Renzi all’attacco: "Mai più subalterni ai pm" di Andrea Colombo Il Manifesto, 10 aprile 2016 Premier furioso con i magistrati di Potenza: "Ogni giorno sui giornali il nome di un ministro". Da Napoli, dove è tornato per dimostrare che due sassi certo non lo spaventano, Renzi dichiara guerra. "Avete tutto il nostro sostegno", assicura ai magistrati. Però "le sentenze si fanno nei tribunali". Però evitando ogni "subaltermità". Però segnalando che l’ultima settimana non è stata facile, perché "c’è stata un’offensiva mediatica. Ogni giorno casualmente usciva un nome di un ministro o di un sottosegretario". Se la prende con i media, Matteo Renzi, ma ce l’ha con i magistrati di Potenza. Sa bene che quelle intercettazioni fitte di nomi sono uscite di lì. La contromossa, annunciata a porte chiuse nella riunione del consiglio dei ministri di venerdì e già delegata al ministro della Giustizia Orlando, sarà un’accelerazione e un irrigidimento della legge sulle intercettazioni. Il pacchetto giace al Senato da 8 mesi. Non piace alla sinistra del Pd proprio perché mira a imbavagliare la stampa quando si tratta di intercettazioni. Non piace neppure alla destra, inclusi gli alleati di governo, perché interviene sui termini della prescrizione. Ma ora l’ordine del capo è tassativo: la situazione va sbloccata. La trovata astuta consiste nel correggere i passaggi sulle intercettazioni integrandoli con la "circolare Spataro", quella stilata nel febbraio scorso dal procuratore di Torino e approvata da una cinquantina di pm che chiede la distruzione, al termine delle indagini preliminari, delle intercettazioni non determinanti ai fini dell’indagine o contenenti "dati sensibili". Nell’insieme la riforma, tanto più se così integrata, interviene non tanto sulle intercettazioni in sé quanto sulla loro diffusione pubblica. La questione è delicata. È sin troppo ovvio che la marea di conversazioni privatissime tra l’allora ministra Guidi e il suo compagno pubblicata negli ultimi giorni aveva il solo scopo di titillare il voyeurismo dei lettori per vendere qualche copia in più. Però è altrettanto vero che da numerose altre intercettazioni è emerso un quadro che, al di là della rilevanza sul piano strettamente penale, è senz’altro di enorme importanza politica e rientra in pieno nel diritto di informazione. È proprio l’emergere di una realtà scomoda per quel che dice dei governanti, colpevoli o innocenti che siano in punta di codice, che Renzi vuole evitare a tutti i costi. E tanto più lo vuole perché non gli sfugge che l’aver rubricato Federica Guidi come "parte offesa" è in realtà una mela avvelenata. In quanto tale, infatti, la ex ministra resta nell’inchiesta, e i pm possono continuare a indagare su di lei. La missione non è comunque facile. Prima di tutto Renzi deve trovare nei prossimi giorni un’intesa di maggioranza, pur scontando l’ennesima rivolta della sua minoranza interna: compito reso difficile dal capitolo sulla prescrizione, al momento stralciata ma che il governo intende a tutti i costi e al più presto reinserire. Né potrebbe fare altrimenti perché una legge che intervenisse sulle intercettazioni ignorando la prescrizione sarebbe troppo perfino per Matteo Renzi. In secondo luogo la norma conta una trentina di articoli, e il presidente della commissione Giustizia di palazzo Madama, il forzista Nitto Palma, prevede per l’approvazione definitiva tempi biblici. I soldatini di Renzi sono più ottimisti. Complice l’attività indefessa del capogruppo di commissione a Lumia, sperano di portare a casa il risultato del Senato entro giugno. Oltre che non semplice, la crociata di Renzi è però anche pericolosa. Il premier ha messo nel conto un probabile scontro con la magistratura, in particolare con l’Anm del nuovo presidente Piercamillo Davigo. Però, contrariamente a quanto immagina, quello scontro non gli dispiace. Un po’ perché la sua propaganda si basa anche sulla presenza continua di un nemico, di qualche "casta" da denunciare nei suoi privilegi all’opinione pubblica. Ma molto perché l’eliminazione di tutti i "corpi intermedi" con i quali il governo è costretto a trattare, dai sindacati alla magistratura, è parte integrante del suo programma. Quello vero, non quello che racconta al pubblico nelle abituali vesti dell’imbonitore. Il rischio più grave però è che l’offensiva contro le intercettazioni, subito dopo uno scandalo come quello di Tempa rossa, finisca per abbassare ulteriormente la popolarità già più che scalfita del governo. Il premier conta sulle proprie doti di propagandista per rovesciare la situazione. Si vedrà sin troppo presto se azzarda troppo o no. Renzi: c’è un’offensiva mediatica. La politica non è subalterna ai pm di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 10 aprile 2016 "Non accuso i giudici, li sprono". E critica certe intercettazioni: pescano volgarità. Alla scuola di formazione del Pd il presidente del Consiglio arriva a sorpresa, di ritorno da Napoli: "È stata una settimana difficile". Sono le sei della sera e davanti alla "futura classe dirigente" Matteo Renzi parla con impeto, lasciando trasparire un umore non proprio sereno: "C’è stata un’offensiva mediatica. Ogni giorno causalmente usciva il nome di un ministro, di un sottosegretario... Tutto casuale, naturalmente". La tensione internazionale, l’Egitto, la difficoltà di far quadrare i conti pubblici quando "i gazzettini dell’opposizione raccontano cose non vere". E, sul piano interno, le intercettazioni che hanno portato alle dimissioni della Guidi. Di questo il segretario del Pd è venuto a parlare ai ragazzi di Classedem: "La politica non è una cosa sporca e non accetteremo mai di renderla subalterna, a nulla e a nessuno". Nemmeno alla magistratura. Strappa risate azzardando tre parole in romanesco: "Renzi accusa i pm di Potenza? Ma de che...". Poi va al nodo che lo tormenta. "Renzi fa il tifo, sprona, incoraggia i pm di Potenza - ristabilisce "la verità" dopo lo scontro con le toghe lucane. Ma voglio vedere dove vanno a finire le indagini". E come il governo non mette bocca nell’azione dei giudici, la magistratura "non mette bocca nel procedimento legislativo". Se accadesse? "Sarebbe una clamorosa invasione di campo", avverte alludendo all’emendamento su Tempa Rossa. Smentisce di aver attaccato i magistrati e getta la croce sulla stampa, che avrebbe frainteso le sue parole. Agli studenti chiede di alzare la mano: "Chi pensa che abbiamo fatto polemica con i giudici, avendo letto i giornali?". Quindi fa proiettare le sue amate slide ed ecco, tra i "quotidiani prestigiosi", la prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo che lo ha fatto arrabbiare: "Renzi accusa i pm di Potenza". Non è così, assicura. Lui non è Berlusconi, perché non invoca legittimi impedimenti: "Ai magistrati diciamo "Avete il nostro sostegno". Ma le sentenze si fanno nei tribunali, non con un giornale che pesca in un anno e mezzo di intercettazioni le frasi più a effetto, molto spesso con un linguaggio gergale e un po’ volgare che evoca chissà che cosa". Parole che fanno presagire una stretta ulteriore per limitare l’uso delle intercettazioni. E se a Napoli è andato per dimostrare al sindaco de Magistris che "non è una città derenzizzata" e per dire che "le istituzioni non hanno paura di chi tira i sassi", qui è venuto per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. "Non cambiate umore sulla base dei giornali, non fatevi influenzare dalle tendenze dei social. Cercate la verità, che esiste". Domani parte il rush finale delle riforme e Renzi alla Camera reagirà alle opposizioni: "Proveranno a mandarci sotto? No, diranno di non votare perché non c’è democrazia". E invita a rileggere Calamandrei sulla democrazia decidente. Ce l’ha con i grillini. Chiede per Casaleggio un applauso di "pronta guarigione", però sfida Carlo Sibilia: "Paragonarci ai camorristi è una cosa enorme. Se è un cittadino, rinunci all’immunità e faremo i conti". Una rinuncia che i Cinque Stelle comunicano di aver già fatto. È furioso, Renzi. Con chi accosta il governo alla mafia, con chi lo accusa di aver preso soldi dall’Eni. Con chi scrive che il governo è diviso e l’economia arranca: "Il debito è un casino. Ma la crescita c’è. E a chi dice che questo governo non è serio, portate la realtà". Davigo alla carica, guiderà l’Anm di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 10 aprile 2016 L’ex giudice simbolo di Mani pulite eletto presidente del sindacato dei magistrati. Esordisce rispondendo a Renzi: Intercettazioni? La legge c’è già. D’ora in poi pretendiamo rispetto per la nostra dignità. Accordo faticoso tra le correnti, l’Associazione delle toghe avrà una gestione unitaria. Per un anno. La fine era nota, ma per arrivarci i magistrati hanno dovuto attraversare una lunga giornata di trattative. Piercamillo Davigo, un quarto di secolo fa giudice simbolo di Mani pulite, è il nuovo presidente dell’Anm. Nuovo come la corrente che ha fondato alle ultime elezioni per il parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati, "Autonomia e indipendenza", nata da una scissione nella corrente di destra "Magistratura indipendente". Davigo è risultato il più votato tra i magistrati, superando quota mille preferenze. Guiderà una giunta - il "governo" del sindacato delle toghe - che torna a essere unitaria dopo quasi un decennio di gestioni a maggioranza. Ma proprio l’accordo sulla divisione degli incarichi all’interno della giunta ha richiesto molte ore di tira e molla tra i leader delle diverse correnti. Davigo resterà in carica solo un anno e non i quattro previsti per un mandato intero. Il suo vice, con la carica di segretario, è Francesco Minisci, sostituto della procura antimafia di Roma, esponente della corrente centrista di Unità per la costituzione (Unicost) e secondo magistrato più votato alle elezioni di un mese fa. Davigo è da dieci anni consigliere della Cassazione - uno dei pochi seggi dove non ha brillato nel voto, le sue prime parole da presidente dell’Anm sono servite a liquidare l’ultima sortita del presidente del Consiglio. "Le intercettazioni? Le norme già ci sono, non vedo il problema". Il problema è che il governo sta portando avanti norme nuove. Davigo si prepara allo scontro, citando una frase di Lord Bingham, giudice e giurista inglese: "È giusto che ci sia tensione tra potere politico e giudiziario, non sono i paesi dove si vorrebbe vivere quelli in cui le decisioni dei giudici hanno sempre l’approvazione del governo". Attualissima la prima polemica: "Quando Renzi ha detto all’Anm "Brr… che paura" non mi è piaciuto per niente". La parola d’ordine del nuovo corso è "dignità". "Con il governo bisogna dialogare", riconosce Davigo, che ha vinto le elezioni accusando la precedente giunta Unicost-Area di aver dialogato troppo - cosa che solo la corrente di sinistra delle toghe, Area, ha scontato nelle urne. Ma, aggiunge, "bisogna sempre rispettare la nostra dignità. È possibile che un datore di lavoro decida di ridurre le ferie senza neanche consultarci?". Le ferie il governo Renzi le ha ridotte dopo averle indicate come uno dei problemi principali, se non il principale, della giustizia italiana. Il modo in cui il nuovo presidente dell’Anm torna sulla questione chiarisce il suo approccio schiettamente sindacale al ruolo. Anche se aggiunge: "Noi magistrati italiani lavoriamo tanto e bene, e ricordare i nostri meriti non è corporativismo". Ma la corrente di Davigo ha chiesto anche la guida dell’ufficio sindacale dell’Anm, e alla fine l’ha ottenuta con l’impegno di cederla tra due anni. Tutti gli altri incarichi ruoteranno tra un anno soltanto. Area (che è una corrente di correnti, l’unione tra Magistratura democratica e i Movimenti per la giustizia) ha ottenuto la vicepresidenza (per il pm di Milano Luca Poniz) e Magistratura indipendente la vice segreteria (per il giudice civile di Roma Corrado Cartoni). Davigo e l’accusa diretta al premier: su di noi ha detto bugie di Giovanni Bianconi Il Corriere della Sera, 10 aprile 2016 "Far intendere che i magistrati lavorano poco, e da questo dipende il disastro della giustizia è una bugia". La replica di Piercamillo Davigo, neopresidente dell’Associazione magistrati, al premier Matteo Renzi arriva dritta e immediata. Per il passato, quando il capo del governo intervenne sulle ferie troppo lunghe dei giudici, e forse per il presente, visto che ripete a ogni piè sospinto che le sentenze tardano troppo ad arrivare. "Noi lavoriamo tanto, e lavoriamo bene", insiste Davigo, riscuotendo l’applauso delle toghe che hanno deciso di eleggerlo a loro rappresentante anche per fronteggiare meglio la nuova tensione che s’è creata con il potere esecutivo. E riferendosi al "Brrrr... che paura" con cui il presidente del Consiglio ribatté alla protesta dell’Anm sul taglio unilaterale delle vacanze, un anno e mezzo fa, dice: "Non mi è piaciuto per niente". Poi spiega: "Noi rivendichiamo meriti e invochiamo rispetto da parte di tutti. Prima di fare il magistrato ho lavorato in Confindustria e mi occupavo di relazioni sindacali; non ho mai visto un datore di lavoro che decide la riduzione delle ferie senza consultare la controparte". Ma da allora le questioni sul tavolo sono aumentate, con nuove emergenze. Dopo l’inchiesta di Potenza si ricomincia a parlare di riforma delle intercettazioni: "Siamo alle solite, si pensa di curare la malattia cambiando il termometro. Non mi pare un buon sistema...". Stavolta, però, il mirino non pare puntato sull’uso delle microspie da parte della magistratura, bensì sulla pubblicazione delle colloqui registrati sui giornali. Risposta del nuovo leader dell’Anm: "Se nelle intercettazioni pubblicate non c’è attinenza con i reati, o i fatti riportati non sono veri, c’è già la legge sulla diffamazione che si può applicare, quindi non vedo dove sia il problema. Certo però che se i fatti sono attinenti e di interesse pubblico, come i personaggi coinvolti, allora è un altro discorso. Come si può pretendere che non se ne parli?". L’indagine di Potenza ha portato alla ribalta il reato di "traffico d’influenze", varato nel 2012, e c’è già chi lo contesta. Ma per Davigo quella riforma è stata fatta tardi e male: "Sarebbe bastato aggiungere al millantato credito, punito con una pena fino a 5 anni di carcere, il "vantato credito", seguendo le indicazioni della giurisprudenza. Invece che hanno fatto? Hanno introdotto il nuovo reato per chi non millanta ma favorisce realmente qualcuno in cambio di utilità, punendolo con la pena fino a 3 anni, cioè meno di chi millanta. Dov’è la logica?". Nelle sue reazioni il premier Renzi ha difeso l’autonomia del Parlamento nel fare le leggi, mettendosi a disposizione dei magistrati per rivendicare gli emendamenti governativi finiti negli accertamenti dei pubblici ministeri lucani. Anche questa, per Davigo, è una forzatura: "Nessuno si è mai sognato di mettere in discussione il potere legislativo. Il problema è se emergono elementi che fanno sospettare qualcosa di illecito nell’iter di formazione di certe leggi". In quei casi, per Davigo, è giusto indagare. Ma pure su questo c’è chi ha da ridire: non piacciono i magistrati alla ricerca dei reati. Il neo-presidente delle toghe risponde con una battuta: "Se i reati spuntassero come le margherite nei prati il nostro lavoro sarebbe molto più semplice...". Insomma, l’antifona è chiara: l’ex pm di Mani Pulite è pronto a rispondere colpo su colpo. E sulla comunicazione confida molto, esplicitando una filosofia quasi renziana: "È essenziale farsi capire. Dicono che dovremmo parlare solo con le sentenze, che spesso sono illeggibili per necessità tecniche. Invece noi dobbiamo essere chiari, con frasi brevi e semplici, per spiegare ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile". Né sembra impressionato da una nuova stagione di scontro tra politica e magistratura: "Una volta, in una trasmissione televisiva, mi fu chiesto come si poteva fare per mettere fine al conflitto tra politica e giustizia. Risposi che la soluzione si troverebbe facilmente se i politici smettessero di rubare". E davanti ai suoi colleghi, quasi a illustrazione del programma che intende perseguire nell’anno in cui guiderà l’Anm, afferma: "Non esistono governi amici né governi nemici. Noi dobbiamo tutelare la giurisdizione. Che ci siano dialettica e anche momenti di tensione è pressoché inevitabile. Del resto, come disse Lord Byron (poeta e politico inglese di inizio 800, ndr) esistono i Paesi in cui le decisioni della magistratura incontrano i favori dei governi, ma non sono i Paesi in cui si vorrebbe vivere". Dossier contro Delrio, indaga la procura di Roma di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2016 Nel mirino era finito Graziano Delrio. L’obiettivo ipotizzato è che dovesse essere screditato con un "dossier" finito nelle mani del "quartierino romano". Il ministro alle Infrastrutture ha smentito di aver ricevuto "pressioni" ma l’esposto che ha depositato alla Procura della Repubblica di Roma ha portato ieri il procuratore Giuseppe Pignatone ad aprire un’inchiesta. Al centro degli accertamenti c’è un carteggio investigativo dell’inchiesta dell’Antimafia di Bologna denominata "Aemilia". Un’operazione che ha portato all’arresto di 50 persone con presunti legami alla cosca calabrese dei Grande-Aracri. Un procedimento nel quale lo stesso Delrio, fino al 2013 sindaco di Reggio Emilia, è stato ascoltato come testimone, per un viaggio elettorale compiuto nell’aprile del 2009 in Calabria. Dunque, nessun fatto penalmente rilevante. Se non fosse che nelle mani di Valter Pastena, superburocrate ed ex direttore generale del ministero dell’Economia, finisce un presunto "dossier" su Delrio consegnato, dice Pastena, "dagli amici carabinieri". Il particolare è riportato negli atti dell’inchiesta della Procura di Potenza che dai presunti illeciti attorno al petrolio in Val d’Agri (Basilicata) ha svelato l’esistenza di un’organizzazione denominata "quartierino romano" di cui avrebbe fatto parte, tra gli altri, anche Pastena assieme all’imprenditore Gianluca Gemelli. Ed è proprio a quest’ultimo che il burocrate racconta del presunto "dossier". "Io ti devo parlare da vicino, (...) ti puoi togliere pure qualche sfizio (...) ma serio ti puoi togliere qualche sfizio.. eh? (...) eh, tieni conto che i carabinieri prima che tu venissi là, sono venuti a portarmi il regalo in ufficio, perché tu non stai attento. Hai visto il caso di Reggio Emilia? Finito sto casino usciranno le foto di Delrio a Cutro con i mafiosi (...) chi ha fatto le indagine è il mio migliore amico, e adesso ci stanno le foto di Delrio con questi". Foto che, nei fatti, furono pubblicate dalla stampa. In ogni caso, la procura di Roma ha deciso di andare a fondo sulla vicenda. Il caso, al di là di ogni accertamento possibile, ha turbato non poco gli ambienti politici e di governo. Il Comando generale dell’Arma ha diramato un comunicato in cui "auspica che possano essere immediatamente chiarite le affermazioni" emerse nell’intercettazione. Pastena, del resto, aveva avuto numerosi rapporti - spesso conflittuali - con il Comando generale, visto che era stato a lungo titolare dell’ufficio del Mef presso il dicastero della Difesa. Intanto gli atti dell’inchiesta di Potenza continuano a svelare retroscena degli interessi del "quartierino romano". Gli interessi della cricca alle nomine sono rilevati anche nelle conversazioni tra Gianluca Gemelli e l’imprenditore Fabrizio Vinaccia della Mbda Italia spa (società della galassia Finmeccanica), già ambasciatore in Bielorussia e Tagikistan del sovrano ordine di Malta. Vinaccia punterebbe al "programma Sistemi di difesa e sicurezza del territorio" in Campania al cui "interno verrà inserita la video sorveglianza ai missili". A gestire il tutto è Valter Pastena, che provvede a organizzare "un accordo tra vari ministeri (Interni, Difesa, Mef e Mise) e una rete di imprese. L’operazione è raccontata dallo stesso Pastena a Gemelli: "Ho parlato con Nicola (Colicchi, ndr) e con l’ambasciatore (Vinaccia, ndr) che sta tornando a Napoli (...) la cosa che ti volevo dire, secondo me invece è fondamentale. Vedere le reti di imprese, finanziamento, le società, eh... Calabria, Puglia, Regione... Campania, Regione... Lucania... un accordo di programma col Mise (...). Il Ministero non ci mette niente, perché ci mettono i soldi la Regione e l’Europa (...)". Infine parla di "programmi e progetti" da vendere a imprecisati acquirenti. Il riferimento è al programma Tetra del ministero degli Interni. Grillo e il M5S ora tallonano il Pd e vincerebbero al ballottaggio: è l’effetto delle inchieste di Ilvo Diamanti La Repubblica, 10 aprile 2016 Atlante politico. Sondaggio Demos, svolta di opinione. Il 45% giudica peggiore la corruzione di oggi rispetto alla Prima Repubblica. E le intenzioni di voto fanno tremare Renzi. Tira una cattiva aria sull’opinione pubblica. Avvelenata dagli scandali che hanno coinvolto leader politici e di governo. In particolare: la ministra Federica Guidi. Ma hanno investito anche personaggi noti dell’impresa, dello sport e dello spettacolo, non solo italiani. Risucchiati nella vicenda dei patrimoni offshore. Il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, da Demos per l’Atlante Politico e pubblicato oggi su Repubblica mostra come questi avvenimenti abbiano prodotto effetti significativi sugli orientamenti politici ed elettorali degli italiani. D’altronde, le dimissioni della ministra Guidi vengono considerate doverose, meglio: obbligate, da quasi tutti gli italiani (intervistati): 85%. Ma quasi 3 elettori su 4 ritengono questa vicenda grave e problematica anche per il governo. Il 45% di essi, quasi metà, dunque, pensa che il governo dovrebbe dimettersi. Perché troppo invischiato in conflitti di interessi. Anche se la maggioranza degli italiani (quasi il 50%) ritiene, al contrario, che, il governo debba "andare avanti". L’Atlante Politico di Demos, dunque, propone l’immagine di un Paese diviso. Dove metà dei cittadini vorrebbe voltare pagina. Affidarsi a una guida diversa. Il problema, però, è che mancano alternative credibili. "Più" credibili, almeno. La fiducia nel governo, infatti, scende poco sotto il 40%. Cioè: il punto più basso dalla scorsa estate. Ma, comunque, vicino ai livelli osservati negli ultimi mesi. Peraltro, il 20% (degli intervistati) pensa che il governo Renzi durerà, al massimo, qualche mese. Ma il 44% è convinto, al contrario, che riuscirà a concludere la legislatura. Parallelamente, la fiducia "personale" nel premier si attesta sul 40%. Lontano dai fasti del 2014, quando, dopo le elezioni europee, volava verso il 70%. Tuttavia, negli ultimi mesi, non ha subìto cali significativi. Nonostante i problemi economici e politici. Nonostante vicende sgradevoli, come quella che ha coinvolto la ministra Guidi. Peraltro, Renzi si conferma ancora il leader politico più apprezzato dagli italiani. Avvicinato da Giorgia Meloni, candidata dei FdI e della Lega (Nord?) nella corsa al Campidoglio. Molto competitiva, secondo i sondaggi. E da Matteo Salvini, segretario della Lega. Non lontano da loro - e dunque da Renzi - incontriamo anche Luigi Di Maio, vice-presidente della Camera. Fra gli esponenti più autorevoli del M5s. Silvio Berlusconi, invece, conferma il proprio declino politico. "Stimato" da poco più del 20% degli elettori. La metà rispetto a Renzi. E 4 punti in meno di due mesi fa. Si assiste, dunque, a un raffreddamento del clima d’opinione. Lo ripeto, perché, questa volta e in questa fase, il cambiamento risulta evidente. Quasi una svolta. Dettata dal cumularsi di sfiducia e delusione sociale. Un po’ come 25 anni fa. Ai tempi di Tangentopoli. Non per caso il 45% degli italiani ritiene che la corruzione politica, oggi, sia più diffusa di allora. Mentre una parte altrettanto ampia di cittadini pensa che sia altrettanto estesa. Nove italiani su dieci, praticamente tutti, ritengono, dunque, che Tangentopoli non sia mai finita. Ma sia, se possibile, più opprimente. Fra i protagonisti, manca solo la magistratura. Differenza di non piccolo rilievo. Oggi, semmai, gli elettori hanno sostituito i magistrati con alcuni soggetti politici. A cui hanno affidato il compito di "vendicarli". Comunque, di gridare forte il disprezzo e la sfiducia popolare. Per primo e soprattutto: il M5s. Non per caso, il partito ritenuto più credibile (dal 31%) nel contrasto alla corruzione. Anche per questo i suoi esponenti ottengono un favore crescente. Luigi Di Maio, in particolare. Il consenso popolare nei suoi riguardi è salito di 7 punti nell’ultimo anno. Ormai, molto vicino a Renzi. Come Salvini, d’altronde. Che si presenta, a sua volta, come "giustiziere" della politica e dei politici corrotti. Gli effetti di questo clima (anti)politico sul piano delle stime elettorali sono evidenti. La distanza fra i primi due partiti, PD e M5s, infatti, si è sensibilmente ridotta. In seguito al calo del PD (circa 2 punti) e alla concomitante crescita del M5s, la distanza fra i due soggetti si riduce a poco meno di 3 punti. A destra, invece, si muove poco. La Lega di Salvini si avvicina al 14% e scavalca FI. Mentre, più indietro, i FdI si attestano intorno al 5,5%. Come, sul versante opposto, SEL, SI e le altre formazioni a sinistra del PD. Ma gli scenari cambiano sensibilmente quando si prende in considerazione il ballottaggio, previsto dalla nuova legge elettorale. L’Italicum, nel "linguaggio politico" corrente. Allora la partita appare incerta. Anche se i meccanismi del nuovo sistema elettorale non sono ancora chiari. Nel caso che gli sfidanti fossero la Lega e Fi (federate, insieme ai FdI, in una lista-cartello, per istinto di sopravvivenza), il Pd si affermerebbe di appena 1 punto. Troppo poco per fare previsioni. Lo stesso avverrebbe se al ballottaggio arrivasse il M5s. In questo caso, però, il sondaggio di Demos disegna uno scenario inedito. Che prevede il sorpasso del M5s sul Pd. Anche in questo caso, occorre prudenza, vista la distanza, ridotta, fra i due partiti (che non supera il margine di "errore statistico"). Naturalmente, il PD, nel ballottaggio, potrebbe contare sul voto "personale" al premier. Molto più conosciuto e visibile rispetto ai candidati del M5s. Tuttavia, è anche vero il contrario. La capacità del M5s di intercettare il voto "contro" potrebbe trasformare il confronto elettorale in una sorta di referendum. "Contro" Renzi. Replicando, all’inverso, l’operazione concepita dal premier in occasione del referendum costituzionale del prossimo autunno. Secondo alcuni (fra gli altri, Gianfranco Pasquino), un "plebiscito". Così, se il clima d’opinione e l’insoddisfazione degli elettori continuassero a scaricarsi sul Pd, Renzi potrebbe cambiare strategia. Investire sul governo più che sul partito. Presentarsi come "uomo di Stato" più che da "leader politico". Così, il soggetto politico centrale, in Italia, non sarebbe più il Pdr. Ma il GdR: il Governo (personale) di Renzi. La persecuzione silenziosa di Don Alberto De Nadai (Garante per i diritti dei detenuti di Gorizia) Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2016 La vita, le esperienze, ma soprattutto gli incontri con le storie delle persone, mi fanno capire quotidianamente che sono i meccanismi culturali, economici, sociali, politici e religiosi che pretendono di classificare le persone secondo una scala che definisce: i primi, i secondi, i terzi … fino agli ultimi. Un titolo non cambia la sostanza di una persona: ci si riconosce per la profondità della propria umanità. Infatti Il Piccolo dell’8 aprile 2016 titola la pagina di Gorizia: "Apre la sezione gay, carcere nel caos". Cosi, tra gli ultimi la società colloca ancora gli omosessuali e i transessuali. E pensare che sono persone dal vissuto doloroso del sospetto, del giudizio, del pregiudizio, dell’esclusione; persone che vivono il dramma interiore del proprio essere e dell’avvertire la difficoltà di esprimerlo. L’aprire una sezione gay nel carcere di via Barzellini, sottolinea che si torna ancora a quella mentalità italiana del 1927, così ben descritta nella mostra visibile nel palazzo della provincia di Corso Italia, dal titolo "La persecuzione silenziosa - dove con la politica del silenzio sul tema degli omosessuali lo Stato Italiano interveniva o con la diffida, o con l’ammonizione, o con il confino, demandandone la repressione alla sfera morale e religiosa. Solo nel 1936, con l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista, l’omosessuale da elemento indesiderato, per lo Stato diventa un nemico pubblico, un pericolo. E sappiamo come son finiti gli omosessuali nei campi di sterminio. E riaprire una sezione per loro a Gorizia, e poi dirigerla come attualmente viene diretta, significa quasi rievocare i drammatici avvenimenti di quel tempo. Ci vogliono antenne speciali della sensibilità per intercettare quel dolore muto, quel flebile gesto, che solo alle volte diventa un grido, perché, ancora sono considerati gli ultimi nella società in quanto non sono accettabili i criteri di giudizio che li classificano come tali. I criteri di questa classifica sono decisi da chi occupa e gestisce il potere, da chi si sente primo per poter definire gli altri ultimi. Ma spesso sono proprio questi primi ad essere gli ultimi, perché privi di umanità, lontani dalla vita delle perone : non le incontrano, non le ascoltano, non ne condividono drammi e speranze e, rinchiusi nei loro ristretti circuiti da lì pretendono di decidere della vita degli altri. Un carcere così va chiuso di Tiziana Vuotto (Portavoce Comitato Go Possibile) Il Piccolo, 10 aprile 2016 Perché aprire una sezione speciale in un carcere inadeguato? È questa domanda che s pone il gruppo politico Possibile di Gorizia denunciando la grave situazione in cui versa il carcere del capoluogo isontino dopo l’apertura della sezione speciale riservata alle persone omosessuali. Troppo facile per l’amministrazione penitenziaria aprire la sezione senza prevedere personale aggiuntivo, costringendo i detenuti ospitati in una situazione di totale isolamento, senza poter partecipare alle varie attività che dovrebbero, a norma di legge, essere il primo strumento per garantire un percorso di reinserimento e di rieducazione. Emerge chiaramente la carenza di organico del personale di polizia penitenziaria che lavora in condizioni di stress notevoli riuscendo comunque a garantire con grandi sforzi l’apertura della struttura. I problemi logistici del carcere sono noti all’amministrazione che ha iniziato negli anni una serie di adeguamenti, portando però a termine un unico lotto di lavori. All’interno non ci sono ancora spazi adeguati per i colloqui con gli avvocati e con i familiari che spesso arrivano da lontano e non hanno nemmeno a disposizione un bagno, se non quello del personale penitenziario. Del tutto inadeguati sono anche gli spazi riservati al personale amministrativo e alla polizia penitenziaria. Che dire poi delle attività svolte all’interno della struttura che dovrebbero preparare i detenuti al loro reinserimento nella società? Vi è un totale disinteresse dell’amministrazione carceraria, che si trincera dietro la mancanza di personale e di spazi adeguati per l’organizzazione di corsi professionali che potrebbero aprire ai detenuti delle prospettive lavorative In queste condizioni il carcere di Gorizia è del tutto inutile ed inadeguato a risolvere la questione della sicurezza del territorio goriziano. La sua totale ristrutturazione non è più differibile. Gorizia: Fnl-Cisl "nel carcere situazione pesante. ma sono garantiti i diritti dei detenuti" Il Piccolo, 10 aprile 2016 La Fnl-Cisl sul caso carcere: "La sezione omosessuali è in rodaggio. Assicurate 2 ore d’aria al giorno. Poco personale". La situazione del carcere di Gorizia è molto compromessa per carenza d’organico della polizia penitenziaria e per l’incompleta ristrutturazione dell’edificio, ma "non sono mai stati negati diritti ai detenuti, tantomeno ai tre detenuti nella nuova sezione omosessuali". Lo precisa Alessio Macor, sovrintendente della polizia penitenziaria in servizio in via Barzellini e rappresentante della Fns (Federazione nazionale sicurezza) Cisl Gorizia. Quanto riportato nei giorni scorsi da Il Piccolo è ovviamente confermato. Tuttavia Fnl-Cisl puntualizza alcuni aspetti. "La scarsità di attività per i detenuti ubicati nella nuova sezione è dovuta ai tempi di rodaggio che sono inevitabili quando parte un nuovo progetto. Ma almeno due ore all’aria aperta sono sempre state garantite e non è corretto dire che tali detenuti sono sempre chiusi, inoltre le stanze sono nuove, spaziose di 33 metri quadrati e conformi ai più severi standard previsti". Ancora Macor: "Altro capitolo è l’inizio lavori per la sistemazione della struttura, che è stata solo in parte ristrutturata. Siamo in attesa della assegnazione del secondo lotto così da poter lavorare in una struttura adeguata. Con l’auspicio che si provveda all’accoglimento delle nostre richieste, è necessario puntualizzare che siamo sfavorevoli alla chiusura totale dell’ istituto essendo possibile utilizzare la parte nuova dove si svolgono attività scolastiche e ricreative, ed è stata appena terminata la nuova biblioteca, utilizzata da tutti i ristretti a turno, perciò anche da quelli ubicati nella nuova sezione e si sta provvedendo ad ampliare la offerta in tal senso. Chiudere l’istituto non è auspicabile perché, pur comprendendo le perplessità dei garanti dei detenuti, può essere un atto irreversibile". Restano sul tappeto tutti gli altri gravi problemi che potrebbero essere in parte risolti, secondo Fnl-Cisl, con l’assegnazione di almeno dieci unità di polizia penitenziaria "per risolvere le criticità derivanti dalla cronica carenza di personale che si sta aggravando causa assenze per malattie di lunga durata e in considerazione del prossimo pensionamento di almeno tre agenti nell’ anno in corso. Inoltre abbiamo una unità distaccata al gruppo sportivo Fiamme Azzurre che viene calcolata in pianta organica pur non svolgendo di fatto servizio in sede. Tale situazione si è aggravata negli ultimi mesi a seguito dell’ apertura della nuova sezione "omosessuali" che non può ancora essere pienamente funzionale con l’attuale organico. Possiamo contare così solo su 28 agenti e molti posti di servizio sono stati accorpati, ad esempio tre uffici al momento sono retti da una sola unità e tutto il personale è allo stremo arrivando ad effettuare turni di 8 ore diversamente dalle 6 previste dall’ accordo quadro, arrivando anche alle 40 ore di straordinario mensili. Così stando le cose può essere espletata solo in parte l’attività ordinaria e si opera in continua emergenza. Inoltre soffriamo della mancanza di un direttore in pianta stabile". Genova: l’odissea dei detenuti psichiatrici, se il carcere diventa la discarica sociale di Alessandra Ballerini La Repubblica, 10 aprile 2016 Lo so, è solo un particolare. Insignificante, forse, rispetto alla moltitudine di altre sollecitazioni che ogni visita in carcere, ed in particolare in quello di Marassi, stimola in ogni visitatore. Ma ogni volta mi sorprende e commuove nella sua simbolicità. Il tempo in carcere si ferma. E non è una banale metafora, si tratta proprio di lancette. Quelle degli orologi, innumerevoli, affissi altissimi in ogni corridoio, di ogni piano, di ciascuna sezione di questa labirintica enorme galera. Queste lancette sono perennemente immobili. Cristallizzate da tempo immemore (e ormai immutabile, salvo intervento esterno sul meccanismo inceppato) a segnare un minuto che si è perso ma si ripete inesorabile due volte al giorno. Per rendere ancora più inquietante questa non voluta simbologia, le lancette degli ingranaggi di ogni orologio che incrociamo nella nostra visita, sono rimaste ferme, tutte, in orari diversi. Ogni corridoio ha la sua particolare immobilità, inevitabile, ma diversa dalle altre. L’effetto estraniamento è incredibilmente perfetto. Lo spaesamento è il tema costante di questa visita. Non solo perché il carcere in sé è un non luogo per eccellenza, ma perché oggi siano in visita, come osservatori di Antigone, accompagnati dal Consigliere regionale Gianni Pastorino, per verificare le condizioni delle persone ristrette nei reparti di osservazione psichiatrica e di "sostegno integrato" del Centro Clinico e nella VI sezione del 2°piano. Persone che avrebbero bisogno di cura e non di reclusione. Entrare nella Casa Circondariale di Marassi suscita sempre un forte impatto emotivo anche se attenuato dall’accoglienza della nuova direttrice Maria Milano preparatissima e disponibile e dal comandante Massimo Di Bisceglie, professionale come sempre, ma, questa visita "mirata", è più angosciante di altre. Girando per i vari reparti detentivi si percepisce uno sforzo di "umanizzare" la reclusione: celle aperte per più ore al giorno, alcune scrostate e ridipinte da poco, l’impegno dei vari operatori e volontari che cercano di offrire opportunità di impegnare quel tempo immobile in maniera costruttiva. Tuttavia, malgrado questi sforzi, nelle celle che oggi appositamente visitiamo, questi "particolari" detenuti si trovano in uno stato di profonda prostrazione, di evidente sofferenza psico-fisica. Nella maggioranza dei casi si tratta di persone affette da gravi patologie o addirittura portatori di vere e proprie invalidità (il più loquace di loro, non più giovanissimo, è costretto su una sedia a rotelle), ma soprattutto quello che si percepisce è un’acuta e insanabile sofferenza psichica. La quantità di casi psichiatrici, come spiega il dott. Enzo Paradiso, è drammatica. Questo dato rappresenta in modo chiaro la sconfitta del sistema giudiziario italiano che sceglie di rinchiudere anziché prendersi cura. L’anno scorso è giunta a compimento l’applicazione della legge che finalmente sanciva la chiusura dei famigerati ospedali psichiatrici giudiziari e la apertura delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezze. La legge, se ben intesa e ben applicata, non solo sanciva la chiusura degli OPG ma obbligava le Aziende Sanitarie Locali a predisporre progetti terapeutici riabilitativi individuali per curare le persone nel proprio territorio d’origine in modo adeguato. Secondo Paradiso, "l’intenzione encomiabile del legislatore si è trasformata nella pratica operativa in uno scaricabarile che ha reso le carceri vere e proprie discariche sociali. In Liguria la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza è ancora molto lontana dall’essere realizzata e nel frattempo i pazienti della nostra Regione vengono inviati Lombardia a Castiglione delle Stiviere con un costo pro-capite di circa 500 euro al giorno. In questo modo si costringono i famigliari dei pazienti e degli operatori dei servizi territoriali a viaggi faticosi e dispendiosi". Aggiungere alla pena della malattia quella della detenzione è una crudeltà inutile e dannosa: non cura né rieduca ma peggiora esponenzialmente le sofferenze già imposte da una sorte avversa. Ferrara: Sappe e Osapp chiedono di rimuovere la comandante del carcere La Nuova Ferrara, 10 aprile 2016 Gli agenti di polizia penitenziaria rappresentati dai sindacati Osapp e Sappe chiedono la rimozione del comandante di reparto Elisa Brianese. Come riferito in conferenza stampa, si riscontrano difficoltà oggettive molto gravi nella gestione dei detenuti, in particolare dopo la "sentenza Torreggiani" emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro il sovraffollamento delle carceri italiane che dal 2013 ha consentito la circolazione dei detenuti nel carcere. Giovanni Marro, segretario regionale Osapp, spiega che "il personale compie enormi sacrifici per adempiere al proprio lavoro. Ci troviamo di fronte a fatti che richiederebbero l’intervento dell’autorità. Non vogliamo carceri da medioevo, ma chiediamo solo di adempiere al nostro lavoro con serenità. Ci vogliono regole più incisive per gestire meglio i detenuti. Non si può prescindere dalle regole e dalla sicurezza. Se il problema della sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria non viene risolta, chiediamo la sostituzione del comandante del reparto e attueremo altre manifestazioni eclatanti. Negli ultimi periodi - continua Marro - sono successi episodi molto gravi da parte dei detenuti verso gli agenti e questo crea l’idea nei carcerati che tutto sia ammesso. Nei giorni scorsi è avvenuta un’aggressione ai danni di un poliziotto penitenziario e nessun provvedimento, neanche disciplinare, è stato preso. Valuteremo se informare l’autorità giudiziaria di questo". Giovanni Battista Durante (Sappe) sottolinea che "da un po’ di tempo si è creata una frattura tra personale e direttivo del reparto, e i lavoratori non si sentono più tutelati, c’è il rischio che i detenuti prendano il sopravvento. Il personale ha bisogno di una guida autorevole, è necessario invertire questa rotta. Attualmente ci sono 325 detenuti di 140 nazionalità diverse. La prima cosa che farò la prossima settimana a Roma sarà chiedere al capo del personale il cambio del vertice. Auspichiamo che siano ripristinate le regole. L’amministrazione ha lasciato aperto gli spazi, ma questo ha creato problemi nella gestione dei detenuti, bisogna quindi rivedere questi criteri di apertura. Alcuni si recano nelle celle degli altri per rubare. Le stesse battaglie le stiamo conducendo a Parma e a Reggio Emilia". "I problemi sono iniziati da 15/20 giorni - spiega Roberto Tronca, segretario provinciale Sappe - e soprattutto con i detenuti arabi, che per loro cultura non si adeguano alle regole del carcere. Per ottenere qualsiasi cosa, dal trasferimento al lavoro al beneficio, iniziano delle proteste, all’inizio pacifiche, poi iniziano a rompere mobili come sedie e tavoli e infine li lanciano in corridoio dove ci siamo noi. Notiamo una totale impotenza del comandante davanti a questi eventi. Tante volte per paura di incorrere in denunce o querele non si prendono provvedimenti. Serve un comandante autorevole, che ci consenta anche di usare l’articolo 41, che prevede l’uso della forza fisica. La comandante in servizio non ce lo consente". Stefano Liggeri (Osapp) ritiene che "il problema non è solo all’interno del carcere, ma riguarda tutta la comunità. Se non riusciamo a renderli migliori, usciranno creando problemi". Da cinque giorni gli agenti come forma di protesta non consumano i pasti della mensa e se la situazione non si risolve 100 agenti faranno domanda di trasferimento per incompatibilità con il comandante. Altre forme di proteste, se il comandante non verrà sostituito, saranno sit in davanti all’istituto e proteste a Roma davanti al Dipartimento. I sindacalisti lamentano inoltre che alcuni colleghi hanno contratto la tbc in servizio, perché numerosi sono i casi di detenuti affetti da scabbia, hiv, epatite o tbc, e nessuno lo sa, perché ovviamente non è consentito l’accesso alle cartelle cliniche. Brescia: Vivicittà, alunni e detenuti uniti dalla corsa nel carcere di Verziano Corriere della Sera, 10 aprile 2016 Sequel della corsa del 3 aprile, Vivicittà - Porte Aperte ha portato 300 alunni di sette scuole superiori di Brescia nel carcere di Verziano. Dopo lo sport incontri e iniziative. Correre per assaporare la libertà, per vincere il pregiudizio, per conoscere un po’ una realtà così diversa. E che quando si è adolescenti, può pure fare paura se lo si vede solo da fuori, senza un punto di contatto come può essere lo sport. La corsa ha unito ancora una volta tutti: 300 alunni di sette istituti superiori di Brescia, 100 detenuti del carcere di Verziano. Tutti insieme di corsa in uno speciale circuito allestito nel campo sportivo e tra del carcere per la 21esima edizione di "Vivicittà - Porte Aperte". L’iniziativa, che ha visto una piccola ma significativa presenza di detenuti della Casa Circondariale Canton Mombello di Brescia (proprio come avveniva nelle prime edizioni), è promossa dall’Uisp in collaborazione con i detenuti del carcere. Mattina di sport e interventi - Una bella mattina di sport li ha ripagati per l’impegno dedicato alla preparazione dell’evento-incontro, attesissimo, con i ragazzi delle scuole superiori Mantegna, Tartaglia, Olivieri, Fortuny, Copernico, Calini, Leonardo, De Andrè, Lorenzo Gigli di Rovato e Don Milani di Montichiari. Studenti e studentesse sono stati premiati dall’Uisp di Brescia per aver condiviso nuovamente l’iniziativa che sarà analizzata e approfondita in aula entro la fine dell’anno scolastico. La corsa, inserita nel "Progetto-Carcere" dell’Uisp di Brescia, ha il patrocinio del Comune di Brescia, è sostenuta da Fondazione Asm e viene organizzata con la Onlus "Carcere e territorio". Reclusi ma non esclusi: in tutti gli interventi della mattinata, erano presenti esponenti del comune, del carcere e due educatrici, è stata ribadita la necessità di tenere vivo il legame tra la vita dei detenuti e la società civile favorendo l’ingresso in carcere delle realtà scolastiche e sportive, come avviene ormai da oltre 30 anni con le iniziative proposte dall’Uisp di Brescia nei due Istituti Penitenziari cittadini. Roma: le ostie dei carcerati di Opera per Papa Francesco di Lucia Bellaspiga Avvenire, 10 aprile 2016 "Con queste mani, un tempo sporche di sangue, mani che hanno ucciso, oggi produciamo ostie che vengono consacrate in tante chiese. Santo Padre, il nostro sogno è un giorno poter essere noi stessi a consegnarle nelle vostre mani benedette, in occasione del Giubileo della Misericordia". Era un sogno davvero, quello di Giuseppe, Ciro e Cristiano: due condannati al carcere a vita, l’ultimo ancora con 14 anni da scontare. Ma la loro lettera al Papa era uscita su Avvenire poco prima di Natale e poco dopo era arrivata la speranza: "Francesco vi aspetta", aveva annunciato Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore della Casa dello Spirito e delle Arti e ideatore del progetto presso il carcere di Opera (Milano). Nel frattempo quotidianamente i tre detenuti hanno continuato a impastare l’amido, pressarlo negli stampi e ritagliare a mano 8.000 ostie al giorno, che regalano alle parrocchie di tutta Italia e del mondo. "Ormai siamo a 400mila ostie richieste", fanno sapere i tre detenuti, arrivati a Roma da Opera sulla camionetta della polizia penitenziaria, confusi, emozionati alle lacrime, portando in braccio i tre cestoni colmi di 12.000 ostie per Francesco. L’abbraccio forte e prolungato con il Santo Padre è avvenuto alla fine dell’udienza generale in piazza San Pietro, stamani sabato, quando si è soffermato tra loro un quarto d’ora, ascoltando i loro racconti e scrivendo persino una lunga dedica sul libro degli ospiti del laboratorio "Il senso del pane", creato all’interno del carcere di Opera. "Santo Padre, le abbiamo portato queste 12.000 ostie perché le consacri. Per favore, un giorno dica una Messa speciale, e in quella stessa data in tutto il mondo le parrocchie che hanno le nostre ostie celebreranno in comunione una grande Messa planetaria, portando Gesù in ogni angolo della terra". Francesco ha ascoltato con intensità e annuendo ha indicato i cesti: "Portateli alle suore". "Ah, la Croce di Lampedusa", ha poi esclamato quando Emanuele Vai, presidente della fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, gli ha ricordato il loro precedente progetto, quella grande Croce costruita con il legno dei barconi naufragati, benedetta dal Papa due anni fa e ora in viaggio per tutta Italia. Le Ostie del carcere di Opera sono ormai nel mondo intero, dai teatri di guerra come il Libano, alle povertà estreme, alle zone di martirio cristiano, nei cinque continenti. Sassari: nel carcere di Bancali detenuto aggredisce agente di Polizia penitenziaria sardegnalive.net, 10 aprile 2016 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito nel carcere di Bancali, a Sassari, da un detenuto tunisino sieropositivo e con epatite, che l’ha colpito con un pugno al volto ferendolo al labbro. Lo denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe-Sindacato autonomo polizia penitenziaria, nel ricordare che l’episodio è il terzo avvenuto nella casa circondariale sarda negli ultimi sei mesi. L’istituto - evidenzia Capece - "presenta molti problemi sotto il profilo della sicurezza e dell’organizzazione del lavoro del personale di polizia penitenziaria". Il sindacato segnala, inoltre, che nelle carceri della Sardegna l’anno scorso sono stati segnalati 219 casi di autolesionismo fra i detenuti, 35 tentati suicidi, un suicido e tre decessi per cause naturali. "Gravi i numeri delle colluttazioni, 60, e ai ferimenti, 14", aggiunge il segretario del Sappe. "A Cagliari si è contato il più alto numero di atti di autolesionismo (152) e tentati suicidi (22)", riferisce Capece, "mentre a Sassari sono stati 59 i detenuti che si sono feriti ingerendo chiodi, pile, lamette o procurandosi tagli". "La polizia penitenziaria continua a tenere botta nonostante le quotidiane aggressioni", evidenzia Capece. "I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici sono in aumento. Nonostante manchino 8mila agenti in organico, necessari anche per adeguare e potenziare i reparti di polizia delle carceri sarde, tra le quali Sassari, la legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di almeno 800 nuovi agenti, a partire da quella degli idonei non vincitori dei precedenti concorso, già pronti a frequentare i corsi di formazione". "Servono urgenti provvedimenti", sollecita il segretario del Sappe, "per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al corpo di polizia penitenziaria". Lucio Simonato: "una bella e forte esperienza parlare del mio libro in carcere" Ristretti Orizzonti, 10 aprile 2016 Intervista a Lucio Simonato, autore della raccolta di interviste "Con i loro occhi con la loro voce", a cura della redazione di Ristretti Orizzonti. È emozionato Lucio Simonato, quasi fosse la prima occasione in cui presenta il suo libro "Con i loro occhi con la loro voce" (Cleup). È da poco tornato dalla presentazione alla Libreria Arion Montecitorio di Roma, dove ha avuto ospiti prestigiosi, tra cui Cecile Kyenge, e quello è stato certo un grande appuntamento, e poi è venuto nella Biblioteca della Casa di reclusione di Padova a parlare del suo libro. Un libro fatto di 32 interviste in cui gli intervistati raccontano la loro scelta di venire in Italia, parlano dei problemi legati alla vita quotidiana, la fatica per trovare un lavoro decente, le famiglie spesso lontane, la solitudine, a volte anche il razzismo che hanno incontrato. Abbiamo intervistato l’autore dopo l’incontro. Come hai accolto l’invito a parlare del tuo libro in carcere? Questo appuntamento è stato particolare, speciale direi, anche se parlare in pubblico è sempre emozionante per me. Avevo ricevuto questa proposta dalla Cooperativa Sociale AltraCittà di Padova che persegue l’integrazione sociale di persone svantaggiate, in particolare detenuti ed ex detenuti, ed opera in carcere a Padova nel settore della formazione e dell’istruzione. Nell’anno appena trascorso ho avuto diversi inviti, e ho sempre accolto ogni invito volentieri, felice di avere l’occasione per parlare del libro e soprattutto dei temi del libro, l’immigrazione ed il rispetto della persona immigrata. Già scrivendo il libro avevo avuto modo di riflettere sul carcere, alcune interviste le avevo realizzate a persone ristrette ed in questi colloqui tra l’altro mi era stata accennata la vita in carcere con particolari che, usualmente, non conosciamo. L’invito a parlare del mio libro a persone detenute, tra l’altro sia nella Casa di reclusione (ove sono reclusi i "condannati" con pene medio-alte) sia nella Casa circondariale (ove sono recluse le persone "In attesa di giudizio" o con pene brevi), inizialmente mi aveva anche messo in difficoltà. Credo che il dramma del carcere sia reso ancor più pesante per la concorrenza di tanti elementi, limitatezza degli spazi, mancanza di privacy, carenza di attività, ecc., e parlare dei miei temi in una delle strutture penitenziarie più grandi del triveneto poteva essere non facile. Come ti sei preparato? Dalla pubblicazione (giugno 2014) ad oggi ho avuto diverse occasioni, ne ho parlato a poche persone come a molte, in piccole biblioteche come ad assemblee ufficiali, e dove è stato possibile ho scelto, con l’aiuto di altri, di leggere brani tratti dal libro non con la pretesa di rappresentare il libro, ma almeno per "toccare" alcuni temi e dare spunti. Ho sempre constatato che questa modalità permette di entrare meglio nel cuore del libro, e cogliere lo spirito che mi ha spinto a scrivere. Anche per questa nuova tappa ho preparato alcuni brani, pongo attenzione perché siano brevi e abbiano un senso compiuto. E con l’aiuto delle persone presenti (carcerati e volontari) che ringrazio sinceramente, abbiamo letto qualche pagina. E com’è andata? Varcare la soglia di un carcere, porte e portoni, controlli e passaggi da compiere, consegnare telefono, portafoglio, attraversare quei corridoi che di solito vediamo solo nei film, guardare dalle finestre e vedere sbarre dappertutto, sono situazioni che credo colpirebbero chiunque. Incontrare visi giovani, visi di persone di una certa età segnati dal tempo e dalle battaglie, occhi sereni e occhi che ti guardano fissamente, cominciare da lì non è facile, invece poi, a parlare loro raccontando del libro e rispondendo alle loro domande, ci si rende subito conto che l’uomo mantiene la sua umanità in qualunque situazione tu lo possa incontrare. Come ti hanno accolto? L’imbarazzo iniziale è stato presto superato. Il loro modo attento e partecipe di ascoltarmi, i loro occhi che non si staccavano un istante da me, le loro domande affatto scontate. Ogni nuova occasione è diversa dalle precedenti, ovvio, ed ogni volta succede qualcosa che non ti aspetti. In carcere mi sono state rivolte domande che nessuno mi aveva mai rivolto. Prima di leggere un brano del libro, solitamente introduco con qualche notizia per spiegare chi è la persona intervistata, dove e come l’ho incontrata, qualche particolare che aiuti chi ascolta a capire meglio il brano. Nessuno, finora, si era mai interessato al proseguo e mi aveva chiesto ulteriori notizie della persona intervistata, "come gli sono andate poi le cose" o "se quello lì è riuscito a cavarsela". Mi ha colpito il loro interesse, mi ha fatto pensare, perché abbiamo tutti piacere che qualcuno si interessi a noi e non solo quando c’è un fine di mezzo. Quanto ti sei trattenuto in carcere? Il tutto è durato poche ore, logicamente, i due incontri nelle Case di Reclusione e Circondariale erano stati inseriti nel rispetto della via quotidiana carceraria, ove tutto è stabilito, fissato, e qualunque variazione è ovviamente sottoposta a domanda e autorizzazione, ma l’incontro lascerà davvero un segno profondo in me. Spesso, quando presento il mio libro, l’incontro si conclude con qualche domanda particolare, qualche copia del libro autografata, qualche fotografia con i convenuti. Oggi no, alla fine dei due incontri le persone si sono avvicinate a me con uno spirito diverso. Ovviamente loro non hanno acquistato il libro, quello lo hanno fatto le biblioteche del carcere e qualche volontario, loro si sono avvicinati a me per ringraziarmi, per chiedermi se possono scrivermi, via lettera naturalmente, non possono utilizzare internet. Qualcuno mi ha detto "quando uscirò di qui ti cercherò, ti scriverò", qualcuno mi ha stretto la mano forte come fa chi vuol dire qualcosa con quel semplice gesto, molti mi hanno fatto i complimenti e ringraziato. Anch’io, come posso, desidero ringraziare ognuno di loro, ho lasciato il mio indirizzo a disposizione se qualcuno desidera scrivermi. Grazie anche alla Casa di reclusione e alla Casa circondariale che mi hanno ospitato, e alla Coop. AltraCittà che ho conosciuto e apprezzato per il generoso impegno che certamente rende più vivibile la vita reclusa. Torna a salire la spesa militare di Danilo Taino Corriere della Sera, 10 aprile 2016 Nel 2015 l’indice è tornato ad avere segno positivo: non succedeva dal 2011. La Grande Crisi è finita, a giudicare dalle spese militari nel mondo. Forse, un’altra inizierà, più calda, sempre a giudicare da quanto i Paesi investono in armamenti. Per la prima volta dal 2011, la spesa militare è tornata a salire, nel 2015: dell’1% rispetto all’anno prima, a 1.676 miliardi di dollari, il 2,3% del Pil globale. Non è solo la ripresa di un trend che era stato interrotto dalla recessione seguita al crollo della Lehman Brothers nel 2008: c’è qualcosa di nuovo, se è vero che la crescita è avvenuta nonostante le ristrettezze di bilancio di molti Stati, in particolare dei produttori di petrolio che soffrono del crollo del prezzo del greggio. I dati vengono dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), uno dei più autorevoli nel settore, che li ha pubblicati pochi giorni fa. La crescita non sorprende, viste le tensioni che si accumulano sul pianeta. È però interessante vedere nello specifico le tendenze. Gli Stati Uniti, di gran lunga il maggiore investitore in armamenti, hanno continuato a ridurre la spesa, del 2,4%, a 596 miliardi di dollari: ma è una riduzione molto inferiore a quella degli anni scorsi. Al secondo posto c’è la Cina, che Sipri stima a 215 miliardi (sempre dollari): una crescita del 7,4%. Al terzo l’Arabia Saudita, in aumento del 5,7% a 87,2 miliardi. E al quarto la Russia, che nonostante la crisi della sua economia ha speso nel 2015 il 7,5% in più dell’anno prima, a 66,4 miliardi. A causa del crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime, alcuni Paesi hanno effettuato tagli drammatici del budget militare: il Venezuela del 64%, per dire, l’Angola del 42%. Ma altri esportatori di energia hanno continuato a gonfiare gli investimenti in armi, in particolare quelli coinvolti in conflitti o in zone a tensione crescente: oltre a Russia e Arabia Saudita (che per il 2016 prevedono tagli), Algeria, Azerbaijan, Vietnam. Sipri si domanda se la riduzione delle spese militari in Occidente stia per arrestarsi. Stati Uniti a parte, in Europa gli investimenti sono scesi solo dello 0,2%: sostenuti dal forte riarmo nei Paesi dell’Est europeo ex socialista. Anche il calo nell’Europa occidentale è però rallentato, all’1,3%, la riduzione minore dall’inizio della crisi dell’euro. L’Italia è al 12° posto per spesa militare: 23,8 miliardi di dollari, il livello circa del 1999, molto meno dei 31,6 del 2014. È l’1,3% del Pil. Sudafrica un esempio per superare i conflitti di Agnese Moro La Stampa, 10 aprile 2016 Nell’aprile del 1996 la Commissione per la verità e la riconciliazione della Repubblica Sudafricana teneva la sua prima seduta pubblica. Voluta da Mandela per fare luce sulle violazioni dei diritti umani durante l’apartheid, la Commissione - presieduta da Desmond Tutu - aveva adottato un modello di giustizia fondato sull’ascolto, in udienze pubbliche, di migliaia di vittime e di "perpetratori", con il potere di concedere a questi ultimi l’amnistia, a condizione, tra l’altro, di una piena ammissione dei crimini. Per avere un’idea di come si svolgessero le sedute guardate una puntata della trasmissione "Un giorno in Pretura" (www.youtube.com/watch?v=JRgpjC_VvIs) che ce ne propone una, tradotta. È un’esperienza, quella sudafricana, non unica, né anticipatrice, ma alla quale in tanti fanno riferimento per la capacità che ha avuto di accompagnare una così ampia ridistribuzione del potere e per le tante indicazioni che dà a coloro che cercano modelli di erogazione della giustizia più attenti alle ferite delle vittime e dei colpevoli e alla ricostruzione di legami sociali compromessi dai conflitti. Molto opportunamente il Dipartimento di Scienze religiose dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con il progetto "Giustizia e letteratura" del Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale ha voluto ricordare questo importantissimo avvenimento con il convegno internazionale "Conflitto, ragione e riconciliazione. Il Sudafrica vent’anni dopo" al quale hanno preso parte figure di primo piano che quella esperienza l’hanno vissuta - come Pumla Gobodo-Madikizela e Albie Sachs, narrata - come Robi Damelin e Etienne van Heerden, o studiata - come Eddy van der Borght e John De Gruchy. Molto opportunamente, dicevo, perché il tema non è commemorativo: non riguarda tanto il passato quanto il presente e il futuro di un mondo che se vuole andare avanti deve imparare a curare le terribili ferite che ogni conflitto lascia dietro di sé, e che non guariscono da sole. Rischiando sempre di diventare il terreno favorevole per nuovi conflitti. In una spirale che bisogna avere la capacità di spezzare. Il Cairo sfida Roma: "Non consegneremo i tabulati telefonici" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 aprile 2016 Conferenza stampa del team investigativo egiziano: "Anticostituzionale far visionare quei documenti, lo faremo noi". La Farnesina promette nuove misure, la Procura di Roma una rogatoria internazionale. Il caso di Giulio lega le società civili dei due paesi: a reagire sono gli attivisti egiziani. Nel silenzio delle istituzioni politiche, l’Egitto sfida l’Italia nella conferenza stampa del suo team investigativo, proprio sulla scottante questione dei tabulati telefonici. Mustafa Suleiman, capo delegazione e vice procuratore di Giza, è categorico: non li metterà a disposizione della procura di Roma per motivi di privacy. "Va contro la costituzione e la legge egiziana consegnarli all’Italia, sarà la parte egiziana a controllarli e a riferirne i risultati. Lo studio sarà condotto in Egitto dal procuratore perché le prove sono in Egitto. Il 98% delle richieste italiane sono state soddisfatte, continueremo nella collaborazione e pubblicheremo risultati congiunti". E le telecamere di sicurezza? "In Egitto non abbiamo la tecnologia per analizzarle, chiederemo l’aiuto tedesco". Non italiano. "Non daremo dettagli sull’inchiesta: legalmente non possiamo farlo, è ancora aperta - aveva avvertito all’inizio della conferenza stampa Suleiman - Abbiamo seguito tutte le procedure richieste da un’inchiesta". Tanto che, aggiunge Suleiman, i medici legali italiani hanno confermato i risultati dell’autopsia egiziana. Nessun commento sul richiamo dell’ambasciatore Massari deciso venerdì sera dalla Farnesina. Ieri il ministro degli Esteri italiano Gentiloni l’ha definito "misura immediata", su quelle successive "lavoreremo nei prossimi giorni": "Ricordo sempre gli aggettivi che ho usato e cioè che adotteremo misure immediate e proporzionali". Interviene anche l’Alto rappresentante agli Affari Esteri della Ue Mogherini che, da Hiroshima dove si trova per il G7 con Gentiloni, promette di coinvolgere anche Bruxelles. Dettagli non ne sono stati ancora dati, ma di certo molto può essere fatto visti gli stretti rapporti che legano i due paesi, politici, militari, economici. Un primo passo - prima del nuovo no egiziano - lo aveva compiuto la Procura di Roma: la prossima settimana inoltrerà una nuova richiesta di rogatoria internazionale per acquisire i tabulati delle chiamate telefoniche intercorse la notte del 25 gennaio a Dokki, il quartiere dove Giulio è sparito, e i video e per sapere perché i documenti di Giulio sarebbero finiti in mano ad una banda criminale. Quel materiale che la delegazione egiziana ha rifiutato di consegnare (presentandosi con uno striminzito rapporto di 30 pagine identico a quello recapitato a metà marzo) per motivi di privacy. Uno schiaffo in faccia da parte di un regime che controlla il proprio popolo costantemente e pervasivamente. Sul fronte egiziano i vertici istituzionali optano per il silenzio, almeno ufficialmente: se il governo del Cairo non risponde con la stessa moneta, il richiamo del proprio ambasciatore a Roma, fonti diplomatiche citate dal quotidiano al Youm7, parlano di "contatti ai massimi livelli tra i due governi per superare la crisi" e anticipato una telefonata tra il ministro degli Esteri Shoukry e la Farnesina. Perché l’Italia non vuole rompere con l’Egitto e il fatto che Massari non sia ancora rientrato ne è il segno. Di certo questa crisi porta con sé questioni politiche ben più ampie: la rete di alleanze imbastita dal premier Renzi (ma anche dalla Ue) che nel presidente-golpista egiziano aveva individuato l’interlocutore perfetto; l’inconcepibile ritardo italiano nell’approvazione della legge sulla tortura (tantissimi coloro che in queste ore paragonano il caso Regeni a quello di Stefano Cucchi e la battaglia della famiglia di Giulio a quella di Ilaria); il ruolo di Roma nella vendita di armi al regime egiziano (30mila pistole nel 2014 e 3.661 fucili nel 2015, 29 tonnellate dal valore di 9 milioni di euro) e quindi la complicità italiana nella macchina della repressione cariota. La morte di Giulio ha un effetto dirompente: unire con un filo invisibile le società civili italiana e egiziana. Nel gelo istituzionale le reazioni arrivano sui social network. "È la prima volta che sento invocare limiti costituzionali sul potere dello Stato. Immagino quando atroce il rapporto dell’Egitto su Regeni sia stato per gli italiani per fargli ritirare l’ambasciatore", scrive l’attivista politico egiziano Sherif Gaber, arrestato nel 2013 e in prigione per un anno con l’accusa di diffondere valori immorali. Stesso commento da Rasha Abdulla, professoressa all’Università Americana del Cairo, dove Giulio lavorava alla sua ricerca, mentre il giornalista Wael Eskandar invita a firmare la petizione lanciata in Gran Bretagna e rivolta al governo Cameron perché prenda misure immediate per il ricercatore della Cambridge University. Già 9mila le firme raccolte; con 10mila il governo è tenuto a rispondere, con 100mila deve dibatterne in parlamento. Sul lato dei media, la stampa si divide. Il quotidiano governativo Al-Ahram rompe gli indugi e pubblica un messaggio di scuse al popolo italiano, firmato dal giornalista e parlamentare Osama al Ghazali Harb. Il caso resta in ombra su al-Ahkbar, altro quotidiano filo-governativo, che schiaffa la notizia a pagina 15. Il privato al-Masry al-Youm, invece, dà spazio al parlamentare Mustafa Bakri che accusa l’Italia di "escalation ingiustificabile" e il team investigativo "di cospirare contro l’Egitto". Indirettamente da al-Ahram qualcosa era già uscito venerdì sera. A parlare era stata una sua giornalista, Nervana Mahmoud: "C’era bisogno di trasparenza, ma non è stata fornita. Consegnare un rapporto incompleto a Roma è stato l’ultimo chiodo nella bara". Egitto, giudici al servizio del regime di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 aprile 2016 Il caotico sistema giudiziario egiziano contribuisce ad abusi e violazioni a danno non solo di dirigenti e militanti dei Fratelli musulmani ma anche di oppositori laici ed attivisti dei diritti umani. Centinaia le condanne a morte emesse negli anni passati. Intanto il Paese si militarizza sotto il peso di una spesa per la difesa che cresce di anno in anno. Fino a un po’ di anni fa alcuni giornali egiziani avevano una rubrica, "Solo in Egitto". Conteneva storie e notizie curiose, possibili, a parere dei redattori, solo in Egitto. La donnona di Shubra che con un solo pugno aveva mandato al tappeto e ridotto in fin di vita il marito troppo esigente a tavola, l’abitante di Port Said convinto a cedere la casa e altri averi a una improbabile maga in cambio di un filtro d’amore, e via dicendo. Quella rubrica oggi avrebbe ragione di esistere ancora, per raccontare però solo del sistema giudiziario egiziano che, sempre più spesso, emette sentenze che sfiorano il ridicolo a conferma della pericolosa confusione che regna al suo interno. Di recente spicca la condanna all’ergastolo emessa nei confronti di Ahmad Abdel Wahed Safawy, 28 anni, che però era stato ucciso tre anni fa a sud del Cairo dalle forze di polizia durante le settimane insaguinate seguite al golpe militare. E non può passare inosservata la condanna a 28 anni di carcere inflitta a un bambino di 4 anni colpevole, secondo i giudici, dell’omicidio di tre persone, di tentato omicidio di altre sei, di possesso di armi da fuoco e di atti di vandalismo. Un errore non ancora corretto in via definitiva: i giudici vogliono essere certi che il bambino sia davvero estraneo a quei crimini. Questo sistema giudiziario caotico si è messo al servizio del regime di Abdel Fattah al Sisi dopo il golpe militare del 2013 e ha sommariamente condannato a morte centinaia di egiziani sostenitori dei Fratelli Musulmani e lo stesso presidente rimosso Mohammed Morsi. Quindi ha mandato in carcere per diversi anni Alaa Abdel Fatah, uno dei protagonisti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011, "colpevole" di aver partecipato a una manifestazione non autorizzata, oltre a decine di giornalisti, attivisti, sindacalisti e difensori dei diritti umani. È lo stesso sistema giudiziario che ha puntato l’indice contro l’ex presidente Hosni Mubarak, accusato di essere il responsabile dell’uccisione di centinaia di manifestanti nel 2011, e che poi, dopo il golpe del 2013, lo ha assolto. Sono gli stessi giudici che restano passivi di fronte alla brutalità dei servizi di intelligence e che non indagano sulla scomparsa di centinaia di persone. È il sistema giudiziario che ha accettato di militarizzarsi sulla base della nuova Costituzione che stabilisce che siano i tribunali militari a giudicare i civili in caso di attacchi a personale o strutture delle forze armate. Ed i pochi giudici che provano ad opporsi all’arbitrio, alla corruzione diffusa, al nepotismo dilagante e alla sottomissione al regime, vengono immediatamente allontanati. Come i 41 che sono stati sospesi o costretti ad andare in pensione per aver diffuso un comunicato in cui criticavano la deposizione del presidente Morsi per mano dei militari. Già due anni fa Amnesty International aveva lanciato l’allarme sul comportamento della magistratura egiziana, dopo le 518 condanne a morte emesse il 24 marzo 2014 dal tribunale di Minya contro dirigenti e militanti dei Fratelli Musulmani. "Quelle condanne a morte devono essere annullate. Emettere così tante condanne a morte in un singolo processo fa sì che l’Egitto abbia superato la maggior parte dei Paesi per numero di condanne inflitte in un anno", aveva avvertito Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord. "I tribunali egiziani sono solleciti nel punire i sostenitori (del presidente deposto) Mohammed Morsi - aveva aggiunto Sahraoui - ma ignorano le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza. Mentre migliaia di simpatizzanti dell’ex presidente languono in prigione non vi sono state indagini adeguate sulla morte di centinaia di manifestanti (nel 2013)". Con questo sistema giudiziario è impossibile anche solo immaginare che i magistrati egiziani possano fare piena luce su mandanti ed esecutori dell’assassinio sotto tortura di Giulio Regeni. E che possano farsi garanti delle libertà fondamentali e di opporsi, ad esempio, alla legge in discussione all’Assemblea parlamentare che vuole mettere il bavaglio ai social media per "ragioni di sicurezza nazionale". L’Egitto è sempre più stretto nella morsa delle Forze Armate e dei servizi di intelligence, ed è sempre più militarizzato. In un Paese dove tre bambini su 10 soffrono la fame, il presidente Abdel Fattah al Sisi pensa a comprare nuove armi. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), l’Egitto in un anno è passato dal 16esimo al 12esimo posto nella lista dei principali Stati importatori di armi. Al Sisi sostiene che sia necessarie per combattere i jihadisti nel Sinai ma non si spiega l’acquisto di una costosa nave da guerra dell’ultima generazione. Comprando armi dagli Usa, dalla Francia e ora anche dalla Russia, il regime egiziano si legittima in Occidente. Regeni, le mosse della Farnesina: limiti a scambi e turismo in Egitto di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 aprile 2016 Le azioni diplomatiche allo studio dopo la rottura tra i due Paesi sull’accertamento delle cause della morte del ricercatore. Ma si temono ripercussioni sulla nostra economia. Uno "sconsiglio" formale a recarsi per turismo in Egitto e la sospensione di alcuni accordi bilaterali, compresi quelli tra università. Ma anche la richiesta a organismi internazionali come l’Onu o la Banca Mondiale affinché stigmatizzino l’atteggiamento del Cairo riguardo al rispetto dei diritti umani. Sono queste le "prossime mosse" che saranno esaminate dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni nel corso delle "consultazioni" con l’ambasciatore italiano Maurizio Massari. È la strada tracciata alla Farnesina dopo il fallimento del vertice tra magistrati e investigatori che doveva portare a una collaborazione reale per sapere chi ha rapito, catturato e ucciso Giulio Regeni. In attesa che l’Egitto fornisca un segnale concreto sulla volontà di riprendere la cooperazione. Ambasciata vuota - La "misura" che dà maggiormente il senso di quanto forte sia la frattura tra i due Paesi è comunque quella visibile dell’ambasciata vuota. La decisione di richiamare a Roma il rappresentante diplomatico non comporta infatti la chiusura della sede, ma il fatto che il responsabile sia assente perché deve decidere con il suo governo quali scelte compiere per "tenere alta la nostra dignità" - come aveva detto nei giorni scorsi Gentiloni e poi ha ribadito il presidente del Consiglio Matteo Renzi - è un messaggio che le autorità del Cairo certamente hanno colto. E probabilmente non gradito. Anche perché è presumibile che la missione di Massari possa durare una settimana o addirittura di più, comunque fino a che non ci sarà un segnale dal Cairo, per marcare ulteriormente l’irritazione dell’Italia per un atteggiamento del regime guidato dal generale Abdel Fattah al Sisi ritenuto "ostile". Le "consultazioni" - Le "consultazioni" cominceranno martedì mattina, al ritorno di Gentiloni dal G7 in Giappone. E serviranno a valutare tutti i provvedimenti possibili e attuabili in tempi brevi per reagire in maniera efficace alla situazione di grave crisi che si è creata dopo il rifiuto degli inquirenti egiziani a fornire ai colleghi italiani i documenti originali del fascicolo d’inchiesta, primi fra tutti i tabulati telefonici relativi alle persone coinvolte nell’indagine, ma anche quelli che hanno "impegnato" le celle della zona dove Giulio Regeni è stato sequestrato e di quella dove è stato ritrovato il suo cadavere martoriato. Proprio per scoprire se ci fossero appartenenti agli apparati di sicurezza o comunque utenze presenti in entrambi i luoghi. Gli accordi economici - Ci si muove su due tavoli. L’Italia tiene al momento separata l’azione diplomatica da quella strettamente economica, consapevole del rischio altissimo che numerose aziende possano essere danneggiate da una rottura definitiva dei rapporti commerciali. Ma l’intenzione - almeno a leggere le parole che il ministro pronuncia mentre è in missione in Giappone per il G7 - è quella di mantenere una linea dura, di onorare l’impegno preso con la famiglia del ricercatore catturato il 25 gennaio scorso e ritrovato cadavere in un fossato il 3 febbraio. E di evidenziare il mancato rispetto da parte delle autorità egiziane delle istituzioni italiane, visto che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone aveva accettato di recarsi al Cairo con il sostituto Sergio Colaiocco per incontrare il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek e in quella sede aveva ricevuto assicurazioni sulla volontà di fornire massima cooperazione, mentre due giorni fa c’è stata una clamorosa retromarcia. L’Onu e la Ue - Ecco perché ci si rivolgerà all’Onu, ma anche all’Unione Europea affinché affianchino l’Italia nella denuncia della violazione sistematica dei diritti umani degli stranieri da parte degli appartenenti al regime. E perché si sospenderanno le intese nei settori della cultura, dell’università, del turismo. Sperando che questo serva ad ottenere un risultato nella ricerca della verità. Caso Regeni, il governo richiama l’ambasciatore e pensa alle prossime mosse di Francesca Schianchi La Stampa, 10 aprile 2016 Il rientro di Massari non è una rottura ma un gesto altamente simbolico. Ora Roma potrebbe congelare scambi culturali e sconsigliare viaggi in Egitto. L’insoddisfazione era nell’aria già da giovedì, al termine della prima giornata di incontri. Ieri, subito dopo la fine dei colloqui, Farnesina e Palazzo Chigi sono stati avvertiti dagli inquirenti italiani: dal Cairo non sono arrivate le informazioni richieste, niente traffico delle celle telefoniche, niente video della metropolitana. Non c’è stato, insomma, quel "cambio di marcia" nella collaborazione alle indagini richiesto alla vigilia dell’arrivo nella capitale della delegazione di magistrati egiziani. Così, la decisione che già si era pensato di assumere in caso di fallimento dell’incontro, presa in filo diretto tra Roma (dov’era il premier Renzi) e Tokyo (dove si trova il ministro degli Esteri Gentiloni, impegnato nel G7) è stata immediatamente comunicata: il nostro ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, è stato richiamato in Italia per consultazioni. Un provvedimento temporaneo che non segna la rottura dei rapporti con l’Egitto, ma comunque ad alto contenuto simbolico nel linguaggio della diplomazia. L’ambasciatore partirà alla volta di Roma tra domani e dopodomani e resterà qualche settimana. Il tempo di discutere altre misure "proporzionate" da adottare, come le aveva definite il ministro Gentiloni martedì scorso in Parlamento: in base agli sviluppi della vicenda, si legge nel comunicato pubblicato sul sito dal ministero degli Esteri, "si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni". Verità che giurano di voler agguantare Renzi e Gentiloni ("vogliamo una sola cosa: la verità su Giulio", twitta il ministro); verità richiesta a gran voce dai familiari del ricercatore friulano, che attraverso il loro avvocato esprimono "soddisfazione" per il richiamo dell’ambasciatore a Roma. È ampio il ventaglio delle possibilità diplomatiche per fare pressione sugli egiziani. Il primo intervento potrebbe essere sugli scambi culturali: ad esempio, sconsigliare studenti e ricercatori che, come Giulio, intendano trascorrere un periodo di approfondimento in Egitto dal farlo. Oppure, sospendere temporaneamente programmi bilaterali nel settore della cultura e dell’Università. Una certa incidenza potrebbe averla anche l’eventuale decisione della Farnesina di dichiarare l’Egitto Paese "non sicuro", scoraggiando viaggi e vacanze tra Cairo piramidi e Mar Rosso. Su un altro livello, si potrebbe agire raffreddando le relazioni politiche, abbassando ad esempio il livello dei contatti (non sarebbero più nostri ministri a partecipare a eventuali incontri nel Paese, ma figure non apicali) o impedendo di viaggiare in Italia a personalità politiche egiziane. Quel che appare certo, a oggi, è che non si terrà il vertice intergovernativo tra Italia ed Egitto che pure era previsto. Appare invece più improbabile al momento il ricorso a misure commerciali come le sanzioni, che pure è un’ipotesi circolata nei giorni scorsi. Come andare avanti per riportare sui giusti binari la collaborazione se ne discuterà nei giorni in cui l’ambasciatore Massari sarà in Italia. A meno che già il suo richiamo non convinca gli egiziani a una maggiore collaborazione. La prima reazione, ieri sera, è stata quasi piccata: "Il ministero degli Affari Esteri finora non è stato informato ufficialmente" della scelta italiana, diceva un comunicato e "delle ragioni di questo richiamo, tanto più che non c’è stato un comunicato sui risultati delle riunioni delle squadre d’inchiesta egiziana e italiana". Birmania: liberi 100 detenuti politici Ansa, 10 aprile 2016 Oltre 100 prigionieri politici sono stati rimessi in libertà tra ieri e oggi in Birmania, parte di un indulto ordinato dalla leader di fatto del governo Aung San Suu Kyi. Il gesto, altamente simbolico per il "nuovo corso" della democrazia birmana, è stato però oscurato da un altro caso che ha portato ieri alla condanna di due altri attivisti per la pace, per i loro contatti con un gruppo ribelle di una minoranza in guerra con il governo centrale. Secondo il quotidiano statale "Global New Light of Myanmar", sono 113 i detenuti tornati in libertà, tra cui una sessantina di studenti in attesa di processo da un anno dopo l’arresto per la loro partecipazione a manifestazioni contro una controversa riforma dell’istruzione. La gioia delle famiglie per il rilascio è stata però oscurata dal caso di Zaw Zaw Latt e Pwint Phyu Latt, due attivisti musulmani condannati ieri da una corte di Mandalay a 2 anni ai lavori forzati per i loro contatti con l’Esercito per l’indipendenza Kachin, un gruppo di ribelli cristiani. Stati Uniti: due detenuti libici di Guantánamo trasferiti in Senegal Nova, 10 aprile 2016 Le forze armate Usa hanno trasferito in Senegal due detenuti libici del penitenziario speciale di Guantánamo Bay (Cuba). Lo hanno annunciato questa settimana funzionari del governo Usa. I due uomini erano in carcere da 14 anni senza processo: il loro trasferimento in Senegal riduce la popolazione complessiva del penitenziario speciale di Guantánamo a 89 detenuti. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha ringraziato il governo del Senegal per essersi fatto carico dei due sospetti terroristi, e ha ribadito la posizione dell’amministrazione Obama secondo cui Guantánamo dovrebbe essere chiuso perché troppo costoso e perché alimenta il sentimento anti-americano all’estero.