al Senato, che riduce l’autonomia di gestione del Tribunale per i minori, accorpandolo e trasformandolo in un’appendice del Tribunale ordinario. Non più una struttura a sé stante, come è stato finora, ma una "sezione specializzata per la persona, la famiglia e i minori". Sembra solo una questione semantica, lessicale, vero? Ma il sospetto che prevalga la perversa logica aziendale della spending review è più che concreto. Abruzzo: finalmente domani si eleggerà il Garante dei diritti dei detenuti abruzzoindependent.it, 12 aprile 2016 Questa "saga" sta andando avanti da oltre un anno: servono 21 voti, cioè i 2/3 dell’assemblea, per eleggere un nome tra diciassette validi curricula- Finalmente il Consiglio regionale, convocato in seduta ordinaria per mercoledì 13 aprile alle ore 14.00, procederà all’elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. O almeno è quello che si sospetta dato che all’Odg c’è solo questo punto oltre l’elezione dei componenti del Collegio regionale per le Garanzie Statutarie e, come stabilito dalla Conferenza dei Capigruppo, l’aula esaminerà i progetti di legge eventualmente licenziati dalle Commissioni consiliari. Come è noto alle cronache la vicenda del Garante sta assumendo contorni quantomeno contorti. Tutti i partiti politici si sono sperticati per Rita Bernardini, 63 anni, ex onorevole della Repubblica Italiana e già segretario dei Radicali italiani ma la sua elezione sembra essere ostacolata da alcune presunte condizioni di incandidabilità. Nel frattempo sono stati accolti dai capigruppo solamente alcuni candidati mentre gli altri, nonostante il curriculum di valore, non sono stati nemmeno presi in considerazione pur essendo la nomina del Garante una procedura pubblica. Oltre alla Bernardini in lizza ci sono altri nomi: Paolo Albi, ex consigliere comunale di centrodestra a Teramo; Giorgio Lovili, ex segretario generale del Comune dell’Aquila; Manlio Madrigale del centro di Civicrazia di Chieti; Gianmarco Cifaldi, docente di Sociologia all’Università d’Annunzio di Chieti-Pescara; Rosita Del Coco, docente di Diritto penitenziario a Teramo; Carlo Di Marco, docente di Scienze politiche a Teramo; Antonio Di Biase, docente di Diritto civile all’Università di Foggia; Marco Manzo, editore, giornalista de Il Fatto Quotidiano e presidente di PiùAbruzzo; Francesco Lo Piccolo presidente Voci di Dentro; Fabio Nieddu, responsabile della Croce Rossa di Pescara; Ariberto Grifoni, Danilo Montinaro, psichiatra; Fiammetta Trisi, direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Pescara; l’avvocato Salvatore Braghini. Vista la confusione che si è ingenerata vale, infatti, la pena ricordare che il Garante viene scelto secondo parametri di riferimento precisi e che vale la pena di leggere e ricordare: a) tra coloro che abbiano svolto attività di grande responsabilità e rilievo in ambito sociale e che conoscano a fondo le problematiche della reclusione e del rapporto mondo esterno-mondo interno, con attenzione particolare al dettato costituzionale del reinserimento dei detenuti; b) tra personalità con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, scienze sociali e dei diritti umani e con esperienza in ambito penitenziario; c) tra professori universitari ordinari di materie giuridiche o sociali e che abbiano svolto ricerche sulle tematiche penitenziarie e detentive; d) tra personalità di alta e riconosciuta professionalità o che si siano distinte in attività di impegno sociale; e) tra coloro che hanno ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilità e rilievo e che hanno una indiscussa e acclarata competenza nel settore della protezione dei diritti fondamentali, con particolare riguardo ai temi della detenzione. Ecco, qual è la figura che risponde a tutti questi requisiti? Leggendo attentamente i curricula e verificando nei fatti e la concretezza il "materiale umano" che si ha a disposizione si arriverà ad individuare la figura più idonea per dare la risposta alle grida del silenzio che provengono da dentro le celle degli istituti di pena abruzzesi. Dolore che oggi, purtroppo, sembra essere passato in secondo piano rispetto alle logiche politiche ed alle strane decisioni che si stanno prendendo per individuare il Garante dei Detentuti in barba al buon senso, forse anche alla legalità - ricordiamoci sempre che si tratta di procedura pubblica e che dunque non è che si possono convocare alcuni ed altri no senza fornire almeno delle spiegazioni - e che sotto gli occhi di tutti, persone libere, di legge e semplici curiosi osservatori della realtà. Bologna: terrorismo, dalla Procura massima attenzione alle carceri Corriere della Sera, 12 aprile 2016 Per prevenire il proselitismo jihadista. Giovannini: "Detenuti per reati comuni potrebbero radicale la propria posizione se incrociano forti personalità". La Procura antiterrorismo di Bologna presta la massima attenzione alla presenza e al comportamento di detenuti di religione musulmana nelle carceri dell’Emilia-Romagna. Obiettivo, prevenire di fenomeni di proselitismo jihadista. "Più di un terzo della popolazione carceraria alla Dozza di Bologna proviene da Paesi del Nord Africa e quindi si presume siano di fede musulmana. Una percentuale altrettanto elevata si riscontra negli altri istituti della regione", ha spiegato il procuratore aggiunto coordinatore del gruppo "terrorismo", Valter Giovannini. Rispondendo ad una domanda sulle parole del procuratore nazionale antiterrorismo Franco Roberti, sulla possibilità di un reclutamento in carcere, Giovannini si è soffermato sul "delicatissimo ruolo della polizia penitenziaria, con cui siamo in costante contatto: potrebbero infatti essere i primi a cogliere atteggiamenti o un cambio di atteggiamenti da parte dei detenuti, il cui significato potrebbe essere degno di attenzione investigativa". Per Giovannini, infatti, "come in passato avvenne col terrorismo nostrano, fenomeno peraltro estremamente diverso, potrebbe accadere lo stesso nelle carceri, dove spacciatori o altri detenuti per reati comuni potrebbero radicalizzare le proprie condotte, se incrociano persone con la loro fede e con forti personalità". Un altro aspetto da non sottovalutare, appunto, è quello di monitorare "chi può avere una posizione di supremazia nei confronti di altri detenuti, già praticanti o convertiti". I rappresentanti delle comunità islamiche "spesso sono indicati dal basso, e questo crea il problema di capire chi può assumere posizioni di leader culturali all’interno di una situazione chiusa: al momento, per quel che ci risulta, non ci sono accessi autorizzati di imam, così come sono autorizzati invece rappresentanti di altri culti". Il gruppo "terrorismo", in ogni caso "è impegnato nella prevenzione con le forze dell’ordine e sulla individuazione e repressione di eventuali comportamenti di radicalizzazione di natura anche potenzialmente violenta". Busto Arsizio: il carcere, da vergogna a modello di Marco Corso varesenews.it, 12 aprile 2016 Due nuove sezioni, acqua calda e nuovi percorsi di reinserimento. Ecco come, a tre anni dalla condanna per trattamento inumano, il carcere di Busto sta cambiando. Era diventato l’emblema di un sistema carcerario insostenibile: celle da 9 metri quadri con tre detenuti, 20 ore su 24 chiusi in cella e bagni senza doccia o acqua calda. Ma oggi, a tre anni dalla condanna della Corte Europea per i diritti dell’uomo, il carcere di Busto Arsizio è profondamente cambiato al punto di diventare un modello per l’intero sistema carcerario. Dallo scorso novembre sono state aperte due nuove sezioni dell’istituto "che offrono celle più ampie - spiega il direttore, Orazio Sorrentini - con bagni interni e acqua calda e ospitano solo due detenuti" mentre nel frattempo i lavori stanno continuando anche nelle altre sezioni: "stiamo realizzando docce in tutte le celle, sostituendo le turche dei bagni con i water". In più "entro l’estate dovremmo concludere i lavori nella vecchia sezione per i collaboratori di giustizia -continua Sorrentini- che ospiterà nuove aule per la rieducazione, per la scuola e anche una palestra". Tutti lavori che da un lato stanno migliorando le condizioni di vita dei detenuti, ponendo le basi per nuovi percorsi di reinserimento sociale, e dall’altro hanno avuto immediati miglioramenti nella gestione del carcere: "c’è un meccanismo meritocratico per accedere ai posti delle nuove celle -precisa Sorrentini- e questo ha ridotto violenze, risse e anche gesti di autolesionismo". Un intervento molto vasto che è stato accompagnato anche da una riduzione del sovraffollamento. "Oggi abbiamo complessivamente 350 detenuti con una media di 48 uomini per sezione - racconta il comandante della Polizia Penitenziaria, Antonino Rizzi - ma in passato i detenuti erano arrivati ad oltre 400 con una media di 73 persone". Una condizione inaccettabile che oggi ha compiuto "una tappa fondamentale nel processo di umanizzazione del carcere che ha consentito un recupero e una migliore vivibilità anche nella sorveglianza". Un miglioramento reso tangibile dal fatto che i letti a castello con tre brande, quelli che erano diventati un po’ l’emblema dell’insostenibile situazione della casa circondariale, sono stati smantellati in praticamente tutte le celle. Ed è così con una punta di orgoglio che il carcere ha aperto le sue porte per mostrare quanto lavoro è stato fatto in questi anni con una cerimonia di inaugurazione delle nuove sezioni alla quale -oltre agli onorevoli e senatori Bignami, Comi, Candiani e Gadda - ha preso parte anche il vicepresidente della commissione giustizia della camera, Franco Vazio. "Noi abbiamo vissuto per troppo tempo in un sistema al collasso in cui periodicamente indulti e amnistie alleggerivano la situazione - ha spiegato - ma da quella condanna abbiamo finalmente intrapreso un percorso diverso" che non punta più a soluzioni tampone ma che invece "sta agendo concretamente sulle strutture di pena". E in questo percorso "anche se molto c’è ancora da fare, Busto Arsizio segna la strada giusta da seguire". Un carcere che era diventato una vergogna nazionale e che adesso diventa un modello virtuoso. Biella: Sonia Caronni nominata Garante comunali dei diritti dei detenuti newsbiella.it, 12 aprile 2016 L’ordinanza firmata nei giorni scorsi dal Sindaco Marco Cavicchioli ha ufficializzato la nomina di Sonia Caronni come garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Laureata in giurisprudenza, specializzata in criminologia, Sonia Caronni si occupa dal 1998 di progetti legati alla detenzione e al reinserimento nella società di chi sta scontando una pena. "Ho sempre pensato al carcere come a una parte della comunità" spiega. "Per questo ho presentato la mia candidatura per questo ruolo. Svolgerò questo compito secondo due linee di azione fondamentali: costruire ponti tra il carcere e la comunità, per far sì che una volta fuori gli ex detenuti possano reinserirsi nella società, e tutelare i diritti fondamentali delle persone anche in condizioni di detenzione". La nomina di Sonia Caronni, resa effettiva dall’ordinanza firmata da Marco Cavicchioli, era stata sancita dalla votazione in consiglio comunale nella seduta di marzo. "Con la creazione di questa figura" sottolinea Francesca Salivotti, assessore ai servizi sociali, "non solo ci aggiungiamo all’elenco dei Comuni che già l’hanno istituita, ma facciamo un passo in avanti verso le pari opportunità e la tutela dei diritti". La Caronni è contattabile via mail all’indirizzo garante.detenuti@comune.biella.it. Bolzano: nuova evasione da un permesso-premio e situazione interna sempre più tesa di Mario Bertoldi Alto Adige, 12 aprile 2016 Come qualche giorno fa, il detenuto non è rientrato da un permesso premio. Situazione interna sempre più tesa: lunedì mega rissa con tentativo di suicidio. Nuova evasione dal carcere di Bolzano. A pochi giorni da un caso analogo, ancora una volta è stata la gestione dei cosiddetti permessi premio a far scattare l’allarme. Domenica sera non è infatti rientrato un magrebino in stato di detenzione per spaccio di sostanze stupefacenti. Nei giorni precedenti aveva chiesto di poter usufruire di un permesso per buona condotta. Su parere favorevole della direttrice della struttura, il permesso è stato accordato dal magistrato di sorveglianza ma il detenuto (messo in libertà alle 9 di domenica mattina con obbligo di rientro entro le 21 della stessa giornata) si è guardato bene dal presentarsi. Il giorno successivo è stata segnalata l’evasione ed ora il caso è nelle mani delle forze dell’ordine. Nel frattempo non è stato più rintracciato il cittadino nomade evaso qualche giorno fa sempre grazie ad un permesso senza scorta della polizia penitenziaria, nonostante avesse un residuo pena da scontare di oltre quattro anni. Intanto all’interno del carcere bolzanino la situazione è sempre più tesa. L’affollamento è nuovamente aumentato dopo un periodo relativamente tranquillo e per gli agenti della polizia penitenziaria il lavoro è sempre più duro. In questo periodo i detenuti rinchiusi nella vecchia struttura di via Dante sono 110, ben oltre dunque il limite delle 90 unità che dovrebbe essere rispettato. In realtà il carcere bolzanino è sempre più spesso utilizzato anche per risolvere problemi di sicurezza di altri carceri italiani. È proprio per motivi di sicurezza che le autorità competenti a volte decidono di utilizzare la struttura carceraria bolzanina per alleggerire situazioni preoccupanti in altre carceri del nord. Il fatto è che la situazione sta diventando molto tesa anche nel carcere di Bolzano ove l’altra notte, ad esempio, sono arrivati a Bolzano cinque detenuti trasferiti dalle carceri di Padova, Verona e Torino (ove creavano problemi a ripetizione). Che la situazione nella struttura carceraria bolzanina sia ad un livello di guardia è confermato anche da due episodi avvenuti ieri. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno infatti dovuto intervenire per sedare una rissa scoppiata tra una trentina di magrebini, alcuni dei quali sono rimasti leggermente contusi. E sempre gli agenti di polizia penitenziaria sono riusciti a scongiurare un tentare di suicidio. Un detenuto ha infatti tentato di impiccarsi utilizzando delle lenzuola annodate alle sbarre della finestra. Salito su uno sgabello in cella, si è lasciato andare ma è stato sorretto appena in tempo. Milano: i detenuti consegnano al Papa 12 mila ostie prodotte in carcere Redattore Sociale, 12 aprile 2016 Dopo aver scritto una lettera a papa Francesco, inviandogli le ostie da loro realizzati, oggi gliele hanno consegnate direttamente, partecipando all’udienza in piazza san Pietro. Cristiano, Ciro e Giuseppe sono tre dei quattro detenuti di Opera coinvolti nel progetto "Il senso del pane", promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Il 17 gennaio il papa Francesco li aveva ringraziati in mondovisione durante l’Angelus, per le ostie che gli avevano donato. Ostie prodotte all’interno del carcere di Opera da quattro detenuti, coinvolti nel progetto "Il senso del pane", promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Oggi Cristiano, Ciro e Giuseppe hanno preso parte all’udienza papale in piazza San Pietro e hanno consegnato direttamente nelle mani del Papa oltre 12 mila ostie, che il Santo Padre ha promesso di consacrare in una delle prossime messe da lui celebrate. E ha scritto e consegnato loro un biglietto, salutando loro e tutte le persone che lavorano nel carcere di Opera, assicurando a tutti la sua benedizione e chiedendo, come è sua abitudine, di pregare per il suo ministero. "Per noi è un’emozione grandissima - spiega Ciro, condannato all’ergastolo per omicidio - Abbiamo donato al Santo Padre il frutto del nostro lavoro e della nostra redenzione. Gesù, presente con il suo corpo nell’Eucaristia, ci ha cambiato il cuore, e oggi possiamo testimoniare a tutti che la Misericordia di Dio è possibile per tutti, non soltanto per chi, come noi, ha commesso dei crimini orrendi". Avviato cinque mesi fa, "Il senso del pane" ha raggiunto oltre 200 parrocchie, in Italia e nel mondo: le ostie vengono donate gratuitamente a chi ne fa richiesta, mandando una mail all’indirizzo ilsensodelpane@gmail.com. Attualmente, sono state inviate in tutti e cinque i continenti e in alcuni scenari di guerra o in Paesi che vivono realtà difficili, come Nicaragua, Kurdistan iracheno, Libano, Gerusalemme, Cuba, Sri Lanka. Insieme ai tre detenuti di Opera, sono stati ricevuti dal Papa anche Santi Consolo, capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giacinto Siciliano, direttore dell’Istituto penitenziario di Opera, Amerigo Fusco, Comandate della polizia penitenziaria del carcere, Arnoldo Mosca Mondadori ed Emanuele Vai, della Casa dello Spirito e delle Arti, e Marcella Reni, presidente di "Prison Fellowship Italia Onlus" che, attraverso il progetto "Sicomoro", segue i detenuti nel loro percorso di introspezione e presa di coscienza. Catania: "Il dentro e il fuori", una mostra per i giovani detenuti siciliajournal.it, 12 aprile 2016 Martedì 12 aprile, alle ore 15.30, presso l’Istituto penale per minorenni, sarà inaugurata la mostra itinerante "Il dentro e il fuori: la psichiatria incontra il carcere" di Totò Calì. L’appuntamento è organizzato dal Modulo Dipartimento salute mentale n. 4, con il contributo del Rotary Club Catania Ovest; il patrocinio della sezione regionale della Società Italiana di Psichiatria, dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Catania, del Comune di Catania; e la collaborazione di Cipia Catania 1, Cnos-Fap, Cirpe Catania e del Liceo artistico "M. M. Lazzaro" di Catania. Saranno presenti la dott.ssa Maria Randazzo, direttore l’Istituto penale per minorenni di Catania; il dr. Giuseppe Giammanco, direttore generale dell’Asp di Catania; la dott.ssa Maria Francesca Pricoco, presidente del Tribunale per i minori di Catania. Parteciperanno le autorità politiche e civili cittadine. "Portare i disegni di Totò Calí in un reparto di psichiatria, in una scuola e oggi in carcere - spiega il dr. Carmelo Florio, direttore del Modulo DSM 4 - vuole essere, nelle nostre intenzioni, sollecitazione e spunto per riflettere sul tema della sofferenza mentale e del pregiudizio. Il "dentro e il fuori" può costituire tema trasversale di riflessione e forse anche di provocazione per favorire l’incontro tra mondi apparentemente diversi ma più vicini di quanto possa sembrare". La mostra, presentata il 19 dicembre 2013, è stata già esposta presso il padiglione 19, psichiatria, del P.O. "Vittorio Emanuele" dell’AOU "Policlinico-Vittorio Emanuele"; è quindi transitata, dal 27 al 31 maggio 2014, presso l’Istituto comprensivo "Campanella-Sturzo" di Catania e adesso varca la soglia di un Istituto penale. "La partecipazione al progetto dei ragazzi dell’Istituto è stata un’occasione preziosa per riflettere sulla loro condizione e per proiettare all’esterno i desideri più profondi e sinceri - afferma la dott.ssa Randazzo -. Attraverso i disegni, gli elaborati pittorici ed artistici, aiutati da educatori, docenti e volontari i ragazzi si sono confrontati sulla tema della "diversità" e hanno avvertito di essere parte di un progetto più ampio, che ha coinvolto altri servizi (la psichiatria, la scuola). L’allestimento della mostra - aggiunge la dott.ssa Randazzo - è un evento vissuto con molta partecipazione, perché consentirà ai ragazzi dell’Istituto di condividere il loro impegno con altri ragazzi, nello specifico con gli alunni delle scuole che verranno a visitare la mostra, e d’essere apprezzati per quello che sono realmente: semplicemente giovani che cercano di costruire un futuro migliore". La mostra resterà aperta fino al 18 aprile. Totò Calì (Roma 1968) vignettista del quotidiano "la Sicilia". Ha collaborato con la RAI e Teletna, ha esposto le sue opere in diverse personali di pittura ed è autore teatrale. Ha pubblicato: Sgorbi Quotidiani (Greco 1989), I figli (degli altri) sono la gioia della casa (Greco 1999), la Tosca e la Carmen a fumetti per il teatro Massimo Bellini di Catania (Lapislazzuli 1999), il Talebook (Greco 2001), Litterio - le nuove avventure (Greco 2004) e per i nostri tipi l’Odissea (una storia schizzata) (2003). Ha portato in teatro Il grande Bianco per il teatro Stabile di Catania. Milano: "In Galera", cena gourmet servita nel ristorante di Bollate di Marta Calcagno Baldini Il Giornale, 12 aprile 2016 Nell’istituto penitenziario un ristorante aperto al pubblico dove lavorano i reclusi. All’arrivo c’è un ampio parcheggio dove lasciare la macchina. Lo spazio non manca, tutt’intorno ci sono fabbriche e capannoni industriali. Il tavolo, prenotato da dieci giorni (questa era la prima data disponibile), ci attende per le 20.30, ma è necessario arrivare con almeno mezz’ora d’anticipo. Dopo aver superato un pesante cancello a sbarre e una porta di ferro, si comunica all’agente che si sta andando "In Galera". Ci viene chiesto di accomodarci qualche minuto in sala, a breve ci verranno a prendere. Non si può camminare da soli perché ci si trova nel Carcere di Bollate, attualmente diretto da Massimo Parisi dopo Lucia Castellano che è succeduto a Luigi Pagano. La II Casa di Reclusione di Milano-Bollate è una struttura a custodia attenuata dove i detenuti si prestano ad avviarsi per un percorso individuale che li porti alla responsabilizzazione: sta alla Direzione garantire le opportunità di reinserimento, sta ai carcerati la capacità di vivere l’esperienza all’interno di Bollate come un’occasione anche per imparare un lavoro. "In Galera", infatti, è il ristorante che qui ha aperto a ottobre: "Si tratta di un progetto unico oggi in Italia - spiega Silvia Polleri, che dal 2004 è responsabile e fondatrice con detenuti ed esterni della cooperativa sociale di catering abc la sapienza in tavola e ora dirige il ristorante- Dopo che per 11 anni ho coccolato la buona borghesia milanese con la cucina a ricevimenti vari, Luigi Pagano e Lucia Castellano mi hanno coinvolto nel lavoro di Bollate. Prima con lesperienza del catering e ora anche con il ristorante". La sala è piena, e arredata con gusto e allegria: certo, le finestre sono sbarrate, ma non è un disturbo. Le grandi firme del design italiano di Alessi, Artemide e Pedrali hanno curato arredo e illuminazione. Anche Ferrero, l’azienda alimentare dolciaria di Alba che ha inventato la Nutella, ha creato per il ristorante un barattolo della crema di noci che sull’etichetta porta la scritta "In Galera" al posto del nome del prodotto. E presto ci si accorge che l’autoironia regna sovrana: su tutte le pareti si trovano stampati in grande formato i manifesti di film come "Fuga da Alcatraz", "In fuga per la vittoria" e altri. Il menù prevede antipasti, primi e secondi piatti, oltre a dolci, tutti di ricette italiane, anche in parte elaborati in modo fantasioso. Lo chef Ivan Manzo e il maître Massimo Sestito sono professionisti esterni, e si occupano della formazione del personale, che è regolarmente assunto e stipendiato all’interno del carcere. Dopo il bicchiere di spumante di benvenuto assaggiamo con gusto un risotto ai finferli, secondo di pesce e come dessert un tortino di cioccolato fondente. Soprattutto colpisce il servizio veloce e allo stesso tempo elegante: "Ne ho combinate di tutti i colori - ci risponde Said, 37 anni. Sono qui da 4 anni e da 3 lavoro nel ristorante: certo, qui si sta benissimo... ma la libertà non ha prezzo". Parma: evade dalla Rems di Casale di Mezzani, caccia all’uomo tra le polemiche La Repubblica, 12 aprile 2016 Lo scorso luglio ha accoltellato alla gola un connazionale a Piacenza ma è stato assolto dall’accusa di tentato omicidio perché incapace di intendere e di volere. Wajdi Axyi non sarà un soggetto imputabile, ma è di certo pericoloso. È lui il 30enne tunisino evaso dalla Rems di Casale di Mezzani mercoledì notte, appena dopo essere stato trasferito dal carcere di Piacenza: è ristretto per il tentato omicidio di un connazionale. Lo scorso primo luglio il giovane accoltellò alla gola un nordafricano 48enne nel bar Sport di via Alberino a Piacenza. Il caso riscosse una certa eco, anche a livello nazionale, perché inizialmente si parlò di un movente religioso: l’aggressore avrebbe avuto una lite con il conoscente perché quest’ultimo non rispettava i precetti del Ramadan. Gli sferrò un fendente al collo con un coltello da macellaio e si diede alla fuga, per venire bloccato dopo poche ore dalla polizia quando si stava già organizzando per lasciare Piacenza. La vittima venne ricoverata in gravi condizioni. Lo scorso 28 febbraio per Wajdi Axyi è stata pronunciata una sentenza di assoluzione dall’accusa di tentato omicidio: la perizia psichiatrica richiesta dalla difesa e affida dal tribunale al consulente Filippo Lombardi ha accertato che il tunisino, già seguito dai servizi psichiatrici, era totalmente incapace di intendere e di volere al momento dell’aggressione. Vista la sua pericolosità sociale, i giudici lo hanno dichiarato non imputabile e ne hanno disposto il ricovero in una Residenza per l’esecuzione della misure di sicurezza, strutture psichiatriche istituite in seguito alla legge che abolisce gli Opg. Axyi era stato da poco trasferito nella Rems di Casale di Mezzani quando è riuscito a uscire nel cortile e ad aprirsi un varco nella recinzione. Da allora nessuno ne ha più avuto notizia: le autorità non hanno diffuso né informazioni sull’evasione, né sull’evaso. Una decisione dettata dalla privacy, pare, ma che non ha mancato di suscitare forti polemiche sulla sicurezza. È più importante la privacy e l’esigenza di non creare allarmismo che la necessità di catturare un soggetto pericoloso e violento? Intanto le ricerche di Axyi sono diramate a livello nazionale: è probabile che il soggetto abbia lasciato la provincia di Parma, probabilmente con l’aiuto di complici. Parma: fuga detenuto dalla Rems, il direttore Pellegrini "unico evento critico" di Maria Chiara Perri La Repubblica, 12 aprile 2016 Il dirigente del Dipartimento salute mentale dell’Ausl spiega che saranno adottate misure per migliorare la sicurezza della Residenza di Casale di Mezzani, senza snaturare la sua funzione di cura: "I rischi non sono azzerabili". "Il male non è confinabile". Per quanto l’opinione pubblica sia portata a pensare che basti rinchiudere i delinquenti e buttare via la chiave per risolvere il problema della criminalità, questa è una visione semplicistica e irrealistica. La pensa così Pietro Pellegrini, direttore del Dipartimento assistenziale integrato salute mentale dell’Ausl di Parma, da cui dipende la Rems di Casale di Mezzani. In questi giorni di polemiche dopo la fuga di un ristretto, il dirigente interviene per spiegare come si lavora nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza istituita proprio un anno fa nel parmense: "Non vogliamo che si annulli tutto un percorso importante e complesso per un unico evento critico". La fuga di Wajdi Axyi è la prima che si verifica a Mezzani, però gli allontanamenti di soggetti dichiarati pericolosi erano tutt’altro che infrequenti negli Ospedali psichiatrici giudiziari: "Era un problema abituale e intrinseco, nell’Opg di Castiglione delle Stiviere avvenivano 5 o 6 allontanamenti all’anno tra fughe e mancati rientri da permessi. Accade anche nelle carceri. Dall’apertura delle Rems si sono verificati incidenti anche gravi in altre strutture, come aggressioni di personale o fughe. I rischi non sono azzerabili". Nella Rems di Mezzani la gestione dei permessi per le uscite non ha portato criticità: in 7 mesi, da agosto 2015 a febbraio 2016, i dieci ospiti presenti hanno ottenuto 320 giorni di licenza, di cui 46 uscite di gruppi con equipe, 142 con i propri famigliari, 26 individuali. In media un ospite al giorno può uscire dalla Residenza. La dinamica dell’evasione di Axyi è al vaglio di tutti gli operatori coinvolti: come spiega Pellegrini, gli ospiti sono liberi di muoversi all’interno della struttura e nel cortile fino all’ora di coricarsi, verso le 23, quando tutti rientrano nelle loro camere al primo piano. Il giovane, arrivato a Casale di Mezzani da un paio di giorni, avrebbe scavalcato la recinzione di tre metri, senza aprire un varco come ipotizzato inizialmente. "Stiamo ricostruendo l’accaduto insieme alle forze dell’ordine, anche con i filmati delle videocamere interne di sorveglianza - dichiara il dirigente - e stiamo valutando alcuni miglioramenti di carattere strutturale e procedurale per implementare la sicurezza, senza però snaturare lo scopo della struttura che è la cura, non la custodia". Nella mattinata di lunedì si è tenuto un incontro nel municipio di Mezzani con il sindaco e i carabinieri per fare il punto sulla situazione e per pensare a nuove misure. La legge 81 del 2014, che impone la chiusura degli Opg, non ha stabilito criteri rigidi per la sicurezza delle Rems. La misura da applicare alle persone prosciolte per incapacità di intendere, ma dichiarate socialmente pericolose, è la libertà vigilata. Solo in alcuni casi l’autorità giudiziaria può disporre la misura di sicurezza detentiva presso una Rems, che è una struttura di cura temporanea che dipende dai servizi psichiatrici dell’Ausl e non impiega personale della polizia penitenziaria. Le norme concedono alle singole Residenze in tutta Italia una certa libertà sui dispositivi di sicurezza: ci sono strutture molto simili agli Opg e altre che non hanno neppure una recinzione. A Mezzani la recinzione è di altezza massima per una residenza, è impiegato un vigilante privato 24 ore su 24 e c’è un sistema di videosorveglianza interna. Non ci sono sbarre ma doppi vetri, per evitare che qualcuno possa gettarsi da una finestra. "Ma ricordiamo che la sicurezza è soprattutto di tipo relazionale - spiega Pellegrini - puntiamo a una diversa concezione di contenimento. Il problema non è mettere più sbarre o più telecamere, ma instradare l’ospite in un percorso di maturazione e di riabilitazione". Con Wajdi Axyi queso percorso non è neppure iniziato: "Mi dispiace che sia andata così, che questa persona non abbia saputo attendere per cogliere l’opportunità di questa esperienza. Speriamo si ravveda". Il professor Pellegrini sottolinea che la Rems non è una soluzione universale: è un percorso utile soprattutto se c’è la possibilità di far reinserire il soggetto sul proprio territorio. Il giovane tunisino accusato di tentato omicidio e prosciolto per incapacità di intendere e di volere è irregolare e senza documenti: se mai verrà rintracciato, è possibile che si vada verso una rivalutazione della sua situazione. La Rems accoglie individui non imputabili che hanno compiuto reati molto diversi e di ben diversa gravità: si va dal furto d’auto, alla resistenza al pubblico ufficiale, fino all’omicidio. "È un quadro vario, ma noi non partiamo dal reato ma dalla persona e dai suoi disturbi - dichiara Pellegrini - i cittadini debbono sapere che la maggior parte dei soggetti prosciolti è collocata in normali strutture sanitarie o a casa. Anche la persona pericolosa deve entrare nella rete dei servizi socio-assistenziali. Può non piacere, ma è quello che stabilisce la legge. Il tasso di recidiva per le persone con problemi psichiatrici non è superiore alla media, ci sono persone che hanno commesso reati gravissimi che sono state reinserite da tempo in contesti ordinari. La misura di sicurezza non può comunque superare la pena massima edittale per il reato commesso, quindi è temporanea: prima o poi il soggetto deve tornare nella società. Lavoriamo affinché le persone diventino responsabili, ma si tratta di un iter terapeutico-riabilitativo e non sono educativo, che prevede interventi medici, psicologici, sociali". In un anno di attività 8 ospiti della Rems di Mezzani sono stati dimessi e sono tornati a casa. Riguardo alle polemiche sulla mancata informazione sull’evasione, Pellegrini sottolinea che "il protocollo è stato rispettato al cento per cento. C’è un pulsante per chiamare le forze dell’ordine che si sono presentate immediatamente sul posto. La foto nel giro di mezz’ora era nella disponibilità degli inquirenti in tutta Italia. Chi doveva averla l’ha avuta subito. La scelta di non diffonderla al pubblico è di tipo investigativo". Pietro Pellegrini difende il modello delle Rems, nella lezione di Basaglia: "Stiamo facendo di tutto per applicare una legge difficile, che ci ha consentito di superar posti chiusi che non erano più terapeutici. Questo richiede un grande sforzo e un concorso di forze. Mi sento dalla parte delle istituzioni, di chi con fatica sta cercando di dare prospettive a questi cittadini in difficoltà". Lo specialista è autore del libro "Per una psichiatria senza ospedali psichiatrici giudiziari", che raccoglie anche l’esperienza della Rems di Mezzani e sarà presentato il 21 marzo alle 16 nella sala Borri della Provincia in viale Martiri della Libertà. Confermato anche l’incontro "Un anno di Rems" che si terrà il 18 marzo nel municipio di Mezzani: chiunque sia interessato ad approfondire l’argomento può partecipare. Grosseto: "Scuola-carcere", i giovani suonano davanti a un gruppo di detenuti ilgiunco.net, 12 aprile 2016 Nell’ambito del progetto gestito dalla Caritas "Scuola-carcere", ormai al suo terzo anno, gli alunni della scuola media istituto comprensivo Follonica 1 classe III A, ad indirizzo musicale e III B hanno fatto il loro ingresso presso la Casa circondariale di Massa Marittima, accompagnati dai docenti di strumento Calò Ivan, D’Alicandro Luigi, Lanzini Augusto, Meossi Bonizzella e dalle insegnanti di lettere Lami Serenella per la classe III A e Giovanna Bucchieri per la classe III B. La giovane orchestra ha suonato di fronte ad un attento e partecipe gruppo di detenuti portando un piacevole diversivo alla monotonia del quotidiano e dando una nota di allegria all’austerità del luogo. Al termine del concerto si sono avvicendate domande e risposte, nel rispetto più assoluto. Ma cosa resta di un giorno di "scuola" un po’ speciale? I ragazzi hanno assistito direttamente sul campo ad una lezione diversa di educazione civica e quindi raccogliamo le loro emozioni. "Questa esperienza mi ha arricchito più di qualsiasi ora di lezione perché mi ha fatto riflettere - sostiene Gino -. La stanza dove eravamo seduti era piena di tante emozioni: nostalgia, tristezza, saggezza e anche un po’ di vergogna". "Trovarmi davanti anche ragazzi giovani mi ha fatto capire che possiamo sbagliare a tutte le età ma la cosa importante è saper riconoscere l’errore, come molti di loro stanno cercando di fare e rimediare", riflette Carolina. "Ho provato un sentimento di tenerezza nei loro confronti perché continuavano a dire che avevano sbagliato e che la cosa più importante è la famiglia", spiega Giulia. "Per un attimo ho pensato a quanto sia preziosa la libertà e mi sono messa ad ascoltare in silenzio raccogliendo ogni parola per farne tesoro", dice Alessia. "I detenuti mi hanno fatto capire che ci accorgiamo di quanto siano importanti alcune cose solo quando le perdiamo" sostengono Ginevra, Andrea e un po’ tutti i ragazzi. "È stato bello mettere i detenuti in contatto con l’esterno attraverso la musica e, come ci ha detto uno di loro, portare dentro un po’ di normalità", conclude Leonardo. Le docenti infine, esprimono soddisfazione sostenendo quanto siano state preziose queste ore di "lezione di vita". Roma: Stati generali esecuzione penale. Orlando e Giostra presentano evento conclusivo giustizia.it, 12 aprile 2016 Ministero della Giustizia. Alle ore 14:30, presso la Sala Livatino, conferenza stampa di presentazione dell’evento conclusivo degli Stati generali sull’esecuzione penale, che si svolgerà il 18 e 19 aprile prossimi nell’auditorium della Casa circondariale "Raffaele Cinotti" (Roma Rebibbia). Nel corso della due giorni, che si aprirà alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla quale parteciperanno rappresentanti delle istituzioni, della magistratura e dell’avvocatura, esperti e tecnici del settore penitenziario, sindacati e rappresentanti delle associazioni di volontariato e del mondo della cultura, saranno illustrati le ragioni e gli obbiettivi degli Stati generali e saranno discusse le relazioni finali dei 18 Tavoli tematici, ai quali hanno partecipato oltre 200 personalità che hanno lavorato anche mediante consultazioni pubbliche e on line, sostanziando il percorso degli Stati Generali. Alla conferenza stampa partecipano il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il coordinatore del Comitato scientifico degli Stati Generali, Glauco Giostra. I giornalisti e i cine-foto-operatori interessati a partecipare alla conferenza stampa possono accreditarsi inviando una email all’indirizzo ufficio.stampa@giustizia.it, indicando nome, cognome, testata ed estremi di un documento di riconoscimento. Radio Carcere: Stato di diritto? La storia di Giuseppe Gulotta... Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2016 Detenuto ingiustamente per 22 anni oggi vive in povertà perché lo Stato non lo ha ancora risarcito. A seguire le lettere dalle carceri. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/471785/radio-carcere-stato-di-diritto-la-storia-di-giuseppe-gulotta-che-e-stato-detenuto "No" all’Europa del filo spinato di Adriana Cerretelli Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 Niente muri né filo spinato al Brennero. No, affatto. La barriera alla frontiera tra Austria e Italia è semplice "management di confine": ci tiene a chiamarla così Heinz Fischer, il presidente austriaco che evidentemente ama lo slalom spericolato tra concetti e parole. Come se il rifugio nell’ipocrisia semantica potesse salvare la faccia di un Paese che già di scheletri nell’armadio della storia ne vanta di eccellenti ma che da settimane non esita a rinnegare spirito e credo europei per arroccarsi nel chiuso della sue beata prosperità. Indivisibile soprattutto, per favore. L’anno scorso, povera Austria, con i suoi 8,5 milioni di abitanti si è già fatta carico di 80mila rifugiati, scambiandoli per un’invasione. Perciò quest’anno la soglia non potrà superare i 35mila. Peccato che nel 2015 la Grecia, 11 milioni di persone taglieggiate da povertà, rigore e recessione, ne abbia accolti 900mila. In Europa si gridò allo scandalo e alla vergogna quando nel settembre scorso Viktor Orban decise di chiudere le frontiere con la Serbia per arrestare la marea umana. In realtà il premier ungherese ha fatto scuola. Da allora i muri sono proliferati ovunque, dentro e fuori dall’area Schengen della fu libera circolazione delle persone. Sono 9 i Paesi che hanno in essere i controlli alle frontiere, comprese Germania e Francia. Ma la progressiva "orbanizzazione" dell’Europa ha trovato nell’Austria il suo emulo più entusiasta e convinto. Tanto da arrivare a convocare unilateralmente, forse preda di un attacco di nostalgia imperial-asburgica, un vertice con tutti i Paesi della rotta balcanica per decidere di chiuderla sigillando il confine tra Grecia e Macedonia. Mettendo Unione, Grecia e Germania di fronte alla politica del fatto compiuto. Intendiamoci, non che il guizzo decisionista di Vienna non facesse comodo a molti, a Est come a Ovest. Del resto l’accordo Ue-Turchia per rimandare tutti gli immigrati illegali approdati in Grecia, siriani inclusi, sulle coste turche da dove si sono imbarcati risponde alla stessa logica: buttarli fuori invece di chiudere loro la porta in faccia. Non si sa se l’outsourcing risolverà il problema regolando il flusso dei siriani che saranno accolti in Europa. Per ora gli arrivi sono crollati. La Germania della Merkel respira. Ma l’Austria non si accontenta: vuole essere più realista del re. E siccome i disperati respinti in Grecia potrebbero ritrovare in massa la via dell’Italia, meglio non rischiare orchestrando subito il blocco preventivo del Brennero. Di sicuro la diffidenza verso il Governo italiano che troppo spesso ha chiuso gli occhi sulla fuga verso nord degli immigrati ha fatto la sua parte. E si potrebbe anche dire a ragione, se i precedenti di Vienna su tutta la vicenda rifugiati non avessero provveduto già a tracciare il profilo di un paese piccolo piccolo, di grettezza, miopia e egoismo disarmanti. Povera Italia ma soprattutto povera Europa, sempre più in balia di Governi incapaci di guardare al di là degli steccati in cui si rinchiudono, nell’illusione di poter non affrontare gli enormi problemi con cui comunque prima o poi dovranno misurarsi. Migranti, l’Austria alza una barriera nel cuore dell’Europa di Vittorio Da Rold Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2016 L’Austria, al confine del Brennero, ha cominciato oggi i lavori per la costruzione della barriera anti migranti. "Il muro - ha detto il capo della polizia tirolese Helmut Tomac - servirà per limitare, in caso di necessità, l’accesso degli stranieri provenienti dall’Italia. La struttura sarà lunga 250 metri e comprenderà l’autostrada, come anche la strada statale". Tomac ha precisato che per il momento si realizzerà il cantiere, quindi si passerà alla costruzione della barriera vera e propria, spiegando che questa avrà anche una protezione a tettoia in modo da consentire eventuali controlli anche in caso di pioggia o intemperie. I primi controlli potrebbero partire a fine maggio, ma dipenderà dal flusso dei migranti. Secondo i primi progetti la barriera sarà realizzata con filo metallico; verrà anche costruita una corsia dedicata per la registrazione dei migranti. Dopo vent’anni dall’entrata in vigore di Schengen verrà ripristinato un posto di blocco, una specie di check point, dove i gendarmi austriaci saranno incaricati di controllare i documenti di chi passa, comprese ispezioni e operazioni di smistamento degli stranieri. Si tratta dell’ottava "reintroduzione temporanea di controlli" ai confini interni nell’area Schengen iniziata il 26 novembre del 2015 con la Norvegia, seguita dalla Danimarca, il Belgio, la Francia, la Svezia, la Germania e infine l’Austria con il confine sloveno e ungherese e ora con quello italiano. Al valico italo-austriaco sono già stati smontati i guardrail e in una prima fase di lavori sarà anche modificata la segnaletica stradale. I controlli del traffico leggero e pesante saranno effettuati in un parcheggio a nord del confine. Nei prossimi giorni sarà anche allestito un centro di registrazione. I controlli - ha detto Tomac - potrebbero partire a fine maggio, ma sarà il ministero degli interni a Vienna a stabilire l’effettivo avvio. Nel pomeriggio di lunedì, il presidente Austriaco Heiz Fischer, da Praga, ha specificato che "I provvedimenti al Brennero non prevedono un muro oppure filo spinato". Fischer ha ribadito il concetto del "management di confine" per avere il minor impatto possibile sul transito di persone e merci. "Servono - aggiunge Fischer - più controlli per chi vuole entrare in Europa". Il tetto dei 35mila profughi, che l’Austria intende accogliere quest’anno, "non sarà un taglio netto di spada, ma un valore indicativo" per evitare altre 80mila richieste d’asilo come nel 2015, spiega Fischer. "Al Brennero da mesi il numero degli arrivi di migranti è stabile. In media transitano 20-25 persone al giorno", spiega Roberto Defant dell’associazione Volontarius che si occupa dell’accoglienza di profughi in Alto Adige. "Per il momento - prosegue - non abbiamo segnali che facciano pensare ad un aumento sostanziale". Volontarius - dice ancora - è in stretto contatto con la Questura di Bolzano e con la Provincia autonoma per essere pronti in caso di necessità. Al valico italo-austriaco da tempo esiste un piccolo centro di accoglienza con 70 posti letto. "Come associazione ci occupiamo dell’accoglienza di persone, di certo qualsiasi forma di frontiera limita il pensiero europeo e la dignità delle persone", dice Defant. "L’Austria non chiude le porte. Venerdì scorso il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha incontrato la sua collega austriaca e, rispetto alle paventate intenzioni di chiudere le frontiere, non c’è stata questa determinazione". Così ha commentato il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, a SkyTg24. Una decisione di ripristinare controlli al Brennero, peraltro, ha sottolineato Manzione, "avrebbe implicazioni economiche tutt’altro che trascurabili. Sarebbe una perdita secca consistente, per questo abbiamo insistito che l’area restasse aperta, ma l’Austria - ha aggiunto - ha elezioni politiche importanti alle porte". Inoltre, ha proseguito il sottosegretario, un eventuale decisone di chiusura "avrebbe anche ricadute dal punto di vista umano, potrebbe implicare situazioni come quelle che vediamo purtroppo in Grecia". Gli arrivi in Italia del 2016, ha poi rilevato Manzione, sono 20mila, contro i 13mila dello stesso periodo del 2015, ma, ha evidenziato, "non si sono registrati incrementi significativi di siriani e eritrei. Ciò significa che per ora non c’è stato uno spostamento dalla rotta turco-greca. Certo - ha aggiunto - se la Grecia diventasse davvero un enorme contenitore di anime, come dice il loro premier, quella grande marea potrebbe trovare sbocco da noi". "Siamo arrivati al muro preventivo", ha dichiarato Gianni Pittella, presidente del gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo "è del tutto inaccettabile non solo perché viola le norme sulla libera circolazione di Schengen ma perché dimostra ancora una volta che si preferisce chiudersi nelle piccole fortezze nazionali invece di lavorare per una soluzione europea". Migranti, barriera al Brennero. La decisione che riapre le ferite di settant’anni fa di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 aprile 2016 Il Passo del Brennero e quel confine simbolo dei traumi sudtirolesi. E l’Alto Adige chiese aiuto a Roma. Eccolo, il "confine di seta": filo spinato. Così sarà il Brennero, dopo la costruzione iniziata ieri della barriera voluta per fermare l’eventuale arrivo di profughi. Non sarà solo un "muro" tra Nord e Sud, tra due pezzi dell’Europa, tra l’Italia e l’Austria. Sarà di più: la spaccatura del piccolo mondo tirolese. Un incubo antico reso reale non da Roma, ma da Vienna. Un trauma inatteso. Vissuto da molti come un tradimento. "Sì, qualche volta ho ancora la sensazione di essere "prigioniero" dell’Italia", raccontava Silvius Magnago, il patriarca dei sudtirolesi, "capita quando passo la frontiera del Brennero. Avverto un certo disagio, come una fitta al cuore. Certo, se i confini fossero di seta così come forse saranno in futuro dentro l’Europa non mi capiterebbe, ma purtroppo così non è. E poi c’è sempre Roma, con le sue maledette tentazioni centralistiche". Le conseguenze di Schengen - Quelle "maledette tentazioni centralistiche" che per decenni furono rimproverate a noi, vengono rinfacciate ora a Vienna. Basti rileggere, al di là delle scontate prudenze diplomatiche, le parole dette due mesi fa dal presidente della Provincia autonoma Arno Kompatscher dopo la scoperta, sbalordita, della decisione austriaca di rafforzare il confine che da un secolo rappresenta una ferita. Decisione presa senza manco avvertire i "fratelli" altoatesini. Solo chi non conosce i traumi di queste terre non ha colto fino in fondo le parole di quello che per gli altoatesini tedeschi è un vero e proprio governatore: "Le decisioni austriache in tema di profughi, con particolare attenzione al confine del Brennero, hanno bisogno di adeguate risposte da parte dell’Italia". E chi avrebbe potuto mai immaginare che il leader della minoranza tedesca chiedesse aiuto a Roma? Eppure Kompatscher metteva l’accento sul punto centrale: "L’accordo di Schengen ha depotenziato il confine del Brennero rendendolo di fatto invisibile e ha dato un grande contributo alla convivenza all’interno di un territorio dalla storia complessa. La gestione dell’emergenza profughi rischia di minare i rapporti". "Eva Klotz, gli Schutzen o i fanatici Freiheitlichen pensano di avere la soluzione in tasca e rovesciano tutta la colpa, come sempre, sull’Italia - spiega lo storico Leopold Steurer -. Dicono: se avessimo fatto un referendum sull’autodeterminazione oggi non avremmo problemi perché staremmo dalla parte giusta del filo spinato. Non so se mi spiego: "dalla parte giusta del filo spinato". È una posizione infame. Razzista. Degna di gentaglia come sono loro". Il patto Mussolini-Hitler - Certo è che per i sudtirolesi, che avevano accolto come una liberazione la caduta di ogni barriera con la loro "heimat", il dispiegamento della nuova muraglia, che dovrebbe somigliare a quella stesa dall’Austria lungo i confini con la Slovenia, è un salto indietro di decenni. Che rischia di riaprire ferite antiche. E di ricordare non solo il distacco fisico dall’Austria ma lo shock subito da quelle decine di migliaia di tedeschi altoatesini che nel 1939, obbligati dal patto scellerato stretto da Mussolini e Hitler a optare per il trasferimento in Austria e in Germania si ritrovarono accolti non con l’amore dovuto ai fratelli ma con la diffidenza riservata agli intrusi. "Ce ne andammo con tutta la famiglia", ricordava mezzo secolo dopo Egon Tauber, "ci mandarono sul lago di Costanza e ci diedero un appartamentino in una casa popolare. C’erano parecchi sudtirolesi. La gente del paese era invidiosa, perché davano le case a noi. Ci chiamavano terroni e ci trattavano come fossimo turchi". Uno shock mai del tutto superato. La propaganda nazista - C’erano cascati in 211.799 su un totale di 246.036, pari all’86 per cento della popolazione tedesca, nella promessa del Führer di garantire agli "optanti" che avrebbero trovato nelle terre tedesche esattamente ciò che lasciavano in Val Pusteria, in Val Venosta o in Val Passiria. Al punto che Friedl Volgger, futuro leader della Svp e tenace oppositore dell’esodo, indicò allora col dito a un vecchio amico il Felsberg, la montagna simbolo della Val d’Isarco: "Ammetterai almeno che in questa nuova patria ti mancherà il Felsberg". E quello rispose: "No, ci sarà anche quella. Solo 200 metri più bassa". Assicurando di aver avuto ogni garanzia: nel Terzo Reich i sudtirolesi avrebbero trovato paesi identici a quelli lasciati. Copie perfette: stesse strade, stesse piazze, stessi lampioni… "La propaganda nazista fu così martellante che la gente abboccava alle promesse più assurde", ricordò anni fa lo stesso Steurer, "so che pare impossibile, ma la gente ci credeva. Altroché, se ci credeva: pensi che mio padre, in fondo alla lista con le vacche e le credenze e i comodini, chiese addirittura di ritrovare nella nuova casa sette rastrelli, quattro oche e tre gatti". Altri ancora, sorrise lo storico, arrivavano a precisare nella loro lista di che colore dovessero essere le vacche uguali identiche a quelle lasciate. Un "confine sopruso" - Il confine al Brennero era allora per i sudtirolesi, amputati dalla madrepatria, un sopruso così doloroso da togliere il fiato. Non riuscivano a darsi pace per le scelte durissime imposte dall’Italia a quelle valli citate nel celebre proclama di Armando Diaz del 4 novembre 1918: "I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza". Le scuole solo in italiano, i nomi cambiati qua e là perfino sulle lapidi dei cimiteri, il divieto di parlare in tedesco, lo stravolgimento della toponomastica nella scia delle tesi di Ettore Tolomei, fervente apostolo della necessità di "italianizzare" l’Alto Adige. Risultato: Chiusa al posto di Klausen, Selva di Val Gardena invece di Wolkenstein in Gröden e così via fino a Gallina alla Malga in luogo di Hühnerspiel. Decenni di trattative, di negoziati sul cosiddetto "pacchetto", di buon senso da parte sia degli italiani sia dei sudtirolesi erano riusciti a rimarginare almeno in parte quelle ferite. L’Europa aveva fatto il resto. Finché anche la barriera del Brennero era diventata quasi una barriera impalpabile. I muri, i reticolati, i fili spinati riportano la storia indietro. Ma ciò che più pesa, come spiegano a Bolzano, è che "l’Austria non ha neppure sentito l’obbligo morale di sentirci". Migranti. "Diamo un nome a quei 700 fantasmi" di Francesco Viviano La Repubblica, 12 aprile 2016 Un anno fa il naufragio del barcone tra Libia e Lampedusa. Ora la Marina vuole riportare in superficie le vittime Un’impresa molto rischiosa perché il relitto si trova a circa 400 metri di profondità. Ecco come si interverrà. DA un anno c’è una grande bara di legno che giace in fondo al mare. È il carico di morte della più grande tragedia del mare avvenuta nel Mar Mediterraneo. Il disastro è quello del 18 aprile dello scorso anno quando un barcone di legno lungo 25 metri è affondato a 85 miglia a nord delle coste libiche e a 160 a sud dell’isola di Lampedusa con il più alto numero di vittime della storia dei naufragi: 600 o 700, stando alle testimonianze de sopravvissuti, bambini, donne, uomini di varie nazionalità trasportati dai trafficanti di uomini dalle coste libiche verso l’Italia. Centinaia e centinaia di morti che non hanno ancora un nome. Quel giorno il barcone di legno s’inabissò dopo una collisione con una nave mercantile norvegese che era stata inviata nella zona di mare in cui era stato lanciato l’Sos e stava tentando di salvarli. Gente che proveniva da ogni parte dell’Africa e tentava di raggiungere l’Italia. Fra pochi giorni, esattamente il giorno dell’anniversario della strage, mezzi della Marina Militare italiana e mezzi specializzati di due società marittime private, tenteranno una delle più grandi e delicate imprese di recupero perché quella grande bara di legno ha nel suo ventre centinaia e centinaia di scheletri che dovrebbero essere recuperati senza essere distrutti per potere essere così identificati. Fino ad ora gli uomini del Consubim della Marina Militare hanno recuperato 169 cadaveri, quelli che si trovavano vicino al peschereccio affondato. Il relitto è adagiato a una profondità di circa 400 metri, un abisso senza luce e con pressioni elevatissime. Ed è per questo che il recupero potrebbe essere difficoltoso. Ma gli uomini della Marina Militare e i tecnici delle due società private ritengono che nel giro di pochi giorni possa essere recuperato. Come? "Sotto il barcone - spiega Vittorio Piscitelli, commissario straordinario per le persone scomparse che coordina l’operazione - sarà piazzato un grande telone le cui estremità saranno poi agganciate a dei pistoni che lentamente lo riporteranno in superficie". Una volta riportata alla luce quella grande bara di legno sarà "incubata" con una tensostruttura refrigerata con azoto liquido anche per proteggere i corpi dall’ "assalto" dei gabbiani. L’operazione successiva, anch’essa molto rischiosa, è quella di trasferire il barcone in un grande hangar nella base Nato di Melilli (Siracusa) dove entreranno in azione squadre specializzate dei Vigili del Fuoco che tenteranno di estrarre quegli scheletri per poi sistemarli in apposite celle frigorifere. Solo a quel punto interverranno i medici legali per provare a identificare le vittime. Torino aderisce al sesto Congresso mondiale contro la pena di morte di Domenico Letizia L’Opinione, 12 aprile 2016 Si è svolta a Torino la presentazione del VI Congresso mondiale contro la pena di morte, organizzata in collaborazione con l’associazione radicale "Adelaide Aglietta", che ha visto la partecipazione del sindaco, nonché presidente dell’Anci, Piero Fassino e la relazione illustrativa di Antonio Stango, esperto di diritti umani, membro del Consiglio direttivo di "Nessuno tocchi Caino" e coordinatore del sesto congresso mondiale conto la pena di morte che avrà luogo ad Oslo, in Norvegia, dal 21 al 23 giugno prossimi. "Non possiamo che batterci perché la pena di morte sia superata in ogni paese e sia considerata una pratica terribile del passato". Così Piero Fassino ha annunciato l’adesione della Città di Torino al sesto congresso mondiale contro la pena di morte. Fassino ha sottolineato l’importanza di andare oltre la pena di morte e ha rilevato come "in molti Paesi si è ottenuta una moratoria o una sospensione, ma molte altre nazioni ancora la applicano e perché venga superata è necessario battersi con più efficacia. Il congresso di Oslo è l’occasione per dare ancora maggior impulso a questa battaglia". Antonio Stango ha descritto con precisione i lavori e gli obiettivi del sesto congresso, stimando una partecipazione di circa 1.500 persone da oltre ottanta Paesi, fra le quali attivisti delle 138 Ong o istituzioni aderenti alla Coalizione mondiale contro la pena di morte, ministri, avvocati, Premi Nobel, ex condannati a morte riconosciuti innocenti, artisti. Al congresso è prevista anche la partecipazione dell’Alto commissario della Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ràad Zeid Al-Hussein, e del segretario generale del Consiglio d’Europa Thobjorn Jagland. Negli ultimi cinque mesi il Congo Brazzaville, le Isole Fiji, il Madagascar, la Mongolia e il Suriname hanno eliminato dalla propria giurisprudenza le esecuzioni capitali. Nel mondo ci sono 98 Paesi abolizionisti per tutti i crimini, sette che la mantengono per reati "eccezionali", quali quelli commessi in tempo di guerra e 35 abolizionisti de facto. I dati vengono dall’associazione "Ensemble contre la peine de mort", promotrice del congresso mondiale insieme alla "World Coalition Against the Death Penalty" alla quale partecipano 140 organizzazioni tra cui le italiane Nessuno tocchi Caino e la Comunità di Sant’Egidio. Giunto al sesto appuntamento, dopo quelli di Strasburgo, Montreal, Parigi, Ginevra e Madrid, il congresso mira ad "eliminare l’obbligatorietà della pena di morte", a trasformare i Paesi abolizionisti di fatto in abolizionisti di diritto, a coinvolgere la società civile nella lotta alla pena di morte, anche in vista della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Egitto chiude le indagini. Sit-in per i reporter in prigione di Chiara Cruciati Il Manifesto, 12 aprile 2016 Caso Regeni. La procura si ritira, Il Cairo accusa l’Italia di politicizzare l’inchiesta. La società civile trova nuova forza e protesta contro la repressione. E mentre la Ue promette sostegno a Roma, la Francia ne approfitta per siglare 30 accordi commerciali con al-Sisi. Indagini chiuse, la questione è politica. La procura generale egiziana chiude il fascicolo su Giulio Regeni. A riferirlo al giornale al Masry al Youm sono fonti giudiziarie che riportano di un colloquio tra il procuratore generale Sadeq e il suo vice Suleiman, capo della delegazione venuta in Italia: "Le nostre indagini si fermano qui, il caso Regeni è ora una questione diplomatica. Continueremo il lavoro investigativo solo se dovessero emergere nuovi elementi utili". Una totale chiusura che va a braccetto con la conversazione di domenica tra il ministro degli Esteri italiano Gentiloni e la controparte: il ministro Shoukry ha espresso "irritazione per la piega politica" che Roma ha scelto. Per Il Cairo l’omicidio di Regeni va trattato a livello politico, non investigativo, posizione che non solo minaccia future collaborazioni, ma che tenta di spostare le responsabilità sull’Italia. Ieri il portavoce del Ministero degli Esteri, Ahmed Abu Zeid, imputava il richiamo dell’ambasciatore a questioni interne italiane, dal caso Guidi alle pressioni delle opposizioni, che avrebbero costretto Roma a "politicizzare il dossier". Il chiaro tentativo di nascondere le responsabilità dello Stato sotto il tappeto, però, serve a poco. Un regime disfunzionale, diviso tra poteri rivali e oligopoli, non mette a tacere ogni voce. Le indiscrezioni continuano ad uscire, così come le falle nel sistema della repressione. Ne è esempio la famiglia di Tareq Abdel Fattah, capo della presunta banda di criminali a cui Il Cairo ha provato goffamente ad addossare la colpa della morte di Giulio. All’Agenzia Nova fonti della procura di Giza hanno riportato di intimidazioni contro i familiari di Tareq perché non muovessero azioni legali contro il Ministero degli Interni. Gli Abdel Fattah chiedevano un risarcimento per l’uccisione dei loro cari nella sparatoria chiaramente architettata dalla polizia. In risposta hanno avuto minacce, ovvero l’avvio di azioni legali per furto e tossicodipendenza, presunti reati commessi in passato. Dietro sta un insabbiamento mal riuscito e smentito dai fatti: la gang, definita dalla polizia come altamente specializzata in rapine e truffe, non sarebbe altro che un gruppo di piccoli malviventi, che mai avrebbero potuto architettare un simile crimine, senza alcuno scopo. E sono stati messi a tacere con la violenza. La sorella di Abdel Fattah lo ripete: "Se fossero stati criminali perché la polizia li ha uccisi invece di perseguirli? E le armi che la polizia dice che avevano, dove sono?". Il Cairo non ha il controllo della situazione. A ricordarlo sono ancora delle famiglie, quelle dei 42 giornalisti egiziani tuttora in prigione. Da domenica hanno lanciato un sit-in di fronte alla sede del sindacato della stampa per ottenere il rilascio dei propri cari, molti dietro le sbarre da tre anni. Lì rischia di finire anche il segretario del sindacato, Khaled al-Balshy, accusato di incitazione al golpe e su cui pesa da qualche giorno un mandato d’arresto. E lì da mille giorni si trova il reporter Mahmoud Abu Zeid, per la cui liberazione è scesa in campo anche la famiglia Regeni: è stato arrestato un mese dopo il golpe alla manifestazione dei Fratelli Musulmani a Rabaa al-Adawiya, che copriva per lavoro e che si concluse con un massacro, tra 600 e 700 morti. Secondo il sindacato nel 2015 sono state 782 le violazioni della libertà di stampa: censure di articoli, chiusure di giornali, perquisizioni. Si sfiora poi il ridicolo, tipico di ogni dittatura, quando in tribunale finisce un pupazzo: il 26 giugno la popolare Abla Fahita, pupazzo nello stile Muppet protagonista di uno show satirico sulla Cbs, dovrà rispondere di "violazione della moralità pubblica". La sua colpa è di essere una voce critica, di mettere in ridicolo la macchina della repressione. E con l’Italia che promette nuove misure contro l’Egitto, tra i due litiganti si infila l’Unione Europea. L’Alto Rappresentante agli Affari Esteri Ue, Federica Mogherini, ha assicurato a Roma di voler "sostenere gli sforzi per ottenere la verità". Per questo ieri una delegazione di 13 parlamentari egiziani è volata a Bruxelles (secondo Daily News Egypt passando prima per Roma) con l’obiettivo di discutere della risoluzione europea che condanna l’omicidio di Giulio e rispondere alle impellenti questioni sugli abusi dei diritti umani. Ma di fronte ad al-Sisi rischia di presentarsi un’Europa divisa: mentre l’Italia usa come piede di porco i rapporti commerciali con l’alleato nordafricano, la Francia ne approfitta per trarne vantaggio personale. Lunedì prossimo il presidente Hollande volerà al Cairo per firmare 30 accordi commerciali e finanziari e 10 memorandum di intesa in campo energetico e turistico. Gli stessi settori su cui l’Italia punta per costringere l’Egitto a collaborare. Al fianco di Hollande ci saranno 60 uomini di affari francesi che sperano di incrementare gli scambi commerciali, dal valore attuale di 2.5 miliardi di euro l’anno. Non mancano, ovviamente, le armi: tra gli accordi anche la vendita di aerei, navi e un sistema di comunicazione satellitare per un miliardo di euro. Regeni, così l’inchiesta italiana ha ricostruito il suo omicidio di Francesca Paci La Stampa, 12 aprile 2016 Il ruolo chiave della polizia e della Sicurezza statale nella morte del giovane sono ritenuti certi dai nostri inquirenti. Da qui la rottura con i negoziatori egiziani. In una Cairo accaldata, nervosa, stressata, più di una fonte ribadisce che l’Italia si è fatta un’idea articolata di cosa sia accaduto a Giulio Regeni, perché ha lavorato fin quando possibile con i colleghi egiziani ma si è mossa anche autonomamente. Sarebbe proprio l’esito divergente delle due indagini, con quella italiana non lontana dalle ricostruzioni dei giorni scorsi della Stampa, ad aver innescato l’escalation che dopo il fallimento del vertice di Roma ha mutato l’omicidio in un caso politico la cui soluzione può essere solo politica. "L’unica evidenza è che il 25 gennaio Giulio è stato preso dalla polizia perché è stata la polizia a far ritrovare i suoi documenti addosso ai 5 presunti assassini rivelatisi estranei alla vicenda dopo essere stati eliminati" racconta qualcuno che segue la storia dall’inizio e da dentro. Parlare nella capitale egiziana non è mai stato complicato come oggi: nessuno ha voglia di farlo al telefono e il traffico è amplificato dalla visita del re saudita. Ipotizziamo l’arresto: e poi? Una delle fonti sostiene che Giulio sia stato "lavorato" fin quando era troppo tardi per lasciarlo vivo o che, essendo uno straniero, sia stato poi passato a un’altra agenzia di sicurezza, la famigerata State Security se non addirittura l’intelligence militare, solitamente responsabile delle "minacce esterne". "Non posso fare accuse ma il modo in cui è stato torturato Regeni è tipico di quando si vogliono estorcere informazioni, è il trattamento riservato ai "politici"" ragiona nel suo studio di Downtown Gamal Eid, il presidente dell’Arabic Network for Human Rights Information oggi soggetto al divieto di espatrio. Le vittime come Regeni sono il suo pane quotidiano, i grafici con la cifra record 60 mila oppositori in carcere, di cui 65 giornalisti: "Più che al Cile di Pinochet, l’Egitto sembra la Libia di Gheddafi senza il petrolio. Un anno fa il cronista Karim el Baheri è stato sottoposto a torture modello Regeni per 23 giorni prima di essere rilasciato, l’avvocato Karim Hamdy non ha retto ed è morto". Come Regeni, entrambi erano stati arresati il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione contro Mubarak quando per strada ci sono solo poliziotti e State Security a caccia di "attivisti". Regeni era nel mirino o è finito nel tritacarne della repressione impunita? Al numero 88 di Qasr al Nile, nel salone dove l’11 dicembre scorso si tenne la riunione in cui Giulio sarebbe stato fotografato, il sindacalista Talal Shuqr, ripensa al ragazzo che faceva interviste ai rappresentanti degli ambulanti: "Era un meeting aperto, c’erano circa 400 persone e diverse tv. Lui girava, prendeva contatti, si capiva che era un ricercatore perché faceva domande circostanziate come che impatto avessero i sindacati indipendenti sugli operai. Era già venuto accompagnato da un altro studioso, Francesco, avevamo parlato tre ore. Vai a immaginare cosa fa irritare chi ci comanda...". Il capo degli ambulanti di Heliopolis, Haji Mohammed, interrogato a febbraio dalla sicurezza per le interviste rilasciate a Regeni, conferma l’incontro standard: "Gli diedi la copia della richiesta di chioschi inoltrata al governatore del Cairo e il mio biglietto da visita". Giulio attenzionato dunque ma non al punto da rischiare la vita, almeno non prima di finire nel gorgo che non distingue, fa domande ma non se ne fa, picchia per stare a galla nella gara a chi è più feroce. L’Egitto accusa l’Italia d’intransigenza ma, suggeriscono qui, la rottura consumatasi a Roma non sarebbe sui dossier quanto sul negoziato politico in quel momento in corso. "La colpa sta ricadendo sulla polizia perché è il target più facile ma un nome è poco, in ballo c’è l’intero sistema: quando il 30 marzo si parlò di rimpasto di governo con sostituzione del ministro dell’interno bastò qualche tweet contro i militari per lasciare il ministro Ghaffar al suo posto" suggerisce una fonte politica. L’Italia ribadisce la volontà di collaborare ma non arretra sulla verità di cui ha molti elementi e di responsabili credibili, prova nel sia il quadro con la foto di Regeni che ha sostituto quello del presidente della Repubblica Mattarella (spostato a sinistra) all’ingresso dell’ambasciata a Garden City. Le prossime mosse di Roma sono annunciate: una rogatoria per chiedere ancora le celle telefoniche e il dossier sulla presunta banda dei 5 sgominata al Cairo. Potrebbe poi toccare al turismo, mettendo sulla lista nera il Paese delle piramidi, la formalizzazione del blocco delle relazioni bilaterali ed eventuali misure economiche. Fino a che punto è disposto a spingersi l’Egitto? E ora subito l’Egitto "Paese non sicuro" di Luigi Manconi Il Manifesto, 12 aprile 2016 Come ha detto la madre, Giulio Regeni era "un giovane contemporaneo": perché non operare affinché i suoi coetanei, le centinaia di migliaia di "giovani contemporanei" del nostro continente considerino, anch’essi, un paese "non sicuro" quello dove Giulio Regeni è stato sequestrato seviziato e ucciso? Troppi discorsi (e qualche invettiva) tra quelli ascoltati in questi giorni offrono una rappresentazione singolarmente deformata della politica internazionale e, in special modo, dei rapporti tra gli stati. Una rappresentazione spesso primitiva e, per così dire, otto-novecentesca, che rischia di tradursi in una alternativa netta al punto da risultare implacabile. Insomma, o le cannoniere o le complicità in sordidi rapporti politico-economici. Non dico che tutto ciò sia estraneo alle relazioni tra stati, figuriamoci. Dico, piuttosto, che non è a questa oscura dicotomia che quelle relazioni possono essere ridotte. É una premessa indispensabile, la mia, per sostenere che la difficilissima questione dei rapporti tra Italia ed Egitto "dopo il caso Regeni" va affrontata in termini autonomi e originali. La tesi per la quale "tutto dipende dai petroldollari" e quella, correlata, "ma poi chi comanda è l’Eni" è tanto vana e impotente quanto la tesi della intangibilità assoluta degli equilibri geo-politici e dei rapporti bilaterali in atto. Ci si deve sottrarre a questa falsa alternativa, considerando che le relazioni con l’Egitto possono essere un campo aperto dove c’è ancora spazio e tempo (non troppo, ma c’è) per agire con determinazione e, allo stesso tempo, con duttilità. Se ne è avuta prova inequivocabile in queste ore, quando i provvedimenti da noi proposti nei confronti del regime egiziano, contestati fino a un attimo prima perché estremisti e irresponsabili, ora vengono condivisi dalla gran parte degli osservatori e, sembrerebbe, dei decisori politici. Va da sé: il discrimine tra accettabilità e non accettabilità di quelle proposte è stato determinato, in questa circostanza, dal realizzarsi di una scadenza. Ovvero l’incontro, nei giorni 7 e 8 Aprile, della delegazione egiziana con quella italiana. Il fallimento di questo confronto ha determinato una forte accelerazione e ha reso possibile ciò che il giorno prima appariva impensabile (come il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore italiano al Cairo). Non si tratta, ora, di recriminare sul tempo perduto aspettando "La Scadenza". Si tratta, piuttosto, di non dissipare altro tempo, e di assumere immediatamente quelle decisioni - come la pressione sui flussi turistici - che fino a ieri scandalizzavano tanti e oggi appaiono necessarie e ragionevoli, oltre che realistiche. E altrettanto può dirsi a proposito della necessità di rivedere in profondità le relazioni diplomatico-consolari tra i due Stati, nelle loro molte articolazioni: dalla cooperazione tra università a quella in campo sportivo, dai molti programmi culturali condivisi ai progetti di ricerca comuni. Non c’è il minimo dubbio che tutto ciò comporti un costo per l’Italia, ma implica un costo altrettanto o assai più rilevante per l’Egitto. È questo fattore che finora è sembrato sfuggirci. Gravati come sembravamo, da una sorta di complesso di inferiorità, che non ci faceva riconoscere la posizione obiettiva di forza in cui l’Italia si trova rispetto all’Egitto. Si prenda il caso del giacimento di gas Zohr: non c’è dubbio che esso rappresenti per l’Eni e per l’Italia un’importante risorsa economica, ma se non ci rendiamo conto che lo è ancor più per l’Egitto, rischiamo di precipitare in una visione paranoide. Una visione secondo la quale sarebbe l’ente nazionale idrocarburi a decidere, in base ai propri interessi aziendali, la sorte delle indagini sulla morte di Giulio Regeni. Allo stesso tempo, se a non rendersi conto dell’entità della forza di cui dispone fosse proprio il governo italiano, il nostro paese perderebbe un essenziale strumento di pressione nei confronti di quel regime. Perché questo è il punto: il richiamo dell’ambasciatore e un salto di qualità e di asprezza nelle relazioni con l’Egitto non devono comportare necessariamente la rottura dei rapporti politico-diplomatici, bensì il passaggio a una fase di più intensa negoziazione dove l’Italia possa esercitare con la massima determinazione la sua forza democratica e i suoi strumenti non bellici di condizionamento e di conflitto. Per questo mi è capitato di insistere tanto - e l’ipotesi sembra essere considerata ora anche dal governo italiano - sulla possibilità che la Farnesina, attraverso l’unità di crisi, dichiari l’Egitto paese non sicuro. Non sicuro per migliaia e migliaia di anonimi egiziani così come è stato per Giulio Regeni e così come rischia di essere per tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori italiani e europei che vogliano recarsi in Egitto per le più diverse ragioni. Come ha detto la madre, Giulio Regeni era "un giovane contemporaneo": perché non operare affinché i suoi coetanei, le centinaia di migliaia di "giovani contemporanei" del nostro continente considerino, anch’essi, un paese "non sicuro" quello dove Giulio Regeni è stato sequestrato seviziato e ucciso? Obama: "Libia, il mio errore peggiore" di Luca Celada Il Manifesto, 12 aprile 2016 Su Fox News Obama ha nuovamente ammesso le responsabilità americane nel caos libico. Parole che pesano sulla campagna elettorale e dirette all’allora segretario di Stato Clinton. Nell’ultima intervista "retrospettiva", Obama è tornato a fare un mea culpa sulla Libia. Parlando a uno dei suoi critici più implacabili, Bill Ò Reilly di Fox News, Obama ha nuovamente ammesso le responsabilità americane nel caos libico. Rispondendo a una domanda sul suo fallimento peggiore, ha detto: "probabilmente aver sbagliato nel pianificare il giorno dopo di quella che credevo fosse la cosa giusta da fare intervenendo in Libia". Non è la prima volta che il presidente americano fa autocritica sulla gestione di un crisi che è emblematica della seriale miopia delle politiche occidentali nel mondo arabo. In un discorso alle nazioni unite lo scorso settembre aveva detto "la nostra coalizione poteva e avrebbe dovuto fare di più per riempire il vuoto". Il riferimento era al vuoto di potere lasciato dall’eliminazione di Gheddafi istigata in particolare da Francia e Inghilterra e avallata dagli Stati uniti. Il rammarico per la gestione di quella "coalizione" era stato poi puntualizzato nelle dichiarazioni del mese scorso sull’Atlantic in cui Obama sembrava addossare le responsabilità principalmente a Sarkozy e James Cameron. Quelle dichiarazioni che imputavano la fallimentare operazione libica (lo "shit show" o "spettacolo di merda" nella valutazione espressa dallo stesso presidente), alla gestione degli alleati europei aveva costretto l’amministrazione a una precipitosa retromarcia diplomatica. Il portavoce del consiglio nazionale di sicurezza Ned Price si era affrettato a chiarire che il presidente "crede che tutti gli alleati, compresi gli Stati uniti avrebbero potuto fare di più". L’insistenza della Casa bianca su quelle mancanze vengono ora a pesare anche sulla campagna elettorale americana, soprattutto per il ruolo di primo piano ricoperto dall’allora segretario di stato Clinton. Hillary fu uno dei principali falchi di quell’amministrazione, fautrice diretta dell’intervento in Libia. Il piano non comprendeva una strategia ben definita per gestire il dopo Gheddafi, fatto che divenne dolorosamente evidente con l’uccisione da parte di miliziani libici dell’ambasciatore Christopher Stevens, il diplomatico Sean Smith e due agenti della Cia a Benghazi, nel settembre del 2012. L’episodio è rimasto emblematico della leggerezza e del generale errore di calcolo che ha caratterizzato la pratica Libia. I repubblicani hanno ripetutamente tentato di inchiodare Hillary a quelle responsabilità sperando di infliggere un danno preventivo ed irreparabile alla sua candidatura con la sua convocazione davanti alla commissione esteri del senato. Gli attacchi repubblicani non hanno tuttavia per ora avuto gli esiti sperati. Hillary Clinton non è arretrata e anzi ha respinto le responsabilità, rivendicando tutt’ora una dottrina interventista e politiche palesemente fallimentari. Nella campagna elettorale è giunta ad affermare che "è facile giudicare in retrospettiva, parlare di sbagli, ma io so che abbiamo offerto molto aiuto che i Libici hanno avuto difficoltà ad accettare". Le dichiarazioni sono in parte state un risposta alle critiche che gli ha rivolto Bernie Sanders. L’avversario delle primarie ha sostenuto che "promuovere un regime change senza preoccuparsi delle conseguenze del giorno dopo mi sembra abbastanza insensato. Ad esempio io ho votato contro la guerra in Iraq mentre Clinton ha sostenuto quella guerra". Il dibattito informale e trasversale sulla Libia nella politica americana si svolge nel generale assordante silenzio sugli attuali sviluppi in quel paese. Le precedenti dichiarazioni di Obama su "un maggiore investimento europea nel problema in virtù della prossimità geografica" sembrano scaricare il barile sugli "alleati", limitandosi ad un supporto nominale per il progetto del governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj, sbarcato a Tripoli la scorsa settimana con la benedizione delle Nazioni unite. Quanto al coinvolgimento italiano in nuove prossime iniziative, Mark Toner, portavoce del dipartimento di Stato ha dichiarato che gli Usa "intendono rimanere partner affidabili dell’Italia e in questo ambito abbiamo avuto numerosi incontri con il ministro Gentiloni come con altri leader europei e con gli stessi leader libici. Rimaniamo pronti a fornire aiuti economici, umanitari e di sicurezza al nuovo governo libico su loro richiesta. Per quanto riguarda eventuali partecipazioni italiane ad iniziative concrete o militari preferiamo lasciare le decisioni al governo italiano, Comunque siamo in totale sintonia con l’Italia su una strategia atta a stabilizzare la Libia e limitarvi l’influenza di Daesh". Renzi in Iran, "Affronti con Rouhani il tema dei diritti umani e della pena di morte" La Repubblica, 12 aprile 2016 L’appello di Nessuno Tocchi Caino e di prestigiose personalità del mondo della cultura. Nel frattempo, ben cinque detenuti sono stati impiccati l’altro ieri mattina nel carcere Lakan di Rasht, nella provincia iraniana di Gilan, per reati legati alle droghe. Secondo un recente rapporto di Amnesty International c’è stato un aumento drammatico delle esecuzioni, che nel 2015 hanno superato tutti i record degli ultimi 25 anni. Alla vigilia della visita in Iran del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, prevista per il 12 e 13 aprile, Nessuno Tocchi Caino presenta un Appello di prestigiose personalità del mondo della cultura al premier italiano perché negli incontri coi massimi rappresentanti della Repubblica Islamica affronti la questione dei diritti umani e, in particolare, della pena di morte, di cui il regime dei mullah è tra i primatisti mondiali. Nel corso della conferenza stampa, che s’è tenuta oggi pomeriggio nella sede dell’Associazione che si batte per l’abolizione pena di morte, sono stati anche illustrati i dati sulle esecuzioni effettuate in Iran nel 2015 e nei primi tre mesi del 2016, dai quali emerge una escalation senza precedenti nella pratica della pena capitale sotto la presidenza Rouhani. Intanto, l’altro ieri, sono stati impiccati 5 detenuti. Nel frattempo, ben cinque detenuti sono stati impiccati l’altro ieri mattina nel carcere Lakan di Rasht, nella provincia iraniana di Gilan, per reati legati alle droghe. Il 7 aprile scorso, i cinque erano stati messi in isolamento. Sono stati identificati solo tre dei giustiziati, Rashid Kouhi, Seyed Javad Mirzadeh e Hossein Farhadi, mentre Iran Human Rights sta cercando di risalire all’identità degli altri due. Secondo Amnesty International - che qualche giorno fa ha diffuso un dettagliato rapporto dal quale risulta un aumento drammatico delle esecuzioni, che nel 2015 hanno superato tutti i record degli ultimi 25 anni - il 36enne Rashid Kouhi era stato arrestato nel settembre 2011 e condannato a morte dal tribunale rivoluzionario di Rudbar, una contea del Gilan, per il possesso e traffico di 800 g di metanfetammine. Secondo fonti vicine a Iran Human Rights, le autorità il 7 aprile hanno contattato i familiari di Kouhi per informarli che il giorno seguente avrebbero potuto incontrare il condannato per un’ultima volta. Tra i responsabili del gran numero di esecuzioni c’è l’Iran. Sebbene ci sia, a livello globale, sempre più Stati che aboliscono la pena capitale, si è avuta dunque una recrudescenza impressionante di condanne capitali eseguite nei paesi in cui il patibolo è ancora praticato. La spirale di esecuzioni è dipesa in larga parte da Iran, Pakistan e Arabia Saudita. Nel 2015 sono stati messi a morte almeno 1634 prigionieri, oltre il doppio rispetto all’anno precedente e il più alto numero registrato da Amnesty International dal 1989. Il dato del 2015 non comprende la Cina, paese dove è probabile che le esecuzioni siano state migliaia e che tuttavia tratta le informazioni sulla pena di morte come segreto di stato. I firmatari dell’appello. Ad aderire all’appello rivolto al Presidente del Consiglio Renzi sono stati, tra gli altri: Roberto Saviano, Susanna Tamaro, Dacia Maraini, Marco Bellocchio, Erri De Luca, Sandro Veronesi, Liliana Cavani, Raffaele La Capria, Moni Ovadia, Marco Risi, Giuliano Montaldo, Goffredo Fofi, Oliviero Toscani, Furio Colombo e numerosi altri.