Carcere e detenzione inumana: diritto al risarcimento anche con l’ergastolo di Sabina Coppola laleggepertutti.it, 9 agosto 2016 Anche agli ergastolani è riconosciuto il risarcimento del danno per essere costretti in carceri troppo strette e in condizioni inumane. Anche chi è destinato a scontare la pena dell’ergastolo ha diritto al risarcimento del danno derivante dall’aver trascorso la sua vita in carcere in condizioni inumane. Ma procediamo con ordine In cosa consiste il risarcimento del danno per detenzione inumana? Nel 2013, la Corte europea dei diritti dell’Uomo [1] ha sanzionato l’Italia, ritenendo che le carceri fossero sovraffollate e che i detenuti fossero costretti a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità. Per tale ragione, ha ordinato all’Italia di ridurre il numero di detenuti presenti nei vari istituti penitenziari e di riconoscere un risarcimento a chi fosse stato obbligato a sopportare condizioni disumane. L’Italia ha cercato di ottemperare a quanto prescritto dall’Europa, attraverso una nuova legge [2] con la quale ha stabilito che il detenuto, che abbia vissuto in una cella di dimensioni inferiori a 3 mq., ovvero in condizioni igienico sanitarie proibitive e mortificanti, abbia diritto: alla riduzione di un giorno di pena non ancora scontata per ogni 8 giorni di detenzione inumana subita, se è ancora detenuto; ad un risarcimento economico pari a 8 euro per ogni giorno in cui abbia subito il pregiudizio, se la riduzione di pena non sia possibile o se non sia più detenuto. Nel primo, la richiesta deve essere presentata al Magistrato di Sorveglianza competente in base al luogo di detenzione; nel secondo caso, deve essere depositata (personalmente o attraverso un avvocato munito di procura speciale) nel Tribunale del luogo di residenza, entro 6 mesi dalla scarcerazione. Cosa accade per il detenuto ergastolano a cui non può essere ridotta la sua pena in quanto perpetua? La Corte Costituzionale, con una recentissima sentenza [3], ha chiarito che anche il detenuto con "fine pena mai" ha diritto ad ottenere un ristoro per il periodo di detenzione scontato in condizioni ritenute contrarie al senso di umanità. I condannati alla pena dell’ergastolo possono seguire due strade: se non hanno ancora scontato una frazione di pena che consenta loro di chiedere la liberazione condizionale, possono chiedere la riduzione di 1 giorno per ogni 8 giorni di detenzione; se, invece, hanno già raggiunto il residuo pena per accedere alle misure alternative, possono chiedere il risarcimento economico del danno (ovvero 8 euro per ogni giorno di detenzione). In pratica nessun detenuto è escluso dal risarcimento del danno per detenzione inumana, neanche gli ergastolani ai quali, se non è possibile operare una riduzione di pena, sarà loro riconosciuto un ristoro economico, anche se ancora detenuti. [1] Corte EDU, sent. dell’8.1.2013. [2] D.L. 92 del 26.6.2014 convertito il L. n. 117 dell’11.8.2014. [3] C. Cost., sent. n. 2014 del 21.7.2016. La storia infinita degli Opg: arriva un’altra proroga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2016 Il Commissario Franco Corleone rimarrà in carica fino a febbraio 2017. Nemmeno quest’anno riusciranno a completare la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Ancora ne rimangono due, ovvero quello di Montelupo Fiorentino e di Barcellona Pozzo di Gotto. Gli ultimi due, ricordiamolo, sono stati nel frattempo convertiti in carceri ordinarie e ospitano - come noi de Il Dubbio abbiamo già denunciato - sia i detenuti comuni sia i pazienti psichiatrici. Un ibrido esplosivo in cui non sono mancate le tragedie: come il suicidio, a Barcellona Pozzo di Gotto, del paziente psichiatrico che doveva stare in una Rems come la legge prevede. Per questo motivo, nella conferenza unificata Stato - Regioni del 3 agosto, si è dato il via libera a una delibera, a firma del ministro della Giustizia e di quello della Salute, che proroga di sei mesi l’incarico al commissario unico per gli Ospedali psichiatrici giudiziari, Francesco Corleone. Il nuovo mandato, che rinnoverà quello avviato il 19 febbraio scorso, si protrarrà dunque fino a febbraio 2017. Franco Corleone era stato nominato Commissario unico per provvedere alla realizzazione dei programmi necessari alla chiusura degli Opg e al tempestivo ricovero presso le competenti Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) delle persone ancora internate e di quelle sottoposte a misura di sicurezza provvisoria. Ancora i problemi non sono stati del tutto risolti e quindi il governo ha di fatto deliberato un ulteriore proroga. Di proroga in proroga le criticità però stanno aumentando. La storia infinita degli ospedali psichiatrici si allunga però con un nuovo capitolo: è stato approvato al Senato un emendamento che di fatto riapre l’intera stagione degli Opg, prevedendo l’invio nelle Rems di tutte quelle categorie di detenuti che in passato venivano trasferiti negli Opg. In pratica c’è il rischio della creazione di mini Opg. A suonare il campanello d’allarme ci hanno pensato Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Patrizio Gonnella e Vito D’Anza, che a nome del Comitato nazionale stopOPG hanno scritto una lettera appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al sottosegretario alla Salute Vito De Filippo e per conoscenza al Commissario per il superamento OPG Franco Corleone. "Invece di affrontare il problema della legittimità delle misure di sicurezza provvisorie decise dai gip e di quelle che rimangono non eseguite ? si legge nella missiva ? si ipotizza una violazione della legge 81 ripristinando la logica e le pratiche dei vecchi Opg. Un disastro cui bisogna porre riparo. Non solo si ritarda ulteriormente la chiusura degli Opg rimasti aperti, ma così le residenze per le misure di sicurezza diventano a tutti gli effetti i nuovi Opg". Il problema che vuol affrontare l’emendamento è garantire le cure troppo spesso ostacolate o negate dalle drammatiche condizioni delle carceri. "Ma il diritto alla salute e alle cure dei detenuti - spiega il Comitato - non si risolve così. Occorre rafforzare e qualificare i programmi di tutela della salute mentale in carcere e che il Dap istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche". Semmai, "si devono potenziare le misure alternative alla detenzione. Così invece, moltiplicando strutture sanitarie di tipo detentivo dedicate solo ai malati di mente, riproduciamo all’infinito la logica manicomiale. Il rientro di queste persone nel carcere (o comunque nel "normale" circuito delle misure alternative alla detenzione) serviva e serve proprio a ridimensionare il ruolo del cosiddetto binario parallelo". Conclude la lettera: "Ci aspettiamo un intervento deciso del governo per rimuovere quanto inopinatamente l’emendamento in questione ha disposto, a sostegno del faticoso processo di superamento degli Opg. Nell’occasione rinnoviamo la richiesta di un provvedimento che eviti l’invio di persone con misura di sicurezza provvisoria nelle Rems, destinandole ai prosciolti definitivi". Luci ed ombre nella riforma del processo di Giorgio Spangher Il Dubbio, 9 agosto 2016 È difficile formulare giudizi "definitivi" su una legge in corso di approvazione, considerate le possibili "variabili" alle quali può andare incontro. Ancor più difficile è il compito nel caso di un provvedimento che tocca "a macchia di leopardo" profili sostanziali, processuali e penitenziari. La riflessione, se possibile, è aggravata dal fatto che a fianco a norme che possono essere operative con l’entrata in vigore della legge, altre ?in parti non secondarie? sono contenute nelle leggi-delega. Nel giudizio valutativo, poi, si dovrebbe tener conto tra le contrapposte istanze che si sono (e si stanno) confrontando sul provvedimento anche di ciò che si ipotizza di fare e ciò che risulta dal testo della commissione Giustizia del Senato. Ciò posto, nel merito, il provvedimento rappresenta sicuramente la visione che la magistratura ritiene essere il livello minimo per assicurare l’efficientismo del processo ed il massimo di tutela concedibile alle istanze difensive. Dalla prospettiva dell’avvocatura i termini saranno invertiti. Il dato trova conferma nella disciplina della prescrizione ed in quello delle intercettazioni telefoniche. Sotto il primo profilo, ribadita la commistione tra profili processuali e sostanziali, se può essere ragionevole aver ridotto il tempo della sospensione a diciotto mesi, non può negarsi che manca ogni riferimento alla durata ragionevole del processo, sicché è facile prevedere un allungamento dei tempi del giudizio, con negative conseguenze soprattutto per le prove e le misure cautelari, in particolare patrimoniali. Quanto alle intercettazioni telefoniche, in attesa della traduzione delle direttive in dati normativi, se si possono apprezzare alcune precisazioni in tema di virus informatico, riguardo soprattutto all’eliminazione del riferimento all’ipotesi associativa di cui al recente pronunciamento delle Sezioni unite, restano da definire e soprattutto da attuare nella prassi la tutela del segreto, della conoscenza da parte delle difesa, della tempistica dell’udienza stralcio, dell’effettività delle invalidità di tutela dei dati sensibili e degli elementi favorevoli alla difesa. Restano alcuni eccessi di operatività del doppio binario che offuscano la reintroduzione del concordato in appello. Perplessità permangono per la disciplina dell’abbreviato in relazione alla sanabilità delle invalidità, mentre è positiva l’eliminazione della declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni da parte del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. I vincoli sulle impugnazioni, tesi alla razionalizzazione della materia ed alla previsione di oneri di specificità per la difesa, sono compensati da una certamente positiva visione del ruolo del pubblico ministero nella disciplina della legittimazione ad appellare ed a ricorrere: eliminazione dell’appello incidentale; ricorso per violazione di legge in caso di doppia conforme; rinnovazione del giudizio d’appello in caso di impugnazione della sentenza di proscioglimento. Se c’è positivamente l’eliminazione dell’esposizione introduttiva, rimane confermato il potere di sollecitazione del gip all’integrazione delle lacune investigative, mentre il "buco nero" della disciplina delle misure cautelari reali non può ritenersi colmato dalla reintrodotta partecipazione all’udienza davanti alla Cassazione, dopo gli inopinati blitz delle Sezioni unite in materia. Non può segnalarsi, rispetto alle vocazioni equilibriste tra le sollecitazioni di varie parti, politiche, corporative, ordinamentali, il tributo pagato in relazione al dibattimento a distanza. Del resto, non c’è niente di più "politico" del processo penale e spesso chi governa sa di camminare alla ricerca di equilibri possibili. Il Ministero della Giustizia stanzia 180 milioni per ridurre il debito della Legge Pinto di Francesco Barresi Italia Oggi, 9 agosto 2016 Quasi 180 milioni di euro per ridurre il debito Pinto (risarcimenti per l’eccessiva lunghezza dei processi). Li ha stanziati il ministero della giustizia, per l’anno 2016, con il piano della performance 2016-2018, approvato con decreto ministeriale 28 luglio 2016. In particolare, gli obiettivi strategici elaborati dal ministero, per il dipartimento per gli affari di giustizia, individuano, come priorità, la gestione del contenzioso e della legge Pinto, attività che la nota al bilancio individua con uno stanziamento pari a 179,22 milioni di euro e che risponde ai contenuti della priorità politica di razionalizzazione e tempestivo utilizzo delle risorse finanziarie disponibili per ridurre il debito dell’amministrazione nei confronti dei privati, nonché per la riduzione dei tempi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture. Per assicurare il funzionamento dei servizi istituzionali, invece, via Arenula ha stanziato oltre 827 milioni di euro, tramite i quali si perseguirà lo svolgimento delle attività istituzionali di competenza del dipartimento, oltre all’obiettivo di raggiungere risultati operativi in linea con gli altri contenuti delle priorità politiche del ministro Andrea Orlando. In particolare, le priorità sono: razionalizzazione e innalzamento dei livelli di efficienza dei servizi e dell’organizzazione del ministero; miglioramento dei livelli di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa; incremento e diffusione dei progetti di innovazione tecnologica nei procedimenti giudiziari, civili e penali; potenziamento degli strumenti statistici e di monitoraggio esistenti; attuazione delle disposizioni in materia di trasparenza e anticorruzione. Inoltre, il ministero ha approvato il programma triennale per la trasparenza e l’anticorruzione, alla luce delle novità introdotte dal dlgs n. 97/2016. L’obiettivo di breve periodo consiste, essenzialmente, nel completamento degli obblighi di legge che riguardano la pubblicazione delle informazioni e dei dati. Dopo una prima fase volta al completamento degli obblighi di pubblicazione previsti dal dlgs n. 33 del 2013, il ministero sta lavorando al consolidamento delle procedure di acquisizione dei dati e allo sviluppo di alcuni progetti "trasparenza", incentrati sulla specificità delle funzioni amministrative svolte da via Arenula. Il ministero assicura poi che un ulteriore potenziamento verrà effettuato con riferimento all’area Intranet del sito, recependo anche il suggerimento delle organizzazioni sindacali di creare una vera e propria bacheca telematica, all’interno di tale area, destinata alle comunicazioni del personale. L’obiettivo triennale del ministero, infine, resta quello di progettare con gli stakeholder un sistema condiviso di indicatori in grado di comparare, nel tempo, i livelli di qualità effettiva dei servizi erogati. Adriano Bertinelli, una storia di vessazioni e beffe giudiziarie di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 agosto 2016 È morto di giustizia. Giustiziato. Adriano Bertinelli, segretario provinciale della Cub Trasporti e presidente della sezione di Parma di Adcu, Associazione per la difesa di cittadini e utenti, si è ucciso venerdì scorso sparandosi un colpo di pistola al cuore. Aveva ricevuto la notizia che la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso contro il suo licenziamento. Autista dell’azienda che gestisce il trasporto pubblico di Parma, la Tep, aveva aderito alla Confederazione unitaria di base. Numerose le battaglie condotte a difesa dei diritti dei colleghi. Iniziò la sua attività sindacale impugnando le sanzioni disciplinari davanti all’Ispettorato del Lavoro, ottenendo buoni risultati. L’ambiente non è mai stato dei migliori alla Tep, contraddistinto da sempre da un duro confronto fra i dipendenti e l’azienda. L’ultimo accordo prevede, addirittura, che il premio di produzione per i controllori sia erogato anche in base al numero delle sanzioni elevate. Fatto che, come ha scritto una sigla sindacale, "mette i verificatori gli uni contro gli altri. Non solo: rischia di scatenare la caccia alla multa. Tutto questo, tagliando quel margine di ragionevolezza doveroso nei confronti, ad esempio, degli utenti deboli". L’azienda cominciò da subito a mettere i bastoni fra le ruote a Bertinelli. Diventato personaggio scomodo. Controlli continui al capolinea da parte dei superiori per scovare ritardi sulla sua tabella di marcia, sanzioni disciplinari per ogni minima violazione del regolamento, applicato nei suoi confronti con estrema rigidità. Lo scopo, come disse in una intervista, era quello di indurlo alle dimissioni. "Lo controllano per fargli del male". Questo clima ostile fece cadere Bertinelli in depressione, vittima di frequenti attacchi di panico. Dopo l’ennesimo controllo al capolinea, sfociato con l’inseguimento da parte di alcune auto aziendali, venne ricoverato al pronto soccorso. La diagnosi: "Malessere dovuto a episodi connessi all’attività lavorativa, finalizzati alla compromissione del benessere". Referto confermato poi dalla clinica del lavoro di Milano. Dopo una lunga assenza Bertinelli torna al lavoro, riprendendo anche la sua attività sindacale. Intenta una causa contro l’azienda per mobbing che però non verrà mai discussa: il tribunale di Parma respinge le varie istanze non ravvisando alcun comportamento vessatorio. Nell’ottobre del 2010 Bertinelli viene licenziato con l’accusa di essersi recato all’estero per due settimane durante un periodo di malattia. "In realtà - come scrisse nel suo ricorso - ero sottoposto ad un protocollo terapeutico che, come da documentazione medica, escludeva la reperibilità per la visita fiscale in determinate fasce orarie. Stavo assumendo psicofarmaci per seguire un trattamento resosi necessario al fine di contrastare l’insorgere di una nuova sindrome depressiva a seguito delle continue vessazioni subite e di alcuni eventi traumatici legati alla mia famiglia. Quel soggiorno fuori Italia era stato preventivamente comunicato, l’Inps ne era a conoscenza. Al riguardo, questo tipo di patologie sono esonerate dalle visite fiscali". Oltre al licenziamento, l’essere andato all’estero per malattia ha portato a Bertinelli una denuncia per truffa. Bertinelli impugna il licenziamento e vince la causa: deve essere reintegrato sul luogo di lavoro e risarcito dei mancati stipendi. La madre, particolarmente provata da quanto accaduto al figlio, è colta da ictus ischemico da cui non si riprenderà più. Nel 2012 una nuova botta: la Tep ricorre in appello a Bologna. La causa finisce nelle mani di un giudice che prima di essere trasferito nel capoluogo emiliano era in servizio proprio alla sezione lavoro del Tribunale di Parma. Dopo un anno e mezzo si arriva alla discussione in aula: la sentenza di primo grado, forte e ben argomentata, viene completamente ribaltata. Il giudice accoglie la tesi dell’azienda e dichiara legittimo il licenziamento. Bertinelli si ritrova a 45 anni disoccupato e con una madre invalida al 100 per cento. In attesa che la Cassazione dica l’ultima parola, Bertinelli scrive alla Corte europea dei diritti dell’uomo, al Consiglio Superiore della Magistratura e anche al presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati per segnalare le "vessazioni giudiziarie" di cui è oggetto. Senza mai ricevere risposta. La via d’uscita dall’assedio - Venerdì scorso, il responso definitivo. La Cassazione, oltre a dichiarare inammissibile il ricorso, lo condanna al pagamento di 5.000 euro più le spese di legge. Troppo per un disoccupato con una madre malata da accudire. La morte gli deve essere sembrata allora l’unica via d’uscita da questo assedio giudiziario. La senatrice Maria Mussini ha scritto ieri al sindaco di Parma Federico Pizzarotti di farsi carico dei funerali di Bertinelli. Nessun parente si è, infatti, fatto vivo in questi giorni. In galera per un equivoco. Sono serviti 5 anni per chiarire l’errore di Claudia Osmetti Libero, 9 agosto 2016 Soldato parla al telefono di "due chili di roba", ma erano mozzarelle. Finire in carcere per un errore, un’interpretazione sbagliata, una svista. È successo a Francesco Raiola, 35 anni, ex caporale maggiore dell’Esercito. A metterlo nei guai sono delle mozzarelle: cinque anni fa le promette a un collega che con lui presta servizio nella caserma di Barletta, in Puglia. Al telefono ci scherza su ("Ti porto due chili di roba"), non immagina che chi lo sta intercettando è poco incline all’ironia. Poi la storia si ripete: Raiola si mette in testa di comprare per un commilitone un televisore di ultima generazione, uno di quelli con "l’ingresso Mediaset per vedere le partite". Pensa di farlo nella sua città d’origine, Scafati (Salerno), così può far risparmiare all’amico qualche euro. "Allora non preoccuparti, te la porto io". La tv, ovvio. Ne parla al telefono e i carabinieri che lo intercettano pensano a un "linguaggio in codice". Risultato: il 20 settembre del 2011 Raiola finisce in manette. Le sue sono le mozzarelle più care di sempre, gli costano quattro giorni in isolamento, 21 in prigione (nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere), cinque mesi agli arresti domiciliari e la divisa. Già, perché tra scartoffie, avvocati e accuse gratuite, Raiola è addirittura costretto anche a lasciare l’Esercito. Lui, tra l’altro, quello scudetto tricolore sul braccio se l’era sudato: due missioni in Kosovo, una in Afghanistan, pilota di mezzi corazzati, esperienza di livello, una passione talmente forte che per tre volte rinvia la data delle nozze visto che lo chiamano in servizio. Solo ora che la sua innocenza è venuta a galla può sperare nel reintegro, ma deve aspettare l’autunno prossimo. Nel frattempo gli viene diagnosticato un melanoma, fortunatamente non ci sono metastasi, ma il calvario giudiziario si aggrava. Raiola non fa altro che sgolarsi, per cinque anni, nel ripetere che lui non c’entra nulla: è un errore, un’interpretazione sbagliata, una svista. Niente da fare: finisce nell’operazione "Alieno", una maxi inchiesta che si gioca tra le province di Salerno e Napoli, 73 indagati in tutto, misure cautelari, arresti, e processi. "Un tritacarne che non finiva mai", racconta il militare sulle pagine del quotidiano Il Dubbio, e deve essere andata proprio così. A gestire l’indagine è la procura di Torre Annunziata: gip e pm non hanno dubbi. L’avvocato di Raiola fa un’istanza per incompetenza territoriale e il procedimento finisce nel palazzo di giustizia di Nocera Inferiore. E arriva l’assoluzione da tutte le accuse. Il caporale non ha mai fatto traffico di sostanze stupefacenti: le partite che prometteva al collega grazie alla pay-tv erano proprio gare di calcio. L’errore giudiziario, insomma, c’è. Se ne sono accorti anche al tribunale di Nocera (che ha sentenziato un risarcimento di 41mila euro) e il senatore Giuseppe Esposito (che, su questo ennesimo caso di "giustizia" all’italiana, ha aperto un’interrogazione parlamentare). E dire che a guidare la procura di Torre Annunziata in quegli anni c’era Diego Marmo: il pm che definì Enzo Tortora un "cinico mercante di morte" e condusse l’indagine contro il presentatore televisivo. Intendiamoci: Marmo fino al 2013 ha diretto l’ufficio in questione e non si è occupato, direttamente, della questione Raiola. Nel 1983, invece, era tra quelli convinti che il volto di Portobello fosse un pericoloso spacciatore: l’elemento d’accusa più forte che aveva in mano era l’agendina di un malavitoso su cui era scritto "Tortona". Marmo e gli altri magistrati lessero "Tortora". Una consonante diversa. Un errore, un’interpretazione sbagliata, una svista. La carriera del maresciallo indagato per il caso Cucchi "protetta" dai carabinieri di Giampiero Calapà e Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2016 L’Arma: "È una promozione automatica per anzianità". Per poter accedere al concorso di allievo carabiniere, tra gli altri requisiti, è necessario "non aver avuto comportamenti incompatibili con la fedeltà all’ordinamento democratico e alle istituzioni, né essersi trovati in situazioni incompatibili con lo stato di membro dell’Arma dei carabinieri". Essere indagati, come Roberto Mandolini, per falsa testimonianza con l’accusa di aver mentito ai pm e coperto "il violento pestaggio di Stefano Cucchi" da parte di tre colleghi, invece, non rientra nelle situazioni incompatibili con lo stato di membro dell’Arma e non è un ostacolo per una promozione. L’avanzamento ad anzianità di carriera Ieri il Fatto ha raccontato la storia della promozione di Mandolini da maresciallo a maresciallo capo, dopo l’indignazione espressa da Ilaria Cucchi sul suo blog sull’huffingtonpost.it. Il maresciallo capo, nel 2009 era sottufficiale alla caserma Appia di Roma, da dove partirono i militari che fermarono Stefano Cucchi. In precedenza era stato vicecomandante a Tor Vergata, poi è passato a Tor di Quinto, col ruolo di comandante - come riferito da più fonti - di una squadra del Battaglione mobile Lazio. Ieri mattina il Comando generale dei carabinieri ha dettato questa nota alle agenzie: Mandolini "è stato promosso ad anzianità da maresciallo ordinario a maresciallo capo, decorrenza 30 giugno 2015, con decreto dell’1° agosto 2016 della Direzione generale del personale militare. È un avanzamento di grado automatico, avendo maturato sette anni di permanenza nel grado precedente, e dovuto, non essendo rinviato a giudizi o". Peccato, che - riscontrabile sul sito ufficialecarabinieri.it - il regolamento sulle promozioni di anzianità contempla una discrezionalità che non fa riferimento a un’eventuale rinvio a giudizio: "L’avanzamento ad anzianità - si legge - costituisce un procedimento di progressione di carriera che si basa su automatismi legali, solo in parte corretti da una fase discrezionale in cui l’amministrazione esprime una propria valutazione riguardo l’idoneità a svolgere le funzioni del grado superiore. Le commissioni di avanzamento, infatti, esprimono i giudizi sull’avanzamento ad anzianità dichiarando se il militare interessato sia o meno idoneo a rivestire il grado superiore. Il giudizio di idoneità si consegue quando il valutando riporti un numero di voti favorevoli superiore alla metà dei votanti". Insomma, in presenza di un’accusa come quella mossa dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone al maresciallo Mandolini, la commissione di avanzamento avrebbe potuto attendere l’esito dell’inchiesta, per altro imminente. I precedenti del G8 di Genova Non è il primo caso, comunque, in cui uomini delle forze dell’ordine vengono promossi nonostante gravi accuse nei loro confronti. Il caso più eclatante è quello dei funzionari della Polizia di Stato in servizio al G8 di Genova, le cui carriere non hanno subito mai interruzioni o congelamenti se non, per forza di cose, dopo condanna definitiva in Cassazione. Prima di incappare nell’interdizione dai pubblici uffici nel 2012 con una condanna per falso, infatti, Franco Gratteri aveva raggiunto la Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi la guida del Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi quella del Dipartimento analisi dei servizi segreti dell’Aisi, Filippo Ferri quella della squadra mobile di Firenze, solo per fare alcuni esempi. E, diversi di loro, dopo l’interdizione, sono comunque rientrati al servizio dello Stato in qualche modo: Caldarozzi in Finmeccanica come responsabile della sicurezza chiamato da Gianni De Gennaro, nel 2001 capo della Polizia. Rigetto della richiesta dei servizi sociali appellabile in primo grado di Francesco Barresi Italia Oggi, 9 agosto 2016 Il rigetto della richiesta dei servizi sociali è appellabile solo con la sentenza di primo grado. Così hanno stabilito le sezioni unite penali della Cassazione, con la sentenza 33216/2016, che hanno dissipato un contrasto giurisprudenziale. La vicenda risale al maggio 2015, quando un uomo venne rinviato a giudizio davanti al tribunale di Firenze per il reato di spaccio e detenzione di droga. L’imputato richiese la sospensione del procedimento con messa alla prova, previsto dalla legge 67 del 28 aprile 2014, che prevede un percorso di reinserimento e rieducazione dell’imputato per reati di minor allarme sociale, evitando così il dibattimento in aula e l’affollamento delle carceri tramite l’affido ai servizi sociali. Il tribunale fi orentino dichiarò inammissibile la richiesta, e l’imputato propose ricorso in Cassazione lamentando "la mancanza di motivazione, l’incomprensibilità del provvedimento, un impedimento soggettivo che non consente di valutare la giustificazione della decisione". Nel novembre 2015 la VI sezione penale della Cassazione rivelò un contrasto giurisprudenziale, ovvero se il ricorso in Cassazione fosse automatico "congiuntamente alla sentenza ai sensi dell’art. 586 cod. proc. pen.". La Corte rilevò due orientamenti di interpretazione: il primo riguarda il ricorso automatico in Cassazione, sancito dall’art. 464-quater comma 7, in cui "sull’istanza di messa alla prova possono ricorrere per Cassazione l’imputato e il pubblico ministero", mentre il secondo evidenzia il ricorso alla Corte "solo con impugnazione della sentenza, in base al principio di tassatività, in cui il provvedimento di rigetto dell’istanza di messa alla prova soggiace all’articolo 586 cod. proc. pen.". Gli Ermellini nella sentenza hanno così dissipato i dubbi: il rigetto della messa alla prova è impugnabile solo con la sentenza di primo grado, "in quanto l’art. 464-quater, comma 7 cod. proc. pen., nel prevedere il ricorso in Cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con la messa alla prova". Quindi il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile. Un argine per le estradizioni. Resta in Italia il condannato a morte nel proprio paese di Francesco Barresi Italia Oggi, 9 agosto 2016 Se il reato per cui si richiede l’estradizione è punito, in un paese non Ue, con la pena di morte, l’estradizione può essere concessa solo quando l’autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte, ma se quest’ultima è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa. In un’ottica di allineamento con la giurisprudenza europea sul tema dell’estradizione e dell’assistenza giudiziaria, lo scorso 4 agosto è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge del 21 luglio 2016, n. 149, sulla "Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli stati membri dell’Unione europea" (Convenzione di Bruxelles), con la delega al governo per la riforma del libro XI cpp, che disciplina i rapporti giurisdizionali con le autorità straniere, aggiungendo le relative modifiche sulle modalità di estradizione per l’estero come, per esempio, i termini per la consegna e la durata delle misure coercitive. La Convenzione giudiziaria di Bruxelles, risalente al 29 maggio 2000 e promulgata dal Consiglio d’Europa, stabilisce l’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli stati Ue. Con la ratifica del presidente della repubblica, Sergio Mattarella, è stata concessa una doppia delega al governo in materia: la prima riguarda l’attuazione effettiva della Convenzione in Italia, promulgando tutti i decreti legislativi che saranno necessari entro e non oltre il termine perentorio di sei mesi, come sancito dall’articolo 3; la seconda invece riguarda le modifiche da apportare al libro XI del codice di procedura penale italiano, che regola i rapporti giurisdizionali con le autorità straniere, in cui il governo si impegna "a emanare uno o più decreti legislativi entro il termine di 12 mesi", si legge nell’articolo 4, "con eventuali disposizioni correttive e integrative entro i successivi 18 mesi". Con l’accoglimento della Convenzione cambia in Italia la piramide dei rapporti con gli stati Ue relativa all’argomento: in primo luogo si dovranno seguire le norme del Tue (Trattato dell’Unione europea), conosciuto come il Trattato di Maastricht, che regolamenta le regole politiche e i parametri economici per consentire agli stati di entrare nel circuito dell’Unione europea, e in secondo luogo il Tfue (Trattato di funzionamento dell’Unione europea) con cui si fonda il diritto costituzionale europeo. In ultimo luogo sarà interesse seguire l’XI libro del codice di procedura penale. Ma la Convenzione non regola solo i rapporti tra i membri Ue, ma anche tra questi e i paesi che non rientrano nel circuito dell’Europa, indicando come linee da seguire le convenzioni internazionali, le norme di diritto internazionale, e in ogni caso si deve far sempre ricorso al libro XI del codice di procedura penale. Tutto questo per "assicurare che l’assistenza giudiziaria dell’Italia verso gli stati parte della Convenzione sia attuata in maniera rapida ed efficace", recita il testo, "fermo restando il rispetto dei diritti individuali e dei principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali". "Ma il veto del guardasigilli viene mantenuto con il potere di "non dare corso alle domande di assistenza giudiziaria, alle richieste in materia di estradizione, nonché alle altre richieste riguardanti i rapporti con le autorità straniere relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale", si legge nel decreto, "quando lo stato richiedente non dia idonee garanzie di reciprocità". Infine, l’articolo 5 introduce delle sostanziali modifiche al libro XI: consegna del custodito in 15 giorni, limite per le misure coercitive del condannato "se sono passati tre mesi dalla pronuncia della decisione favorevole del ministro della giustizia sulla richiesta di estradizione senza che l’estradando sia stato consegnato allo stato richiedente". Auto-riciclaggio con occultamento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2016 Per contestare il reato è necessaria la dissimulazione di beni o denaro di origine illecita Delitto escluso per il versamento del profitto di un furto su carta prepagata. No al reato di auto-riciclaggio a carico di chi versa il profitto di un furto su una carta prepagata. Non si configura in questo caso un’attività finanziaria di rilievo tale da dovere essere sanzionata sulla base della nuova norma del Codice penale. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 33074 della Seconda sezione penale. La pronuncia ha così respinto il ricorso presentato dalla procura di Torino che contestava l’ordinanza del riesame con la quale si era escluso l’auto-riciclaggio (ma ritenuto esistente il reato di furto e utilizzo abusivo di carta bancomat) per una coppia di rumeni che aveva rubato un bancomat, prelevando subito dopo 500 euro. Somma che era stata poi depositata su una carta prepagata di tipo super-flash intestata alla donna. La procura aveva chiesto l’annulla- mento dell’ordinanza a causa dell’errata qualificazione dei fatti, che costituiscono invece, nella lettura dell’accusa, il delitto di auto-riciclaggio "perché tipica attività economica o finanziaria senza che rilevasse l’entità della somma impiegata ovvero l’assenza del fine di lucro". Impugnazione che però la Cassazione giudica infondata per due ordini di ragioni. Innanzitutto, sottolinea la Corte, non costituisce né attività economica né attività finanziaria il semplice deposito di una somma su una carta prepagata perché, puntualizza la sentenza, è economica, sulla base dell’indicazione fornita dal Codice civile con l’articolo 2082, solo quell’attività che ha come obiettivo la produzione di beni oppure la fornitura di servizi. Una definizione nella quale non può certo rientrare la condotta contestata. Neppure può soccorrere inoltre la definizione di attività finanziaria per incasellare la medesima condotta, facendovi rientrare ogni attività relativa alla gestione del risparmio. Nel Codice penale, ricorda la Cassazione, una definizione di attività finanziaria non c’è, e neanche nel Codice civile; bisogna allora fare riferimento al Tub (testo unico delle leggi in materia bancaria), il quale individua come tipiche attività finanziarie l’assunzione di partecipazioni, la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la prestazione di servizi di pagamento, l’attività di cambiavalute. Visto che per gli indagati nessuna di queste condotte è configurabile, ne deduce la Cassazione, a mancare è l’elemento oggettivo del reato di auto-riciclaggio. Inoltre, la norma sull’auto-riciclaggio, avverte la Cassazione, punisce solo quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni o altre utilità commesse dallo stesso autore del reato presupposto che siano però idonee a "ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa". Serve perciò una particolare intensità dissimulatoria, in grado di nasconde l’origine illecita del denaro. Un’ipotesi che non può certo riguardare il versamento di una somma su una carta prepagata intestata allo stesso autore del fatto illecito. A fare la differenza rispetto alla semplice condotta di godimento personale, non punibile, è proprio l’effetto dissimulatorio, conseguenza della reimmissione nel circuito economico finanziario oppure imprenditoriale di beni o denaro di provenienza illecita. Verona: un corso estivo di Pasticceria per i detenuti di Montorio veronasera.it, 9 agosto 2016 Si è concluso la scorsa settimana il percorso formativo incentrato sulla pasticceria, rivolto ai soggetti che stanno scontando una pena all’interno della Casa circondariale di Montorio. Presenti, oltre alla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan, il direttore del carcere Mariagrazia Bregoli, il funzionario Beniamino De Girolamo, il personale di Polizia Penitenziaria e i rappresentanti delle associazioni di volontariato coinvolte. "L’iniziativa - ha detto Forestan - risponde all’obiettivo della più ampia formazione possibile in vista di un futuro reinserimento lavorativo e sociale delle persone che scontano una pena. Un ringraziamento va a Rosetta Smania e Nello Valbusa, docenti dell’Istituto Professionale Angelo Berti, che volontariamente e gratuitamente hanno deciso di proseguire le lezioni anche nel periodo estivo, coinvolgendo alcuni detenuti attraverso un corso incentrato sulla pasticceria". Modena: disordini in carcere, rimpatriato uno dei protagonisti delle violenze modenatoday.it, 9 agosto 2016 Un giovane nordafricano è stato espulso ieri mattina dal carcere di Modena, dopo le aggressioni messe in atto nei giorni scorsi. È l’undicesimo caso. Arrestato invece un criminale albanese che ha ignorato l’espulsione. Doveva scontare un residuo pena di nove anni, due mesi e dieci giorni di reclusione per numerosi reati, soprattutto legati allo spaccio di droga, ma questa mattina I.B.M., tunisino di 26 anni, è stato prelevato dalla sua cella nel carcere di Modena dagli uomini dell’Ufficio Immigrazione della Questura e rimpatriato con una nave partita da Genova e diretta Tunisi. Si è conclusa in questo modo l’escalation criminale del giovane nordafricano, tra i principali protagonisti dei recenti disordini all’interno dell’Istituto Penitenziario Sant’Anna. Lo straniero, infatti, si era reso protagonista di atti gesti violenti e di aggressioni nei confronti degli agenti della Polizia Penitenziaria. Quella eseguita stamane è una misura alternativa alla detenzione ed è stata disposta dall’Autorità Giudiziaria. Con l’accompagnamento odierno sono 11 le espulsioni giudiziarie eseguite dalla Questura di Modena a carico di detenuti. Viceversa, nei giorni scorsi un altro criminale ha seguito un percorso inverso. Si tratta di un cittadino albanese che in seguito a reati di droga era stato espulso nel 2009, con l’obbligo di non rientrare in Italia per un periodo di dieci anni. Tuttavia, i Carabinieri di Maranello lo hanno sorpreso durante un controllo, scoprendo che da qualche tempo alloggiava proprio in paese. Oltre all’arresto per aver ignorato l’espulsione, lo straniero è tornato in carcere a Modena per scontare una pena residua di sei mesi. Velletri (Rm): aggressione in carcere, parlano i sindacati di Polizia penitenziaria latinaoggi.eu, 9 agosto 2016 Giornata difficile, quella di ieri, per il personale di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Velletri. Un paio di episodi, infatti, hanno caratterizzato il lavoro di agenti e assistenti capo, con uno di questi che ha visto proprio un poliziotto ricorrere alle cure mediche. Un giovane detenuto che doveva essere accompagnato in infermeria, infatti, ha aggredito un assistente capo della Penitenziaria prossimo alla pensione, scagliandosi contro di lui e colpendolo con calci e pugni, terminando con lo sbattergli il cancello in faccia. Per questo motivo, il poliziotto è stato dapprima portato in ospedale a Velletri e da qui, viste le tumefazioni riportate al volto e all’occhio sinistro, trasferito nel nosocomio San Camillo di Roma. In carcere, intanto, il detenuto avrebbe continuato a minacciare il personale di polizia e quello sanitario: soltanto la pazienza e la dovizia di tutti gli intervenuti è stato riportato alla calma. Al contempo, un altro detenuto ha tentato un gesto di autolesionismo, ingerendo detersivo e un paio di lamette. "Il carcere è stato messo a dura prova - ha commentato il segretario provinciale Ugl Polizia Penitenziaria, Ciro Borrelli - Servono almeno 40 agenti rispetto all’organico presente". Queste, invece, le parole del segretario regionale Ugl Polizia Penitenziaria, Carmine Olanda: "Le istituzioni devono intervenire immediatamente sulla carenza di personale in tutti gli istituti penitenziari del territorio nazionale". Anche dalla Fns Cisl del Lazio hanno commentato l’accaduto: "Il carcere di Velletri - ha spiegato il segretario gGenerale aggiunto Massimo Costantino - attualmente risulta sovraffollato con più 139 detenuti rispetto ai 411 previsti. Sono infatti presenti 550 reclusi. Nota è la carenza di personale di polizia penitenziaria, anche se il Dap in questi mesi ha inviato delle unità in distacco al fine di dare supporto per espletare al meglio il proprio compito". Rimini: il 29 e 30 settembre un Seminario Nazionale sulla Giustizia Riparativa di Don Armando Zappolini (Presidente Cnca) Ristretti Orizzonti, 9 agosto 2016 Seminario Nazionale sulla Giustizia Riparativa che si svolgerà il 29 e 30 settembre prossimi a Rimini con inizio lavori alle ore 14,00 del 29 settembre e termine introno alle ore 17,30 del 30 settembre, il seminario vedrà la partecipazione dei massimi esperti italiani sull’argomento. Il seminario nasce dall’esigenza di un momento di confronto e formazione condivisa sulla giustizia riparativa. L’evoluzione degli strumenti normativi da una parte e la maturazione di alcuni percorsi di confronto fra autori e vittime di reato ci pongono di fronte all’esigenza di affrontare collettivamente l’argomento della giustizia riparativa. La letteratura in materia evidenzia che la responsabilità, ogni volta che si parla di giustizia riparativa, non ha più (sol)tanto a che fare con l’essere "responsabili di" qualcosa e "per qualcosa", ma è intesa come un percorso attivo che conduce i soggetti in conflitto a essere "responsabili verso" (a rispondere l’uno verso l’altro). Coerentemente, i programmi di Restorative Justice, in Europa e altrove, convergono nel chiedere all’autore di reato di attivarsi per promuovere concrete attività riparative nei confronti della vittima e della sua comunità di appartenenza, lungo un percorso che deve condurlo a rielaborare il conflitto e i motivi che lo hanno causato, nonché a riconoscere e a elaborare la propria responsabilità (cit. Ministero della Giustizia) Il seminario di Rimini proverà ad affrontare i diversi aspetti della Giustizia riparativa e della mediazione penale anche nel confronto con l’esperienza storica della Messa alla Prova per minori, strumento presente nella normativa italiana da molti anni. Sono stati invitati ed fra gli altri interverranno: Prof. Glauco Giostra (Coordinatore del Comitato di esperti per gli Stati Generali), Dott. Francesco Cascini (Capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità), Dott.ssa Isabella Mastropasqua (Dirigente Ministero Giustizia, Osservatorio sul fenomeno della devianza minorile in Europa sui minori), Prof. Stefano Anastasia (Garante detenuti Lazio e Umbria), Dottoressa Lucia Castellano (Direttore generale esecuzione penale esterna e di messa alla prova). Saranno inoltre presenti i protagonisti dell’esperienza di mediazione penale pubblicata ne "Il libro dell’incontro": Franco Bonisoli, Maria Grazia Grena, Giorgio Bazzega e Agnese Moro. Al più presto il programma completo con le indicazioni logistiche e l’eventuale quota di partecipazione. Per qualsiasi informazione aggiuntiva potete fare riferimento alla Segreteria Nazionale. La poligamia non può essere un diritto civile in Italia di Luigi Manconi Corriere della Sera, 9 agosto 2016 Avere più mogli crea una disparità discriminante tra i sessi che lede principi non alienabili neanche dai suoi titolari. Hamza Piccardo, voce assai ascoltata dell’Islam italiano, composto da molti stranieri e da un numero significativo di nostri connazionali diventati musulmani, ha affermato: "Se è solo una questione di diritti civili, ebbene la poligamia è un diritto civile". E ancora: "non si capisce perché una relazione tra adulti edotti e consenzienti possa essere vietata, di più, stigmatizzata, di più, aborrita". Piccardo sbaglia di grosso, sin dalla premessa: la poligamia non è affatto "una questione di diritti civili". La poligamia, per contenuto morale e per struttura del vincolo, si fonda - e non può che fondarsi - su una condizione di disparità, che viene riprodotta e perpetuata. Comunque la si voglia argomentare e manipolare fino a immaginare il suo rovesciamento speculare (più uomini sposati con una sola donna), si tratta in ogni caso di un rapporto fondato su uno stato di diseguaglianza. Piccardo, che non è uno sprovveduto, ritiene che quella condizione diseguale possa essere sanata dal fatto che essa sia consapevolmente accettata e condivisa da adulti consenzienti. Ma è proprio qui che il ragionamento mostra tutta la sua debolezza. La parità tra i sessi e la tutela della dignità contro ogni discriminazione, costituiscono un diritto fondamentale della persona, che è (proprio per questo) non disponibile. Ovvero, un diritto non alienabile (e non limitabile, modificabile o cedibile) persino da parte del suo stesso titolare. Un diritto, cioè, sottratto ad ogni potere dispositivo: fosse anche quello del suo stesso beneficiario. Ed è il medesimo principio che non consente il lavoro schiavistico o il commercio degli organi o ogni altra forma di degradazione della dignità personale, anche qualora vi fosse il consenso dei diretti interessati (consenso che, non a caso, per tali reati non esclude la punibilità). Questa discussione è di cruciale importanza perché consente di tracciare un discrimine limpido tra quanto - delle tradizioni, delle confessioni e delle culture di diversa origine - è accettabile all’interno del nostro ordinamento giuridico e della nostra vita sociale e quanto, al contrario, deve essere rifiutato. Personalmente, sono favorevole alla più ampia capacità di accoglienza e inclusione di stili di vita e forme di relazione, di riti religiosi e costumi culturali i più diversi, ma con il limite insuperabile rappresentato dalla intangibilità dei diritti fondamentali. Di conseguenza, il relativismo culturale, che è manifestazione propria di una concezione liberale della società, non può accettare l’esclusione delle ragazze dall’istruzione scolastica o la loro subordinazione ai maschi, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili (peraltro non esclusivamente né principalmente derivate da una lettura del Corano). In quest’ultimo caso, è chiaro che la tradizione religiosa o etnica non può in alcun modo compromettere l’affermazione del diritto umano alla piena integrità fisica. Poi, evidentemente, si tratta di combinare tali irrinunciabili valori, protetti giuridicamente, con intelligenti politiche pubbliche. È un’impresa ardua, assai ardua, ma va tentata. E non si tratta nemmeno di una novità. Nel lontano 1987 Lehsen Bouzid, operaio marocchino di un’azienda di Anzola Emilia, fa giungere in Italia - in virtù del ricongiungimento familiare previsto dalla legge - le sue due mogli, dalle quali aveva avuto numerosi figli. Il ministero dell’Interno respinge la domanda di "permesso di soggiorno per motivi di famiglia": ma il ricorso al Tar consente infine alle due donne di risiedere in Italia in ragione della "gravità e irreparabilità sotto l’aspetto sociale, economico e familiare" del caso considerato, accogliendo la tesi dell’avvocato. Ovvero che non si trattasse di ottenere dallo Stato italiano "un riconoscimento formale e giuridico della condizione familiare delle ricorrenti, bensì semplicemente una non discriminazione". E ciò in virtù degli articoli della Costituzione italiana che tutelano "le confessioni religiose diverse dalla cattolica" e le forme di relazione e le strutture giuridiche che ne conseguono. Si può dire che, in sostanza, la decisione del Tar ha affermato la prevalenza del valore dell’unità del nucleo familiare rispetto alla norma penale italiana che vieta la bigamia. Insomma, il Tar non riconosce, certo, un disvalore, come quello insito nella poligamia, ma si limita a porre rimedio a uno stato di necessità, secondo il principio del "male minore" (la tutela di tutti i figli di quella relazione poligamica). Ma, sia chiaro, si tratta di una soluzione, pure opportuna in quel caso, che lungi dal risolvere definitivamente il problema, ne rivela la drammatica complessità. A conferma del fatto che la convivenza tra etnie confessioni e culture, non solo inevitabile ma potenzialmente assai remunerativa sotto tutti i profili, può essere assai faticosa. L’eredità di Pannella… verso un diritto "universale"? di Angiolo Bandinelli L’Opinione, 9 agosto 2016 "Diritti civili", "diritti umani". Le due espressioni corrono parallele nelle vicende culturali e politiche del ventesimo secolo, a volte anche incrociandosi così da creare qualche ambiguità e indeterminatezza sulle rispettive specificità. Semplificando, si potrebbe dire che i "diritti civili" sono diritti "storici", approfondimento e/o correzione - in senso ritenuto più liberale - delle istituzioni di questo o quel determinato Paese già codificate nella legislazione positiva, mentre i diritti "umani" sembrerebbero diritti metastorici, attinenti all’uomo di "natura", che si muove e agisce attraversando confini, Paesi, legislazioni positive, ecc.; una figura indistinta eppur viva nell’immaginario universale. Credo che a questa categoria ci si riferisca con l’espressione "diritti naturali storicamente determinati", che ho sentito frequentemente ripetere - anche se non era sua - da Marco Pannella. "Diritti naturali storicamente determinati": non dunque l’accredito a diritti "naturali" metafisici e a-storici, secondo la formula del giusnaturalismo alla Rousseau, ma richiamo a "princìpi" che di volta in volta l’uomo, la società, reclama, in una forma solo formalmente utopica e "astratta". Il diritto alla libertà religiosa va difeso e promosso rimuovendo ostacoli che possano frapporsi - per volontà politica o per insofferenze di tipo fondamentalista - in un determinato Paese, ma il diritto alla vita - non sempre evocato e rispettato, purtroppo - è inteso come universale, metastorico, prescindente da nazionalità, razza o religione. Ho troppo semplificato? Forse, ma non inutilmente, spero. Come ho accennato, i confini tra le due sfere di diritti è a volte vago e uno specifico diritto può essere attribuito all’una o all’altra. Certamente, però, le lotte per i diritti "civili" e/o "umani" sono una caratteristica del XX secolo, la loro fioritura come tema di confronto/scontro civile, etico ma soprattutto politico può essere fatta risalire ai movimenti per i diritti civili (appunto) nati in America negli anni Cinquanta. In precedenza erano esistiti movimenti o culture che promuovevano diritti (civili o umani) ma si trattava all’inizio, e lo fu a lungo, di formule dal richiamo astratto, generale. La Rivoluzione francese nacque per rivendicare i diritti dell’individuo, eretto a vero interprete dela storia, ecc., e quindi portatore di diritti naturali (tra i quali venne annoverato il diritto alla proprietà privata). Con le lotte di liberazione nate nei campus universitari americani negli anni Cinquanta del secolo scorso vennero invece messe a fuoco esigenze specifiche, molto determinate, le esigenze di libertà e di equiparazione di minoranze fino ad allora non riconosciute, fossero i neri o le donne o gli omosessuali. Il tutto nel quadro della rivendicazione della pace mentre l’America stava combattendo una delle guerre più disastrose della sua storia, la guerra del Vietnam, non sentita come guerra "giusta" ma come residuo di cultura e di storia colonialista. E non è un caso che l’opposizione più significativa ed innovativa alla guerra fu quella dei monaci buddisti che si davano fuoco nelle piazze, nudi corpi simbolo di pace con giustizia: da loro e per loro nacque in gran parte il movimento antimilitarista "occidentale", non comunista ed anzi anticomunista che i radicali pannelliani importarono in Italia. Le lotte per i diritti civili ed umani hanno per la prima volta messo in discussione e respinto il concetto e la possibilità di un diritto positivo da considerare intangibile. Con i diritti civili e/o umani il soggetto uomo è venuto prendendo sempre più confidenza con se stesso, rifiutando alle radici la pretesa assolutista del diritto codificato, ma ponendosi a sua "alternativa". Attenzione: quel che veniva respinto non era lo Stato, come chiedeva, più o meno apertamente, l’individuo illuminista, ma le pretese ingiuste e inaccettabili dello Stato. Allo Stato quei movimenti chiedevano anzi di collaborare, di essere rispettoso, lui, delle proprie leggi, delle leggi dell’umanità. Nei momenti estremi, questa esigenza di un diritto che tenesse conto precipuamente il nuovo soggetto, ha assunto atteggiamenti che hanno toccato punte coraggiosamente e rischiosamente provocatorie, come ci hanno mostrato in un lontano passato gli obiettori di coscienza della cultura americana protestante, e in tempi a noi vicini le simboliche foto di rivoltosi che bloccavano con il loro corpo un carro armato. Fotografie celebri - quella scattata a piazza Tienanmen - che hanno mosso la simpatia universale nei confronti dell’inerme individuo che si opponeva all’anonima forza bruta posta a difesa della legge, della "norma" positiva. Qui parliamo di "soggetto" più che di individuo. L’individuo di estrazione illuminista reclamava alcuni "diritti" generali ma anche generici. Il soggetto/protagonista delle lotte contemporanee ha quei diritti che si sarà conquistato con le sue forze, esponendosi personalmente, con il suo corpo, simbolicamente affratellato con il corpo del monaco buddista vietnamita. L’individuo illuminista rivendicava diritti in nome dell’umanità, il soggetto contemporaneo si batte innanzitutto perché lui stesso, nella sua persona, possa ottenere quei diritti che ritiene gli competono. Dietro il suo singolare esempio e le sue lotte anche altri potranno godere dei diritti conquistati. Nasce qui, ora, un nuovo rapporto tra il singolo e lo Stato. I diritti (storicamente determinati...) vengono "contrattati" volta per volta dai due interlocutori, non pregiudizialmente ostili reciprocamente. Questa prassi è figlia, ci se ne renda conto o meno, di una vera e propria teoria dello Stato e della società, e vede progressivamente ampliarsi la piattaforma delle rivendicazioni. Oggi non è più solo questione di diritti civili da inserire nelle diverse legislazioni, sempre più potente si avverte l’esigenza non solo di nuovi e approfonditi diritti "umani", ma della collocazione di questi diritti nel quadro di istituzioni nuove, che superino i confini delle vecchie forme nazionali, ma comincino a prefigurare il formarsi di una istituzione legislatrice "universale". Marco Pannella è il politico che meglio ha incarnato le lotte per i diritti moderni. La campagna per il Diritto umano universale alla conoscenza è l’ultima, adeguata e puntuale risposta ai problemi e alle sfide del nostro tempo globalizzato. Si colloca senza soluzione di continuità sulla scia delle grandi campagne per i diritti civili e umani - per la vita del diritto, per il diritto alla vita - che hanno per oltre mezzo secolo contraddistinto i radicali pannelliani rispetto a tutte le altre forze politiche, individuandoli come unica "alternativa" al regime partitocratico. Al di là dei singoli obiettivi - dal divorzio all’aborto alla responsabilità civile dei magistrati - quei radicali ponevano ogni volta al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica il tema del diritto e dei diritti della persona, nella sua concreta - direi corporea - individualità. Ma perché l’iniziativa, la campagna, potesse efficacemente dispiegarsi, occorreva prioritariamente aprire un confronto con le istituzioni e le strutture dell’informazione: "strappare" la notizia, costringere all’informazione l’avversario con i suoi "media", sfidare la diffidente inerzia o l’aperta ostilità delle istituzioni, rivendicando l’einaudiano "conoscere per deliberare" divenne, per quei radicali, il primo compito da affrontare, il primo dei diritti da conquistare. Era la pratica della attiva non-violenza, essenziale alla teoria come alla prassi di quei radicali, di Pannella. Oggi questa esigenza è divenuta, persino al di là della presenza radicale, esigenza universale, che si manifesta in forme nuove, anomale, anche insufficienti, debitrici spesso del "web" ma anche contenuto di grandi, tortuosi movimenti di massa che hanno saputo spesso varcare i confini, le barriere tra i popoli e le nazioni. Il Diritto umano alla conoscenza è oggi un "prius", è l’agenda politica centrale, universale, del nostro tempo. Tutto il resto è accademia, fuga dalla concretezza delle proprie responsabilità etiche e politiche. Gabrielli: "Via i migranti da Ventimiglia" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 9 agosto 2016 Il capo della Polizia: "Per decomprimere la situazione bisogna portare altrove i migranti di Ventimiglia. Poco serio addebitare ai No borders la responsabilità della morte del poliziotto". "Dobbiamo decomprimere la situazione a Ventimiglia e c’è un solo modo per farlo: prendere queste persone e portarle da un’altra parte". È la promessa del capo della Polizia Franco Gabrielli, arrivato in visita in Liguria, lunedì, per fare il punto della situazione sulla presenza dei migranti nella città di confine. Portarli via per "alleggerire la pressione" nell’area, ha spiegato lui stesso. Che significa "intensificare le operazioni" per destinare ad altri centri di assistenza i migranti (circa 500) accolti a pochi passi dalla frontiera, nel Campo Roja della Croce Rossa. Detto questo "non è difficile immaginare che continueranno ad arrivare", ipotizza lo stesso Gabrielli, che rivendica il fatto di aver mantenuto più o meno invariato il flusso degli arrivi a Ventimiglia nonostante "le moltissime persone che stanno risalendo la Penisola e le molte che ci vengono restituite dai colleghi francesi". Stabilità mantenuta con "trasferimenti, servizi e programmazione", dice. E aggiunge: "Se Ventimiglia non è la Calais d’Italia è perché abbiamo realizzato controlli in grado di ridurre e non incrementare il flusso. E abbiamo smistato in altri centri i migranti che pressavano lì". In sintesi: "La situazione è grave ma non tragica e credo che lo sforzo durerà almeno fino alla fine dell’estate. Per quanta accoglienza si offra, i migranti vogliono passare la frontiera. Dall’altra parte la disponibilità non c’è e dobbiamo perciò gestire questa situazione di stallo". La visita alla famiglia di Diego Turra - Nella giornata ligure del capo della Polizia c’era anche una visita privata alla famiglia di Diego Turra, l’agente morto d’infarto sabato mentre era in corso un servizio di contenimento dei No borders che manifestavano a favore dei migranti, proprio a Ventimiglia. Sull’argomento Gabrielli ha definito "un esercizio poco serio" collegare la morte del poliziotto ai manifestanti. Non ci sono stati contatti fra l’agente e gli antagonisti, quindi - ha ribadito - sarebbe "assolutamente poco serio", appunto, "addebitare la morte del nostro collega ai No borders". Ma il primo appuntamento di Gabrielli era al VI reparto mobile di Genova, con i colleghi di Turra. "Il modo migliore per onorare i morti - ha detto incontrandoli - è prendersi cura dei vivi". E di quel "prendersi cura" fanno parte alcune delle richieste arrivate dai sindacati locali di Polizia, in particolare - per dirla con il segretario provinciale del Siap, Roberto Traverso - "la necessità di controlli interni oggi assenti, per esempio maggiori tutele e screening sanitari dei poliziotti dal punto di vista fisico e psicologico", soprattutto "considerando che oggi l’età media di chi fa servizio operativo in strada è intorno ai cinquant’anni". Diego Turra (i funerali si terranno domani pomeriggio nella cattedrale di Albenga) ne aveva 53, mai problemi di cuore ma - dice sua moglie Danila - "aveva la pressione alta". Forse un’ispezione sanitaria lo avrebbe messo in guardia da grandi carichi di lavoro o da servizi da affrontare sotto il sole per ore. I colleghi andranno in servizio in Val di Susa - La Direzione centrale per l’ordine pubblico, su indicazioni del Dipartimento per la pubblica sicurezza, ha deciso ieri di spostare altrove il reparto mobile della Polizia di Genova presente in questi giorni a Ventimiglia. I colleghi di Turra andranno in servizio a Chiomonte, in Val di Susa, dove si trovano i cantieri dell’Alta velocità Torino-Lione. A Ventimiglia, invece, è atteso il reparto mobile di Torino. Tutto questo per "motivi di opportunità" legati a quel che è successo: cioè per ragioni che hanno a che fare con l’emotività dei poliziotti dopo la morte così recente del collega, al quale tutti volevano molto bene, ma allo stesso tempo anche per scongiurare la più remota ipotesi di tensioni (magari davanti a una provocazione) con i No borders che manifestavano mentre lui moriva o con gli stessi migranti. Confine sigillato, a Milano approdano 3.300 migranti di Simone Gorla e Francesco Moscatelli La Stampa, 9 agosto 2016 La città scoppia, allarme del Comune alle associazioni. L’assessore: "Assurdo, più facciamo più ce ne mandano". Per l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino "alla prossima ondata rischiamo di lasciare la gente in mezzo alla strada" L’hub di via Sammartini, accanto alla stazione Centrale. "Nelle ultime due notti lo sforzo di accoglienza a cui siamo stati costretti all’hub di via Sammartini ha raggiunto livelli mai visti prima. Vi chiediamo un impegno ulteriore". Le frontiere di Ventimiglia e di Como-Chiasso sono chiuse e la Milano che apre le porte ai migranti, la "Milan col coeur in man", rischia di trasformarsi nel collo dell’imbuto e di pagare il prezzo più alto dell’ennesima estate di emergenza. Il campanello d’allarme è squillato all’alba di domenica. Una mail urgente dell’assessorato ai Servizi sociali chiede alle associazioni in prima linea nell’ospitalità di dare fondo a tutte le energie. Perché? In città ci sono 3300 migranti, un record assoluto. Per dare un letto a tutti hanno aperto due strutture temporanee a Bruzzano e a Quarto Oggiaro, e i centri esistenti hanno utilizzato ogni metro quadro disponibile. Nell’hub di via Sammartini, a due passi dalla stazione Centrale, oltre 400 persone sono state stipate in uno spazio pensato per ospitarne un centinaio. Sono eritrei, etiopi, somali e sudanesi, molti minorenni soli, ma anche famiglie con bambini. Nella loro testa Milano dovrebbe essere solo un punto di passaggio, una sosta di due o tre giorni per riposarsi e organizzare l’ultima parte del viaggio verso il Nord Europa. Ogni etnia ha i suoi canali illegali per lasciare l’Italia e i suoi indirizzi a cui chiedere aiuto. I migranti del Corno d’Africa fanno la spola con la vicina Porta Venezia, il quartiere eritreo di Milano, dove la rete dei passatori ha le sue basi fra i call center e i locali che offrono Zighni di carne e di pesce. Peccato che da un mese a questa parte tutte le rotte siano chiuse. A Como 500 persone bivaccano in stazione dal 15 luglio perché la polizia di frontiera di Chiasso non fa passare nemmeno i minorenni. Qualcuno si affida ai valichi dei vecchi contrabbandieri tra il lago Maggiore e il Lario, ma la maggior parte si ritrova in un limbo senza uscita, anche perché le autorità elvetiche pattugliano i cieli con i droni capaci di fare mappature termiche del territorio. In via Sammartini conoscono bene la storia. "Fino all’anno scorso affrontavamo grandi masse di migranti, ma si trattava di persone in transito - racconta Fabiana Longo, responsabile di Progetto Arca, la Onlus che gestisce la struttura. Oggi chi arriva non riesce a ripartire e, messo alle strette, finisce per chiedere asilo in Italia". I numeri lo confermano: nel 2014 lo 0,3% dei migranti aveva come destinazione finale l’Italia, nel 2015 la percentuale è cresciuta al 4,8% mentre oggi siamo al 49,3%, uno su due. Così i tempi si allungano: nel 2015 la permanenza media nelle strutture di accoglienza cittadine era di 6 giorni, oggi è di 20. Senza contare che Milano spesso deve gestire anche centinaia di persone assegnate ai centri di altre regioni, ma che appena riescono a raccogliere i soldi per il viaggio ripartono verso Nord. "La nostra città sta facendo un mezzo miracolo, però è pazzesco il modo in cui siamo beffati - si sfoga l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Facciamo più degli altri e ce ne mandano sempre di più. Siamo al limite e alla prossima ondata rischiamo di lasciare la gente in mezzo alle strade". Un incubo che fa passare notti insonni anche al sindaco Beppe Sala. Da quando è stato eletto chiede aiuto a Regione e governo ma le richieste di spazi - dal campo base di Expo alle ex caserma di via Corelli - cadono nel vuoto. Su questo tema, poi, la Lega ha deciso di andare allo scontro frontale. "Non sono profughi ma clandestini che vanno rimandati a casa", ha detto ieri il presidente della Lombardia, Roberto Maroni. "Non vogliamo né tendopoli né caserme" ha ribadito il deputato leghista Nicola Molteni. In mancanza di soluzioni stabili e di un accordo politico, Milano si arrangia come può. All’oratorio di Bruzzano tutto si regge sulle spalle della Casa della Carità, a cui danno una mano i detenuti del carcere di Bollate. "Ospitiamo fino a 90 persone, senza un solo euro di finanziamento pubblico", racconta Roberta Frigerio, una delle volontarie. La palestra del centro di via Aldini, a Quarto Oggiaro, è una distesa di brande. "Gestire 100 persone che si fermano per settimane o mesi è molto faticoso - spiega Saif Abouabid, coordinatore del dormitorio. Ci stiamo riorganizzando". Con lui lavora Mujahed Abbas, fuggito due anni fa dalla Siria. La sua testimonianza fa riflettere: "Lavoravo come mediatore nei campi profughi palestinesi. È incredibile, ma in Italia faccio lo stesso lavoro". Migranti, allarme Turchia: "Se salta l’accordo tre milioni di profughi" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 agosto 2016 Il Viminale: "Ma per ora è soltanto una minaccia". Un piano per distribuire i minori non accompagnati. Solo i profughi siriani sono 2 milioni e 800 mila. Poi ci sono gli afgani e gli iracheni. Se davvero, come minaccia il presidente Erdogan, la Turchia dovesse congelare l’accordo con la Ue, ci sarebbero tre milioni di migranti pronti a trovare nuovi varchi nella rotta balcanica verso l’Europa. Al Viminale lo stato di allerta è massimo ma non c’è alcun piano "B" allo studio. "È una minaccia come altre - dice il prefetto Mario Morcone, direttore del Dipartimento Libertà civili e immigrazione - ma fino ad ora non è giunto alcun segnale. Il problema, per altro, eventualmente toccherebbe la Grecia ma l’accordo ha retto e dalla Turchia alla Grecia non è passato più praticamente nessuno. E poi c’è il piano con l’Albania: lì abbiamo i nostri uomini". Da più di quattro mesi ormai funzionari del Viminale e uomini dell’intelligence lavorano a Tirana d’intesa con il governo albanese sia in chiave antiterrorismo che per far fronte ad un’eventuale apertura di una rotta adriatica che però fino ad ora i circa 50 mila migranti rimasti in Grecia non sembrano aver preso in considerazione. Collaborazione e anche finanziamento per l’apertura di due hotspot e per le operazioni di identificazione dei migranti e pattugliamenti misti. C’è invece una ripresa delle partenze dall’Egitto. "E questi sono grandi pescherecci che portano 6-700 persone a volta - dice Morcone - è un fenomeno che sembra avere ripreso vigore nelle ultime settimane e con modalità nuove". L’ultimo sbarco di migranti partiti dall’Egitto domenica a Pozzallo dove la Squadra mobile ha fermato i cinque scafisti, tutti egiziani, e verificato che l’imbarcazione, partita dieci giorni prima, ha risalito le coste egiziane fino al confine con la Libia prendendo a bordo, in varie tappe, altri profughi che, da diverse spiagge egiziane, venivano condotti a bordo della nave su piccole lance. È invece pronto il nuovo piano con il quale il Viminale interverrà per la prima volta, grazie alle modifiche alla legge sugli enti locali appena approvata, per redistribuire in tutte le regioni le migliaia di minori non accompagnati i cui arrivi in Sicilia sono triplicati in cinque anni e che i comuni dell’Isola non riescono più ad accogliere. "Il 23 - annuncia il prefetto Morcone - si parte con l’apertura di 35 nuovi centri per i minori, 24 sono già finanziati con fondi europei, gli altri 11 li finanzieremo con fondi nostri per un impegno di spesa complessivo di più di 90 milioni di euro. Potremo cominciare ad alleggerire la Sicilia e Reggio Calabria di circa 1.750 minori che verranno indirizzati in altre regioni". Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, Basilicata, Campania, Puglia, Sardegna e Calabria le regioni interessate dal piano, anche se la metà dei nuovi centri finanziati sarà ancora in Sicilia. Crisi con Ankara, l’Ue cerca una via d’uscita. E Atene trema di Carlo Lania Il Manifesto, 9 agosto 2016 Migranti. Dopo le continue minacce di far saltare l’accordo. Non passa giorno ormai senza che da Ankara arrivi un attacco all’Europa. Parlando con il quotidiano Le Monde il presidente Erdogan ha di nuovo minacciato di far saltare l’accordo sui migranti se l’Ue "non soddisferà" le richieste avanzate dal suo paese, cioè il via libera alla possibilità per i turchi di circolare senza bisogno di visto nell’area Schengen e il pagamento dei primi 3 miliardi di euro (su un totale di sei) promessi per fermare le partenze dei profughi siriani. Senza parlare della sfida lanciata domenica da Istanbul, quando Erdogan si è di nuovo detto pronto a ripristinare la pena di morte "se il popolo lo vuole". Minacce alle quali per l’Europa ha risposto ieri il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier ribadendo per l’ennesima volta come un ritorno della pena capitale nel paese della Mezzaluna "interromperebbe il processo di negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione europea". Subito dopo, però, lo stesso Steinmeier si è affrettato a spedire ad Ankara un suo sottosegretario per discutere sulle "conseguenze del fallito colpo di stato". L’Europa alza la voce, ma nei palazzi delle istituzioni nessuno nega più che la situazione stia degenerando a una velocità inimmaginabile solo fino al 15 luglio scorso, giorno del fallito colpo di stato. E se Bruxelles è preoccupata, ancora di più lo è Atene. Se davvero dovesse saltare l’accordo sui migranti, la Grecia sarebbe infatti la prima a pagarne le conseguenze. "Abbiamo paura", ha ammesso nei giorni scorsi il ministro per l’Immigrazione Yannis Mouzalas. "Se il flusso dovesse ripartire non potremmo certo affrontarlo da soli". Per questo la Grecia ha chiesto alla Ue se esiste un piano B per fronteggiare un’eventuale nuova emergenza. Senza ricevere, però la risposta sperata. In realtà sia la Grecia che l’Ue stanno cercano di correre ai ripari. Ad Atene si scrutano ogni giorno i bollettini degli sbarchi nel timore di un’improvvisa impennata che per ora non c’è stata. Certo, nei giorni immediatamente successivi al fallito colpo di stato gli arrivi dalla Turchia sono aumentati, ma la crescita viene spiegata più come frutto della paura dei profughi per la situazione di incertezza venutasi a creare che come l’inizio di una nuova ondata d sbarchi. Che invece in questi giorni, come sottolineano le stesse autorità greche, restano inferiori del 97% allo stesso periodo dell’anno scorso. Il che naturalmente non significa che la situazione non possa cambiare improvvisamente. Anche perché i motivi di preoccupazione non mancano. I check point messi dal governo turco lungo la costa per fermare i migranti, dal 15 luglio non ci sono più e la stessa cosa dicasi per le pattuglie che impedivano ai profughi di imbarcarsi verso la Grecia. Se i siriani non approfittano della situazione, spiega chi monitora quotidianamente la situazione, è probabilmente perché sanno che sarebbe inutile, visto che nel loro viaggio verso l’Europa oggi troverebbero solo frontiere chiuse con i soldati a difenderle. E imbarcarsi per poi fermarsi dopo aver attraversato l’Egeo non ne vale la pena. Anche perché sulle isole elleniche la situazione è già pesante adesso. Gli hotspot aperti dal governo a Lesbo, Chios, Leros, Kos e Samos sono infatti sovraffollati, con circa 9.700 profughi presenti su una capacità di accoglienza di 7.450 posti. Situazione dovuta anche a una serie di mancate promesse da parte dell’Ue circa l’aiuto garantito ad Atene per quanto riguarda esame delle richieste di asilo, respingimenti e ricollocamenti. Seppure senza ammetterlo ufficialmente, il governo Tsipras starebbe comunque predisponendo un suo piano B che prevede l’apertura di altri campi dove accogliere i nuovi profughi. Si sta parlando, però, di qualche decina di migliaia di uomini, donne e bambini, non certo dei quasi tre milioni di rifugiati ospitati oggi dalla Turchia e che Erdogan potrebbe costringere a partire. E comunque sempre che le frontiere vengano riaperte, permettendo così ai profughi di rimettersi in marcia lungo l’autostrada Atene- Berlino. Uno scenario catastrofico, che in queste ore viene studiato anche a Bruxelles. Dove però si ragiona in termini diversi rispetto ad Atene. A Bruxelles, ma soprattutto a Berlino, non si escluderebbe infatti la possibilità di destinare alla Grecia parte dei 3 miliardi di euro promessi ad Ankara, a patto che accetti di fare lei da guardia ai profughi. Un’ipotesi alla quale, però, Atene non vuole neanche pensare. La ragazza che sfidò l’Onu: "Riconoscete il genocidio yazida" di Simone Zoppellaro Il Manifesto, 9 agosto 2016 Iraq. Nel suo celebre discorso del 16 dicembre 2015 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Nadia Murad ha fatto appello alla comunità internazionale perché impedisca la scomparsa del suo popolo per mano dell’Isis. Nadia Murad è la rappresentante più conosciuta e importante della comunità yazida. Una minoranza di meno di un milione di persone, sparsa fra Medio Oriente, Caucaso, Russia e Europa, che oggi lotta per la sua sopravvivenza. Scampata - a differenza di migliaia di altre donne yazide - a mesi di torture e abusi come schiava sessuale nella mani del sedicente Stato Islamico, la Murad è riuscire miracolosamente a fuggire. Si è rifugiata prima in Kurdistan e poi in Germania, dove ora vive da più di un anno. Due anni fa ha perso sei dei suoi fratelli, uccisi insieme a altre migliaia di uomini, i cui resti si trovano ancora oggi dimenticati dentro decine di fosse comuni. Celebre il suo discorso del 16 dicembre 2015 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove ha fatto appello alla comunità internazionale perché riconosca il genocidio in atto contro la sua gente e intervenga. Candidata al Nobel per la pace a causa del suo instancabile impegno, la Murad si batte per ridare dignità ad un popolo perseguitato da secoli a causa della sua identità religiosa, che si compone di un mix sincretistico di diversi apporti, dal cristianesimo, all’islam fino allo zoroastrismo. Una diversità religiosa che ha contribuito a creare contro di loro un clima di sospetto e diffidenza, esploso di recente in corrispondenza dell’avanzata dell’Isis in Iraq e in Siria. La Murad collabora con l’organizzazione internazionale Yazda, che si batte anch’essa a favore di questo popolo dimenticato. Il Baden-Württemberg, il Land tedesco dove oggi vive, è grazie al contributo della Murad uno dei posti al mondo dove c’è una maggiore presenza della comunità yazida. Di recente 1.100 ex-prigioniere dell’Isis sono state accolte insieme alle loro famiglie, su iniziativa del governo verde locale, per essere curate e assistite. La guerra agli yazidi sul corpo delle donne Parla Nadia Murad, candidata al Nobel per la Pace, sfuggita allo Stato Islamico: "L’Isis ci ha portato a Mosul e registrato come schiave. Abusate e picchiate ogni giorno". Nadia Murad, candidata al Nobel per la pace di etnia yazida, è in apparenza una ragazza semplice, come tante. Ma basta che inizi a raccontare di sé e del suo popolo per scoprire che ha in sé una forza straordinaria, che si esprime già nel tono della sua voce, che ha qualcosa di ieratico. La incontro subito fuori Stoccarda, dove ora vive dopo essere fuggita dallo Stato Islamico. L’intervista avviene in un condominio abitato per intero da famiglie di rifugiati, tutti yazidi come lei. Mentre parla si sentono attorno le risa di bambini che giocano in giardino e corrono allegri per le scale. Bimbi arrivati da un anno, a volte da pochi mesi, dopo essere sfuggiti dalla guerra. Una guerra lontana, di cui nelle loro voci sembra non esserci più traccia. Come nasce la questione yazida? Quando questa minoranza finisce sotto attacco? Continuo a ripeterlo da tempo, ovunque vada. Noi yazidi eravamo perseguitati anche prima dell’arrivo dell’Isis. Nessuno si è mai occupato di noi, ma eravamo discriminati da molti punti di vista. Siamo sempre stati poveri, dediti a una vita semplice, ma a noi andava bene anche così. Poi è arrivato lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria, e tutte le minoranze sono finite sotto attacco. Ma il nostro caso è diverso. Ci hanno dato due opzioni: convertirci o morire. Il 3 agosto 2014 hanno attaccato le comunità yazide e migliaia di noi sono fuggiti sui monti del Sinjar. Nessuno li ha difesi. Per due settimane hanno dovuto cercare di sopravvivere senza cibo, acqua, con un caldo insopportabile. Donne, ragazze e bambini, tutti quelli che non sono riusciti a fuggire, sono stati resi schiavi dagli uomini dell’Isis. Hanno distrutto i nostri luoghi sacri, molte delle nostre case e hanno preso tutti i nostri beni. Nel mio villaggio, a Kocho, c’erano 2.000 abitanti. Per noi è andata diversamente. Eravamo circondati da villaggi di arabi e musulmani e non abbiamo potuto fuggire in montagna come gli altri. Ci hanno circondati e hanno chiuso tutte le vie d’accesso al nostro villaggio. Erano nostri vicini e amici, lavoravamo da sempre insieme con loro, ma si sono schierati subito con l’Isis. Hanno ucciso tutti i nostri uomini e reso schiave le donne e le bambine. Dal 3 al 15 agosto siamo stati presi d’assedio. Abbiamo fatto appello a tutti, tutti nel mondo sapevano che quello che stava avvenendo era un genocidio, ma nessuno è venuto in nostro soccorso. E il 15 tutto è finito: uccisi gli uomini, rapiti e rese schiave bambini e donne. Non siamo state prese per essere messe in prigione, ma per essere usate come schiave sessuali. Siamo state soggette a violenze e ad abusi psicologici e fisici. Questo è quanto è capitato a più di 6.000 donne e bambine yazide. Da allora ne sono rimaste ancora 3.000 prigioniere e soggette a questi crimini. Proprio ieri era il secondo anniversario di questo genocidio e ci sono ancora più di 35 fosse comuni dove si trovano le ossa dei nostri parenti. Fratelli, mariti e padri. Nessuno se ne occupa al momento. Metà dei nostri villaggi sono ancora nelle mani dell’Isis, incluso il mio, e coloro che sono fuggiti si trovano in una situazione disperata. Dispersi nei campi profughi, senza futuro, e senza i servizi più essenziali come l’elettricità. Fino ad oggi non c’è nessuna azione concreta per aiutare gli yazidi. Nessun paese li vuole o se ne occupa, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche subite. Solo la Germania fa eccezione, e ha accolto di recente 1.100 sopravvissute. Perché gli yazidi sono divenuti vittime di genocidio? Quale sono le ragioni della loro persecuzione? Tutto avviene a causa dell’identità religiosa degli yazidi. Ci chiamano adoratori del diavolo, infedeli, dicono che siamo un popolo senza libri sacri, e in quanto ciò non degni della protezione che secondo l’Islam spetta a cristiani e ebrei. Per questo siamo vittima di questi crimini. Quanto abbiamo subito è un genocidio perché hanno ucciso tutti i nostri uomini in modo sistematico e rese schiave le donne. La nostra comunità è ora dispersa, distrutta, senza futuro. Ci siamo estinguendo. La comunità internazionale deve fare il suo dovere e chiamare le cose col suo nome: genocidio. Le chiederei, se possibile, di parlarci della sua esperienza personale, di quando era nelle mani dall’Isis... Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri paesi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in delle stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portare via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla corte islamica di Mosul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli. Le comunità locali erano in genere dalla parte dell’Isis, e per questa ragione solo poche di noi sono riuscite a fuggire. C’erano alcune famiglie che ci hanno aiutato, ma la maggioranza no, erano contro di noi, e condividevano le stesse idee dell’Isis. Ci guardavano come schiave, come esseri inferiori, e questo succedeva sia in Iraq che in Siria. Come è riuscita a fuggire? Un’eccezione a quanto dicevo prima è stata la famiglia che mi ha aiutato. Sono andata a casa loro e mi hanno protetta. Sono stata fortunata, perché in tantissime hanno cercato di fuggire chiedendo aiuto, solo per essere picchiate e ritornare al loro stato di schiave. Avevano paura, ma mi hanno aiutata. Mi hanno procurato documenti falsi in cui risultava che ero parte della loro famiglia, in quanto moglie di loro figlio. Ho preso un velo e una veste integrale islamica e sono riuscita a fuggire in Kurdistan. Quasi 300mila vittime nel conflitto siriano di Sara Volandri Il Dubbio, 9 agosto 2016 Dal 2011 hanno perso la vita 85mila civili (15mila i bambini). Una strage quotidiana, che va avanti da cinque anni sotto gli occhi impotenti della cosiddetta Comunità internazionale. Oltre 292mila persone hanno perso la vita dall’inizio del conflitto in Siria, scoppiato a marzo del 2011, quando sembrava che i venti delle primavere arabe potessero spazzare via anche il regime di Bashar al-Assad. Le ultime cifre sulle vittime della guerra in Siria provengono dagli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, un gruppo di stanza in Gran Bretagna che conta su una estesa rete di attivisti in tutto il Paese arabo. Rispetto all’ultimo bilancio fornito a fine maggio dallo stesso gruppo si contano oltre 10mila morti in più. Tra le vittime di uno dei conflitti più sanguinosi della storia recente figurano 84.472 civili, tra i quali 14.711 bambini e 9.520 donne. Secondo gli attivisti, inoltre, si contano 50.548 morti tra le file dei ribelli "non estremisti e miliziani curdi", 49.547 tra i "miliziani estremisti" e 104.656 tra i soldati filogovernativi (tra cui circa 1.300 combattenti di Hezbollah). Almeno altri 4mila morti, infine, non sono ancora stati identificati. Libia: da Tripoli ai pozzi della Cirenaica, la guerra dei libici è per il petrolio di Vincenzo Nigro La Repubblica, 9 agosto 2016 Per tre anni in Libia un giovane uomo, spericolato capo-milizia di 36 anni, Ibrahim Jadran, ha ordinato ai suoi miliziani di chiudere i rubinetti degli oleodotti della Cirenaica. Si è seduto sulla riva di un fiume di petrolio che in questi mesi avrebbe fruttato alla Libia 90 miliardi di dollari: ha bloccato il greggio e ha aspettato. Il 21 luglio anche le Nazioni Unite, nella persona dell’inviato in Libia Martin Kobler, si sono piegate al giovane miliziano, andando a Ras Lanuf, uno dei terminali bloccati, e hanno baciato l’anello del capobanda per convincerlo a riaprire i pozzi. Quel giorno il diplomatico tedesco è sceso dalla sua Toyota blindata e si è lanciato verso il miliziano sorridendo allegro, come se corresse a stringere la mano di Angela Merkel o di un capo di Stato. Di fatto pagava il riscatto che (forse) permetterà al governo di Tripoli di avere i soldi per sopravvivere, per governare la parte di Libia che a stento riesce a controllare. È questa la vera battaglia, la vera disputa in Libia. Mentre gli americani, l’Europa e i media occidentali sono giustamente concentrati sulla guerra contro i terroristi dell’Is, i capi politici e militari libici si combattono per una cosa soltanto. Il potere, e il potere si costruisce con i soldi, che in Libia arrivano dal controllo del petrolio "Per ora gli hanno pagato 40 milioni di dollari, lui aveva presentato un conto di 140 milioni di dollari, dice che erano gli stipendi arretrati per le sue 20 mila "guardie", e adesso dice anche che non rinuncerà agli arretrati". Un ex colonnello della polizia di Gheddafi al bar "Aurora" di piazza Algeria a Tripoli racconta la storia di Jadran. "Io lo conosco bene, conosco i suoi fratelli: non erano ribelli anti- Gheddafi, ma ladri di auto, criminali: lui si è fatto cinque anni nelle carceri di Gheddafi, trasformandosi prima in ribelle islamico, poi inventandosi le guardie del petrolio, ha bloccato terminali di carico e così ha fatto la sua fortuna". In Libia il petrolio viene esportato da sei terminali: Az Zawiyah a ovest di Tripoli, Al Hrega a est di Bengasi e poi Ras Lanuf, Sidra, Brega e Zueitina tutti nella "mezzaluna petroliera", l’area della Cirenaica controllata dalle guardie di Jadran. Prima della rivoluzione del 2011 la Libia di Muhammar Gheddafi esportava 1,6 milioni di barili al giorno dai sei terminali. Adesso la produzione è crollata a 300 mila barili, ma dentro c’è anche il gas dell’Eni che arriva in Italia e che in buona parte serve alla Libia per i suoi consumi, soprattutto per produrre l’elettricità. Jadran per mesi ha costruito anche un progetto politico, quello del "federalismo" in Cirenaica, che nel vocabolario politico libico significa separazione, non semplice autonomia. Ha creato una specie di governo della Cirenaica con capoluogo nella sua città, Agedabia, quella in cui uno dei suoi sei fratelli è sindaco e un altro è stato il capo di Ansar Al Sharia e forse ha guidato anche l’Isl. Il capobanda prima ha collaborato con le milizie del generale Haftar: anche lui, come l’ex ufficiale gheddafiano, ha ricevuto armi e sostegno dall’esercito egiziano. Poi, quando ha visto i soldati di Haftar avvicinarsi minacciosi ha capito che sarebbe stato meglio cambiare fronte, allearsi con il governo di Tripoli che nel frattempo da espressione delle milizie islamiste della capitale era riuscito a diventare "il governo dell’Onu" sotto la guida di Fayez Serraj. Quando Tripoli è stata costretta a firmare l’accordo che Kobler ha benedetto con l’acqua santa delle Nazioni Unite, il capo della NOC ( National Oil Company) libica Mustafa Senalla furioso ha scritto una lettera di fuoco al tedesco. "Ci siamo messi nelle mani del primo gruppo di criminali, quelli hanno capito che se bloccano i pozzi o gli oleodotti possono bloccare i governi occidentali e ottenere tutto". Ma negli ultimi mesi Jadran poi è stato utile per combattere contro l’Is. I terroristi del califfo a Ras Lanuf avevano fatto saltare installazioni e serbatoi capaci di milioni di barili pur di bloccare i fondi che sarebbero arrivati ai governi di Libia. Alla fine, per sopravvivere, il governo di Tripoli ha pagato e Martin Kobler ha benedetto l’accordo col signore degli oleodotti. Nell’Anno Quinto dopo la rivoluzione, la Libia è anche questo. Pakistan: attacco suicida in ospedale civile, almeno 70 morti e oltre cento feriti La Repubblica, 9 agosto 2016 L’esplosione avvenuta nella struttura dove si trovava il cadavere di Bilal Kasi, presidente dell’ordine provinciale degli avvocati del Balochistan, ucciso nelle scorse ore. Rivendicazione anche di un gruppo talebano. Almeno 70 morti e più di 120 feriti. È questo il bilancio, ancora non definitivo, dell’attentato, rivendicato dall’Is, avvenuto presso un ospedale a Quetta in Pakistan. La cifra ufficiale è stata fornita dal sovrintendente medico dell’ospedale civile, Abdur Rehman Miankhel. Delle vittime almeno 18 sono avvocati, che si erano recati in ospedale dopo l’uccisione prima dell’attentato del presidente della loro associazione in Baluchistan, Bilal Anwar Kasi. Tra i feriti c’è anche l’ex presidente della Bba, Baz Mohammad Kakar. La deflagrazione è avvenuta presso l’entrata principale della struttura, causata da un attentatore suicida, che ha fatto esplodere una decina di chilogrammi di esplosivo. La rivendicazione. Il primo a rivendicare l’attacco è stato lo Stato Islamico. Qualche ora dopo è arrivata anche la rivendicazione di Jamaat-ur-Ahrar, fazione dei Talebani pakistani. Lo ha riferito il sito web del quotidiano locale Express Tribune, ricordando che lo stesso gruppo è stato responsabile della strage compiuta il giorno di Pasqua - lo scorso 27 marzo - in un parco affollato di Lahore. "Jamaat-ur-Ahrar si assume la responsabilità di quest’attacco (a Quetta, ndr) e promette che continuerà ad eseguire attacchi analoghi. Presto diffonderemo un video", ha riferito in una nota il portavoce del gruppo Ehsanullah Ehsan. Il secondo attentato più cruento. Quello di oggi è il secondo attentato più cruento del 2016, dopo quello di Lahore, appunto, che ha causato 75 vittime. Il governatore del Baluchistan Sanahullah Zehri ha denunciato ai media che a suo avviso l’operazione è stata organizzata dai servizi di intelligence indiani. "Ho prove del coinvolgimento nell’attentato del RAW indiano - ha assicurato - che porterò a conoscenza del primo ministro Nawaz Sharif". Intanto sia Sharif sia il comandante in capo dell’esercito, generale Raheel Sharif, si sono recati a Quetta. Il premier, Nawaz Sharif, ha condannato l’attentato e ha detto che "non permetterà a nessuno di perturbare la pace". Il governo ha proclamato tre giorni di lutto con le bandiere nazionali a mezz’asta. Avviata un’inchiesta. La polizia ha immediatamente messo cordoni intorno all’area dell’attentato ed è stato lanciato un segnale di emergenza a tutti gli ospedali della città, dove stanno confluendo i feriti. Nel frattempo, il ministro dell’Interno del Balochistan, Sarfaraz Bugti, ha annunciato l’avvio di un’inchiesta su quella che giudica una "falla nella sicurezza" e l’ispettore generale della polizia, A.D. Khawaja, ha emesso un’allerta massima in tutto il Sindh. Avvocati nel mirino. Gli avvocati pachistani da tempo sono nel mirino dei terroristi locali, che recentemente hanno avviato una campagna di assassini mirati. L’ultimo in ordine di tempo è avvenuto il 3 agosto e ha visto il legale Jahanzeb Alvi ferito a morte lungo la Brewery Road. Dopo la sua morte, lo stesso Bilal Kasi aveva denunciato quanto sta avvenendo e per protesta aveva boicottato per due giorni i procedimenti penali in corso. A giugno, invece, era stato trucidato sulla Spini Road il rettore della facoltà di Legge della University of Balochistan, Barrister Amanullah Achakzai. Più potere ai militari in Tailandia di Gianluca Di Donfrancesco Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2016 La nuova Costituzione approvata con un referendum rafforza i generali. La ventesima Costituzione varata dalla Tailandia nella sua storia non segna passi avanti nel percorso democratico del Paese, anzi. Scritta dalla giunta militare salita al potere con il golpe che ha spodestato Yingluck Shinawatra nel 2014, la nuova Carta rafforza la presa dei militari ed è stata approvata con un referendum che si è svolto in un clima a dir poco controverso. La consultazione si è tenuta domenica. I sì alla nuova Costituzione hanno superato il 61%, i no si sono fermati sotto il 39% (i risultati ufficiali si conosceranno solo tra qualche giorno). Alle urne è andato il 55% dei 50,2 milioni di aventi diritto, contro l’80% pronosticato dall’Esecutivo. Nei mesi precedenti al voto, decine di attivisti del fronte del no sono stati arrestati - suscitando le proteste delle organizzazioni internazionali per i diritti umani - e l’informazione sul quesito è stata dominata dagli esponenti del Governo e dai loro sostenitori, che sono arrivati a promettere in modo velato il ritorno del Paese alle urne per eleggere un nuovo Parlamento entro un anno, in caso di vittoria del sì. Previste per il 2015, le elezioni sono slittate alla fine del 2017, appunto, ma la Costituzione lascia ai generali 5 anni di tempo prima di restituire il potere alle istituzioni civili. Il Senato, inoltre, non sarà più elettivo, ma nominato e di fatto sotto il controllo dei militari, che hanno già realizzato 12 colpi di Stato dal 1932. La Costituzione vincola poi i partiti a rispettare il ventennale piano di sviluppo varato dall’attuale Governo, limitando così fortemente i prossimi Esecutivi. Secondo Paul Chambers, dell’Institute of Southeast asian affairs, la giunta "sta usando lo stesso processo democratico per rafforzare il regime autoritario. È l’abisso della democrazia thailandese". L’obiettivo della Carta, dietro la promessa di liberare la Tailandia dalla corruzione e riportare la stabilità, è impedire l’ennesimo ritorno al potere del magnate populista ed ex premier Thaksin Shinawatra, fratello di Yingluck, a sua volta spodestato da un golpe nel 2006 e attualmente in esilio volontario. I partiti a lui legati hanno vinto tutte le elezioni tenutesi nel Paese dal 2001 in poi. Nel frattempo, la seconda economia del Sud-est asiatico marcia a ritmi inferiori al proprio potenziale. L’anno scorso, il Pil è salito del 2,8%, nel 2014 dello 0,8%. Proprio ieri, la Banca centrale ha affermato che quest’anno potrebbe crescere del 3,1%. Durante il 2015, tuttavia, tanto la Banca centrale quanto il Governo sono stati più volte costretti a rivedere al ribasso previsioni più alte, che si sono rivelate troppo ottimistiche. Intanto, secondo Standard & Poor’s, il referendum riduce in misura modesta" l’incertezza politica, che resta "significativa". All’indomani del voto, il bath si è leggermente rafforzato sul dollaro e la Borsa di Bangkok ha guadagnato l’1,2%. Il pugno dei militari sulla Tailandia: varata la nuova Costituzione di Raimondo Bultrini La Repubblica, 9 agosto 2016 Dopo una campagna elettorale con divieto di propaganda, passa il referendum sulle riforme scritte dalle forze armate. Più stabilità e meno democrazia per il paese che ospita ogni anno trenta milioni di turisti. Il referendum tra i cittadini della Tailandia per la nuova Costituzione si è concluso con oltre il 61 per cento di sì alle riforme scritte dai militari, che aumentano il peso dell’esercito e di riflesso della famiglia reale. Mancano ancora i dati ufficiali di mercoledì, ma un funzionario governativo si è già spinto ad annunciare che, dopo questo plebiscito "in favore della stabilità", ci sarà un governo democraticamente eletto entro il dicembre del 2017. Per il voto sulla nuova Costituzione, al quale ha partecipato poco più del 55 per cento degli aventi diritto, non si poteva fare propaganda né a favore né contro. In un campus universitario notoriamente ribelle, gruppi di studenti sono stati fermati per aver fatto volare un pallone con su scritto: "Fare campagna non è sbagliato". Ma anche stavolta il Paese si è visto schierato politicamente, con i "no" concentrati nelle province del nord est fedeli all’ex premier esule Thaksin Shinawatra, contro la cui dinastia accusata di corruzione sono stati condotti gli ultimi golpe, l’ultimo nel 2014. Contrari anche i musulmani del sud, dove è in corso da 15 anni una guerriglia quotidiana per l’autonomia delle tre province islamiche lungo i confini con la Malesia. Molti analisti hanno ricordato lo spettro dei lunghi anni di tensioni e sanguinosi disordini nelle strade di Bangkok, ancora tale da giustificare la voglia emersa dalle urne di non veder ripetere la storia. L’opinione diffusa è che - viste le circostanze - solo un governo di destra col sostegno delle forze armate puo’ garantire la pace sociale. Su questo fattore ha puntato il premier-generale Prayut Chan Ocha per intascare una vittoria ben organizzata che dovrebbe rafforzare per molti anni a venire, oltre alla presenza militare nella politica nazionale, anche l’economia di un Paese ai vertici di molti settori d’export con 30 milioni di turisti presenti l’anno. Le borse hanno subìto non a caso un’immediata impennata. Tra le nuove norme sostenute dagli elettori ce n’è una che assegna in Senato posti riservati ai comandanti militari come nel parlamento birmano. Una seconda domanda sottoposta a ballottaggio ha vinto con un ampio margine e permetterà allo stesso Senato di eleggere il primo ministro, senza escludere uno dei militari-senatori, "in collaborazione con la Camera bassa". "Anche se molti sospettano che la nuova Carta potrà minare i diritti democratici precedentemente ottenuti - ha detto John Garrett, analista della Economist Intelligence Unit - era pur sempre meno attraente il rischio percepito da tutti di maggiore incertezza politica e instabilità economica in caso di bocciatura della Costituzione". L’ambizione dei militari attualmente al governo era ottenere consenso popolare per rendere i futuri colpi di Stato inutili, indebolendo i partiti politici e di conseguenza i governi futuri assegnando loro per legge un piano di sviluppo nazionale già impostato per i prossimi 20 anni. Gli esponenti dei diritti umani temono che adesso sarà molto difficile emendare la Costituzione viste le restrizioni imposte. Anche in questo caso descrivono una situazione simile a quella della Birmania, dove i militari hanno scritto una "road map", un percorso obbligato verso la democrazia, al quale deve attenersi la nuova leader del Paese Aung San Suu Kyi con pochi margini di manovra. Chiunque andrà al governo entro il 2017 in Tailandia avrà almeno altrettanti limiti, e non basterà aver prodotto profitti o mantenuto la stabilità per restare sulle poltrone dei ministeri. L’esercito potrà intervenire ogni qual volta riterrà che la sicurezza del regno possa messa in pericolo. A totale discrezione dei comandi supremi. Etiopia: scontri tra polizia e manifestanti causano almeno 100 morti di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 9 agosto 2016 Migliaia di dimostranti protestavano nelle regioni di Oromia e Amara contro il governo, chiedendo riforme politiche, giustizia e stato di diritto. "Le forze di sicurezza hanno risposto con la mano pesante", denuncia Amnesty International. Sono almeno 97 i morti e centinaia i feriti in scontri tra le forze dell’ordine e manifestanti durante il weekend in diverse località dell’Etiopia. Lo denuncia Amnesty International. Migliaia di dimostranti protestavano nelle regioni di Oromia e Amara contro il governo, chiedendo riforme politiche, giustizia e stato di diritto. Almeno 67 persone, secondo Amnesty, hanno perso la vita nella regione di Oromia, la cui popolazione è da mesi in agitazione contro la decisione delle autorità centrali di estendere i confini amministrativi della capitale Addis Abeba. Le violenze più gravi a Bahir Dar, dove almeno 30 persone sono rimaste uccise dal fuoco della polizia in un giorno solo. Negli ultimi giorni sono centinaia i manifestanti finiti in centri di detenzione clandestini gestiti dalla polizia e dall’esercito ugandese. "Uso eccessivo della forza per far tacere i dissidenti" - "Le forze di sicurezza hanno risposto con la mano pesante. Hanno sistematicamente fatto un uso eccessivo della forza nel vano tentativo di far tacere le voci dissidenti", ha detto Michelle Kagari, il vicedirettore per l’Africa orientale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani. "Questi crimini devono essere investigati rapidamente e in modo imparziale ed efficace. E tutti i sospettati devono essere portati davanti a tribunali civili senza il ricorso alla pena di morte", ha aggiunto. La preoccupazione dell’ambasciata Usa - L’ambasciata statunitense in Etiopia si dice "profondamente preoccupata" per le violenze in corso nel paese. "Riconosciamo che molte delle manifestazioni sono avvenute senza l’autorizzazione delle autorità - si legge in una nota- ma invitiamo tutte le parti a cercare un dialogo costruttivo e soluzioni pacifiche. Nel contempo, ribadiamo la necessità di rispettare i diritti costituzionalmente garantiti di tutti i cittadini, inclusi quelli con idee politiche di opposizione, a riunirsi pacificamente ed esprimere le proprie opinioni". Il presidente statunitense Barack Obama aveva visitato l’Etiopia lo scorso anno, descrivendo il paese come uno "straordinario partner" nella lotta agli islamisti ma esortando il premier Hailemariam Desalegn a fare passi in avanti in termini di rispetto dei diritti umani.