La scuola che include e quella che esclude Mattino di Padova, 11 aprile 2016 Le testimonianze delle persone detenute, la storia delle loro vite difficili spesso hanno in comune un’esperienza scolastica negativa, nella quale la scuola non ha saputo vincere una sfida che è senz’altro faticosa, ma anche appassionante, che è quella di riuscire a far penetrare nella testa e nei cuori di questi ragazzi la forza di passioni positive. Confronti "ravvicinati" tra un giovane studente e un giovane detenuto cinesi Non capita tutti i giorni o, meglio, tutti gli incontri con le scolaresche di vedere due stranieri parlare della loro prima esperienza nel nostro Paese. È successo con due ragazzi, entrambi immigrati dalla Cina in Italia in età adolescenziale. L’occasione, uno dei tanti incontri con gli studenti all’interno del carcere Due Palazzi di Padova nell’ambito del progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", durante il quale abbiamo assistito ad un confronto particolare tra questi due giovanissimi connazionali: il primo dei due si ritrova giovane detenuto, da poco entrato a far parte della redazione ma già in grado di raccontare la propria storia, quella che l’ha fatto entrare in carcere. Il secondo, più giovane di qualche anno, studente integrato in un istituto medio superiore di Treviso. Vista questa grande somiglianza di condizioni di partenza, cosa ha comportato un esito così diverso del loro processo di integrazione con il nostro sistema sociale? Ha provato a dare una risposta lo studente, che ha attribuito il merito della propria integrazione all’atteggiamento avuto dalla scuola che ha iniziato a frequentare appena arrivato a Treviso, ha definito i suoi insegnanti e i suoi compagni di classe come persone che sapevano ascoltare e rispondere alle esigenze che qualsiasi individuo manifesterebbe all’impatto con un sistema molto diverso da quello di origine. Questo gli ha permesso di abbattere la prima grande barriera che si interpone tra persone nate in paesi diversi, quella della lingua. E questo gli permette di affermare, con un pizzico di orgoglio per il nostro criticato sistema scolastico, di aver sfruttato l’occasione che gli si era presentata. Quella di essere giunto in una scuola che si è mostrata inclusiva in tutte le sue espressioni. Il ragazzo finito in carcere invece nel suo racconto descrive chiaramente la difficoltà vissuta nell’impatto con il nostro sistema scolastico. La barriera della lingua per lui si è rivelata insormontabile. Evidentemente quando i due ragazzi uscivano da una normale giornata scolastica, i loro stati d’animo erano agli antipodi. Per uno la soddisfazione di aver intrapreso un percorso che lo sta portando all’integrazione con la civiltà che lo ha accolto, per il secondo un senso di frustrazione dovuto all’interagire con un sistema non in grado di ascoltare le sue esigenze di soggetto che stava attraversando una fase delicatissima dell’impatto con la nuova realtà. A casa per loro non c’era praticamente nessun sostegno per l’esperienza che stavano vivendo, visti gli impegni lavorativi di entrambi i genitori. Uno cominciava sempre più a credere di essere capitato nel posto giusto mentre l’altro, come segnale di rifiuto di un’esperienza frustrante, ha scelto di frequentare solo i propri connazionali. Era il contesto sociale in cui si sentiva accettato, in primis perché poteva comunicare con i suoi pari. E così è finito in carcere, per concorso in omicidio durante una rissa. Ora lui porta la testimonianza di un periodo difficile della propria vita a dei perfetti sconosciuti, quali sono gli alunni (e i docenti) che incontriamo in carcere. I componenti della comunità scolastica che ha accolto lo studente a Treviso hanno manifestato una dote importante: quella di saper ascoltare le esigenze di un giovane alunno straniero, spaesato, disorientato. A questa dote ne hanno unita un’altra, quella della pazienza, importante quando c’è la volontà di includere un soggetto totalmente estraneo ai fondamenti culturali e linguistici del Paese in cui è immigrato. È possibile trasferire questo modo di agire, quello della scuola "inclusiva" incontrata dallo studente cinese di Treviso, alla società che accoglie le persone uscite da un’esperienza carceraria, in modo particolare per soggetti che escono dopo lunghe pene detentive? Noi speriamo di sì. Andrea Donaglio Una scelta costata cara a un ragazzo del sud del nostro Paese Il motivo per cui mi trovo in carcere è che la mia è stata una scelta di vita criminale. Sono cresciuto insieme alle mie sorelle più grandi e il pilastro della mia vita, mia madre, in un quartiere popolare e disagiato di una cittadina campana, dove di civile a quei tempi non c’era neanche l’aria che si respirava. Conosco l’amarezza di queste mura, già da quando andavo a trovare in carcere mio padre e i miei zii. I ricordi che ho di allora sono molto sfocati, ero piccolo e in realtà non capivo neanche cosa fosse quel posto, con quelle porte spesse, con chiavi giganti da inserire in buchi enormi delle serrature. Mia madre, forse per non crearmi disagio, mi diceva che quei miei familiari stavano lì per lavoro! Non avevo motivo per non crederle, lei è stata sempre il mio punto di riferimento. Una sera d’inverno, avevo all’incirca 7/8 anni e stavo nel solito lettone di mia madre, d’improvviso bussarono alla porta, era strano perché non aspettavamo nessuno! Sono passati tanti anni, ma non potrò mai dimenticarlo, era la polizia, lo Stato che ammanettava mia madre, prendendosela dalle mie braccia, dividendomi dal suo calore. È stato un calcio in faccia, stavolta sapevo che non andava per lavoro in quel posto, mi sentivo deluso da lei, ma quelle persone che rappresentavano l’istituzione fecero maturare in me un sentimento di assoluto odio, e da allora in poi ho cominciato a guardarle solo come un ostacolo. Dopo quegli interminabili mesi di detenzione, vivendo un po’ con mio padre e le mie sorelle da mia zia, finalmente mia madre fece ritorno a casa e noi tornammo a essere una famiglia felice. Qualcosa in me comunque continuava a crescere, forse l’illegalità di quel quartiere mi attirava continuamente a diventare a tutti i costi già grande, mi sentivo troppo coinvolto in quel rione dove lo stato non rappresenta nulla, dal momento che ha solo contribuito a costruire un ghetto, di futuro spessore criminale. La scuola per me è stata solo di peso a quei tempi. Confrontarmi con i figli della buona società che fissavano le mie scarpe rotte o i libri usati che mia madre riusciva a comprarmi ugualmente con sacrificio, mi ha creato un notevole disagio ed è stata la possibile causa dei miei continui allontanamenti dalla scuola stessa, che mettevo in atto scappando dalla finestra del bagno o inventandomi una scusa con mia madre per non andarci proprio. Preferivo i vicoli di strada dove mi sentivo uno scugnizzo e facevo i primi guai a destra e sinistra, come se fosse un gioco da sperimentare sempre più a fondo, in luoghi dove forse è più facile giocare con una pistola che con un trenino, vivendo nell’assoluta trasgressione. La curiosità di un adolescente, in uno dei tanti rioni affamati del sud ha spinto anche me all’ambizione di conoscere il contenuto di quei cartoni che vedevo girare, e che erano carichi di sigarette di contrabbando, e quelle buste piene di droga e i montacarichi d’ascensori pieni di armi. Appena è arrivato il momento di "crescere", ho cominciato a commettere i primi semplici furti e a sentirmi anch’io nell’illecito, come se fosse una prova da superare. Dopo i 13 anni volevo sentirmi grande, insieme ad un gruppetto di ragazzi più grandi di me, provando le prime canne e molto ancora. Insieme a me crescevano anche le mie cattive abitudini, fumare spinelli, vestirmi bene per sentirmi anch’io alla moda insieme ai miei coetanei, di classe borghese, più fortunati, e mettere anche sotto il mio culo una sella di un motorino e benzina a volontà per scorrazzare per la città. Ovviamente con un unico scopo, spacciare, rubare e fare tutto quello che mi poteva riempire le tasche e mi faceva star bene. È da dire però, che non tutti hanno preso le mie stesse decisioni, di diventare appunto un delinquente per scelta. Una buona parte dei ragazzi di quei quartieri ci proverà però, a fare una vita diversa! Io ammetto di essermi innamorato completamente di questa donna chiamata Malavita. Io puntavo sempre più in alto, rimanendo ostile e ribelle a tutto quello che mi ostacolava, e alimentandomi di questa vita, anche con il consumo spropositato di sostanze stupefacenti che mi facessero perdere il senso della realtà. Il mio obiettivo senza dubbio era di viaggiare a 1000 ispirandomi al piccolo gangster, facendo risse e scorrazzando come un bulletto nell’illegalità. Giustamente è arrivato anche il momento che qualcuno mi fermasse, e mi hanno sbattuto in un istituto minorile. Ma il risultato forse non è stato quello che volevano. Con questo cosa voglio dire? che per me, come per tanti altri, il carcere, quella scuola del crimine, è stato solo un pass per montarsi di più la testa e affermarsi in quella vita spericolata. Raffaele Delle Chiaie Franco Roberti: "Reclutamento in carcere, 500 minori a rischio Jihad" di Gianluca Di Feo La Repubblica, 11 aprile 2016 Il procuratore nazionale antimafia e la strategia anti-terrorismo: "Il traffico di droga è un’arma. Dobbiamo agire subito o saremo come Belgio e Francia". Tutti lo chiamano "Mister Marlboro", perché il suo nome algerino è troppo complesso per gestire traffici di sigarette, armi e droga che dal cuore del Sahara spaziano in due continenti. Mokhtar Belmokhtar però non è un semplice boss: si è affiliato ad Al Qaeda nel Maghreb e ha contribuito a fondare un gruppo vicino al Califfato, i Murabitun, responsabile degli ultimi attentati nel Mali. Ecco, è lui il prototipo dei nuovi jihadisti, da Musab al-Zarqawi - il contrabbandiere giordano che ha forgiato lo Stato Islamico - fino ai pusher di Molenbeek diventati kamikaze. Secondo Franco Roberti, sono proprio le biografie dell’ultima leva fondamentalista che fanno capire come mafiosi e terroristi non siano nemici: hanno gli stessi modi di agire, coltivano interessi convergenti e spesso sono in affari. Il procuratore nel 2013 ha preso la guida della Dna, la "Direzione nazionale antimafia" dove adesso la a finale sta anche per "antiterrorismo". E ora Roberti ha condensato la sua esperienza quarantennale e le sue idee su questa duplice sfida in "Il contrario della paura", un libro scritto con il giornalista di Repubblica Giuliano Foschini ed edito da Mondadori. Con un caposaldo: l’Italia deve agire subito per prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani. "È la questione fondamentale. Cito un dato allarmante che mi è stato trasmesso pochi giorni fa: metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la Jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione. In Italia pensiamo di correre pericoli inferiori ai francesi e ai belgi. Probabilmente è vero: la comunità musulmana nel nostro paese è diversa, le seconde generazioni qui sono ancora adolescenti. Ma se non interveniamo subito, tra cinque-dieci anni ci troveremo nella stessa situazione di Bruxelles o delle banlieue parigine. Già oggi la minaccia crescente sono i giovani che dall’Italia vogliono andare a combattere in Siria, superiore al numero che conosciamo. Un fenomeno che stiamo cercando di fermare". Molti, anche negli apparati investigativi, credono che le mafie italiane possano bloccare le attività terroristiche, soprattutto nelle regioni meridionali. Lo stesso Totò Riina avrebbe millantato di potere tenere lontane l’Is e Al Qaeda. "Non è vero, anzi è esattamente il contrario. Da sempre mafie e terroristi fanno lo stesso gioco. Negli anni di piombo le migliori regie investigative venivano distolte dall’eversione, permettendo a Cosa nostra e alla camorra di crescere. Ma ci sono tanti elementi del passato e del presente che ci indicano come mafia e terrorismo siano in affari. L’autofinanziamento jihadista avviene prevalentemente con il traffico di stupefacenti, gestito insieme alla criminalità organizzata: gli attentati di Madrid nel 2004 sono stati pagati così. Nell’ultimo anno poi sono state sequestrate tonnellate di droga su navi lungo la rotta Casablanca-Tobruk e che erano sicuramente gestite da soggetti legati allo Stato Islamico. L’Is è un punto di svolta, perché incarna l’intreccio tra terrorismo e criminalità: è una realtà mafiosa che sfrutta il controllo del territorio per attività di imprenditoria criminale come il traffico di droga, il contrabbando di petrolio e di reperti archeologici, i sequestri di persona". Un altro dei grandi traffici sembra essere quello di profughi e migranti che attraversano il Mediterraneo. "Ho davanti gli ultimi dati. Con il contributo della Dna, tra gennaio 2015 e aprile 2016 sono stati arrestati 530 scafisti e 45 trafficanti. Partono prevalentemente dalla Libia - dall’inizio dell’anno 18.578 persone su 19.315 vengono da lì - dove non possono non essere controllati dallo Stato Islamico. Ci sono diversi casi di terroristi entrati in Europa sui barconi, ma il vero rischio è che una parte delle persone che arrivano da noi finiscano per radicalizzarsi nei prossimi anni. Anche su questo fronte bisogna rispondere garantendo diritti: abolire il reato di immigrazione clandestina, ridurre le attese per le domande d’asilo, combattere lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari". Di sicuro l’hashish esportato dai trafficanti di Dio come Mister Marlboro arriva sulle nostre piazze di spaccio. Lei nel libro propone la depenalizzazione delle droghe leggere. "Non faccio una proposta, pongo un problema: oggi ci sono molte più risorse investigative sul fronte delle droghe leggere, ma il consumo continua ad aumentare. Perché invece non concentriamo le forze migliori per il contrasto agli stupefacenti pesanti e soprattutto per aggredire chi li finanzia? Noi sequestriamo i carichi e colpiamo le persone che li smistano, ma ai santuari finanziari del narcotraffico non ci arriviamo mai. Bisogna modificare obiettivi e procedure in modo da agire, soprattutto con operazioni sotto copertura, per bloccare i soldi non più a valle - come facciamo oggi confiscando i beni dove vengono investiti i proventi - ma a monte. La chiave è tutta nella lotta al riciclaggio. Anche contro il terrorismo". Nel libro lei descrive quanto l’esperienza maturata in Italia combattendo le mafie può aiutare l’Europa nella lotta al terrorismo. "Noi mettiamo la nostra esperienza operativa a disposizione dell’Europa. Abbiamo una cultura del coordinamento che dobbiamo a Giovanni Falcone: lui prima di tutti e più di tutti propugnava lo scambio informativo. Adesso la circolazione tempestiva e completa delle notizie deve avvenire a livello europeo, superando le gelosie nazionali e le burocrazie degli apparati Ue". Le Procure e la guerra dei vent’anni di Marcello Sorgi La Stampa, 11 aprile 2016 Tra caso Regeni e crisi diplomatica con l’Egitto, riforme istituzionali al passaggio finale alla Camera, trattative con Bruxelles sul Def (Documento di programmazione economica) e referendum sulle trivelle domenica prossima, si apre oggi per Renzi una settimana molto dura, dopo quelle in cui il governo s’è trovato tutto insieme alle prese con il caso Guidi e l’inchiesta sul piano petrolifero della Basilicata. Una singolare coincidenza ha voluto che l’elezione del nuovo vertice dell’Anm, sindacato dei magistrati, coincidesse con lo scontro più aspro tra Renzi e le toghe. Per aver criticato il modo di agire dei pm di Potenza, la somministrazione a rate di verbali di intercettazioni riguardanti, prima una ministra, poi un’altra e un altro ancora, per aver chiesto che il lavoro delle indagini si svolga con le necessarie cautele, senza mettere in discussione programmi e obiettivi del governo, Renzi è stato accusato di aver attaccato la magistratura né più né meno come faceva Berlusconi. E il nuovo presidente dell’Anm Pier Camillo Davigo, nome-simbolo, già componente dello storico pool di Mani Pulite, appena eletto, ha messo le mani avanti rispetto all’eventualità che l’esecutivo voglia ridare impulso alla riforma delle intercettazioni, attualmente bloccata al Senato. Quella tra politica e magistratura, si sa, è una guerra che si trascina da più di un ventennio: da quando, appunto, fu svelata, proprio dal gruppo di magistrati di Milano, guidati dal procuratore Saverio Borrelli, di cui facevano parte Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e lo stesso Davigo, la rete di corruzione avviluppatasi attorno alla Prima Repubblica, e che ne determinò la caduta. A oggi, un giudizio storico condiviso su quell’esperienza non è stato raggiunto: perché se fu giusto perseguire le trame affaristiche che arrivavano ai vertici dei partiti e dello Stato, i metodi con cui l’obiettivo fu raggiunto e gli scivolamenti, in alcuni casi, nel fare di tutta l’erba un fascio, in seguito hanno dato luogo a numerose critiche e a frequenti interrogativi rimasti aperti. Inoltre la corruzione, in Italia, non s’è certo fermata, ed anzi in un certo senso è peggiorata, talvolta perfino a discapito della politica. Una riforma complessiva della giustizia è stata tentata e mai realizzata lungo questi oltre vent’anni, in tutte le legislature dal 1994 a oggi. La resistenza dei giudici fuori e dentro il Parlamento, quella di politici che a destra e a sinistra hanno trovato conveniente fiancheggiare il giustizialismo, e, da ultima, l’ondata populista che mira a dimostrare la pretesa che la politica sia di per sé corrotta, ne hanno impedito fin qui un serio e sereno esame. In quest’ambito, è evidente, assimilare Renzi a Berlusconi serve a chiudere ogni discorso in materia prima ancora che possa essere riaperto. Sebbene sia fuor di dubbio che esista una differenza tra i due. Berlusconi infatti protestava contro i giudici che lo perseguivano per le sue attività di imprenditore, precedenti alla sua discesa in politica. Lo faceva, spesso, esagerando e forzando la mano, come quando faceva approvare in Parlamento le cosiddette "leggi ad personam", scritte dai suoi avvocati per bloccare i processi a suo carico. Ma talvolta, occorre riconoscerlo, aveva ragione, considerando le non poche volte in cui le accuse contro di lui sono cadute. Renzi invece ha sollevato un’altra questione, che non lo riguarda direttamente e concerne più in generale il rapporto tra politica e giustizia. Per inciso, sulle questioni personali o familiari, sue o di suoi ministri, chiede che si faccia presto a emettere i giudizi, e chi ha sbagliato paghi. Per il resto, vuol sapere dai magistrati se siano in grado di garantire che la giustizia faccia il suo corso, senza bloccare o paralizzare l’azione del governo: come sta succedendo in Basilicata e come ha rischiato di accadere in molte altre circostanze in cui le opere pubbliche hanno dato spunto a inchieste anti-corruzione, cominciate con arresti e diffusione di intercettazioni, e sfociate in interruzioni dei lavori, quando non alla rinuncia ai progetti. Va detto - e Renzi sa di doverne tener conto - che gli esempi del Mose di Venezia o degli inizi dell’Expo di Milano, per citare due esempi recenti, hanno dato ragione alle procure e hanno visto cadere anche teste importanti, senza distinzione, destra o sinistra, di provenienza politica. Ma l’equazione "appalti uguale corruzione" porterebbe il Paese a una sorta di paralisi che non può più permettersi: su questo, Renzi vorrebbe un segnale dalle Procure. E al di là di qualche passaggio sgradevole che il premier s’è lasciato scappare, la sua posizione verso la magistratura, al contrario di quella dell’ex Cavaliere, ha l’ambizione di essere dialogante. Non avrebbe creato un Autorità nazionale anticorruzione, affidandola a un ex magistrato come Cantone, se non fosse consapevole che la corruzione in Italia ha raggiunto il livello di guardia. Non avrebbe nominato Guardasigilli un ministro cauto come Orlando, se non fosse convinto che la riforma della giustizia dev’essere realizzata anche a prezzo di compromessi con i giudici. Quel che serve capire, adesso, è se la magistratura ha le stesse intenzioni, o ancora una volta sceglierà di resistere alla volontà riformatrice del governo, chiudendosi al confronto e alzando il fuoco di fila delle inchieste e delle intercettazioni. La scelta di un magistrato prestigioso come Davigo farebbe propendere per la prima ipotesi. Le sue prime dichiarazioni, minimaliste e contrarie a seri cambiamenti in materia di intercettazioni (che peraltro Renzi non vuole, puntando solo a un’autoregolamentazione dei pm), qualche dubbio lo lasciano. Ma sono soprattutto le modalità della sua elezione alla guida dell’Anm a spingere verso il pessimismo. Quale sindacato in Italia eleggerebbe un leader carismatico per un solo anno, facendogli in pratica firmare la lettera di dimissioni prima di insediarsi? Cosa potrà fare l’ottimo Davigo nei dodici mesi in cui potrà appena prendere confidenza con il suo nuovo ruolo? Come potrà accettare, sempre Davigo, eletto a furor di toghe sull’onda della rivolta contro le correnti della magistratura, di esser governato e giubilato in così poco tempo da quelle stesse correnti? Sono queste domande, a cui è difficile trovar risposta, a far temere che la lunga guerra tra politica e giustizia non sia affatto finita. E difficilmente possa trovar pace nel confronto, tutto da costruire, tra Renzi e Il nuovo presidente dell’Anm. Mano tesa di Renzi ai pm "Non tocco le intercettazioni" di Giovanna Casadio La Repubblica, 11 aprile 2016 Il premier: però gli affari di famiglia restino riservati. La scelta di evitare scontri in vista dei test elettorali. Nessun giro di vite o sconfinamento nelle prerogative dei giudici. Renzi offre la tregua, dopo che l’inchiesta di Potenza su Tempa Rossa e lo stillicidio di affari pubblici ma anche privati intercettati come quel "mi tratti come una sguattera del Guatemala" dell’ex ministra Federica Guidi al compagno, avevano portato premier e magistrati sull’orlo dello scontro. Renzi abbassa i toni e spiega: "Certo che le intercettazioni servono. Ci sono molti magistrati che sono molto seri nell’usarle. Servono per scoprire i colpevoli, ma tutti gli affari di famiglia e i pettegolezzi sarebbe meglio non vederli sui giornali. Molti magistrati non passano queste intercettazioni, spero ci sia buonsenso da parte di tutti". È al Tg5 che il premier parla dei risultati del governo, a cominciare dalla riforma costituzionale che arriva al voto definitivo domani ("Mi emoziona e anzi mi commuove che siamo alla fine di un percorso, un gigantesco passo avanti per l’Italia" ) e delle nuove scommesse. C’è molta carne al fuoco, e soprattutto ci sono mine disseminate sulla strada tutta in salita dell’esecutivo, dal referendum sulle Trivelle di domenica prossima, alle amministrative di giugno, al referendum costituzionale di ottobre, alle mozioni di sfiducia. Quindi la scelta è di evitare i conflitti. Che fine fa il Ddl intercettazioni, allora? - Davide Ermini, il responsabile Giustizia del Pd spiega che va avanti al Senato e che prevede la delega al governo. Delega nella quale non si toccano le intercettazioni ma se ne regolamenterà la diffusione. Grillo, il leader dei 5Stelle, attacca e paragona Renzi a Berlusconi: "Pubblicatele tutte le intercettazioni, no al bavaglio". Ma il premier ribatte: "A differenza del passato quando i politici cercavano il legittimo impedimento, ora c’è un governo che dice ai magistrati: prego, lavorate. Un magistrato deve farsi sentire attraverso le sentenze". Ok definitivo sulle riforme - E ieri Renzi ha preparato il discorso che terrà oggi pomeriggio alla Camera sulla riforma costituzionale. Affronterà punto per punto tutte le obiezioni, spiegando anche perché lega il destino del governo al referendum costituzionale. Se a ottobre la riforma della Costituzione è bocciata, se vince il No, va a casa: ha detto. In tv non manca l’affondo alle opposizioni: "Spero che le opposizioni votino, se avranno i numeri vinceranno, ma non fare votare è quanto di più antidemocratico ci sia". Aggiunge: "Presentano mozioni di sfiducia ogni 15 giorni, quando sono informa ogni settimana...". Ostruzionismo - I 5Stelle e Sinistra italiana pensano alla tattica ostruzionista per non votare subito già domani la riforma costituzionale a Montecitorio. Il premier avverte: "Se sei consapevole e forte delle tue idee, non fai ostruzionismo". Il rush finale della riforma ha uno strascico di polemiche. Mentre il grillino Di Maio lancia la sfida per le amministrative: "Se vinciamo nelle grandi città li indeboliremo e andiamo verso le politiche". Referendum trivelle - Divide trasversalmente il partiti il referendum sulle Trivelle, n Pd invita all’astensione anche se numerosi leader andranno a votare e il "governatore" dem della Puglia, Emiliano è capofila delle Regioni che hanno voluto il referendum. Da Berlusconi a Mastella, quel "bavaglio" che nessuno è mai riuscito ad approvare di Mattia Feltri La Stampa, 11 aprile 2016 Dietro il braccio di ferro sull’ascolto delle telefonate la paura di finire come Prodi. Il caso di Debora Serracchiani, uno fra mille, è interessante. Cinque anni fa, nell’aprile 2011, l’esponente del Pd diceva che "l’informazione libera è il peggior nemico di Berlusconi e quindi la sua priorità è tapparle la bocca". Il Pdl era al governo e progettava, ancora una volta, di regolamentare l’uso e la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, che in quei mesi offrivano i dettagli dei rapporti fra il premier e le sue amichette. Serracchiani aveva individuato nel centrodestra "un’autentica ossessione" contro "una libertà fondamentale dello stato di diritto", prova di "un nervo scoperto del sistema di potere berlusconiano". Nessuno, scriveva su Facebook, fa il politico "perché glielo ha ordinato il dottore", quindi accetti pubblicità anche "sui comportamenti privati". Il vicesegretario del Pd ha poi modificato opinione. "Non si può tirare troppo la corda. Che ci fosse necessità di regole chiare sulle intercettazioni si sapeva", ha detto già la scorsa estate commentando le disavventure del governatore siciliano Rosario Crocetta. È un’urgenza che fino a ieri sera sembrava condivisa dal presidente del Consiglio, prima disinteressato al problema e adesso persuaso che "le sentenze si fanno nei tribunali" e non su "un giornale che pesca in un anno e mezzo di intercettazioni la frase più a effetto". Il ministro Andrea Orlando ha ricordato con amarezza che da otto mesi la legge di riforma giace in Senato, ed è sorprendente vista la determinazione dell’esecutivo in altri provvedimenti. La vecchia teoria secondo cui i garantisti sono sempre al governo aiuta a spiegare perché da due decenni la legge non va oltre la fase del dibattito: persino il centrodestra, quando è all’opposizione, non si industria più di tanto nel timore di aiutare una maggioranza nemica. Poi c’è la contrarietà irriducibile della magistratura che, nell’attività di lobbying, è particolarmente efficace. E sabato, appena eletto presidente dell’Associazione nazionale, il sindacato di categoria, l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo si è dichiarato disponibile al dialogo. E, a proposito di intercettazioni, il dialogo si è annacquato presto: "Superfluo". Niente ritocchi. Basta la legge sulla diffamazione, dice Davigo, nonostante la diffamazione colpisca (e non sempre) chi pubblica le conversazioni penalmente irrilevanti e mai chi le fornisca ai giornali. Per il governo le premesse non erano incoraggianti, anche perché ieri Marco Travaglio ha ricordato quello che lui chiama "Fattore Sfiga", con una curiosa adesione alle teorie del caso. Che fosse semplicemente sfortuna o qualcosa di più, poco importa: importa che chi si è messo a brigare con varie "leggi bavaglio" è durato nulla, Giuliano Amato nel 1993, Berlusconi nel 1994, Romano Prodi nel 2008, ancora Berlusconi nel 2011. Forse ieri, prima di registrare l’intervista al Tg5 in cui prontamente esclude di mettere mano alla materia e di muovere guerra alla magistratura, Renzi deve avere ricordato proprio il secondo governo di Prodi. Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, aveva preparato una disciplina delle intercettazioni molto contestata dall’Anm e, dentro la maggioranza, da Antonio Di Pietro. La legge era passata in un ramo del parlamento e si era fermata nell’altro, anche per l’avviso di garanzia a Mastella e per l’arresto della moglie, Sandra Lonardo: poi di condanne non se ne sono viste, ma Mastella tolse la fiducia a Prodi che non gli concedeva solidarietà politica. E il governo venne giù, con le sue leggi in sospeso. Il nuovo presidente dell’Anm Davigo: "per le intercettazioni non servono giri di vite" di Liana Milella La Repubblica, 11 aprile 2016 Pier Camillo Davigo contro la riforma: "Se vogliono, pene più alte per chi diffama". Volto pallidissimo per tutto il giorno. Pier Camillo Davigo, il dottor Sottile di Mani pulite confessa: "Mi sveglio sempre alle 4 per scrivere le sentenze. Ho provato a piantarle, ma non crescono da sole...". Comincia la guerra con Renzi? "Non commento perché non ho ancora potuto parlare con la giunta". Però Giulia Bongiorno twitta "caro Renzi quanto mi ricordi Berlusconi con questo terrore per le intercettazioni". Ce ne sono troppe in giro, a partire da quelle di Potenza? "Glielo ripeto, non ho ancora consultato la giunta, ma posso ripetere ciò che dico da molto tempo: la pubblicazione di intercettazioni davvero non pertinenti è già vietata dalla legge penale quantomeno dal reato di diffamazione. Se non rientrano in quel reato o sono pertinenti oppure si tratta di fatti che attengono all’operato di un pubblico ufficiale. Nel qual caso la pubblicazione è lecita". Da oltre vent’anni però la politica chiede una nuova legge per limitare magistrati e giornalisti sulle intercettazioni. È necessaria? "Se si ritiene che le pene per la diffamazione non siano adeguate, basta aumentare quelle. Il resto è superfluo". Ma è possibile che per legge si decida che cosa si può pubblicare oppure no, dove passa il limite tra la prova di un reato e la violazione della privacy? "Ci sono limiti ovvi che la legge pone alla pubblicazione di notizie. Nessun giornalista pubblicherebbe mai i codici di lancio delle testate nucleari anche se ne venisse in possesso, perché le pene sono severissime. Ma dipende sempre dai valori che si devono tutelare". Diventa presidente una figura come la sua, importante per la storia delle indagini italiane. Il suo passato condizionerà il suo incarico? "Ovviamente tutti facciamo tesoro delle nostre esperienze, ma il presidente dell’Anm non è un uomo solo al comando". Lei ha fama di "duro". Sarà così intransigente, dottor Davigo, anche da domani? "Non si tratta di essere intransigenti, ma di avere chiari i principi. "Sia il vostro dire sì sì, no, no. Il di più viene dal maligno" così è scritto nel Vangelo". Renzi e quella frase, "brr...che paura", perché ha detto subito pubblicamente che non le è piaciuta? Per accattivarsi i suoi colleghi? "Perché è la verità, quella frase non mi era piaciuta". Come giudica un governo che fa la responsabilità civile, taglia le ferie e l’età pensionabile praticamente senza contraddittorio? "Possiamo dire poco dialogante?". Nel merito era d’accordo o no? "No. Nessun datore di lavoro ridurrebbe le ferie ai dipendenti senza dialogare. È stata gabellata come un rimedio a problemi giudiziari che hanno tutt’altra causa la legge sulla responsabilità civile, che non serve a prevenire errori e comunque ci costa poco più di quello che pagavano prima di assicurazione, ma fa credere che gli errori possano dipendere soprattutto da negligenze e non da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi. La riduzione brusca dell’età pensionabile senza assicurare la copertura dei posti che si rendevano vacanti ha aumentato ulteriormente la scopertura di organico dei magistrati". La corruzione, l’evasione fiscale, i condoni. Finora il governo ha fatto una lotta seria? "La legge di iniziativa governativa che ha aumentato le pene per alcuni reati contro la pubblica amministrazione e introdotto una riduzione di pena per chi collabora è meglio di niente, ma per fronteggiare reati così gravi e così diffusi ci vogliono strumenti molto più efficaci, ad esempio le operazioni sotto copertura. Negli Usa mi sono sentire chiedere: ma in Italia fate le indagini sulla corruzione? Ho risposto che cercavamo di farle. Mi è stato obiettato che erano indagini troppo difficili. Mi sono stupito e ho chiesto se loro lasciassero rubare. Mi è stato detto che loro facevano il "test di integrità". Dopo ogni elezione mandavano agenti di polizia sotto copertura ad offrire denaro agli eletti. Quelli che lo accettavano venivano arrestati. Mi hanno detto che così, ad ogni elezione, ripulivano la classe politica". Perché in Italia invece non si approva subito? "Questo bisogna chiederlo a chi è contrario". Il Pd stava con voi toghe, vi ha portato in molti in Parlamento, adesso invece vi attacca. La politica è comunque insofferente ai controlli? "La domanda è faziosa. Ci sono stati magistrati eletti sia per il centrosinistra che per il centrodestra. La mia personale opinione è che i magistrati farebbero bene a non fare mai politica". Renzi dice che lui non è Berlusconi perché non fa le leggi per bloccare i suoi processi. Però da quando è esplosa Potenza non fa che criticare i magistrati. Qual è l’effetto? "A titolo personale dico che tra gli applausi e i fischi ho sempre preferito i fischi, tengono alta la soglia critica e aiutano a sbagliare di meno". Orlando non è polemico come Renzi. Comincerà a parlare con lui? "È tradizione che ogni nuova giunta esecutiva centrale chieda di essere ricevuta dal ministro della Giustizia. Io rispetto le tradizioni". Durante la sua campagna elettorale per Autonomia e indipendenza, la sua corrente, aveva annunciato che l’Anm avrebbe controllato il Csm soprattutto per le nomine criticando quelle cosiddette a pacchetto. Comincerà a controllare quella di Milano? "Tanto per cominciare quella di Milano deve ancora avvenire e non è a pacchetto, almeno che io sappia. Il problema delle nomine a pacchetto è che può accadere che l’unanimità non significhi il riconoscimento di meriti, ma sancisca una spartizione. E questo non credo sia ciò che i magistrati si attendono". Il Pm di Torino Spataro: "solo il giudice, non il governo, può decidere cosa è rilevante" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 11 aprile 2016 Il procuratore di Torino, la cui circolare su privacy e diritto all’informazione è stata citata spesso dai politici: "La legge delega? Il testo è generico, non chiarissimo". I politici hanno detto più volte di voler "prendere a modello" la circolare del procuratore di Torino, Armando Spataro, storicamente uno dei più fieri oppositori delle norme bavaglio. Procuratore è riuscito a salvaguardare privacy e diritto all’informazione? "Mi sembra un po’ esagerato, nella circolare mi sono limitato a prendere come riferimento norme esistenti. E, mi permetta la battuta, tanto immeritato consenso mi fa temere di avere sbagliato qualcosa". Con la sua circolare le intercettazioni di Potenza sarebbero sui giornali? "Non conosco l’inchiesta e ho letto poco i giornali. Ma se si indaga per traffico di influenze non si può pensare che la telefonata rilevante sia solo quella in cui un interlocutore promette o ottiene un vantaggio illecito. In tal senso, in ciò che ho letto sui giornali, è difficile individuare quelle parti irrilevanti". E gli sfoghi privati della Guidi con il suo compagno? "Parlo in astratto. Il reato di traffico di influenze richiede lo "sfruttamento di relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio" e quindi per valutare la "condotta del farsi dare o promettere utilità" non è irrilevante la rete di rapporti personali". Ma allora la sua circolare cosa limita? "Quando un pm chiede un provvedimento restrittivo basato anche su intercettazioni, il giudice che accoglie la richiesta ha l’obbligo di depositare tutto, a tutela del diritto di difesa. E ciò far venire meno il segreto processuale di quegli atti. Ho chiesto ai colleghi della Procura, quindi, di prestare attenzione per quelle richieste a conversazioni inutilizzabili (come i colloqui con avvocati non indagati) e a quelle irrilevanti ma che in più contengano dati sensibili secondo il Codice della privacy. È già previsto, poi, che durante le indagini e dopo il deposito delle intercettazioni, le parti possono rivolgersi al giudice perché decida quali intercettazioni acquisire e far trascrivere e quali stralciare in quanto manifestamente irrilevanti in vista della distruzione successiva". Poi? "Ho raccomandato ai pm di fare notificare ai difensori anche la lista di quelle intercettazioni inutilizzabili o irrilevanti e con dati sensibili di cui intendono chiedere subito al giudice la distruzione, indicandone solo gli estremi identificativi. Gli avvocati possono ascoltarle, ma non averne copia. Non sarà così il pm, ma il giudice, in camera di consiglio ed in contradditorio tra le parti, a decidere poi cosa è rilevante o meno". Il presidente Renzi chiede di fermare il gossip. "Deve essere chiaro che non può essere in alcun modo il governo o il Parlamento a decidere a priori cosa è rilevante e cosa non lo è, ma solo il giudice in relazione al caso concreto. E la tutela della privacy che - guarda caso - viene invocata sempre e soltanto nei processi ai cosiddetti "colletti bianchi", e mai in quelli per altre forme di criminalità, è già assicurata dalla legge. Si può prevedere un prolungamento della fase di segretezza degli atti anche dopo il deposito per le parti e fino alla decisione del giudice. Le violazioni potrebbero, in quel caso, essere più efficacemente punite". Non è un bavaglietto? "Il pm si deve preoccupare di cercare le prove di responsabilità. La tutela del diritto-dovere di informazione è tutelata da altri principi come quelli affermati nella Costituzione e dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. E questa ha pure affermato che tale diritto si estende quando abbia a oggetto notizie su persone che rivestono cariche pubbliche". Le piace la legge delega del governo? "Non mi pronuncio in termini categorici. Ma trovo il lessico usato nel disegno di legge delega a volte un po’ troppo ovvio e generico, e non sempre chiarissimo. Se per esempio si intendesse prevedere che, a tutela della riservatezza, nei provvedimenti cautelari possano citarsi solo sintesi delle registrazioni non sono per nulla d’accordo. Il testo integrale serve infatti alla difesa per contestare l’interpretazione del pm". L’unica riforma delle intercettazioni è quella fai-da-te delle procure di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2016 Alla fine l’unica riforma delle intercettazioni potrebbe essere quella fai-da-te delle procure. Che, in assenza di un intervento di Governo e Parlamento, si stanno muovendo da sole. Il premier Matteo Renzi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando sono ormai in pressing sul Senato per sbloccare il disegno di legge delega approvato dalla Camera e da tempo incagliato in commissione. E qualche segnale è arrivato nelle ultime ore con l’avvio della discussione generale. Ma, se portare a casa la riforma è una priorità per l’Esecutivo, i tempi si profilano lunghi, visto che, rispetto alla versione uscita dalla Camere, sono date per inevitabili altre modifiche. Con relativa necessità di un nuovo passaggio alla Camera. Quanto ai contenuti, David Ermini, responsabile giustizia del Pd, assicura che "faremo una riforma delle intercettazioni che non ne toccherà minimamente l’utilizzo. I magistrati hanno il diritto di utilizzare come meglio credono le intercettazioni per l’amministrazione della giustizia. Ma abbiamo posto un rilievo sulla pubblicizzazione di quelle poco rilevanti sui giornali per quelle persone che nulla hanno a che fare nel processo". Tuttavia, forti sono le preoccupazioni di magistratura e organi di informazione, visto che, se da una parte la delega prevede un innalzamento delle garanzie sulla riservatezza delle comunicazioni, dall’altro apre all’introduzione di nuove regole che dovranno incidere sull’utilizzo delle intercettazioni in fase cautelare. Così, se il fronte parlamentare resta nebuloso, a farsi avanti sono state le Procure e, in particolare, alcuni dei più autorevoli capi procuratori. Quasi a volere dimostrare, con messaggio alla politica, che la legge attuale è più che sufficiente e, se proprio si deve intervenire, allora gli uffici sono in grado di procedere da soli. Primo a muoversi il capo procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (che peraltro già aveva sollecitato una stretta sulla divulgazione d’intesa con l’allora capo procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati) che, nel novembre scorso, ha sollecitato polizia giudiziaria e Pm a evitare di inserire nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine. Con un’attenzione particolare su 3 punti: le opinioni politiche o religiose, la sfera sessuale e le condizioni di salute; i dati personali di chi non indagato è intercettate indirettamente sui telefoni o negli ambienti frequentati dagli inquisiti; le conversazioni casualmente registrate con estranei alle indagini. E dopo Pignatone, Armando Spataro, alla guida della Procura di Torino, ha messo in campo una serie di prescrizioni a uso interno per evitare che vengano trascritte anche solo nei brogliacci conversazioni e dati inutilizzabili perché relativi a comunicazioni tra indagato e difensore oppure perché interessati dal Codice della Privacy. Al Pm titolare dell’inchiesta spetta poi anche la prerogativa di stralciare gli atti che non considera determinanti per lo svolgimento delle indagini chiedendone la distruzione. Distruzione che però sarà sempre filtrata dalla decisione del giudice, lasciando una limitata finestra di tempo (5 giorni) agli avvocati per prendere visione del materiale. A Roma e Torino, poi, si sono aggiunte anche le procure di Napoli e Firenze con il varo di linee guida per gestire il sempre impervio rapporto tra esigenze di informazione e tutela della riservatezza. Quel che resta delle mega-inchieste di Pierluigi Battista Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2016 C’è una bulimia narrativo-informativa che consuma intercettazioni rubate e altro materiale di indagini che poi no portano a risultati concreti, che si ricordino. Ma davvero c’è qualcuno in Italia, addetti ai lavori a parte, che sappia che fine hanno fatto le mega-inchieste che con il concorso mediatico di centinaia di migliaia di intercettazioni avrebbero dovuto scoperchiare il malaffare, le retate delle "cricche", i "sistemi", le "consorterie trasversali", le camarille criminali, tutto un rimescolio di ambienti, sottoboschi, reti, P4, P5, P6, P144, Vallettopoli 1 e Sanitopoli, Vallettopoli 2 e inchieste che "fanno tremare i vip", logge e loggette, "indagini a tappeto" che avrebbero potuto colpire al cuore il potere dei delitti e degli affari? In sincerità, senza consultare Google, chi si ricorda dei reati contestati, delle condanne, delle archiviazioni, nelle inchieste in cui si volevano ascoltare come persone informate dei fatti, pontefici e capi di Stato, sottosegretari e aspiranti dive della tv, politici "occulti" e "terzi livelli" di un "sistema criminale"? Niente, nessuno ricorda niente. Restano solo detriti, battute rubate al telefono, "i furbetti del quartierino", "la sguattera del Guatemala", o battute mai pronunciate ("la Merkel culona inchiavabile") che sono diventate vere anche se sono leggende metropolitane immortalate dai media: a quale inchiesta appartenevano, quale scandalo avevano dissotterrato, forse il Mose? No. Expo? Nemmeno. Qualche G8? Neanche. Un po’ di Rimborsopoli? Forse, ma quale? L’opinione pubblica è diventata bulimica. Ama l’intreccio di narrazioni giudiziarie e giornalistiche, le "inchieste-reportage" come le ha definite il magistrato Piero Tony, condite di dialoghi "dal vero", trame, turpiloqui, ambizioni, ricatti. Grandi affreschi "per conoscere", anche se la conoscenza di un ambiente, di una persona, di un gruppo non dovrebbe essere compito della magistratura che deve concentrarsi su ipotesi di reato circoscritte, fatti, documenti, responsabilità penali personali. Aiutate da un giornalismo pigro e fotocopiatore, dall’emergere di reati vaporosi, mai resi leggibili in modo inequivocabile, dal nome insieme altisonante e pieno di echi letterari ("traffico di influenze": geniale invenzione), le inchieste appagano come una serie tv ben costruita. Poi, non resta niente, nemmeno un ricordo, solo intrecci telefonici spudorati. E reputazioni distrutte. Oblio assoluto, però, anche per i magistrati protagonisti. Almeno una piccola soddisfazione. Sono un’intercettazione, trasformo in oro la melma e vi svelo il segreto del mio successo di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 aprile 2016 Piacere, mi presento, anche se immagino che mi conoscerete già. Il mio nome è "intercettazione", sono una tipetta che piace molto, ho le mie qualità, il mio fascino, le mie forme irresistibili, non a caso finisco quasi ogni giorno sui giornali, e oggi ho deciso di raccontarvi come passo le mie giornate e cosa faccio durante la mia vita. Vi starete chiedendo, forse, come abbia fatto un semplice nastro sbobinato a diventare un così potente strumento di seduzione di massa e anche se non so rispondere con esattezza a questa domanda posso dirvi quali sono le ragioni del mio sexappeal che mi hanno fatta diventare la migliore compagna di viaggio di magistrati e giornalisti. Come è potuto succedere? Breve rewind. In un tempo molto remoto, ricorderete, i magistrati, per condannare qualcuno, o anche semplicemente per indagarlo, avevano bisogno di prove concrete, di indizi circostanziati, di pistole fumanti. Oggi, invece, per organizzare un’indagine, e a volte anche per sbattere qualcuno in galera, posso bastare anche solo io - sono forte, no? - grazie a un meccanismo incredibile che non giudico (a me piace) ma che funziona così: si apre un’indagine, si fanno intercettazioni su intercettazioni, si pesca dalle intercettazioni non solo ciò che può costituire un indizio chiaro per provare un reato ma anche ciò che possa garantire a quell’indagine una generosa e gloriosa copertura mediatica, poi si miscela tutto insieme e, grazie a me, prende forma un processo speciale (il processo mediatico) che crea consenso attorno a un’indagine e che permette ai magistrati che portano avanti quell’indagine di trasformare i propri sospetti in definitive condanne mediatiche. Un capolavoro, grazie, lo so. Lo stesso discorso vale per i miei amici giornalisti. Breve rewind. Un tempo, vi ricordate?, si scrivevano articoli i cui contenuti venivano elaborati e persino ricercati personalmente dagli stessi giornalisti. Si facevano inchieste sul campo. Si parlava con molte persone. Si cercavano notizie. Si intervistava qualcuno, persino. Oggi, invece, quando si parla di giustizia, o di temi legati alla giustizia, qualsiasi cosa significhi oggi temi legati alla giustizia, si scrivono articoli i cui contenuti non sono altro che la trasposizione o la semplice rielaborazione di alcune intercettazioni: ve lo posso garantire per esperienza personale! Per i giornalisti, poi, la pacchia è pressoché totale. Non solo perché io, intercettazione, sono sempre concepita in modo tale da poter dare al cronista la possibilità di fare un bel titolo sull’inchiesta, ma anche perché tutto quello che finisce intercettato per il semplice fatto di essere stato trascritto e depositato in un atto diventa una notizia vera, a prescindere dal fatto che abbia o no rilievo penale (il rilievo penale, come direbbe il mio caro amico Marco Travaglio, è solo un gargarismo come il garantismo). Diventa qualcosa che, in modo incontestabile, è successo davvero. Come il testo di un Vangelo. Come il passaggio di un libro sacro. La pacchia dei miei amici giornalisti poi è doppia, perché spesso noi intercettazioni diamo ai cronisti la possibilità di realizzare un’operazione magica, miracolosa, roba da Padre Pio: trasformare, miracolosamente, le illazioni in verità, dando così ai giornalisti la possibilità di spacciare, a tutta pagina, il chiacchiericcio per uno scoop. Ultimamente devo dire che il mio potere taumaturgico inizia a impressionare anche me e mai avrei pensato di vedere quello che ho visto negli ultimi anni. In principio l’intercettazione funzionava così: serviva a incastrare un indagato. Successivamente l’intercettazione ha fatto un passaggio in avanti e ha cominciato a incastrare, a sputtanare, chiunque parlasse con un indagato senza essere indagato. Oggi siamo arrivati a uno stadio grandioso, sublime: l’intercettazione, essendo un testo sacro, una sacra scrittura, una sacra sbobinatura, condanna, moralmente, non solo un indagato o una persona che parla con un indagato, ma anche una persona che viene citata in un’intercettazione da una persona non indagata che parla con una persona indagata. Mica male, no? Potrei continuare a lungo a parlarvi di me e a raccontarvi alcuni segreti del mio successo. Potrei spiegarvi perché è stato grazie a me che alcuni giornalisti sono diventati famosi. Potrei raccontarvi che è grazie all’uso che hanno fatto di me alcuni magistrati che sono riusciti a diventare sindaci di alcune città. Potrei raccontarvi, vostro onore lo confesso, che spesso mi ritrovo nelle caselle di posta elettronica di alcuni giornalisti prima ancora di essere nella busta delle lettere di alcuni indagati. Potrei raccontarvi, infine, come ci siano fior fior di magistrati che hanno costruito delle carriere sfruttando il consenso mediatico che hanno generato abusando del fascino di noi intercettazioni. Potrei andare avanti per ore ma per svelarvi del tutto il segreto del mio successo vi basti questo. Se un tempo gli alchimisti trasformavano tutti i metalli in oro, oggi ci siamo noi intercettazioni che abbiamo la capacità di trasformare in un fatto ciò che un fatto non è. Con noi i peccati diventano reati. Con noi le illazioni diventano verità. Con noi la melma diventa oro. Siamo gli alchimisti del fango, e finché non ci metterete un bavaglino non ci potete fare niente, e continuerete a fare i conti ogni giorno con la nostra grande abilità: far diventare oro tutta la melma che gira. Arriva Davigo alla testa dei magistrati: notizia non ordinaria di Giuliano Ferrara Il Foglio, 11 aprile 2016 Non è notizia ordinaria l’arrivo di Piercamillo Davigo alla guida dell’associazione dei magistrati. Dall’anno culmine delle inchieste milanesi contro la corruzione è passato quasi un quarto di secolo. La reviviscenza nello spazio pubblico di uno dei capi del pool di Borrelli e Di Pietro, il suo insediamento alla guida della categoria dei pm, qualcosa significa. Renzi ha ridotto il potere di sindacati e Confindustria, ha ridimensionato le vecchie nomenclature politiche della sinistra, ha colpito di striscio la piramide della burocrazia, ma la magistratura organizzata e militante è sempre lì, in forme diverse e con strategie di ruolo diverse, a presidiare il territorio della politica. Davigo è la figura giusta per spiegare il fenomeno. Non è come formazione un magistrato di sinistra. Non è un ambizioso carrierista politico. Non è mai stato in ballo come portabandiera, come parlamentare, come sindaco, come ministro, come capo partito. In questi lunghi anni sono stati altri a gridare il loro "resistere resistere resistere", altri a imbrancarsi nei gruppi parlamentari, altri a proporsi come ministri e leader più o meno telegenici, altri a correre da sindaco o a organizzare partiti. Mentre i Di Pietro, gli Ingroia, i De Magistris e numerosi apparentati giravano sulla giostra, il dottor Davigo compiva la sua carriera professionale di vincitore di concorso. Ora la sua elezione, e il suo stesso discorso di insediamento sul rapporto tra magistrati e governo, ha tutto il sapore di una chiamata in servizio. Davigo è il grande riservista di cui c’è bisogno in un momento difficile della guerra intorno alla giustizia e alla politica. Il trattamento di Renzi "alla Berlusconi" non è impossibile, attraverso le intercettazioni e la grancassa mediatica puoi sputtanare chi e come vuoi, ma tutto è più complicato. I ministri investiti dalle indagini per piccoli e grandi sospetti di malaffare oggi si dimettono senza nemmeno discutere, l’impronta del potere esecutivo non è quella della resistenza a un assedio, i membri del governo si fanno convocare in quattro e quattr’otto, rispondono alle domande, non sollevano obiezioni di impedimento, l’aura della congiura e della difesa da una congiura non attecchisce. Ecco che bisogna recuperare una specie di deontologia della politica d’attacco della magistratura, affidare il conflitto a un uomo di legge che può far conto su una reputazione di neutralità tecnica. Davigo non è affatto uno stupido e alla lunga si è rivelato come un togato tenace più di chiunque altro nella difesa del suo ruolo e del suo giuoco di ruolo. Può anche essere che voglia ridimensionare, ricalibrare, rimettere con i piedi per terra e la testa in aria gli astratti furori che hanno portato tanti come lui a uno scontro belluino con i politici eletti. Ma non ne sarei tanto sicuro. Lo ricordo come un ideologo aspro e intransigente non solo e non tanto della legalità, che è la materia degli uomini di legge, ma del "controllo di legalità", che è l’ideologia della supplenza istituzionale e politica delegata alle procure nel passaggio traumatico da una Repubblica dei partiti a un’altra forma di stato restata per lo più indefinita. Staremo a vedere, ma non scommetterei un soldo bucato sulla sua disponibilità a limitare il prepotere della sua categoria e sulla sua indisponibilità a favorire il partito dei giudici come supplenti della politica. Nemmeno ora, nemmeno con una classe dirigente tanto cambiata dai fatti e dal tempo. Trentino: non ci sono Assistenti sociali Uepe; dovrebbero essere 12, da maggio saranno 3 di Chiara Bert Il Trentino, 11 aprile 2016 Addetti alle pene alternative: dovrebbero essere 12, da maggio saranno 3. "Non siamo più in grado di garantire i diritti". "Non siamo più in grado di svolgere il nostro lavoro in modo professionalmente adeguato e decliniamo ogni responsabilità per eventuali conseguenze imputabili all’agire di funzionari che continuano a lavorare in una situazione di emergenza". Firmato: gli assistenti sociali superstiti. Sono gli assistenti sociali dell’Uepe di Trento, Ufficio di esecuzione penale esterna, quello che si occupa di seguire i detenuti che chiedono l’accesso alle misure alternative al carcere: affidamento in prova al servizio sociale, domiciliari, semilibertà e, dalla fine del 2014, il nuovo istituto della messa alla prova previsto per alcune categorie di imputati in attesa di sentenza. Dovrebbero essere in 12, nell’ufficio. Oggi sono 5: una si è licenziata lo scorso dicembre perché non ce la faceva più, un’altra ha chiesto di essere prepensionata, "meglio rinunciare a una fetta di pensione che continuare a lavorare così". Dal 1° maggio saranno in tre, di cui uno part-time. Con un carico di lavoro che continua ad aumentare: nel 2015 i casi gestiti sono stati 1.647, di cui 600 di messa alla prova, con un trend in netta crescita, 736 casi nei primi tre mesi del 2015, un migliaio nel primo trimestre di quest’anno. Il risultato è una situazione potenzialmente esplosiva, dove i detenuti che avrebbero tutte le carte in regola per accedere alle misure alternative non possono farlo perché il personale non è in grado di seguire i casi. Una legge dello Stato che rimane inapplicata, mentre le carceri scoppiano: a Spini sono i detenuti sono 300, con una cronica mancanza di agenti di polizia penitenziaria. Il ritardo nella gestione delle pratiche si accumula e ci sono già state contestazioni nei confronti degli assistenti sociali, che hanno il compito di seguire sia la fase istruttoria (stilando una relazione per il tribunale prima della concessione della pena alternativa), sia la fase esecutiva (esigenze degli utenti, verifiche, modifica delle prescrizioni). "Siamo al collasso, nell’indifferenza generale", è il loro grido d’allarme. Le misure alternative sono la risposta che lo Stato ha messo in campo per combattere il sovraffollamento delle carceri e per dare alla detenzione uno scopo non solo di punizione ma anche di riabilitazione del condannato. I dati dicono che la recidiva di un reato si riduce al 17% se si schiudono le porte del carcere adottando pene alternative, mentre è del 67% se la detenzione viene scontata dietro le sbarre fino a fine pena. Ma perché queste misure possa essere applicate, e non restino solo un’enunciazione sulla carta, serve personale. Assistenti sociali innanzitutto, che mancano in tutta Italia. E il Trentino non fa eccezione, anzi. Il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria da cui dipende l’Uepe, che entro l’anno dovrebbe passare al Dipartimento giustizia minorile) ha bloccato da tempo le assunzioni. I carichi di lavoro sono arrivati a un livello non più sostenibile, lamentano gli assistenti sociali, che a febbraio sono tornati a scrivere al ministro della giustizia, al Dap, al Provveditorato di Padova da cui dipende Trento, al direttore dell’Uepe (l’interim è affidato al direttore del carcere di Spini), al presidente della Regione e della Provincia Ugo Rossi, al Tribunale di sorveglianza, alla Camera penale, all’ordine degli avvocati, all’Ordine degli assistenti sociali. Negli altri Paesi europei la media è di 30 casi a testa di messa alla prova, i casi in cui l’Uepe deve mettere a punto un complesso programma di trattamento del carcerato che prevede una serie di attività obbligatorie, un lavoro di pubblica utilità, condotte riparative, il risarcimento del danno, dove possibile un’attività di mediazione con la vittima del reato. "A Trento il carico di lavoro ha raggiunto i 280 casi per operatore", denuncia Luigi Diaspro (Funzione Pubblica Cgil), "si lavora solo sull’urgenza, senza riuscire a rispettare le scadenze, costretti a chiedere spesso e volentieri al tribunale di sorveglianza di rinviare le udienze". Nel 2015 il personale ha proclamato uno stato di agitazione in tutto il Triveneto: senza ottenere nulla. I contrattini a tempo determinato che in passato, con il progetto Master finanziato con i fondi europei, hanno consentito di tenere in piedi l’ufficio, sono scaduti e non sono stati rinnovati. L’appello dei lavoratori e del sindacato è rivolto anche alla Provincia, che già ha dimostrato attenzione: da fine del 2014 è stato aperto uno "Sportello diritti", con un’operatrice pagata 5 giorni a settimana per dare informazioni sulle nuove norme della messa alla prova. Ma le risorse si sono ridotte, e l’apertura è calata a tre giorni. "Con tutto il rispetto per i 5 milioni stanziati per rinnovare le caserme dei vigili del fuoco - osserva Diaspro - una Provincia come la nostra, nota per l’efficienza della sua pubblica amministrazione, non può lasciare sguarnito un ufficio così importante per i diritti costituzionali. Il grido degli assistenti sociali va ascoltato, e con loro quello dei detenuti". Gorizia: la sezione gay del carcere di potrebbe essere chiusa di Christian Seu Il Messaggero Veneto, 11 aprile 2016 Il Provveditorato penitenziario del Triveneto disponibile a rivedere la decisione. L’ex sottosegretario Corleone: "Scelta stravagante che sa di razzismo". Il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, che gestisce le carceri di Fvg, Veneto e Trentino Alto Adige, è disponibile a valutare soluzioni alternative alla sezione protetta isolata che consentano di tutelare i detenuti omosessuali nel carcere di Gorizia. A confermarlo è Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e attualmente coordinatore dei garanti territoriali per i diritti dei detenuti. L’ex parlamentare si è confrontato ieri con il provveditore triveneto Enrico Sbriglia, peraltro già direttore del carcere di Gorizia: "Ho ottenuto la disponibilità ad aprire un confronto sulla questione - spiega Corleone -, nata da una decisione quantomeno stravagante: Sbriglia mi ha assicurato che l’attivazione della sezione riservata agli omosessuali è dovuta alla necessità di tutelare da episodi di violenza gli stessi detenuti gay. Nella struttura protetta, peraltro, vengono inseriti soltanto gli omosessuali dichiarati che richiedono protezione da casi di violenza fisica o psicologica". Secondo il coordinatore dei garanti dei detenuti, tuttavia, la strada imboccata non è quella corretta: "Esiste un diritto alla riservatezza delle proprie scelte, anche in tema di orientamento sessuale - indica Corleone -. Oltretutto, la netta separazione tra i detenuti eterosessuali e omosessuali lede in maniera preoccupante la dignità di questi ultimi. Di fatto, si è lanciato un messaggio carico di razzismo e discriminazione ed è quindi opportuno eliminare quanto prima questa novità, oppure modificarla radicalmente: se l’obiettivo è sottrarre i detenuti omosessuali da situazioni di pressione e violenza, si individuino delle strutture con celle singole, da destinare ai carcerati gay". L’ex sottosegretario, che ha confermato di voler approfondire la questione, si confronterà nei prossimi giorni anche con il garante nazionale per i diritti dei detenuti, Mauro Palma: "Dobbiamo capire se quello di Gorizia è un caso isolato oppure no - spiega Corleone -. Personalmente, è la prima volta che vengo a conoscenza di una struttura destinata esclusivamente ai gay. Non possiamo fare gli stati generali per salvaguardare i diritti delle persone, a partire anche dalle questioni dell’affettività, e poi fare sezioni nelle carceri dove i detenuti vengono smistati in base all’orientamento sessuale". La sezione protetta destinata ai gay dichiarati è stata attivata nel carcere di Gorizia ad agosto: il primo detenuto ospitato nelle celle al primo piano dell’istituto di pena di via Barzellini è stato un quarantenne siciliano, arrivato dal carcere di Verona. Complice la carenza del personale in servizio nel carcere isontino, i detenuti accolti nel circuito protetto non hanno la possibilità di partecipare alle attività di rieducazione, costretti di fatto a passare le giornate isolati. La misura, adottata dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto è stata aspramente criticata sia dal garante regionale dei detenuti, Pino Roveredo, che dalle associazioni Lgbt, così come grandi perplessità sono state sollevate anche dai sindacati della Polizia penitenziaria, che lamentano un aggravio nella mole dei turni e la difficoltà oggettiva a gestire la sezione separata, attivata in un carcere che lamenta gravi problematiche di natura strutturale. Torino: la storia di Rachid e le presunte violenze di Chiara Proietti D’Ambra lettera43.it, 11 aprile 2016 Rachid Assarag mostra lividi su volto e gambe, accusando gli agenti di Torino. Dopo quelli di Parma. Al vaglio della procura l’audio del presunto pestaggio. È questo il ritratto che Rachid Assarag ha mostrato di se stesso, accusando la polizia penitenziaria del carcere di Torino, davanti al giudice nell’udienza di venerdì 11 marzo, tenutasi a Parma. Oggi Rachid è detenuto nel capoluogo piemontese, ma la sua vicenda ha inizio molto prima, nel carcere emiliano. È una storia lunga e complessa, cominciata nel 2008, quando l’uomo di origini marocchine inizia a scontare una pena detentiva di nove anni e quattro mesi per il "reato odioso", come lo definisce il suo avvocato Fabio Anselmi, di violenza sessuale. Da subito, la vicenda si trasforma in una battaglia estenuante tra detenuto e autorità penitenziarie. All’interno del carcere di Parma, secondo la moglie del detenuto, avviene "il primo pestaggio nel 2010", poi c’è "il secondo appena due mesi dopo, a dicembre". All’epoca "Rachid insiste molto per sporgere denuncia, così presenta le prime tre", dice Emanuela a Lettera43.it. Rachid però non si ferma e inizia a mettere su nastro la sua vita dietro le sbarre, grazie a un registratore che porta con sé per tre mesi. Un tempo sufficiente, quello da marzo a maggio 2011, per raccogliere più di 300 ore di audio. "Sono parole che gelano solo a sentirle" commenta l’avvocato Anselmo, che ha assistito anche le famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Nell’audio del 31 maggio 2011 un agente di polizia del penitenziario di Parma rivolge questa frase a Rachid, che gli chiede se ricorda di averlo picchiato: "Eh, ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se ci sei dentro anche tu". Il detenuto allora fornisce qualche particolare in più e l’agente ammette: "Adesso sì [che ricordo]. Ti posso far sotterrare. Qui comandiamo noi, né avvocati né giudici, comandiamo noi". Il Sappe dell’Emilia Romagna Giovanni Battista Durante respinge ogni accusa: "Sappiamo che Rachid non è mai stato un detenuto modello, questo non vuol dire che debba essere picchiato e noi, infatti, sappiamo che non è mai stato percosso". Per il sostituto procuratore Emanuela Podda le parole attribuite agli agenti del penitenziario di Parma, "seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti". Per questa inchiesta contro 10 agenti penitenziari del carcere di Parma viene chiesta l’archiviazione. Il motivo? "Arriviamo sempre in tribunale e chiedono a Rachid di identificare gli agenti che accusa, ma in carcere non c’è l’identificativo", spiega l’avvocato. Per questo il detenuto non è mai in grado di dire a chi appartengano le voci registrate nelle sue tracce audio. Durante definisce ancora oggi "oscura" l’intera vicenda, soprattutto perché "non si sa come [Rachid] abbia fatto ad avere un registratore e chi gliel’abbia procurato". Rachid dopo le denunce appare sempre più provato, arriva a pesare 39 chili, si muove su una sedia a rotelle ma la determinazione e l’ostinazione non sembrano piegarsi. "Anche prima del carcere è sempre stato così", spiega Emanuela, "se c’era un sopruso, delle persone che litigavano, lui doveva fare da paciere, non è un tipo che si volta dall’altra parte. In tanti guai si è infilato proprio per questo". Da Parma in poi è tutta una collezione di trasferimenti da un carcere all’altro d’Italia, 11 in tutto, fino a Torino, dove è recluso in questo momento. Prato è l’istituto penitenziario dove è stato di più, due anni e mezzo, e Rachid ha continuato a registrare: "Ormai era diventata una missione", dice Emanuela. Proprio in una registrazione fatta all’interno del carcere toscano, Rachid chiede a un agente perché non abbia fermato il suo collega mentre lo picchiava. L’agente risponde così: "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io". Dopo Prato c’è il carcere di Firenze, periodo a cui risalgono proprio le pubblicazioni, da parte dell’associazione "A Buon Diritto" presieduta dal senatore Luigi Manconi, delle registrazioni nell’istituto penitenziario di Parma. "Da quel momento è iniziata l’escalation, lo stanno massacrando di trasferimenti", commenta Emanuela. In ogni carcere, si innesca un meccanismo estenuante: a ciascuna accusa del detenuto corrisponde una denuncia da parte della polizia penitenziaria. Cambiano gli istituti di detenzione ma, a sentire Rachid e il suo legale, è sempre la stessa storia. L’ultima apparizione in aula del detenuto marocchino risale all’11 marzo, a Parma, dove è imputato per oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale per fatti risalenti al 2010. Non doveva parlare, invece si è presentato, accompagnato in sedia a rotelle, e ha denunciato nuovi maltrattamenti, che avrebbe subito, questa volta, nell’istituto penitenziario di Torino, l’8 marzo, mostrando i lividi sul corpo. Quindi ha chiesto di essere spostato in una sezione protetta, come previsto per chi si è macchiato di reati sessuali, ma il segretario del Sappe piemontese Santilli ribatte: "A quanto ne so è in una sezione protetta" già ora. E aggiunge che in realtà "due agenti sono stati aggrediti dal detenuto Assarag e sono stati refertati con due giorni di prognosi". Ora la palla passa alla procura di Torino che dovrà verificare l’accaduto all’interno del carcere piemontese ed eventualmente avviare un’azione penale. "Non voglio difendere l’indifendibile", conclude Santilli, "ma ci sono tante vite che vengono salvate in carcere grazie al lavoro degli agenti, queste storie però non fanno notizia". L’avvocato di Rachid è riuscito a ottenere il confronto fonico delle tracce audio registrate un anno e mezzo fa a Parma, per verificare se le persone che accusano Rachid oggi di violenza siano le stesse che ammettono i maltrattamenti. Richiesta accolta e udienza rimandata al 16 settembre. "Non so se stanno mettendo in campo una strategia per sfinirci moralmente, fisicamente ed economicamente sia con le denunce che con i continui trasferimenti", commenta Emanuela, che non ha mai smesso di sostenere il marito raggiungendolo in questi anni in ogni parte d’Italia. "Io sono fortunata, ho una macchina e da Como mi sposto da sola ma in questi anni ne ho visti di tutti i colori, L’ultima che ho visto era una signora di quasi settant’anni che dalla Calabria veniva a Torino per un’ora di colloquio. Non hanno pietà, è un sistema che non ha pietà". Al termine della pena mancano due anni. Un tempo che, alla moglie, sembra infinito: "Non posso permettermi di preoccuparmi ogni volta che vedo dei lividi sul suo volto, ormai è un’abitudine", dice. Prima di concludere sottovoce, quasi non volesse farsi sentire: "Gli ho procurato sempre io i registratori. E questo ci ha unito molto". Parma: il killer di Mozzate pestato in carcere da ex pugile, è in coma di Anna Campaniello Corriere della Sera, 11 aprile 2016 L’albanese ha ucciso due persone ed era detenuto a Parma. È stato colpito al volto, è svenuto ed è caduto a terra. I familiari sono in arrivo dall’Albania. Due pugni in faccia che lo hanno fatto cadere a terra, battendo la testa. Picchiato nel carcere di Parma da un altro detenuto, è ricoverato in rianimazione, in gravi condizioni Dritan Demiraj, il panettiere albanese condannato all’ergastolo per l’omicidio della ex compagna Lidia Nusdorfi, il primo marzo 2014 a Mozzate e del compagno della donna Silvio Mannina, torturato e ucciso il giorno precedente a Rimini. La causa dell’aggressione è al momento sconosciuta. Demiraj è stato picchiato da un ex pugile romeno che gli ha sferrato due colpi diretti in faccia, facendolo cadere tramortito. Il pestaggio, secondo le prime informazioni sembra sia avvenuto in uno spazio comune del carcere. Un agente della polizia penitenziaria, intervenuto per bloccare l’aggressore, è stato a sua volta ferito lievemente. Dritan Demiraj è ricoverato all’ospedale di Parma, in coma. "Giovedì scorso abbiamo saputo che era stato trasportato in ospedale e che era ricoverato in rianimazione - dice il suo legale, Massimiliano Orrù. Ho ricevuto una comunicazione dal carcere nella quale si fa riferimento a un’aggressione da parte di un altro detenuto, senza indicare ulteriori dettagli. Non ho informazioni precise neppure sulle condizioni di Demiraj e questo mi sembra sconcertante vista la situazione. I genitori stanno arrivando dall’Albania sperando di poterlo vedere". Il 14 marzo scorso, la Corte d’Assise di Rimini ha condannato all’ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi Dritan Demiraj, reo confesso degli omicidi di Lidia Nusdorfi e Silvio Mannina. L’albanese sta scontando la pena nel carcere di Parma, dove è avvenuta l’aggressione. Il panettiere poteva frequentare gli spazi comuni del penitenziario perché la sentenza di condanna in primo grado non è definitiva e non è stato quindi applicato il regime di isolamento. La Procura di Parma ha aperto un’inchiesta per tentato omicidio, mentre la direzione del carcere ha avviato un’indagine interna per chiarire la dinamica e accertare la possibile causa dell’aggressione. "Non so cosa possa essere accaduto e quale possa essere la causa del pestaggio", conferma Massimiliano Orrù. Dritan Demiraj era stato arrestato all’indomani dell’omicidio della ex compagna Lidia Nusdorfi, mamma di suo figlio. L’albanese, in Tribunale, prima della sentenza, si era detto pentito. "Lidia mi ha tradito - ha detto. Mi ha umiliato e sono impazzito". L’albanese è stato condannato per due omicidi. Demiraj, secondo quanto ricostruito dall’accusa, ha ucciso prima Silvio Mannina, 30enne bolognese strangolato con un cavo elettrico il 28 febbraio 2014 in Romagna, e poi Lidia Nusdorfi, la sua ex compagna 35enne accoltellata il giorno successivo, il primo marzo, nel sottopassaggio della stazione ferroviaria di Mozzate. La donna è stata attirata con l’inganno a Mozzate. Dritan l’ha affrontata nel sottopassaggio e l’ha uccisa con un coltello perché non accettava che lei lo avesse lasciato e stesse cercando di costruirsi una nuova vita. Silvio Mannina è stato invece torturato ed eliminato perché aveva avuto una relazione con Lidia. Il corpo del 30enne è stato sepolto in una zona paludosa a pochi chilometri da Rimini ed è stato scoperto solo due mesi dopo, quando l’albanese ha ammesso anche il secondo omicidio e ha fatto trovare il corpo. Per i due delitti è stata condannata in primo grado a 30 anni di reclusione anche Monica Sanchi, la nuova compagna di Dritan Demiraj, accusata di aver avuto un ruolo in entrambi gli omicidi. La donna ha attirato a Rimini Mannina, promettendogli un rapporto sessuale e consegnandolo invece a Demiraj. Ragusa: il carcere si rinnova, pronta ala con 124 posti di Duccio Gennaro corrierediragusa.it, 11 aprile 2016 Da lunedì operativa la sezione adeguata agli standard europei. Problema di organico, i sindacati chiedono almeno 15 agenti in più per assicurare i turni. Una nuova ala moderna e funzionale alla casa circondariale di via Di Vittorio. I lavori sono stati ultimati e la nuova struttura, dotata di un sistema sofisticato di videosorveglianza, è pronta ad ospitare 124 detenuti. Si chiude così la vecchia sezione del carcere che risale al 1937 e che ormai era inadeguata alla normativa europea. In quella nuova sono stati rispettati tutti i parametri ed ogni cella è dotata di doccia e bagno. Sono state anche creati spazi per seguire corsi di formazione e alfabetizzazione finalizzati al reinserimento del detenuto. Se la nuova ala è dunque realtà resta il problema del personale che è sotto dimensionato e induce i sindacati di categoria a sollevare il caso visto che gli agenti sono 71 su 106 previsti in organico. Il tutto comporta turni di lavoro pesanti e stressanti con una media di setti turni notturni al mese e le difficoltà di potere usufruire delle ferie. I segretari provinciale del Sappe, Salvatore Licitra e Francesco Accardi, e della Fns Cisl, Lorenzo Pagano e Corrado Presti, hanno inviato un documento al Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per chiedere l’assegnazione di 15 agenti a Ragusa. I sindacati sono pronti ad azioni di protesta nel caso in cui non dovessero essere prese misure per risolvere il disagio del personale. Salerno: recupero degli ex carcerati, parte il progetto "Trapetum" ildenaro.it, 11 aprile 2016 Lunedì 11 aprile alle ore 11 si terrà al Palazzo Arcivescovile di Salerno - in via Roberto Il Guiscardo, 3 - la presentazione del progetto Trapetum volto al recupero post-detentivo dei carcerati. L’iniziativa è frutto di una collaborazione fra l’Upsl della diocesi di Salerno, la Casa Circondariale di Fuorni e la Confagricoltura di Salerno. Per l’attuazione del protocollo d’intesa, i partner sono l’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno, attraverso il suo ufficio per i problemi sociali e del lavoro (referente il segretario dell’Ufficio Antonio Memoli), la Casa Circondariale di Salerno, attraverso il direttore Stefano Martone; Confagricoltura di Salerno che, attraverso il presidente Rosario Rago e il direttore Carmine Libretto, si impegna a individuare l’azienda agricola e a prestare assistenza legale, fiscale, tecnico-economica a favore dell’impresa e a formare i detenuti che saranno avviati all’attività agricola secondo il piano economico previsto dal progetto a seguito di finanziamenti di soggetti terzi; Il programma mira a sviluppare programmi tesi al recupero e al reinserimento sociale dei cittadini in esecuzione di pena, attraverso l’opportunità lavorativa, il suo coordinamento e il potenziamento delle risorse pubbliche e private; riconoscere la dignità professionale e lavorativa quale principio costituzionalmente garantito, fondamentale per la promozione e la maturazione di cittadini liberi, responsabili e partecipi alla vita della comunità locale; operare per la formazione professionale o lavorativa come opportunità di cambiamento per i detenuti, individuando soluzioni e percorsi efficaci per promuovere e incrementare l’inclusione sociale. Sassari: detenuto su una sedia a rotelle. L’avvocato: ha implorato per l’assistenza di Andrea Busia L’Unione Sara, 11 aprile 2016 Alessio Salis ha 32 anni ed è paraplegico, mercoledì è entrato nel carcere di Bancali (Sassari) su una sedia a rotelle. Salis, olbiese, è accusato (indagine della Dda di Cagliari) di far parte di un’organizzazione di sardi e albanesi che avrebbe fatto arrivare nel nord dell’Isola circa venti chili di droga, cocaina, eroina e hashish. Si tratta di un disabile per il quale la Asl di Olbia ha accertato un invalidità del 100 per 100 e l’incapacità a deambulare e quindi la necessità dell’assistenza 24 ore su 24. Alessio Salis ha chiesto presidi medici che gli sono stati consegnati in quantità del tutto insufficiente. Ha raccontato al suo difensore, l’avvocato Luca Tamponi, di avere implorato il personale del carcere per avere quanto gli necessità. Attualmente, Salis viene assistito da un compagno di cella. L’uomo, da solo, non è nelle condizioni di spostarsi dal letto al bagno e ha spiegato al suo difensore che questa situazione è umiliante. L’avvocato Luca Tamponi ha inviato una comunicazione formale alla direzione del penitenziario e ai responsabili dell’area sanitaria. Il legale parla di una situazione di pericolo per la salute del suo assistito e annuncia azioni legali in caso di mancato intervento su caso. Il legale ha inviato anche una comunicazione al Gip di Sassari che sta decidendo sulla misura cautelare a carico di Salis. Sassari: Sappe; guardia penitenziaria ferita da un detenuto sieropositivo sassarinotizie.com, 11 aprile 2016 "La misura è colma, è la terza aggressione a poliziotti penitenziari in carcere in meno di sei mesi, ma quest’ultima è stata particolarmente pericolosa e inquietante perché posta in essere da un detenuto tunisino sieropositivo, con epatite, che proditoriamente ha sferrato un pugno al volto al poliziotto con relativa escoriazione al labbro inferiore e tumefazione", spiega il segretario provinciale di Sassari del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Giovanni Piu. "Adesso il collega, che è sposato ed ha due figli piccoli, ha paura di un possibile contagio con il sangue infetto del detenuto e deve passare sei mesi di terribile attesa che questo contagio, come ci auguriamo, non sia avvenuto". Piu torna a sottolineare "i disagi che oggi caratterizzano l’istituto di pena sassarese, che presenta molti problemi sotto il profilo della sicurezza e dell’organizzazione del lavoro del Personale di Polizia Penitenziaria". "Solidarietà e vicinanza al poliziotto ferito" arrivano anche da Donato Capece, segretario generale Sappe, che giudica la condotta del detenuto straniero di Sassari "irresponsabile e gravissima. Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti. Solo in Sardegna ci sono state 219 atti di autolesionismo, 35 tentato suicidi, 1 morte per suicidio e 3 per cause naturali. Gravi i numeri riferiti alle colluttazioni, 60, e ferimenti, 14. A Cagliari si sono contati il più alto numero di atti di autolesionismo (152) e tentati suicidi (22) mentre a Sassari sono stati 59 i detenuti che si sono lesionati il corpo ingerendo chiodi, pile, lamette, o procurandosi tagli sul corpo stesso". "Le carceri, dunque, sono ad alta tensione anche in Sardegna: ma lo sono per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, sempre più al centro di violenze assurde e ingiustificate come quelle di Sassari", aggiunge il leader nazionale del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria. "Alla teoria di chi parla di carceri conoscendoli poco, ossia dalla parte della Polizia Penitenziaria, vogliamo rispondere con la concretezza dei fatti. Che parte da un dato incontrovertibile: la Polizia Penitenziaria continua a ‘tenere botta’, nonostante le quotidiane aggressioni. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento.. E nonostante la Polizia Penitenziaria sia carente di 8mila Agenti in organico, necessari anche per adeguare e potenziare i Reparti di Polizia delle carceri sarde tra le quali anche Sassari, la Legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di almeno 800 nuovi Agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e sarde, per adulti e minori. Come dimostra quel che è meno di sei mesi nella Casa Circondariale Bancali di Sassari", conclude Capece. Chieti: per Tarek il giorno più bello, dopo il carcere arriva il permesso di soggiorno di Matteo Del Nobile Il Centro, 11 aprile 2016 La lunga battaglia del tunisino espulso dall’Italia è finita: può vivere qui. Era un caso nazionale. Piange di gioia Tarek leggendo queste quattro righe: "Il giorno 8 aprirle 2016 alle 12.50 (certi orari rimangono per sempre infissi nel cuore, ndc) presso la Questura di Pescara innanzi al sottoscritto Ufficiale di Pg è presente lo straniero notificato al quale è notificato il riconoscimento della protezione umanitaria emesso in data dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Ancona". Piange con Tarek anche Francesco Lo Piccolo giornalista impegnato per i diritti dei detenuti, come referente dell’associazione Radicali d’Abruzzo con "Le voci dei dentro", che tanto ha lottato affinché quelle quattro righe fossero scritte. La storia "ufficiale" del tunisino Tarek, 30 anni, inizia nel 2008 quando è arrestato per rapina e possesso di droga e rinchiuso nel carcere di Chieti. Nel 2014 finisce di scontare la sua pena, il carcere lo aveva riabilitato ma lo Stato lo cacciava dall’Italia perché la Questura di Chieti lo riteneva "socialmente pericoloso". Il caso finisce in Parlamento grazie a Gianni Melilla, deputato di Sel, e a Lo Piccolo. "La sua storia", scrisse il giornalista su Huffingtonpost, "è emblematica di come la parola rieducazione sia vuota e il carcere sia in realtà solo punizione fine a se stessa. Nonostante le relazioni del personale giuridico pedagogico del carcere di Chieti, nelle quali è scritto che Tarek è persona rispettosa, conscio del suo errore, ben intenzionato a costruirsi un’alternativa di reinserimento; nonostante le positive valutazioni di una commissione che doveva selezionare alcuni detenuti per immetterli a un progetto lavorativo esterno finanziato dalla Regione Abruzzo; nonostante che per un anno Tarek sia uscito dal carcere tutte le mattine per andare a lavorare in un cantiere, e che gli stessi compagni di lavoro abbiano riferito che si è sempre comportato con coscienza. E nonostante una lettera del titolare dell’impresa che si dice disposto ad assumerlo a tempo indeterminato". Verona: "Visitare i carcerati", volontari ed ex detenuti raccontano il carcere L’Arena, 11 aprile 2016 "Visitare i carcerati". È il titolo dell’incontro che si terrà, questa sera, alle 21, nella chiesa di San Nicolò all’Arena, sulla condizione carceraria, su cui papa Francesco ha richiamato l’attenzione proprio in apertura al Giubileo della Misericordia. L’iniziativa è promossa dalle parrocchie del centro nell’ambito dell’Anno Santo. Porteranno la loro testimonianza don Paolo Dal Fior, per molti anni cappellano del carcere di Montorio (oggi 700 detenuti), e alcuni volontari che operano come insegnanti al suo interno. Parlerà anche chi ha fatto l’esperienza della detenzione ed è riuscito, una volta fuori, a reinserirsi nella società. Il problema del carcere in Italia rimane uno dei più difficili da affrontare. È molto più diffusa la cultura del punire che quella del prevenire e aiutare al reinserimento nella società. Secondo le statistiche, due persone su tre che escono dal carcere poi ci ritornano. Vuol dire che il penitenziario spesso non redime le persone, ma diventa purtroppo una scuola di malavita. Sono molti i volontari che, attraverso diverse associazioni come la Fraternità e la Caritas, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica sui tanti problemi dei carcerati. Tuttavia, mancala volontà politica e la possibilità economica di proporre alternative al carcere. Monza: quella partita dei detenuti di Bollate al Brianteo di Daniele Redaelli Gazzetta dello Sport, 11 aprile 2016 Hanno giocato lontano dal carcere e hanno vinto. Per carità il carcere è quello circondariale di Bollate, praticamente un modello, però è pur sempre una prigione e il terreno di gioco, tanto per restare sul tecnico, è un po’ più gibboso della superficie perfetta del Brianteo di Monza. Un pomeriggio di calcio, davanti a un piccolo pubblico ma molto caldo, quello composto dai familiari dei ragazzi di Bollate, pronti ad incitare e applaudire. I verdi di Carlo Feroldi hanno prima superato ai rigori (5-4) il team di avvocati, convocati dall’attivissimo Gianni Pini, dello Studio Legale Izzi e Associati e la Nazionale Farmacisti, guidata da Ranieri Limonta, che aveva sconfitto i legali 1-0 nel secondo incontro, nella terza decisiva sfida vinta per 2-1. Ivan Cassano, capitano di Bollate, studente in legge: "Per noi questa giornata ha davvero un sapore particolare, giocare fuori dalle mura di Bollate è come un soffio di aria fresca. E farlo sotto gli occhi dei nostri familiari è una bella emozione. C’era mio padre, grande tifoso del Milan, e la mia fidanzata. Troppo bello. Speriamo di trovare le risorse per iscriverci a qualche campionato nella prossima stagione". Eh sì, il problema sono proprio le risorse. Carlo Feroldi, trainer con grande esperienza (Parma, Perugia, Lazio e tanto estero), ha ritrovato entusiasmo in questa missione che lo porta in carcere quasi tutti i giorni: "Stiamo ricostruendo il calcio a Bollate. Mancano i fondi per affrontare un campionato per cui per ora facciamo special events come questo di Monza, ma speriamo di essere davvero in campo nella prossima stagione. Se tecnicamente il materiale c’è? Prima guardo gli uomini". La partita è stata organizzata dalla Nazionale Italiana Farmacisti, una Onlus attiva ufficialmente da 14 anni. "Ma dobbiamo dire grazie al Monza 1912 che ci ha messo a disposizione lo stadio - spiega la presidente Angela Calloni - il presidente Nicola Colombo e il responsabile marketing Diego Colombo hanno colto in pieno lo spirito dell’iniziativa. Quando siamo andati a giocare a Bollate il 26 gennaio, i detenuti avevano rinunciato ai doni tecnici preparati per la loro squadra per sostenere un progetto sociale della nazionale farmacisti. Uno splendido gesto, per una squadra che ha in realtà bisogno di tutto. Il triangolare nasce per ringraziarli di questo gesto e, vedendo i familiari e anche tanti bambini in tribuna, ci rende felici". Ferrara: "Angeli e diavoli", il teatro nel carcere con Horacio Czertok e Gianni Venturi estense.com, 11 aprile 2016 Iniziativa pubblica nella Sala dei Comuni Castello Estense con Horacio Czertok regista e Gianni Venturi docente universitario. Lunedì 11 aprile ore 17 presso Sala dei Comuni Castello Estense iniziativa pubblica su "Angeli e Diavoli - Il Teatro nel Carcere - me che libero nacqui al carcer danno". Il conflitto tra Clorinda e Tancredi nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso". Ne parleranno Horacio Czertok regista e Gianni Venturi docente universitario. Coordina Roberto Cassoli dell’Istituto Gramsci. Si affronterà la vita di Torquato Tasso e la sua opera più importante, la Gerusalemme Liberata, e dell’attività svolta dal Teatro Nucleo di Ferrara all’interno della Casa Circondariale di Ferrara e della realizzazione dello spettacolo teatrale tratto dal conflitto tra Clorinda e Tancredi nella Gerusalemme Liberata. L’iniziativa si svolge nell’ambito delle attività del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna: "La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso rientra fra i progetti annuali del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna che si articolano in attività laboratoriali all’interno delle carceri, in momenti dedicati al dibattito e al confronto e nella presentazione dei risultati artistico-performativi delle esperienze di teatro carcere. Alla Dozza di Bologna Paolo Billi ha affrontato la struttura metrica delle ottave affidandone ai partecipanti la lettura ("rappata" o cantata secondo la tradizione dei "Maggi") e anche la riscrittura ex novo, a partire dai tre temi cardine dell’opera: gli amori contrastati, le grandi battaglie, la magia. A Ferrara, Horacio Czertok e Andrea Amaducci hanno scelto di lavorare sul combattimento di Tancredi e Clorinda individuandovi l’essenza della tragedia, per riflettere, con gli attori per lo più stranieri, sulle ragioni antiche e attuali dei conflitti. Attori di diverse culture e provenienze anche a Forlì, dove Sabina Spazzoli è partita dagli interrogativi posti dal poema per rileggere la storia delle guerre da Troia alla Prima Crociata e fino ai giorni nostri. I riferimenti all’oggi si sono rivelati centrali anche nel lavoro di Roberto Mazzini con gli attori detenuti e semiliberi di Reggio Emilia, che hanno scelto tre canti del poema per lavorare sui temi della guerra, della morte, della lotta, concentrandosi sulla dicotomia buoni/cattivi. A Modena e a Ferrara gli attori detenuti e internati guidati da Stefano Tè si sono dedicati alla battaglia tra Angeli e Demoni, tra Cristiani e Musulmani per penetrare l’intreccio di conflitti e motivi epici che dall’immaginario del Tasso conduce a vicende contemporanee. Infine Corrado Vecchi ha affidato alle "mani parlanti" degli attori detenuti di Parma la rilettura del poema con il linguaggio e l’artigianato dei pupazzi". I progetti sono realizzati nell’ambito del protocollo d’intesa con la Regione Emilia Romagna (Assessorato alla Cultura e Assessorato alla Promozione delle Politiche sociali) e con il Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria) e sono realizzati con la collaborazione di alcuni dei più importanti Enti Teatrali che operano sul territorio: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Ater Formazione, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Osservatorio dello Spettacolo - Regione Emilia-Romagna, Centro Teatrale La Soffitta - Università di Bologna, Arena del Sole - Nuova Scena - Teatro Stabile di Bologna. Idomeni, lacrimogeni sui profughi di Paolo G. Brera La Repubblica, 11 aprile 2016 I macedoni respingono con proiettili di gomma un assalto al confine greco: 200 intossicati, 60 feriti Frontiere, Salvini contro Mattarella: "Complice e venduto". Ma aveva frainteso una frase sull’export dei vini. Una giornata di scontri e lacrimogeni, di proiettili di gomma, di bambini e mamme in fuga tra i campi per evitare i gas sparati dagli agenti: almeno 260 profughi ospitati nel campo di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, sono stati curati dai Medici senza frontiere dopo aver tentato disperatamente e inutilmente di oltrepassare la barriera di acciaio protetta dalla polizia macedone. Volevano proseguire il viaggio verso il Nord Europa, sono finiti male: sei ricoverati in ospedale, duecento intossicati dai lacrimogeni e una sessantina di feriti e contusi, una metà dei quali "colpiti da proiettili di gomma". La situazione nel grande campo di Idomeni - che ospita undicimila persone - è precipitata in mattinata dopo che cinque rappresentanti dei migranti hanno raggiunto i poliziotti macedoni al confine chiedendo se fosse vero che la Macedonia avrebbe riaperto temporaneamente il confine, come facevano credere i volantini distribuiti nel campo invitando a rimettersi in marcia ieri mattina. Al "no" senza tentennamenti dei poliziotti, un’onda di centinaia di persone - tra cui decine di bambini - ha tentato di forzare il confine, scatenando la repressione della polizia macedone davanti agli occhi dei colleghi greci, che hanno osservato senza intervenire. Più tardi il governo greco ha definito "pericoloso e deplorevole l’uso indiscriminato di agenti chimici, proiettili di gomma e granate stordenti contro persone vulnerabili". Il gas ha raggiunto anche il campo, costringendo famiglie intere a scappare mentre alcuni dei profughi respinti lanciavano pietre agli agenti oltre la recinzione. E mentre l’Europa si lacera tra la necessità di far fronte alla crisi dei migranti e il dolore per i confini chiusi e per gli effetti dell’accordo sui rimpatri con la Turchia, in Italia divampa la polemica per un post scritto ieri da Matteo Salvini su Facebook: "Mattarella al Vinitaly", scrive, ha detto che "il destino dell’Italia è legato al superamento delle frontiere e non al loro ripristino. Come a dire avanti tutti, in Italia può entrare chiunque… Se lo ha detto da sobrio, un solo commento: complice e venduto". Unanime la condanna per "espressioni vergognose e inaccettabili che si configurano come vilipendio", come le bolla Matteo Colannino (Pd). Senza contare che Salvini stavolta ha preso letteralmente fischi per fiaschi: al Vinitaly il presidente parlava al mondo del vino delle assurde barriere che ancora limitano il commercio estero delle nostre preziose Doc e Docg, non dei migranti che ossessionano la Lega. "È ora che #Salvini impari a rispettare la frontiera che separa la politica dall’insulto", twitta il presidente del Senato Pietro Grasso. E la presidente della Camera, Laura Boldrini, offre solidarietà al Presidente "oggetto di un attacco scomposto e rozzo. Un tema così complesso non può essere affrontato attraverso semplificazioni o slogan, o peggio ancora con gli insulti". Migranti. Naufragio nell’Egeo, morte quattro donne e un bambino Il Manifesto, 11 aprile 2016 Amnesty: a Lesbo e Chios profughi "in condizioni agghiaccianti". E i 16 arriva il Papa. Nessun accordo potrà convincerli a non tentare di arrivare in Europa. E nessun accordo, purtroppo, riuscirà a mettere fine alle tante tragedie del mare. Cinque migranti, quattro donne e un bambino, sono morti ieri dopo che la barca con la quale stavano attraversando il mar Egeo si è rovesciata al largo dell’isola greca di Samos. Altri cinque, due donne due uomini e un bambino, sono stati invece salvati dalla guardia costiera greca che per ore ha proseguito le ricerche di eventuali altri sopravvissuti. Non solo viola i diritti internazionali, ma l’accordo siglato tra l’Unione europea e la Turchia il 18 marzo scorso per fermare le partenze dei migranti non riesce neanche a limitare le morti in mare. L’ultima tragedia è avvenuta ieri, dopo che venerdì altri 120 migranti erano stati deportati in Turchia tra e proteste degli attivisti "no borders" che hanno cercato di impedire al traghetto su cui viaggiavano scortati dalla guardia costiera turca di prendere il largo. Dal 20 marzo chiunque arrivi sulle isole del Dodecanneso viene bloccato e, nel caso non presenti domanda di asilo, rispedito in Turchia come previsto dall’accordo. la lentezza con cui le autorità greche procedono all’esame delle domande ha però creato un sovraffollamento degli ex centri di accoglienza divenuti centri di detenzione e peggiorato notevolmente le condizioni di vita dei migranti. Una situazione particolarmente preoccupante a Lesbo e Chios, dove ormai si contano4.200 profughi "in condizioni agghiaccianti, nella crescente incertezza e angoscia di cosa accadrà loro", ha denunciato ieri Amnesty International. L’organizzazione ha visitato e centri di Moria, a Lesbo, e di Vial, a Chios, dove ha potuto parlare con 89 profughi. Di questi, denuncia l’associazione, molti erano in condizioni di particolare vulnerabilità: donne incinte, bambini e neonati, persone con disabilità, traumi e malattie gravi. "Sulkle rive dell’Europa i rifugiati sono intrappolati senza luce alla fine del tunnel. Un piano così pieno di difetti - ha detto Gauri van Gulik, vicedirettrice del programma Europa e Asia centrale di Amnesty riferendosi all’accordo tra Ue-Turchia - precipitoso e mal impostato che calpesta i diritti e il benessere di persone che sono tra le più vulnerabili". Amnesty ha inoltre denunciato la mancanza per i migranti di assistenza legale e di informazioni sul quanto potrà accadere loro. Migliaia di uomini, donne e bambini sono costretti a vivere in strutture chiuse, circondate da barriere di filo spinato e controllate dalla polizia. "La disperazione è palpabile", ha dichiarato ancora l’associazione. A Chios, invece, dopo una serie di scontri tra diverse comunità nazionali, 400 migranti sono riusciti a fuggire dal centro e ora dormono all’aperto nella zona del porto. Amnesty ha chiesto alla Grecia e all’Unione europea di sospendere i respingimenti in Turchia fino a quando non saranno in vigore maggiori garanzie per i migranti. In questa situazione sabato prossimo, 16 marzo, a Lesbo arriverà papa Francesco. Una visita che è una condanna all’accordo siglato con Ankara e verso il quale la chiesa non ha mai risparmiato critiche anche severe. Come confermano le parole dette ieri in un’intervista all’Osservatore romano dal cardinale Antonio Maria Vigliò, presidente del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti. "la visita del papa - ha detto - è un segno concreto della sua vicinanza a migranti e rifugiati e riporta i primo piano il problema migratorio in Italia". "È un momento n cui l’Europa _ ha proseguito monsignor Vegliò - con il recente accordo con la Turchia continua a alzare barriere, a chiudere i confini e a ledere i diritti fondamentali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Siamo di fronte a un accordo miope che non consente una gestione dei flussi migratori nel rispetto della persona". Egitto: caso Regeni, segnale dalla Ue. "Pronti a sostenere l’Italia" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 aprile 2016 Mogherini al G7 dei ministri degli Esteri chiede un confronto per esaminare le possibili opzioni. Gentiloni vuole portare il caso delle torture davanti all’Onu. La chiave è nel termine utilizzato dallo staff di Federica Mogherini. Perché la nota che annuncia il suo arrivo al G7 dei ministri degli Esteri in Giappone e l’incontro con il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni, contiene una frase precisa: "Confrontarsi anche sul modo migliore in cui sostenere le decisioni italiane nei confronti dell’Egitto sul caso Regeni". "Sostenere", è questa la parola inserita nel comunicato per far sapere che l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari Esteri è schierata al fianco del nostro Paese nella crisi diplomatica che lo oppone all’Egitto. E "appoggio" lo stesso Gentiloni chiederà agli Stati dell’Unione, proprio nel tentativo di fare ulteriore "pressione" sul Cairo affinché collabori nelle indagini sulla cattura e l’omicidio del giovane ricercatore. Domani il ministro vedrà l’ambasciatore Maurizio Massari, già rientrato a Roma dall’Egitto. Con lui avrà almeno una settimana di "consultazioni" per prendere quelle misure che, come ribadisce proprio nel corso della sua missione a Tokyo, "non scateneranno la guerra mondiale, ma serviranno a dare il segno della nostra insoddisfazione". La "rosa" è ampia, la linea tracciata. E al momento non mette in discussione i rapporti commerciali, soprattutto tenendo conto che l’Italia ha numerose aziende che lavorano in Egitto - ma anche ditte egiziane operano da noi - e soprattutto può contare sullo sfruttamento del giacimento scoperto dall’Eni sulla base di un accordo bilaterale già stipulato. Molto altro, ribadiscono però alla Farnesina, si può fare. E così, oltre a "sconsigliare" i viaggi per turismo e a fermare tutte le numerose intese culturali già stipulate, prime fra tutte quelle tra università che finora portavano numerosi studenti a trasferirsi - sia pur per un periodo limitato - in Egitto per frequentare le università internazionali, si cercherà di influire sugli organismi internazionali. L’Unione Europea è in cima alla lista, ma contatti saranno attivati anche con le Nazioni Unite facendo leva sul mancato rispetto dei diritti umani e sul recepimento delle direttive internazionali che in moltissimi Paesi prevedono condanne severe per il reato di "tortura". Si cercherà di "isolare" l’Egitto, mettendolo in mora proprio per aver consentito che un giovane potesse finire nelle mani "esperte" di chi lo ha sottoposto a sevizie indicibili fino a farlo morire. Perché è proprio questo il dato incontrovertibile, quello che dimostra il fatto che Giulio Regeni è stato ucciso da appartenenti ad apparati di sicurezza: la natura delle torture. Gli esami svolti in Italia dall’équipe del professor Fineschi, hanno accertato che contro Giulio Regeni è stata usata una tecnica propria agli appartenenti ad alcuni servizi di intelligence o di polizia. E dunque si faranno conoscere ai rappresentati dell’Onu i documenti ufficiali che dimostrano il "trattamento" riservato al ragazzo proprio per ottenere quell’appoggio necessario a far leva sul regime guidato da Abdel Fatah al Sisi e convincerlo a condividere le informazioni raccolte dagli investigatori e dai magistrati locali. Altro terreno sul quale si è intenzionati a muoversi è quello della Banca Mondiale. Esistono infatti condizioni precise che consentono ai vari Paesi di ottenere finanziamenti e aiuti e tutte passano per il rispetto dei diritti umani e per la collaborazione tra i vari governi. Anche in quella sede il "caso Regeni" sarà illustrato proprio per cercare di ottenere il massimo consenso internazionale. E fino a che non ci sarà una contromossa egiziana, un segnale di collaborazione, l’ambasciatore Massari rimarrà in Italia. "Regeni preso in piazza Tahrir" ecco le prove contro la polizia di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 11 aprile 2016 Il ricercatore fermato nella zona controllata dagli agenti guidati dal generale Shalaby. E spunta l’articolo di un giornale egiziano: "Il 25 gennaio arrestato uno straniero in un caffé". Può sembrare un paradosso. Ma il fallimento del vertice di Roma sull’affaire Regeni con l’artificiosa accusa mossa dal governo del Cairo a Palazzo Chigi di "voler politicizzare il caso per ragioni interne dopo le dimissioni del ministro dello sviluppo economico sullo sfondo di un caso di corruzione" (così ieri il portavoce del ministero degli Esteri Abou Zeid) di fronte alla ribadita "volontà di andare fino in fondo alla verità" (lo hanno ripetuto ieri il ministro Gentiloni e il premier Renzi), consente all’inchiesta di ripartire da almeno due certezze che inchiodano gli apparati di sicurezza egiziani. Che tornano a dare centralità al ruolo del generale Khaled Shalaby, comandante della polizia criminale di Giza con precedenti per tortura e qualificano dunque la morte di Giulio per quel che è stata. Un omicidio di Stato. La prima certezza. Per otto settimane, è stata dato per acquisita la circostanza che Giulio sia stato sequestrato nei cento passi che dividevano la sua abitazione e la fermata della metropolitana di Dokki. Ma, da venerdì sera, il quadro appare significativamente cambiato. È certo che alle 19.59 del 25 gennaio il cellulare di Giulio agganci la rete dati del metro. Questo significa che Giulio era all’interno della stazione e, a meno di non voler immaginare un sequestro nella folla o su uno dei vagoni del metro, sia regolarmente salito su uno dei convogli che lo hanno portato alla fermata di piazza Tahrir, dove, in un bar, aveva appuntamento con il suo amico Gennaro. La certezza che Giulio sia salito sul metrò la potrebbero dare le registrazioni delle 56 telecamere di sorveglianza della stazione di Dokki ma, curiosamente, gli inquirenti egiziani sostengono che la sera del 25 fossero fuori uso. Tutte. Tranne una. Puntata su una delle sei scale mobili di accesso. E tuttavia, aggiungono, il nastro della registrazione, è sovrascritto e potrebbe essere ripulito solo da esperti tedeschi cui, ovviamente, il nastro non è stato ancora messo a disposizione. L’assenza di immagini di Dokki la sera del 25 fa il paio con quella della stazione di piazza Tharir. Cruciali per comprendere se Giulio vi sia arrivato. E non è chiaro - la delegazione egiziana non ha saputo o voluto spiegarlo - se perché anche queste fuori uso o, perché quelle immagini non siano mai state recuperate. L’accidia degli inquirenti egiziani è necessaria ad allontanare l’attenzione dalla scena di piazza Tahrir la sera del 25 gennaio, quinto anniversario della Rivoluzione. Perché su quella piazza sono la Polizia, sono gli uomini della Sicurezza Nazionale. E perché in quella piazza, quel 25 gennaio, sono in corso retate che - come comunicheranno fonti del Ministero dell’Interno - hanno come bilancio l’arresto "ufficiale" di "19 egiziani e 1 straniero" . Uno "straniero". Chi? La seconda certezza. Fonti ufficiose egiziane riferiranno nei giorni successivi alla scomparsa di Giulio che gli stranieri fermati, in realtà, sono due. Uno è un cittadino turco. L’altro, un "cittadino americano", la cui identità, però, resta misteriosa. Allora, come oggi. Ebbene, quella "nebbia", si scopre ora, ha una logica. Deve proteggere l’uomo che delle operazioni di rastrellamento di quella sera è il dominus: il capo della Polizia di Giza. Il generale Khaled Shalaby. Ne scrive in un breve articolo sul sito online del giornale locale "Veto", recuperato e tradotto da Repubblica, il giornalista Manal Hammad. Leggiamo: "Il generale Khaled Shalaby ha affermato che sono in corso accertamenti su un individuo di nazionalità straniera arrestato all’interno di un caffè. Lo straniero si trova nella questura di Giza, nella zona di Al Bahr Al Azam. Shalaby ha dichiarato a "Veto" che gli agenti della questura lo hanno arrestato in seguito ad una segnalazione di un cittadino a proposito di un individuo che parla coi giovani e con i cittadini in una lingua araba approssimativa, impiegando anche termini stranieri. È stato accertato che è straniero e cerca di mobilitare e indurre a scendere in piazza in occasione della ricorrenza della rivoluzione del 25 gennaio, fatto che ha portato a un alterco verbale tra lui e un cittadino a seguito del quale è stato denunciato alla polizia e arrestato. Nel confronto con gli uomini del Dipartimento investigativo, il giovane straniero ha negato di avere incitato i giovani ad opporsi allo Stato, ha sostenuto che i suoi spostamenti nelle zone popolari d’Egitto gli servono per imparare il dialetto egiziano. È stato redatto un verbale dell’accaduto ed inviata una comunicazione alla Procura " . La circostanza riferita da "Veto" in quei giorni (di per sé neutra perché la notizia della scomparsa di Giulio Regeni non è ancora pubblica) è evidentemente significativa. Ma lo è altrettanto il fatto che per 8 settimane sia stata taciuta ai nostri investigatori. Sicuramente, incrociata con quanto lo stesso Shalaby dirà ufficialmente il pomeriggio del 3 febbraio (giorno del ritrovamento del cadavere di Giulio) consente di fissare tre circostanze. Sulla scena dei rastrellamenti del 25 si muove l’uomo che prima accrediterà "l’incidente stradale", quindi fornirà il particolare dei "pantaloni abbassati" con cui Giulio è stato ritrovato e quindi riferirà di "aver visto il corpo" così distrattamente da non notare i segni di tortura, ma abbastanza da "escludere che la morte sia dovuta a coltellate". "L’Egitto scarceri Shawkan", i genitori di Regeni firmano per Amnesty La Repubblica, 11 aprile 2016 Il reporter detenuto da mille giorni per le foto a un sit-in organizzato dalla Fratellanza musulmana. La madre e il padre del ricercatore italiano ucciso al Cairo primi sostenitori dell’appello per il suo rilascio. "Sono da mille giorni in una prigione senza aver potuto mai vedere un giudice. Mille giorni in una cella grande come una scatola di cerini. Sono innocente e per questo mi rivolgo a voi". Comincia così l’ultima lettera che il fotografo Mahmoud Abu Zeid, detto Shawkan, ha mandato ad Amnesty e che poche ore dopo era sul tavolo della famiglia Regeni. Una lettera che domani sarà alla base all’appello che Amnesty lancerà al procuratore generale egiziano Nabil Sadeq, lo stesso che si occupa del caso di Giulio, e che avrà proprio come primi firmatari Paola e Claudio Regeni, oltre ai loro legali Alessandra Ballerini e Gianluca Vitale. Lo faranno perché la storia di Shawkan è "quella di troppi cittadini in Egitto" e perché, spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, "Mahmoud Abu Zeid è un prigioniero di coscienza, in carcere solo per aver esercitato in modo pacifico il diritto alla libertà d’espressione e aver svolto la sua attività professionale". Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre era al lavoro. Per conto dell’agenzia londinese Demotix, stava documentando un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya, uno dei quartieri del Cairo. Doveva essere una manifestazione e invece si trasformò in una mattanza: intervenne la polizia per lo sgombero e negli scontri furono uccise tra le 600 e le 700 persone. "Il peggiore omicidio di massa della storia moderna dell’Egitto" diranno le Organizzazioni non governative. Chi si salvò dalla strage fu arrestato, e tra loro anche Shawkan che come unica colpa aveva quella di aver documentato tutto con la sua macchina fotografica. Da quel giorno è ancora in carcere in attesa di un giudizio: la prima udienza era prevista due settimane fa ma è stata rimandata perché la cella in cui era rinchiuso, nell’aula di giustizia, era troppo piena. "Perché il governo egiziano - scrive nella sua lettera - ha deciso di lasciare in pace i nemici della Fratellanza e dell’Is per impartire una dura lezione a un giornalista che non ha affiliazione politica se non quella alla sua professione, un giornalista che ha risposto alle richieste del governo di seguire lo sgombero del sit-in di Rabaa al-Adaweya? Mi chiedo: non è abbastanza aver trascorso 1.000 giorni in una detenzione ingiusta? Mille e una notte? Perché impediscono ai miei anziani genitori di vedermi dopo aver fatto un viaggio di quasi un giorno e mezzo per portarmi cose di cui avevo bisogno? Sono solo un giornalista che svolgeva il suo dovere lasciato a marcire in una prigione per mille giorni senza poter vedere un giudice". Le accuse rivolte a Shawkan sono le più varie: si va dall’adesione a un’organizzazione criminale all’omicidio, ma soprattutto gli viene contestata "la partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione per creare terrore" e il "tentativo di rovesciare il governo". "Noi chiediamo - dice Amnesty nell’appello - che le accuse nei suoi confronti vengano annullate e che, in attesa del rilascio, riceva tutte le cure mediche di cui possa aver bisogno". Egitto: "Io gay e i miei 27 giorni in cella". Il ragazzo salvato da un telefono di Andrea Marinelli Corriere della Sera, 11 aprile 2016 Incarcerato senza motivo in Egitto sette mesi prima del caso Regeni. "Chiesi di parlare con la nostra ambasciata: mi negarono questo diritto". Sette mesi prima che Giulio Regeni fosse rapito e ucciso in Egitto, un altro italiano veniva incarcerato senza motivo nel Paese del presidente Al Sisi. Fermato in strada al Cairo da due agenti in borghese mentre tornava a casa, il ragazzo - un trentenne che dal 2011 lavorava in Egitto - venne caricato a forza su un furgone, ammanettato e portato al Mogamma, il palazzo governativo di Piazza Tahrir. Resterà in carcere 27 giorni, senza conoscerne inizialmente i motivi e senza possibilità di comunicare con l’esterno. "Durante l’interrogatorio tirarono fuori dalla mia borsa il telefono e il portafoglio. Poi mi mostrarono un secondo telefono, chiedendo se fosse mio. Negai, anche se insistevano: scrissero a mano un verbale e mi chiesero di firmarlo. Rifiutai", racconta al Corriere, chiedendo di restare anonimo per tutelare familiari e amici rimasti al Cairo. "Chiesi più volte di parlare con l’ambasciata italiana, un diritto che mi spettava e che mi è stato negato", ricorda. "Sono stato fermato il 6 luglio e il 27 ho visto per la prima volta il giudice, che mi ha assolto per assenza di prove. Sono stato scarcerato il 2 agosto". Quella sera, dopo l’interrogatorio, venne portato alla stazione di polizia di Doqqi e chiuso in una cella di 5 metri per 5, con altre 40 persone. "Ancora non so perché mi hanno arrestato: forse perché ero straniero, forse per il fatto di essere gay, e per questo obiettivo del governo egiziano", racconta. "Quando i miei compagni di cella hanno capito che ero italiano mi hanno presentato un ragazzo italo-egiziano, che parlava la mia lingua e cercò di tranquillizzarmi. Mi ha spiegato le regole del carcere - ad esempio che sono gli anziani a decidere chi può dormire, mangiare o andare in bagno, un buco in un angolo della cella - ed è riuscito a chiamare suo padre con un telefono nascosto, chiedendogli di avvertire l’ambasciata italiana". La mattina successiva, il console italiano Luca Fava si presentò alla stazione, chiedendo che il ragazzo fosse messo sotto protezione dalla Guardia nazionale. "In questo modo non potevano toccarmi", spiega. "In più occasioni mi hanno fatto assistere alle torture riservate ai detenuti: frustate, calci, pugni, coltelli… Un trattamento molto simile a quello che, da quanto leggo, ha ricevuto Giulio Regeni. Solo che lui ha subito una forma più acuta". Non è stupito dagli attuali depistaggi del governo egiziano: "Nella mia vicenda si sono inventati che organizzavo incontri sessuali a pagamento". Non è un caso però che, dopo tre udienze cancellate senza un motivo apparentemente valido, il giudice ne abbia ordinato la scarcerazione. "Pensavo di uscire subito, ma mi hanno trattenuto ancora, da innocente, in attesa del rilascio. Ogni istante trascorso in quella cella durava un’eternità", spiega, grato per l’impegno del console e dell’ambasciatore Maurizio Massari". Oggi, racconta, "cerco di andare avanti con la mia vita e provo a non pensare a quello che è successo, anche se sono 27 giorni impossibili da dimenticare, con cui dovrò imparare a convivere". Dopo i primi periodi difficili, "sono riuscito a trovare il coraggio di parlare di quello che mi è successo. Lo faccio per quelli che erano in cella con me e che, prima che uscissi, mi hanno chiesto di far conoscere quello che sta succedendo in Egitto e di far uscire la loro voce da quelle quattro mura. Il mio non è stato un caso isolato: ne avvengono a decine ogni giorno. Io sono fortunato, perché sono tornato a casa. Sappiamo che tra Egitto e Italia ci sono parecchi interessi economici che guidano le scelte politiche: spero che non prevalgano sul diritto alla verità, per Giulio e per tutti gli altri". Pakistan: impiccati due fratelli condannati per omicidio, lo scorso anni 328 esecuzioni Reuters, 11 aprile 2016 Secondo statistiche non ufficiali, nel 2015 almeno 328 detenuti sono stati impiccati in diverse carceri del Paese. Due fratelli pachistani, condannati per vari omicidi, fra cui quello nel 2002 in Punjab di sei membri di una stessa famiglia, sono stati impiccati oggi nel carcere di Sialkot. Lo hanno confermato autorità carcerarie a Islamabad. Dopo il massacro compiuto nel dicembre 2014 da un commando del Tehrek-e-Taliban Pakistan (Ttp) ad una scuola pubblica dell’esercito a Peshawar, il governo pachistano ha revocato la moratoria sulle esecuzioni delle condanne a morte che vigeva dal 2008 e ha introdotto tribunali militari che hanno già condannato a morte molte decine di presunti terroristi e delinquenti comuni. Secondo statistiche non ufficiali, nel 2015 almeno 328 detenuti sono stati impiccati in diverse carceri del Pakistan, dove secondo organismi internazionali di difesa dei diritti umani si troverebbero almeno 8.000 persone in attesa di esecuzione della massima pena.