Scandurra (Antigone): "in molte carceri spesso manca l’acqua corrente" di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 8 agosto 2016 Torna ad aumentare la popolazione carceraria, lo rivela l’associazione Antigone nell’ultimo rapporto sulle carceri italiane, quali sono le condizioni di detenzione? Ne abbiamo parlato con Alessio Scandurra. Spesso manca l’acqua corrente, gli spazi sono ristretti e sovraffollati, l’assistenza sanitaria è carente così come i percorsi di inserimento nella società ma, soprattutto, il numero dei detenuti è in aumento. Lo rivela l’ultimo rapporto presentato dall’Associazione Antigone, da sempre in prima linea per i diritti all’interno delle carceri. "Quando escono dal carcere - ci spiega Alessio Scandurra di Antigone - i detenuti sono meno preparati a relazionarsi con il mondo esterno di quanto non lo fossero prima. Dovrebbe essere il contrario". Una cella ha quasi sempre una capienza di dodici metri quadrati e dovrebbe sempre essere dotata di un bagno separato almeno da una parete. "Nei periodi di peggior sovraffollamento, quelli del 2010 e 2011 - continua Scandurra - queste celle venivano occupate anche da quattro persone. Questo significava non poter stare seduti tutti contemporaneamente per esempio, oppure costringere l’ultimo arrivato a dormire su un materasso a terra, che durante il giorno veniva messo sotto i letti a castello per potersi muovere all’interno della cella". Oggi accade di rado, solitamente stanze di queste dimensioni sono destinate a tre persone e nei casi migliori a due. In base ai dati presentati da Antigone, al 30 giugno 2016 i detenuti erano 54.072, mentre esattamente un anno prima e 1.318 in meno, secondo il Ministero della Giustizia, la capienza regolamentare è di 49.701 posti. "È aumentato il numero dei "presunti innocenti" (18.900), inoltre si ricorre alla custodia cautelare molto spesso pensando che la situazione di sovraffollamento sia stata sanata quando invece il sistema penitenziario resta in grave difficoltà". In aumento anche il numero degli stranieri trattenuti, che rappresentano il 33,5 per cento della popolazione carceraria. "Anche la situazione degli stranieri è molto difficile, non è quasi mai presente una efficace mediazione culturale - spiega Scandurra - e i detenuti non conoscono i loro diritti, le procedure da seguire, talvolta nemmeno il reale motivo per cui sono in carcere". Infine, Antigone rileva come continuino le denunce di violenze e maltrattamenti all’interno dell strutture penitenziarie. "Sono ancora presenti casi di pestaggi e gravi violenze, per questo chiediamo che il reato di tortura venga introdotto anche in Italia, si tratterebbe di un segnale molto importante che la politica non può rimandare oltre". Migliucci (Ucpi): e se il pm fosse "responsabile" delle intercettazioni? di Maurizio Tortorella Panorama, 8 agosto 2016 Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti: "La legge-delega per la riforma della Giustizia varata dal Senato in questa parte va bene: il solo responsabile di ogni fuga di notizie sarà lui". Il 2 agosto la commissione Giustizia del Senato ha approvato il suo testo di legge-delega al governo per la riforma del Codice penale e di quello di procedura, che ha apportato alcune importanti modifiche al testo già varato dalla Camera dei deputati. Panorama ha chiesto a Beniamino Migliucci, avvocato a Bolzano e dal settembre 2014 presidente dell’Unione delle camere penali, quale sia il suo giudizio sui punti cruciali della riforma, a partire dalle intercettazioni. "Il Senato ha fatto un buon lavoro" dice Migliucci "perché ha ancora migliorato le modifiche al Codice penale indicate dalla Camera. E la commissione guidata da Nico D’Ascola ha mostrato di saper resistere alle richieste più oltranziste che venivano dall’Associazione nazionale magistrati". E sulle intercettazioni? Prima della Camera e del Senato si erano mosse le Procure di Roma, Torino e Napoli, a partire dal novembre scorso, con circolari interne tese a evitare la pubblicazione di notizie penalmente irrilevanti. Sì. E con quelle circolari le Procure hanno di fatto "confessato" che le cose da troppo tempo non vanno secondo quanto prescrive il Codice esistente. È stato un problema che i pubblici ministeri hanno colpevolmente ignorato, per anni. Se uno volesse essere malizioso, ci sarebbe da chiedersi perché si muovono soltanto ora. E lei, se fosse malizioso, che risposta si darebbe? Che si vuole dare "un’indicazione" alla politica, che finalmente si sta muovendo. Lo stesso vale per il Consiglio superiore della magistratura… Che il 28 luglio ha approvato nuove linee-guida restrittive sulla pubblicabilità delle intercettazioni. Un segnale positivo, o no? Alcuni spunti del provvedimento sono certamente condivisibili. Ma poi uno si domanda: perché il Csm interviene proprio ora, mentre il Parlamento sta discutendo della legge-delega al governo sulla riforma del Codice penale? E soprattutto: il Csm deve esprimere un parere sulle intercettazioni? La sua risposta? È un "no". Perché a riformare il Codice non possono essere né i pm né il Csm. Dev’essere il Parlamento. La nostra preoccupazione è che la politica accolga il "vassoio d’argento" con le proposte dei magistrati per assecondare l’autorevolezza della fonte. I magistrati possono essere interpellati dalla politica, ci mancherebbe: esattamente come noi avvocati. Quel che contesto è la "sistematica partecipazione consultiva" dei magistrati e del loro sindacato nella fase di predisposizione delle norme. Sono queste le parole che ha usato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Che cosa ha stabilito in materia d’intercettazioni la commissione Giustizia del Senato? La delega è più precisa e specifica di quella che era stata varata dalla Camera, e questo è un bene. Ma risente di qualche contraddizione. Sicuramente positiva è l’indicazione che vuole garantire riservatezza alle comunicazioni tra l’avvocato e il suo assistito, che ora dà piena rilevanza alla funzione della difesa. Il problema è serio: in base a una ricerca pubblicata nel 2014, curata dall’Università di Bologna e coordinata dal professor Giuseppe Di Federico, il 73% dei penalisti italiani sostiene che, anche se il Codice lo vieta espressamente, più o meno frequentemente le loro conversazioni con il cliente vengono intercettate. Che cos’altro prescrive il Senato? Chiede "una precisa scansione procedimentale per la selezione del materiale intercettativo, nel rispetto del contraddittorio tra le parti". E le intercettazioni non pertinenti al reato, o che coinvolgono casualmente persone non indagate? Il Senato postula "la tutela della riservatezza di comunicazioni e conversazioni delle persone coinvolte occasionalmente nel procedimento e delle comunicazioni non rilevanti" penalmente. Il testo licenziato dal Senato è molto esplicito. Se troverà una corrispondente attenzione nel legislatore-governo, sarà decisamente un bene. Quindi che cosa deve fare il pubblico ministero delle intercettazioni? Deve "assicurare la riservatezza" degli atti e delle intercettazioni. E fino alla fine dele indagini preliminari deve custodirli in un archivio riservato, con "facoltà di esame e di ascolto, ma non di copia" da parte dei difensori e del giudice. Questo vi soddisfa? Direi di no, perché dimostra ancora diffidenza per la funzione difensiva: le parti devono avere gli stessi diritti. L’unico pregio, se passasse questa posizione, sarebbe che se davvero tutto il materiale sarà nelle mani del pubblico ministero. A quel punto, l’unico responsabile di eventuali fughe di notizie non potrà essere che lui. Invece oggi, secondo lei, di chi è la responsabilità delle fughe? Il 70-80% delle notizie relative a intercettazioni che escono sui mass media provengono dal circuito inquirente, cioè dai pm e dalla polizia giudiziaria. E il resto? Il resto esce da altre fonti: anche avvocati, in piccola parte, ma tendenzialmente noi non facciamo il male dei nostri assistiti. Del resto, è evidente: la fuga di notizie è un fenomeno che serve per creare consenso intorno all’inchiesta. "Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali" di Marco Patarnello* La Repubblica, 8 agosto 2016 Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli. L’opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell’importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un’attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent’anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un’analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un’impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l’economia di un territorio o anche dell’intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un’impresa, anche se si trattasse di denaro dell’Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso. *In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm Quella zona grigia tra banche e giudici di Gianluca Di Feo La Repubblica, 8 agosto 2016 "Il carcere o gli arresti domiciliari ormai possono essere misure tardive, mentre è sempre più urgente un intervento per sequestrare i capitali di chi si è arricchito sulle spalle degli investitori". Il terzo livello di responsabilità nella crisi delle banche è quello più vicino al territorio. Là dove si sarebbe potuto scorgere prima le crepe nelle casseforti che custodiscono i risparmi degli italiani. Da tempo si discute della miopia della classe politica davanti ai segnali di fragilità del sistema creditizio e si denuncia l’inefficace vigilanza compiuta in alcuni casi da Bankitalia e Consob, ma solo ora si comincia a fare luce su questo terzo livello prosperato in provincia. È un intreccio di interessi in conflitto, favori più o meno trasversali, incarichi d’oro e omissioni ad altrettanti carati che hanno legato la razza padrona degli sportelli agli esponenti di spicco di procure, tribunali e guardia di finanza incaricati di controllarli. Questa zona grigia dai confini sempre confusi, dove un’etica professionale molto discutibile si unisce spesso al rispetto formale della legge penale, ha preso corpo nell’ordine di cattura contro Vincenzo Consoli, ex numero uno di Veneto Banca, una stella cadente del firmamento bancario che ha bruciato i quattrini di 87 mila piccoli soci. In quelle pagine - analizzate ieri da un articolo di Giorgio Barbieri - si parla del presidente del tribunale di Treviso omaggiato dall’istituto con un orologio da 11 mila euro che poi passa dalle aule di giustizia a una poltrona ai vertici della banca. C’è poi il comandante delle Fiamme Gialle che va in gita ai Mondiali carioca con il patron della banca e intasca una proposta di consulenza da 110 mila euro mentre è ancora in servizio. Per poi continuare con l’ingaggio di figli di importanti magistrati e ovviamente una pioggia di prestiti allegri concessi ai politici, come l’allora presidente della Regione Giancarlo Galan. Un copione che pare destinato a riservare altre sorprese. Il pasticcio veneto è stato scoperchiato dalla procura di Roma, partendo dallo stesso rapporto di Bankitalia tenuto per due anni nel cassetto dai pm trevigiani. Ma la trama imbastita da Vincenzo Consoli, ragioniere di Matera felicemente emigrato a Nord, ricorda moltissimo la rete di relazioni privilegiate con toghe e ufficiali della Finanza impiantata dalla Popolare di Vicenza negli anni del padre padrone Gianni Zonin. Una rete di protezione denunciata da più inchieste di questo giornale che ha permesso di radere al suolo i risparmi di 118 mila famiglie. E ombre simili si intravvedono in tutta la via crucis di cattedrali del credito che si sono polverizzate, da Siena ad Arezzo, da Ancona a Ferrara. In alcune di queste provincie è forte il sospetto che il terzo livello sia in qualche modo ancora attivo, perché il garbuglio di intrallazzi passati sembra in grado di condizionare oggi le indagini sui responsabili principali dei crac. Inchieste che procedono con estrema lentezza e morbidezza: finora c’è stato un solo provvedimento cautelare disposto dai magistrati di Roma, i più lontani dalla scena del crimine. Il carcere o gli arresti domiciliari ormai possono essere misure tardive, mentre è sempre più urgente un intervento per sequestrare i capitali di chi si è arricchito sulle spalle degli investitori: Zonin, ad esempio, si è liberato di ogni proprietà prima di qualunque azione risarcitoria. Se le piccole procure spesso non hanno personale sufficiente o non sono in grado di gestire istruttorie così complesse, allora perché non seguire il modello Treviso e fare scendere in campo l’autorità giudiziaria romana? Il tempo scorre e la prescrizione rischia di rendere impuniti i protagonisti di questo colossale furto di risorse collettive: solo in Veneto ci sono quasi 200 mila risparmiatori che chiedono giustizia. Proposta di legge Fi: "reato imporre dieta vegana ai figli sotto i 16 anni" La Repubblica, 8 agosto 2016 Il testo presentato dalla deputata Elvira Savino prevede fino a un anno di carcere (due se il bimbo ha meno di 3 anni) per i genitori o i tutori che adottino per i minori a loro sottoposti una "dieta priva di elementi essenziali per la crescita". La parlamentare: "Fermare le condotte alimentari incaute e pericolose". Servirebbero informazione ed educazione alimentare, dalle scuole ai medici di famiglia. Per contrastare certi eccessi ideologici legati alla dieta, invece, c’è chi ricorre alla via breve dei divieti e delle sanzioni. Così è arrivata alla Camera la prima proposta di legge, firmata dalla deputata Elvira Savino di Forza Italia, che rende penalmente perseguibile chi "impone o adotta nei confronti di un minore degli anni 16, sottoposto alla sua responsabilità genitoriale o a lui affidato per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, una dieta alimentare priva di elementi essenziali per la crescita sana ed equilibrata del minore stesso". Se mai la legge dovesse essere varata, chi trasgredisce sarà punibile con una pena che può arrivare a un anno di reclusione. Partendo dai recenti fatti di cronaca, l’intento della proposta di legge Savino, ha spiegato la deputata in premessa al testo, è proteggere i minori e dunque impedire ai genitori "radicalizzati" di imporre ai figli un’alimentazione troppo restrittiva e priva di quegli elementi nutritivi essenziali a una corretta crescita e a un adeguato sviluppo fisico e cognitivo. "Ormai da anni e, in modo particolare, nell’ultimo decennio - scrive Savino nella premessa alla pdl - si è andata diffondendo in Italia la credenza che una dieta vegetariana, anche nella sua espressione più rigida della dieta vegana, apporti cospicui benefìci alla salute dell’individuo". Niente da dire se si tratta di scelte di adulti responsabili, dice Savino, ma "il problema sorge quando a essere coinvolti sono i minori". "Molte volte - asserisce la deputata di Fi, infatti, soprattutto ai figli di genitori che seguono diete vegane o vegetariane, viene imposta a minori un’alimentazione che esclude categoricamente e imprudentemente alimenti di origine animale e loro derivati". Invece, afferma Savino, per adolescenti e bambini l’alimentazione vegana o vegetariana "è carente di zinco, ferro tipo eme (contenuto in carne e pesce), vitamina D, vitamina B12 e omega-3"; tutte sostanze necessarie per un corretto sviluppo. Citando anche i principi della Costituzione, Savino spiega infine che la sua proposta di legge ha il fine di "stigmatizzare definitivamente le condotte alimentari incaute e pericolose imposte dai genitori, o da chi ne eserciti le funzioni, a danno dei minori di età". Detto questo, la legge proposta prevede la pena della reclusione fino a un anno per il reato-base, ma se dal fatto "deriva al minore una malattia o una lesione personale permanente, la pena è della reclusione da due anni e sei mesi a quattro anni"; se poi ne consegue la morte, "la pena è della reclusione da quattro a sei anni". Infine, le pene vengono aumentate di dodici mesi "qualora le condotte ivi sanzionate siano adottate nei confronti di minori di anni tre". In pratica, un genitore che sottoponga il figlio di meno di 3 anni a una dieta vegana rischierebbe, nella migliore delle ipotesi, fino a due anni di carcere. Riparazione per ingiusta detenzione: sulla colpa grave ostativa all’indennizzo Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2016 Misure cautelari personali - Ingiusta detenzione - Istanza di riparazione - Indennizzo - Nozione di colpa grave ostativa al riconoscimento ex art. 314 cod. proc. pen. - Presupposti fondanti la valutazione del giudice della riparazione di esclusione dell’indennizzo. La nozione di colpa grave di cui all’articolo 314 cod. proc. pen., comma 1, ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale. A tale riguardo, il giudice della riparazione deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti, e precisi, esaminando la condotta (sia extra processuale che processuale) tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito), non se tale condotta integri estremi di reato - anzi, a ben vedere, questo è il presupposto, scontato, del giudice della riparazione - ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ed effetto". • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 4 luglio 2016 n. 27179 Misure cautelari personali - Ingiusta detenzione - Istanza di riparazione - Indennizzo - Giudizio di accertamento della colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo ex art. 314 cod. proc. pen. - Rilevanza del comportamento silenzioso o mendace tenuto dall’imputato nel p.p. Nel giudizio di cui all’articolo 314 cod. proc. pen., il giudice, ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, può valutare il comportamento silenzioso o mendace, tenuto nel procedimento penale dall’imputato, per escludere il suo diritto all’equo indennizzo. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 11 marzo 2016 n. 10199. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Connivenza - Colpa grave ostativa all’indennizzo - Configurabilità - Condizioni. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva quando, alternativamente, detto atteggiamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione del reato ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, benché il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova positiva che egli fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 15 aprile 2015 n. 15745. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Colpa grave - Connivenza - Effetti - Accertamento - Presupposti. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave, pur potendo essere ravvisata anche in relazione a un atteggiamento di connivenza passiva allorché esso risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente, richiede, tuttavia, per esser accertata, la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente medesimo. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 21 febbraio 2012 n. 6878. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Causa ostativa della colpa grave - Connivenza - Rilevanza - Condizioni. In tema di riparazione per ingiusta detenzione, il comportamento passivo del connivente può integrare gli estremi della colpa grave ostativa al diritto alla liquidazione dell’indennità qualora lo stesso risulti aver agevolato la consumazione del reato. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 29 ottobre 2008 n. 40297. Capo d’imputazione: dichiarata la nullità gli atti vanno restituiti al Pm di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 8 giugno 2016 n. 23832. Quando la ritenga sussistente, il giudice del dibattimento deve dichiarare la nullità di cui all’articolo 429, comma 2 (o 552, comma 2), del Cpp, per genericità o indeterminatezza del fatto descritto nel capo di imputazione, senza alcuna previa sollecitazione di precisazione rivolta al pubblico ministero. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 23832 dell’8 giugno scorso. La motivazione della Cassazione - La Cassazione ha ritenuto che in senso contrario alla decisione assunta non potesse evocarsi la diversa disciplina applicabile nell’udienza preliminare, laddove, come precisato dalle sezioni Unite (sentenza 20 dicembre 2007, Battistella), si è invece affermato che il giudice, in quella sede, prima di disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero per genericità o indeterminatezza dell’imputazione, deve prima richiedergli di precisarla, potendo così procedere alla restituzione degli atti, senza che ciò realizzi una indebita regressione del procedimento, solo se il pubblico ministero, nonostante la sollecitazione, abbia omesso di integrare l’imputazione. Ciò viene spiegato, in motivazione, con la diversità delle situazioni processuali: nella fase dell’udienza preliminare, infatti, l’indeterminatezza del fatto contestato può essere superata nella fluidità di un contraddittorio preparatorio gestito dal giudice, con la possibilità per l’imputato di richiedere fino alla discussione i riti alternativi; nel dibattimento, vi è la già avvenuta cristallizzata dell’imputazione che deve reggere l’urto del dibattimento ed è rispetto all’imputazione come contestata che operano rigidi oneri di attivazione tempestiva (presentazione della lista dei soggetti di cui si intende chiedere l’esame e specificazione dei temi di prova). Una tale conclusione, ha ulteriormente osservato il giudice di legittimità, non è superabile neppure con la considerazione che anche nella fase dibattimentale sono possibili modifiche o integrazioni dell’imputazione (articoli 516-518 del Cpp), con restituzione in termini per l’esercizio di alcune facoltà, perché in queste ipotesi si tratta non di dare determinatezza a ciò che non l’aveva originariamente, bensì di situazioni di fatto ben delineate nella prospettazione originaria del proprio contenuto che risultano superate dagli accadimenti istruttori. Da queste premesse, la Corte, superando un orientamento contrario (tra le altre, sezione III, 9 luglio 2013, Pm in proc. Lindegg; sezione III, 9 luglio 2013, Pmt in proc. M. e altri; sezione VI, 27 novembre 2013, Pm in proc. Bonanno), ha rigettato il ricorso del pubblico ministero ed escluso potesse ritenersi abnorme l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento aveva deliberato la nullità per genericità dei capi di imputazione formulati dal pubblico ministero e, quindi, del decreto che aveva disposto il giudizio, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, senza avere prima sollecitato il pubblico ministero stesso a precisare la contestazione. Piuttosto, la Corte ha ritenuto non corretta (ma non censurabile perché non riguardata dai motivi di ricorso) l’ulteriore determinazione del giudice che, nel dichiarare la nullità per taluni dei capi di imputazione, aveva disposto la restituzione al pubblico ministero anche di ulteriori capi di imputazione, sul rilievo della necessità di una trattazione unitaria: qui, ha precisato la Cassazione, la regressione era stata anomala (ma per quanto detto non censurabile), giacché il tribunale avrebbe potuto e dovuto ottenere il risultato, giudicato necessario, della trattazione congiunta di tutte le imputazioni, separando quelle ritenute indeterminate e dichiarate nulle dalle altre e rinviando a nuovo ruolo la trattazione di quelle trattenute, per la successiva riunione dopo la riformulazione adeguata delle imputazioni ritenute viziate da genericità. Intercettazioni: "captatori informatici" in luoghi privati solo per criminalità organizzata di Paolo Giordano Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 1 luglio 2016 n. 26889. In materia di intercettazioni, solo in caso di reati di "criminalità organizzata", è consentito l’utilizzo di "captatori informatici" anche nei luoghi di privata dimora. Lo hanno stabilito le sezioni Unite con la sentenza n. 26889 del 1 luglio 2016. Una sentenza memorabile - La sentenza in commento è destinata, come la celebre sentenza sempre delle S.U. n. 26795 del 2006, pres. Marvulli, Relatore G. Lattanzi, sulle intercettazioni ambientali in ambito privato, a divenire memorabile perché affronta due importanti questioni, una delle quali del tutto innovativa, e perché ha adottato un percorso argomentativo e una struttura logica assolutamente pregevoli. Le due questioni riguardano, la prima l’ammissibilità dell’intercettazione mediante "virus informatico", o "virus spia" o "auto-istallante", o "troyan horse" o, come lo definisce la sentenza in commento con una parola elegante ed evocativa, "captatore informatico" o infine "agente intrusore", la seconda la messa a fuoco della nozione di criminalità organizzata. Nella comunicazione dell’informazione provvisoria, l’ammissibilità dello strumento cennato è sancita indipendentemente dai luoghi in cui viene usato, sempreché si tratti di procedimenti di criminalità organizzata, con la sottolineatura che l’indicazione del luogo in cui si svolge la conversazione in queste tipologie di indagini non costituisce un requisito del decreto autorizzativo dell’intercettazione. La Procura Generale, nelle sue conclusioni, aveva accolto la tesi più restrittiva della nozione di criminalità organizzata, mentre le S.U. hanno preferito accreditare la nozione più ampia, collocandosi nella scia della sua tradizione giurisprudenziale, con gli effetti di ampliare il raggio di azione dello strumento captativo esaminato. Il captatore informatico - La prima questione riguarda la legittimità delle intercettazioni eseguite attraverso l’installazione da remoto di un virus che in effetti è un captatore informatico su computer o su smartphone. In precedenza, la VI Sezione della Corte di cassazione (Cass. Sez. VI, 26.5.2015, n. 27100) aveva stabilito che l’intercettazione da remoto delle conversazioni tra presenti mediante l’attivazione, tramite il c.d. "agente intrusore informatico", del microfono di un apparecchio telefonico smartphone, rientra nella categoria delle intercettazioni ambientali con la conseguenza dei limiti e delle condizioni previsti per tale tipologia. In tale pronuncia, la Corte aveva sottolineato come le intercettazioni mediante "captatore informatico" consentissero di captare conversazioni tra presenti in una varietà di luoghi, a seconda degli spostamenti del soggetto, di fatto senza alcuna limitazione di luogo. Perciò aveva adottato la tesi restrittiva, escludendo che le captazioni ambientali potessero essere eseguite "ovunque il soggetto si sposti". L’argomento su cui si fondava la detta pronuncia era l’affermazione della tesi costituzionalmente orientata, in relazione ai principi dell’inviolabilità della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione, di cui agli articoli 13e 15 della Costituzionee 8 Cedu. La Corte aveva ritenuto ammissibili le intercettazioni ambientali sempreché autorizzate con riferimento a luoghi ben individuati e circoscritti, sicché la mancanza nel decreto autorizzativo di tali indicazioni, avrebbe determinato l’illegittimità del provvedimento e quindi l’inutilizzabilità delle captazioni tra presenti, questa è la tesi della sentenza ora citata. La stessa VI Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 10 marzo 2016, n. 13884, ritenendo non condivisibili gli argomenti della sentenza del 2015, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, essendosi profilato un contrasto. I quesiti erano i seguenti: - se il decreto che dispone l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni attraverso l’installazione in congegni elettronici di un virus informatico debba indicare, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati, i luoghi ove deve avvenire la relativa captazione; - se, in mancanza di tale indicazione, la eventuale sanzione di inutilizzabilità riguardi in concreto solo le captazioni che avvengano in luoghi di privata dimora al di fuori dei presupposti indicati dall’art. 266, comma 2, cod. proc. pen.; - se possa comunque prescindersi da tale indicazione nel caso in cui l’intercettazione per mezzo di virus informatico sia disposta in un procedimento relativo a delitti di criminalità organizzata". Il caso affrontato dalle Sezioni Unite era scaturito da un provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Palermo, che aveva autorizzato le intercettazioni ambientali mediante captatore informatico disponendo che queste dovevano eseguirsi "nei luoghi in cui si trova il dispositivo elettronico" in uso all’indagato. La questione è pervenuta alle Sezioni Unite sul ricorso della difesa la quale aveva dedotto, tra gli altri motivi, l’illegittimità del decreto autorizzativo perché emesso in violazione dei limiti imposti dall’art. 266, c. 2, c.p.p. e perché privo di un riferimento specifico ai luoghi, con conseguente richiesta di pronuncia di inutilizzabilità del contenuto delle conversazioni relative. Nella parte in diritto - Nella parte in diritto la Corte ha ritenuto di doversi discostare dalle argomentazioni e dalla tesi sostenuta nella precedente pronuncia del 2015, con un percorso argomentativo molto interessante e assolutamente convincente. La Cassazione ha qualificato giustamente il mezzo di cui stiamo parlando come caratterizzato dalla vastità delle acquisizioni e dalla particolare invasività dello strumento, dal momento che il captatore non solo è in grado di intercettare le conversazioni ma addirittura può captare immagini e riprese, in quanto attraverso un software collocato all’interno del dispositivo elettronico, viene a eseguirsi un’intercettazione ambientale attraverso il controllo occulto del microfono trasformato in una cimice informatica. La particolare invasività deriva dal fatto che attraverso lo speciale congegno in questione è possibile non solo attivare il microfono e una speciale web camera, ma anche captare tutto il traffico dati o in partenza dal dispositivo infettato, e infine perquisire l’hard disk facendo copia delle varie unità di memoria del sistema informatico attinto, decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema e visualizzare ciò che appare nello schermo del dispositivo. Tutto questo complesso di dati viene trasmesso tramite la rete internet a un altro sistema informatico ricevente, quello degli investigatori in campo. Sul piano tecnico e giuridico - Sul piano tecnico e giuridico la Cassazione ha dichiarato in apertura l’incompatibilità tecnica dell’intrusore informatico con la necessità di indicare in via preventiva i luoghi in cui dovranno essere captate le conversazioni. Il motivo è semplice: se l’intrusore segue il mezzo preso di mira, ciò vuol dire che può essere oggetto di captazione tutto ciò che viene all’orizzonte dell’apparato (computer o quant’altro) oggetto dell’intrusione, in quanto il soggetto intercettato si muove. Pertanto il problema messo a fuoco è di valutare se l’ordinamento giuridico prescinde dalla determinazione del luogo nella disciplina delle intercettazioni o se invece tale determinazione sia richiesta. E qui interviene subito un argomento tranciante, cioè che l’indicazione del luogo non solo non è richiesta dalla normativa sulle intercettazioni, ma addirittura non è mai stata considerata un requisito nemmeno dalla Corte di giustizia europea. Quindi la questione del luogo riguarda solo le intercettazioni ambientali ordinarie, cioè quelle previste dal c.p.p. non quelle contemplate dalla normativa speciale sulla criminalità organizzata, ex art. 13 l. n. 152 del 1991. La differenza è nota: nelle prime occorre l’ulteriore requisito dell’attualità dell’attività criminosa in itinere, nelle altre l’intercettazione è possibile senza tale presupposto. Questo è il motivo per cui si deve precisare il luogo solo quando l’intercettazione deve svolgersi negli ambienti di privata dimora. A un certo momento, la Corte tra le righe lancia un monito chiarissimo, cioè l’eccessiva invasività non ancora completamente esplorata e suscettibile di ulteriori sviluppi impone necessariamente un difficile bilanciamento con le garanzie dei diritti individuali, quasi che sia necessario oltreché opportuno calibrare l’uso dello strumento in relazione alla gravità dei reati da perseguire e alla difficoltà delle prove da raccogliere. Sta quindi all’operatore stabilire in quali casi sia opportuno e conveniente l’attivazione di questo dispositivo. Il limite: il rispetto della dignità umana - Qui la sentenza raccoglie un importante distinguo proveniente dal Procuratore Generale, che rappresenta uno dei punti più qualificanti della sentenza, vale a dire la possibilità che il giudice, attraverso lo strumento dell’interpretazione costituzionalmente orientata e in riferimento al principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., possa sanzionare con l’inutilizzabilità le "risultanze di specifiche intercettazioni che nella loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito in concreto connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità". In altri termini, c’è un limite al di là del quale lo strumento invasivo non può andare ed è quello del rispetto della dignità umana del singolo inteso come persona che si relaziona con la rete delle formazioni sociali. Sarà interessante osservare come in concreto potrà essere applicato dalla giurisprudenza questo canone di valutazione e in quali casi, verosimilmente in relazione al parametro di cui all’art. 191 c.p.p. Per avvalorare la tesi accolta, sul punto del "luogo", la Corte richiama le pronunce della Corte costituzionale in materia ove non è mai stata dichiarata l’incostituzionalità della normativa sulle intercettazioni in relazione all’art. 14 della Cost. né è possibile rinvenire crismi di illegittimità nella Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. sulla necessità di stabilire il luogo della captazione. E sono citate pure importanti sentenze della Corte di Strasburgo nelle quali è stato evidenziato che l’indicazione del "luogo" della conversazione non costituisce un requisito voluto dall’ordinamento. D’altra parte, poiché il problema dell’invasività è certamente presente, devono essere prese in considerazione le importanti circolari sulle intercettazioni che le Procure Distrettuali più impegnate nel versante della criminalità organizzata, Torino, Roma, Napoli, Palermo hanno diramato per rimarcare l’indispensabilità di maggiori attenzioni non solo sui presupposti per attivare strumenti così invasivi, ma anche per discernere la rilevanza e la pertinenza delle conversazioni al tema di prova oggetto del procedimento, particolarmente a tutela dei terzi non indagati la cui sfera di libertà non è possibile intaccare ingiustificatamente mediante discovery indiscriminate. Le tecniche comunicative nella mafia - L’invasività dello strumento captativo ora citato va a confrontarsi con le tecniche comunicative che nella criminalità organizzata sono state adottate come antidoto e difesa rispetto alla tecnologia usata nelle indagini. È sotto gli occhi di tutti che vertici e adepti dell’alta mafia usavano percorrere lunghi giri di kilometri spesso in territori accidentati prima di scambiarsi un "pizzino" dove, lontano da qualsivoglia intercettazione, con una lingua italiana e spesso dialettale, incerta e apparentemente sgrammaticata, venivano indicate prescrizioni, direttive e ordini ben precisi oltreché decisioni di conflitti fra cosche e fra soggetti. Non solo negli scritti ma anche nelle conversazioni fra mafiosi, dentro o fuori dal carcere, i segnali, i gesti, financo il silenzio e le poche parole dosate, cifrate ed enigmatiche, ma essenziali sono stati i capisaldi delle comunicazioni, in quanto tali tipologie di comunicazioni non sono mai state esplicite, ma sempre munite di allusività e, soprattutto, richiedevano un grado di comprensione da parte dell’interlocutore. Ciò non toglie che in altre occasioni i mafiosi abbiano parlato senza alcuna "cautela" svelando i segreti dell’organizzazione. Ciò dimostra che oltre ai collaboratori di giustizia, le intercettazioni ambientali costituiscono lo strumento principe di acquisizione della prova in questi procedimenti di indagine, come sperimentano ogni giorno le strutture di eccellenza della polizia giudiziaria. La nozione di criminalità organizzata - Sulla nozione di "criminalità organizzata", la sentenza si allinea a una ormai consolidata scuola di pensiero elaborata dalla stessa giurisprudenza della Corte di cassazione e dalla dottrina prevalente. Su tale nozione, in passato, si sono confrontate varie tesi. In giurisprudenza, per la definizione restrittiva di "reati di criminalità organizzata", v. Cass., sez. 1, 9/12/1992, n. 4326, Trovato, e ancora Sez. 1, sentenza n. 12136 del 3/2/2005, Rv. 231229, che propendono per un’identificazione della nozione con la disposizione di cui all’art. 407, c. 2, lett. a) c.p.p. e, secondo una linea interpretativa differenziata, con lo schema dell’art. 51 c. 3 bis c.p.p. (su cui anche Sez. V, 5.11.2003, C.E.D. Cass. n. 207364). Una parte della dottrina ritiene che nella nozione in esame rientrino non solo i reati indicati nell’art. 51 c. 3 bis c.p.p., ma anche quelli di cui all’art. 372 c. 1 bis c.p.p. Per la tesi estensiva, Cass. sez. 1, 27/1/1993, n. 335, Santomauro, Cass. Sez. U., 22/3/2005, 17706, Petrarca e altri, dove è stato affermato, per converso, che la nozione di "criminalità organizzata" identifica non solo i reati di criminalità mafiosa e assimilata, oltre ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex art. 416 c. p., correlata alle attività criminose più diverse, con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito dell’organizzazione. È da ritenersi incluso in tale categoria anche il complesso di reati associativi di natura terroristica. Esiste una lunga serie di massime che si attestano su questa definizione giuridica ampia di criminalità organizzata, per es. cfr. Sez. 1, sentenza n. 3972 del 2/7/1998, Rv. 211167, dove c’è un richiamo alle finalità di quest’ultima, che tende a far rientrare nel suo ambito applicativo le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti i quali, per la commissione di reati abbiano costituito un apparato organizzativo. L’applicazione di uno statuto processuale ad hoc - L’individuazione della nozione di criminalità organizzata non è una questione accademica ma costituisce il presupposto per l’applicazione di uno statuto speciale processuale. Basterebbe citare la disciplina del coordinamento delle indagini, il complesso D.N.A. - D.D.A., lo stesso rapporto p.m. - p.g. e le strutture specializzate centrali e interprovinciali della polizia giudiziaria, fiore all’occhiello della nostra polizia giudiziaria, con i colloqui investigativi, i termini di durata delle indagini preliminari, la disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali, la disciplina della durata della custodia cautelare, la possibilità della proroga e della sospensione, la regolamentazione della prova dichiarativa e delle letture in dibattimento, tele esame e videoconferenze, tutta la disciplina della premialità, i benefici penitenziari. Siamo ormai ben lontani dall’epoca in cui una parte della dottrina sosteneva, per invocare una virata nella legislazione, come l’indeterminatezza dell’art. 416 bis c.p., i maxiprocessi, la presenza di collaboratori di giustizia nelle indagini, implicassero vistose deroghe all’oralità e al contraddittorio come caratterizzazione dei procedimenti di criminalità organizzata. L’ordinamento giuridico ha fatto il percorso opposto, razionalizzando e stabilizzando la disciplina speciale per la criminalità organizzata, come la vicenda e la storia del regime speciale dell’art. 41 bis o.p. dimostra ampiamente. La Convenzione di Palermo e la legge di ratifica - Una importante tappa del processo di chiarificazione della nozione di criminalità organizzata è stata la Convenzione di Palermo, e la legge di ratifica con i relativi Protocolli, dove la soluzione è che "crimine transnazionale" e "criminalità organizzata" non sono la stessa entità, nel senso che la transnazionalità del crimine e dei reati non coincide con la criminalità organizzata, perché anche i reati possono essere transnazionali. La nozione unitaria tratteggiata dalla giurisprudenza di legittimità si confronta con "le" nozioni che l’ordinamento giuridico sostanziale e processuale hanno delineato, quella di criminalità organizzata rinvia a elenchi di reati di volta in volta specificati, mentre talune volte si parla di "associazione mafiosa", di "criminalità comune" e così via. Naturalmente, in mancanza di una definizione giuridica di reati di criminalità organizzata, gli sforzi degli interpreti sono stati nel senso di elaborare tale categoria ricostruendola, di volta in volta, attraverso il rinvio a quei reati associativi che denotano l’esistenza di un impianto organizzativo ovvero a quei reati specifici che sono manifestazione dell’agire organizzativo, sia in quanto reati-mezzo sia in quanto reati-fine dell’associazione. Da tempo è ormai assodato che la specificità delle indagini del p.m. e delle investigazioni della p.g. risiede nella loro polarizzazione attorno ai c.d. "reati-fine" dell’associazione mafiosa, attraverso l’applicazione di tecniche integrate, cioè di tipo classico e patrimoniali e bancarie, ma adesso anche di tipo scientifico e tecnologico. Naturalmente la posta in gioco nella differenziazione delle varie tesi è di ammettere o meno i fenomeni corruttivi e concussivi svolti con sistemi organizzati nel novero della categoria di "criminalità organizzata". La soluzione delle sezioni Unite - La soluzione che offrono le S.U. con la sentenza in commento è proprio in questo senso. Fino a qualche tempo fa si dava per scontato che tali fenomeni potessero fuoriuscire da una categoria così impegnativa non solo linguisticamente ma anche dal punto di vista sociologico e criminologico come quella di "criminalità organizzata". Ma l’agire in concreto così come si è profilato delle organizzazioni criminali e mafiose, che hanno visto nella corruzione una nuova forma di attività ancillare e strutturale e nel riciclaggio dei proventi della corruzione un nuovo canale di investimento, ha imposto di rivisitare questa nozione concettuale. La sentenza giunge a queste conclusioni attraverso un articolato percorso logico, che parte dalla ricognizione delle norme processuali che richiamano espressamente la nozione di "criminalità organizzata". A queste si aggiungono un secondo gruppo di norme contenenti un "catalogo" di fattispecie penali sostanziali, si tratta delle due norme fondamentali, l’art. 51 c. 3 bise 407 c. 2 lett. a) c.p.p., ed infine gli artt. 4 bis e 41 bis o.p. La sentenza non manca di analizzare le varie teorie che si sono affacciate in dottrina circa la definizione di "criminalità organizzata", raggruppabili in due grandi linee interpretative: da un lato le tesi di natura socio-criminologica, dove prevale una metodologia descrittiva dei fenomeni e dall’altra quelle di carattere più strettamente tecnico-giuridico, dove invece si privilegia la ricognizione dei delitti ruotanti attorno alla nozione. La sentenza, alla fine di questa interessante analisi che poi prosegue sulla giurisprudenza e sui filoni interpretativi accolti, recepisce una nozione di "criminalità organizzata" che potrebbe essere definita di tipo sostanzialistico in quanto guarda particolarmente alla struttura organizzativa con i suoi requisiti di stabilità e di consapevolezza da parte degli adepti e alle finalità perseguite, che si pone in sintonia con l’universo sovranazionale e con la giurisprudenza europea e i vari documenti del Parlamento europeo. Le conclusioni - Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: "limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni fra presenti - mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili (ad es. personal computer, tablet, smartphone, ecc.), anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pur non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa". Sul secondo punto, le Sezioni Unite adottano una nozione ampia di "criminalità organizzata" comprensiva non dei reati associativi anche relativi ai fenomeni corruttivi, laddove stabilisce che "per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell’art. 51 c. 3 bis e 3 quater c.p.p., ma anche quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere ex art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato". In conclusione la sentenza rigetta il ricorso della difesa richiamando la propria consolidata giurisprudenza circa i limiti di cognizione del giudice di legittimità, particolarmente in materia de libertate: la valutazione sulla gravità indiziaria può essere contestata solo sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili le censure che pur investendo la motivazione si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal giudice di merito. Sappiamo bene che la sentenza è stata aspramente criticata dall’Unione della Camere Penali, nella parte riguardante l’ammissibilità del captatore informatico, visto come un nuovo sproporzionato strumento di indagine, addirittura si è parlato di spinta autoritaria dal sapore orwelliano, ispirata e alimentata da vari settori della magistratura, e che nel conflitto con la politica, occorrerebbe un riequilibrio dei poteri, e la critica è sfociata in una protesta con conseguente astensione dalle udienze nei giorni 24, 25 e 26 maggio 2016. Si è anche parlato, in sedi diverse, di intercettazione sbiadita e dai confini incerti, e di violazione del principio di riserva di giurisdizione e, ancor prima, del principio di legalità. In contrario, ci permettiamo di notare come le soluzioni cui approda la sentenza in commento siano, invece, equilibrate, ineccepibili e convincenti, perché assolutamente aderenti allo spirito e alla lettera delle norme giuridiche dell’ordinamento in materia di diritto sostanziale e processuale penale della criminalità organizzata. Peraltro, la sentenza passa in rassegna tutte le proposte di riforma in discussione al Parlamento, quasi a rimarcare che la decisione del caso è stata dettata dall’applicazione della normativa a regime, mentre potrebbe essere rivisitata dal legislatore la disciplina che regola questo strumento investigativo mediante forme alternative. Porto Azzurro (Li): la raccolta differenziata si fa anche nel carcere di Luca Centini Il Tirreno, 8 agosto 2016 Via da agosto al progetto elaborato da Esa con l’amministrazione penitenziaria Saranno installati i contenitori per i rifiuti nelle celle dei duecento detenuti. Partirà dal carcere la sperimentazione del nuovo sistema di raccolta differenziata, frutto della collaborazione tra il Comune di Porto Azzurro ed Esa. "Un modo per responsabilizzare i duecento detenuti del penitenziario elbano - ha spiegato il sottosegretario alla giustizia, Cosimo Ferri - e per farli sentire cittadini a tutti gli effetti". Il nuovo progetto, elaborato in base alle caratteristiche della casa di reclusione, è stato presentato ieri nel corso di una conferenza stampa a cui, oltre al responsabile del governo, hanno partecipato tra gli altri il direttore del carcere Francesco D’Anselmo, il provveditore regionale Giuseppe Martone, il garante dei detenuti Nunzio Marotti, il sindaco di Porto Azzurro Luca Simoni e la presidente di Esa, Gabriella Solari. Il progetto. La società che si occupa della gestione dei rifiuti sul territorio elbano ha messo in piedi un sistema articolato di raccolta all’interno del carcere, dove ad oggi i circa duecento detenuti e le persone, tra guardie, familiari e amministrativi, producano cira 650 kg di rifiuti al giorno, per un totale stimato di 237 tonnellate annue di rifiuti, di cui 203 non differenziati e solo 34 differenziati (carta e cartone). L’obiettivo che si pone la società Esa è di aumentare in modo sensibile la percentuale di rifiuti oggetto di raccolta differenziata dentro e fuori dalla struttura carceraria (attualmente il 90%). Per questo Esa ha pensato a un sistema di raccolta "cella a cella" spinto. Nelle singole stanze dei detenuti saranno posizionate (già dal mese di agosto) dei contenitori per la raccolta differenziata, mentre saranno sistemati dei contenitori più grandi all’esterno della struttura, nella cittadella. Nei terreni esterni, circa 5 ettari, saranno sistemate delle compostiere per gli scarti delle attività di sfalcio e delle lavorazioni agricole. Il personale del carcere, in collaborazione con Esa, provvederà a cadenza regolare a ritirare i rifiuti dalle stanze dei detenuti. In contemporanea con l’esecutività sarà eseguita attività di formazione sia per i detenuti che il personale carcerario. "L’incremento della raccolta differenziata è un obiettivo importante che i Comuni dell’isola stanno perseguendo con successo", ha spiegato Gabriella Solari. "Si tratta di un progetto in cui crediamo per responsabilizzare i nostri detenuti - ha spiegato il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo - è un altro piccolo passo, uno dei progetti in cui crediamo e che abbiamo deciso di portare avanti da quando, poco più di un anno fa, sono stato nominato direttore". Il carcere "capofila". La sperimentazione della raccolta differenziata nel carcere è il primo segno tangibile del nuovo rapporto che si sta creando tra l’Esa e il Comune di Porto Azzurro. L’ente guidato dal sindaco Simoni è, ad oggi, l’unico comune dell’isola a gestire il servizio di raccolta dei rifiuti e di spazzamento servendosi di personale proprio. Entro ottobre tuttavia - questo è il termine annunciato dal primo cittadino Simoni - il servizio dovrebbe passare alla società Esa (sono i corso di definizione alcuni dettagli legati, ad esempio, al passaggio del personale comunale. "Siamo pronti a compiere questo passo - ha raccontato il sindaco Simoni - stiamo limando le ultime questioni, quindi potremo partire. La nostra intenzione, grazie all’aiuto di Esa, è partire con un sistema di raccolta differenziata il più spinta possibile, in modo da eguagliare i buoni risultati degli altri comuni dell’isola. Sicuramente il carcere ci aiuterà a raggiungere questi risultati". Catania: il volontariato non va in vacanza, nelle carceri minorili corsi e sport blogsicilia.it, 8 agosto 2016 Il volontariato nelle carceri minorili della provincia di Catania non va in vacanza e non si ferma neanche ad agosto, periodo particolarmente difficile per i giovani detenuti in quanto, in assenza dell’impegno scolastico, hanno bisogno di altre occasioni per trascorrere le giornate in maniera costruttiva. Ed ecco che in piena estate varie associazioni, con il coordinamento del Centro di Servizio per il Volontariato Etneo, hanno avviato iniziative formative, sportive e ricreative nelle carceri di Bicocca e Acireale, nell’ambito della collaborazione avviata dal Csve con gli Istituti penali minorili ed inserita nel progetto annuale del Centro. Le attività organizzate dal mondo del volontariato e sostenute dal Csve, verso cui le Direzioni degli Ipm hanno espresso soddisfazione e gratitudine, vanno incontro a un bisogno concreto, acuito dal ridimensionamento dei fondi destinati alle progettualità a favore dei minori ristretti. In particolare, nell’Ipm di Bicocca, dove le attività sono cominciate a dicembre con uno spettacolo a cura di Salvo La Rosa e Giuseppe Castiglia, nell’ambito del progetto "Vincere l’indifferenza" proposto dall’associazione Gianfranco Troina, tra il 26 luglio e il 2 agosto si è svolto un torneo di calcio che ha favorito la formazione di una squadra composta anche da giovani volontari dell’associazione Amici di Villa Fazio (Librino) e Mani Tese Sicilia (Monte Po). Il coordinamento di protezione civile FIR (Forza intervento rapido) ha svolto formazione sul supporto di base delle funzioni vitali, sulle norme comportamentali in caso di emergenza e sule attività antincendio. Il Csve sta anche coordinando le attività dell’associazione Con tutto il cuore, che nel mese di agosto organizzerà una partita di calcio e la proiezione di un film e, a conclusione, offrirà dolci e donerà libri. Anche nell’Istituto penale minorile di Acireale, dove la collaborazione ha preso il via in primavera, l’associazione Con tutto il cuore ad agosto sta organizzando partite di calcio, proiezione di film e corso di pittura, mentre a settembre la Misericordia di Acireale avvierà un corso di teatro e un’attività formativa di primo soccorso. Il comitato acese del Csi (Centro Sportivo Italiano) a partire dal mese di settembre avvierà una serie di attività sportive. È fissato invece per i giorni 17, 19, 24 e 26 agosto il corso di clown terapia dell’associazione Sulle Ali del Sorriso. Tutti i momenti formativi e ricreativi all’interno delle due strutture pongono particolare attenzione alla dimensione interculturale, in considerazione del fatto che è consistente la presenza di minori stranieri (a Catania circa il 30%, ad Acireale il 50%) e che dunque, specialmente in questo momento storico, è importante che il volontariato dia il proprio contributo di solidarietà e integrazione. Ma l’impegno del volontariato verso i detenuti non si limita all’interno delle carceri. Il Csve ha infatti sottoscritto dei protocolli di intesa con l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Catania e di Siracusa al fine di favorire la conoscenza e l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Al tal fine sta individuando le associazioni di volontariato idonee ad accogliere i soggetti inseriti nel circuito della messa alla prova per loro il reinserimento sociale e sono stati programmati specifici incontri formativi e/o divulgativi che coinvolgeranno, a partire dal mese di settembre, associazioni, istituzioni e gli organi forensi. Le associazioni interessate hanno tempo fino al 29 agosto per dare la propria disponibilità, inviando una e-mail a promozione@csvetneo.org. Brescia: detenuto pianifica evasione nei minimi dettagli, ma viene scoperto Corriere della Sera, 8 agosto 2016 Stando ad una prima ricostruzione dei fatti, stava pianificando tutto nei minimi dettagli: non solo la fuga dal carcere, ma anche tutto ciò che gli potesse garantire una latitanza sicura lontano dall’Italia. A buttare all’aria i piani ci hanno pensato gli uomini della Polizia Penitenziaria del Casa di reclusione di Verziano che sono riusciti, con una indagine lampo, a conoscere gli intenti dell’uomo e a mettere in atto a tempi da record tutte le misure necessarie per evitare che i suoi propositi diventassero operativi. Nel mirino dei poliziotti, coordinati dal commissario Michele Rizzi, un detenuto di origini italiane gravato da una pena che si sarebbe estinta nel 2036. Forse proprio la prospettiva di dover passare circa 20 anni in carcere, frutto di una pensante condanna per traffico internazionale di stupefacenti, l’uomo (a quanto si è appreso di origini valtellinesi) ha iniziato a lavorare per costruirsi una alternativa alla detenzione, sia pur in una casa di reclusione con standard qualitativi accettabili per la media dei penitenziari italiani. In particolare ancor prima di studiare il modo per lasciare il carcere, l’uomo avrebbe pensato - come si suole dire - a garantirsi la "vecchiaia". Secondo la ricostruzione emersa dalle indagini della Polizia Penitenziaria, l’uomo avrebbe messo da parte una ingente somma di denaro in grado di finanziare, una volta fuggito da Verziano, la latitanza lontano dall’Italia, in quella Columbia dove, visti i suoi precedenti penali e l’entità della pena che gli era stata inflitta, poteva contare su appoggi autorevoli e, grazie all’accantonamento in denaro, su un futuro discretamente agiato. Il progetto, però, è arrivato all’orecchio degli uomini della Penitenziaria che dopo aver verificato che si trattasse realmente del primo step di un tentativo di evasione da Verziano hanno disposto a tempo di record il trasferimento del detenuto in un altro carcere dove verrà sottoposto ad un più stretto regime di sorveglianza. L’operazione ha raccolto i complimenti dei sindacati di categoria. "Il comandante di Verziano - ha osservato Antonio Fellone, coordinatore nazionale del Sinappe - e i suoi uomini hanno dimostrato grande professionalità, nonostante le carenze di organico ormai croniche cui bisogna far fronte". Ravenna: conferito il Premio "Parole liberate" presso l’infinito di Brisighella ravennatoday.it, 8 agosto 2016 Detenuti poeti: conferito il Premio "Parole liberate". L’iniziativa è nata nel febbraio del 2014 da un’idea dell’autore Duccio Parodi, sviluppata con Michele De Lucia (giornalista e scrittore) e Riccardo Monopoli (attore) Si è svolta sabato sera all’Infinito - Officina creativa di Brisighella, la manifestazione di assegnazione del premio "Parole liberate: oltre il muro del carcere", un premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane. L’iniziativa è nata nel febbraio del 2014 da un’idea dell’autore Duccio Parodi, sviluppata con Michele De Lucia (giornalista e scrittore) e Riccardo Monopoli (attore). L’idea originale di "Parole liberate" è quella - mai tentata prima in Italia - di chiedere ai detenuti non semplicemente di "scrivere una poesia", ma di divenire co-autori di una canzone: il bando prevede, infatti, che la lirica vincitrice sia affidata a un "big" della musica italiana, perché la trasformi in Canzone. Quest’anno tocca a Virginio Simonelli, nuova stella della musica pop italiana, già vincitore del programma di Canale 5 "Amici di Maria de Filippi" nel 2011. L’edizione 2015/2016 è stata vinta da Giuseppe Catalano, detenuto presso il carcere di Opera (Mi). Erano presenti all’appuntamento, oltre ai 3 fondatori: Enrico Maria Papes storico esponente de "I Giganti" che ha interpretato alcuni brani dallo spettacolo "…se fossi Fabrizio…" accompagnato dal noto pianista Pape Gurioli; Michele Cucuzza, giornalista e conduttore televisivo, Zhang Changxiao, giovane manager cinese esportatore della cultura musicale italiana in Cina, Zhang Chu il più apprezzato cantautore cinese, gli attori Monica Vergassola e Marco Sani, Marta Palazzi attivista per i diritti civili. La terza edizione (2016/2017) sarà dedicata alla memoria di Marco Pannella. Durante la serata gli organizzatori del premio "Parole liberate" hanno a più riprese sottolineato lo scopo primario del concorso, di contribuire attraverso la combinazione tra musica e parole, l’informazione e la sensibilizzazione verso l’opinione pubblica sulle condizioni delle carceri in Italia, e sui problemi che incontrano le persone detenute una volta scontata la pena. Salerno: domani i detenuti dell’Icatt di Eboli in scena a Giffoni Teatro gazzettadisalerno.it, 8 agosto 2016 "Le Canne Pensanti", Compagnia teatrale (in)stabile formata dai detenuti della Casa di Reclusione di Eboli presenta alla 19^ edizione di Giffoni Teatro lo spettacolo "Purché sia Purè". L’8 agosto, alle ore 21.00, gli attori della Casa di Reclusione di Eboli calcheranno la scena che è stata di Giorgio Albertazzi, Michele Placido, Vincenzo Salemme, Mario Scarpetta, Peppe Barra, Luca De Filippo, Riccardo Garrone, Lina Sastri, ai nuovi interpreti quali Carlo Buccirosso, Paolantoni, Brignano, Lello Arena, Gianfranco Jannuzzo, Biagio Izzo, Pino Insegno, Alessandro Siani, reggendo senza ombra di dubbio, il confronto con i mostri sacri del teatro italiano. Forti dell’ormai consolidata esperienza di attori ma, soprattutto della grandissima voglia di riscatto, i protagonisti, di quella che è un’esperienza che ormai va ben aldilà del chiuso circuito penitenziario, facendo propria la filosofia di chi dirige l’istituto, portano da anni avanti un lavoro che li vede costantemente impegnati nella ricerca, nella lettura, nello studio e nella proposta delle varie forme di spettacolo grazie alle quali si realizza quanto il Direttore dell’Istituto a Custodia Attenuata ebolitano, dott.ssa Rita Romano che, nella brochure di presentazione della rassegna teatrale "Diversamente liberi", quest’anno alla sua terza edizione, scrive: "la rassegna vuole essere un momento di confronto tra esseri umani giocato sul filo sottile e delicato delle emozioni. Grazie alla finzione scenica non si è reclusi ma diversamente liberi in mondi solo apparentemente diversi che si incontrano e si confrontano". La rassegna teatrale "Diversamente liberi" prende il nome dall’omonimo periodico d’informazione sociale che alcuni ospiti dell’Icatt pubblicano mensilmente grazie alla collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale Mi girano le ruote di Campagna presieduta dalla dott.ssa Vitina Maioriello. Il Teatro diventa "dentro" una forma di terapia, un’attività che aiuta nel percorso educativo che punta al reinserimento sociale di giovani che hanno vissuto esperienze negative e che, mossi dal desiderio di ripartire, preparano qui il loro "fuori" con l’aiuto di un’Istituzione la cui azione è ispirata ai fondamentali principi espressi dalla nostra Costituzione che qui trova piena e totale attuazione. L’ondata di migranti dalla Sicilia alla Liguria e il sospetto di una "regia" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 agosto 2016 Il Viminale: gli antagonisti stanno sfruttando il caos. Agli stranieri avrebbero suggerito di dirigersi subito alla frontiera italo-francese. Il rischio è che la situazione possa degenerare. Potrebbe esserci una strategia dietro il continuo arrivo di migranti a Ventimiglia. Le verifiche effettuate dalla polizia sull’aumento delle presenze nell’area del valico con la Francia fanno emergere un flusso che dalla Sicilia porta direttamente in Liguria. Anche per questo si è deciso di intensificare i controlli, e soprattutto la vigilanza, in tutta la zona dove ormai da oltre un mese stazionano gli stranieri. E di farlo con pattuglie miste italo-francesi proprio per poter garantire un maggiore controllo del territorio con un sistema simile a quello applicato per i tifosi in occasione delle partite ad alto rischio. Il rischio è che la situazione possa degenerare, soprattutto dopo la decisione della Svizzera di applicare le norme sui respingimenti che di fatto stringe l’Italia in una morsa, visto che l’Austria ha già da tempo sospeso il trattato di Schengen. Cento uomini al giorno - Tra gli stranieri accampati sugli scogli - molti sono sudanesi - c’è chi avrebbe addirittura ammesso di aver ricevuto il suggerimento di dirigersi direttamente alla frontiera con la rassicurazione che non ci sarebbero stati problemi per attraversarla. Le indagini avviate riguardano sia i terminali delle organizzazioni criminali che gestiscono gli spostamenti di chi ha pagato per arrivare in Italia e spesso per raggiungere altri Stati dell’Europa, sia i "No borders" che avrebbero deciso di sfruttare questi movimenti proprio per la loro protesta. Il potenziamento del dispositivo di sicurezza prevede anche un incremento dell’attività di prevenzione antiterrorismo. I responsabili dell’ordine pubblico hanno pianificato un presidio di 100 agenti al giorno, che ieri sono diventati 200 in occasione della prevista manifestazione dei "No borders". Il doppio filtraggio - Uno spiegamento eccezionale nel timore che la situazione possa all’improvviso degenerare, ma anche che l’affollamento possa consentire a qualcuno determinato a compiere un’azione eclatante di mescolarsi tra la folla e poi agire. Un’eventualità che si è dimostrata più che possibile analizzando il video girato il 4 ottobre 2015 che mostrava l’attentatore di Nizza Mohamed Lahaouiej Bouhlel mentre protesta insieme ad altri migranti nel corso di una manifestazione organizzata proprio dai "No borders". Del resto sono state proprio le indagini sulla strage della Promenade ad aver dimostrato i continui passaggi dello stesso Bouhlel e dei suoi presunti complici tra la Francia e l’Italia. I poliziotti italiani e francesi si muovono dunque in maniera coordinata. Il sistema applicato è quello del doppio filtraggio, che prevede un primo controllo nelle stazioni dove i manifestanti e i migranti arrivano. E una seconda verifica prima che si avvicinino all’area del confine. Alcuni riescono a passare la frontiera a bordo dei treni che vanno verso nord e poi tornano indietro a piedi o in macchina proprio nella speranza di sfuggire all’identificazione. Ma sono davvero pochi quelli che riescono nell’impresa. Altri arrivano direttamente in pullman o in auto. La protesta violenta - Una segnalazione ha consentito domenica di bloccare tredici persone (tra cui due italiani) che si accingevano a partecipare alla protesta. I sei fermati (cinque francesi e un’italiana) armati di mazze e armi da taglio facevano parte proprio di questo gruppo. Ieri la manifestazione è stata sospesa, la sensazione dei responsabili della sicurezza è che l’emergenza sia però tutt’altro che conclusa. Anche perché la chiusura di tutti i valichi che consentono il transito verso i Paesi del Nord sta facendo salire la tensione tra quei migranti che avevano ricevuto l’assicurazione di poter raggiungere i propri parenti fuori dall’Italia. Accade a Ventimiglia, ma accade anche a Como e nelle zone vicine con una tensione che cresce di ora in ora. La polizia sta organizzando "sfollamenti" di 50 migranti al giorno - soprattutto quelli che vengono "riconsegnati" dalle autorità francesi - in modo da trasferirli al Sud in attesa del rimpatrio o reinserirli nel circuito dell’accoglienza. Con un impegno straordinario che alla fine coinvolge migliaia di agenti. Migranti, Alfano: "Contro il governo polemiche pretestuose" di Carmelo Lopapa La Repubblica, 8 agosto 2016 Per il ministro dell’Interno "se Ventimiglia non è diventata la Calais italiana è grazie ai controlli che hanno ridotto i flussi". Preoccupazione per la Turchia: "Se Erdogan aprisse i cancelli sarebbe devastante per l’Europa". "Sul confine di Ventimiglia, anche su quel varco italo-francese, ci giochiamo l’Europa. E noi lo stiamo gestendo con la massima efficienza possibile, in una fase di vera emergenza sul fronte immigrazione. Stiamo salvando Schengen e dunque l’Unione". Nulla da rimproverarsi dunque, ministro Angelino Alfano? La tensione cresce, dopo i tafferugli di due giorni fa e la morte dello sfortunato poliziotto, la destra invoca il "pugno duro", accusa il governo di essere "latitante". "Deve essere chiaro a tutti: se Ventimiglia non è diventata fin qui una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli ferroviari, e non solo quelli, in grado di ridurre anziché incrementare il flusso. E contemporaneamente abbiamo smistato in altri centri i migranti che lì pressavano. I dati parlano chiaro". Il movimento No Borders che ha provocato gli incidenti è un altro problema? "Gli scontri avvenuti sono la prova che ci sono organizzazioni che nulla hanno a che fare con mi migranti e che hanno tutto l’interesse a strumentalizzare l’emergenza per fini politici se non eversivi. E con questi soggetti abbiamo utilizzato le maniere forti, denunciando anche No Borders. Anche stavolta grazie ai servizi di controllo preventivo abbiamo fermato persone trovate in possesso di armi improprie. Non ci sarà alcuna indulgenza nei confronti di chi strumentalizza la migrazione. Le opposizioni fanno il loro mestiere. La verità è un’altra: che fin qui noi non abbiamo avuto i problemi che hanno avuto i francesi e gli inglesi a Calais. Il sistema fin qui ha funzionato". Nulla da contestare neanche alla gestione del confine da parte delle autorità francesi? "Con la Francia stiamo avendo una cooperazione buona e proficua per evitare che salti del tutto Schengen. I migranti non stanno a Ventimiglia perché preferiscono quella spiaggia rispetto a quelle siciliane, ma perché vogliono arrivare in Francia attraverso quel varco. Noi abbiamo il compito di far rispettare le regole europee e le si fanno rispettare impedendo loro di entrare in Francia. Se terremo questa linea e proseguirà lo smistamento in altri centri, in molti smetteranno di provarci. Tanti dimenticano che due mesi fa l’Austria voleva costruire un muro al Brennero per impedire il passaggio dei migranti. Se quel muro non è stato costruito lo si deve solamente alla nostra coraggiosa gestione delle frontiere, che sono il cuore della sopravvivenza dell’Europa". Ma l’emergenza continua e l’Europa non è al sicuro. Erdogan minaccia di far saltare gli accordi sull’immigrazione con l’Ue. L’argine turco potrebbe crollare. Avete un piano, pensate a delle misure per fermare nell’eventualità la rotta balcanica verso l’Italia? "È chiaro che se la Turchia aprisse i cancelli sarebbe qualcosa di devastante per l’Europa tutta. L’attenzione internazionale e l’allerta devono essere alte. Dal 2015 ad oggi abbiamo controllato 344 navi per tenere sotto osservazione i flussi su una rotta di potenziale interesse per i foreign fighters. Le evoluzioni tur che sono preoccupanti perché lì come altrove la migrazione diventa una formidabile arma di pressione anche nelle relazioni diplomatiche. E la Turchia di profughi sul suo territorio ne conta a milioni. Detto questo, Erdogan ricordi i diritti umani, ma noi ricordiamo cosa è stato delle primavere arabe, quando si è ritenuto che cacciando chi governava alcuni paesi, tra i quali la Libia, sarebbero arrivati democrazia e tempi migliori". Altro capitolo caldo, il finanziamento delle moschee. Come state monitorando la situazione? È pensabile a una qualche forma di 8 per mille anche per le comunità islamiche? "No, in questo momento siamo assolutamente lontani dall’8 per mille. Ma la Guardia di Finanza sta costituendo una unità speciale col compito di verificare i flussi di finanziamenti, che dovranno essere assolutamente tracciabili per valutare se contengono o meno il germe del radicalismo e dunque potenzialmente della violenza e del terrorismo. Sarà fondamentale arrivare a uno "statuto" dell’Islam italiano, che dica basta agli Imam fai da te, che stabilisca che si debba predicare in italiano e che consenta appunto di tracciare i finanziamenti". State moltiplicando in queste settimane arresti e espulsioni. Vuol dire che sono aumentati i controlli o che stanno proliferando anche in Italia i cantieri di potenziali attentati? "È in corso e non da ora un’imponente opera di bonifica che prescinde dalla sussistenza di condizioni per l’arresto". Ovvero? Ci spieghi meglio. "Vuol dire che stiamo procedendo alle espulsioni anche se non si riscontrano le condizioni per incriminare e dunque fermare chi fa opera di proselitismo di matrice terroristica o manifesta la volontà di aderire alla campagna del Califfato. Stiamo tenendo sotto pressione il nostro sistema di sicurezza, non è successo nulla finora ma questo non ci lascia tranquilli. Cento espulsioni, 160 mila controlli dal gennaio 2015 sono la grigia prevenzione. Altro che "governo latitante": nessuno potrà dire che non stiamo usando tutti gli strumenti per impedire un attacco". Così i migranti hanno salvato il borgo destinato a scomparire di Nadia Ferrigo La Stampa, 8 agosto 2016 Nella Locride l’integrazione ha rilanciato l’economia locale, tra borghi ristrutturati, nuovi nati e la moneta complementare con Marx, Che Guevara e le vittime di mafia. L’ultima nata a Camini, poco più di duecento anime abbarbicate nella Locride a mezz’ora di curve, erba bruciata e fichi d’india dalla statale, si chiama Giusy. Nomignolo assai comune al Sud, molto meno in Nigeria. Mamma e papà sono tra i centoventi migranti che in Calabria hanno trovato una nuova vita, il nome invece è un ringraziamento a Rosario Zurzolo e Giusy Carnà, marito e moglie a capo del progetto di accoglienza diffusa capace di ripopolare un borgo altrimenti destinato a scomparire. Sulla scia dell’esperienza di Riace, i comuni della Locride hanno aperto le porte al mondo: da queste parti i migranti non sono una minaccia, ma una risorsa. Gioiosa Jonica, Stignano, Benestare, Africo sono solo alcuni dei dodici comuni - altri otto sono in attesa di una risposta - che partecipano allo Sprar, il Sistema di protezione asilo e rifugiati gestito dal ministero dell’Interno. Lo Stato paga vitto e alloggio, oltre a finanziare corsi di italiano e borse lavoro, un apprendistato retribuito che dà una mano anche alle piccole imprese a corto di liquidi. In una delle terre più povere e spopolate d’Italia lo spazio per ospitare le famiglie arrivate dal mare non manca, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali ed educatori nemmeno. Così ci guadagnano tutti: i migranti e la cittadinanza. La paghetta giornaliera che viene data ai rifugiati e che torna ai commercianti della zona sotto forma di banconote colorate può fare la differenz a. La moneta complementare ideata dalla Rete dei comuni solidali si può spendere solo in paese, viene poi convertita in euro dai negozianti: porta i volti di Che Guevara e Antonio Gramsci, ma anche di Peppino Impastato e Gianluca Congiusta, giovane negoziante assassinato dalla ‘ndragheta nel 2005 perché si rifiutò di pagare il pizzo. Per la Locride la rete di accoglienza ha un valore in più: è un pezzo di Stato che funziona, e bene. "Il minimarket stava per chiudere, le elementari avevano solo una pluriclasse - racconta Rosario, in perenne movimento tra le stradine di Camini -. Gli ultimi arrivati sono quaranta bambini siriani, dobbiamo occuparci di cure sanitarie, psicologiche e della scuola. Noi li aiutiamo, ma senza di loro il nostro paese non ci sarebbe più". Nei progetti di Rosario ci sono anche un ristorante internazionale, un’enoteca e una rete di turismo solidale. Il tutto gestito dalla cooperativa e dai suoi ospiti, che intanto imparano un mestiere come Muhamad Hiwa, ex soldato iracheno che da due anni vive in paese con moglie e tre figli, un quarto in arrivo. Lui fa il muratore, c’è chi si cimenta con le conserve, altri con la falegnameria. A raccontare la loro storia sono arrivate anche le telecamere di National Geographic e quelle del governo austriaco: la Locride come eccellenza da esportare in Europa. Il razzismo non appartiene a queste terre, dove quasi tutti sono stati a loro volta migranti. "A giugno di sedici anni fa sbarcarono sulla nostra spiaggia in 180. Senza stare a chiedere nulla, la città intera portò cibo, vestiti, medicine", racconta Francesco Candia, quarto mandato da sindaco di Stignano, 1300 abitanti e 40 rifugiati, di cui sette minori. Il lavoro è la preoccupazione che unisce e divide. Se c’è chi segue il modello Riace, altri preferiscono tenere i numeri bassi. "La prima cosa è imparare l’italiano, poi vogliamo essere sicuri che quando se ne andranno avranno di che mantenersi - spiega il sindaco -. Di posti qui ce ne sono pochi, per tutti. È bellissimo aiutare chi ne ha bisogno, ma noi preferiamo un modello di accoglienza artigianale". Qualcuno che borbotta c’è. Soprattutto se si parla dei cosiddetti migranti economici, che scappano dalla fame in cerca di fortuna. A Gioiosa Jonica i ragazzi sono 75, tutti "singoli". "All’inizio le mamme non mandavano i bimbi a giocare in piazza perché c’erano anche i "neri" - racconta Sonia Bruzzese, assistente sociale a Gioiosa-. Il tempo, la conoscenza reciproca e il ritorno economico hanno contribuito a sciogliere la tensione". Qualcuno ha trovato un impiego in regola, gran parte va a lavorare in nero nei campi. Ogni giorno c’è qualcuno pronto a sistemare una piazzetta abbandonata, ripulire una strada. Senza chiedere nulla in cambio: piccoli gesti, capaci di dimostrare che la ricetta dell’integrazione funziona, anche dove proprio non te lo aspetti. Cannabis: stralci e veti, il Parlamento non la pianta di Giovanna Casadio La Repubblica, 8 agosto 2016 "No, no, no. Sono per lo stralcio della parte che disciplina meglio l’uso terapeutico della cannabis per il quale sono favorevole. A mio figlio Gian Maria che ha 14 anni e mezzo non saprei come spiegare che sua madre, che gli ha sempre insegnato di stare alla larga dalle droghe che bruciano il cervello, poi in Parlamento voti a favore della loro vendita in tabaccheria". Stefania Prestigiacomo, liberal di Forza Italia, quand’era ministro delle Pari Opportunità si lasciò andare a una dichiarazione che fece il giro dei media e cioè che "pur non essendo favorevole a nessuna droga, uno spinello è come la birra del sabato sera e non è da confondersi con le droghe pesanti". Tuttavia sulla legalizzazione della cannabis approdata nell’aula della Camera prima delle ferie, e subito inabissatasi, non ci sta. Nessuna maggioranza trasversale in vista. A settembre la legge sulla cannabis torna in aula ma, scommette la presidente della commissione Giustizia, la dem Donatella Ferranti, sarà rispedita in commissione. Dove peraltro è rimasta a lungo sommersa da mille e 700 emendamenti. Lo stato dell’arte segnala quindi un intergruppo a favore della legalizzazione a cui hanno aderito 220 parlamentari. Pochi, per immaginare che il provvedimento veda la luce così com’è. I 5Stelle sono favorevoli a stragrande maggiorana: 87 su 91 hanno sottoscritto il manifesto lanciato da Benedetto Della Vedova e da Roberto Giachetti. Il Pd invece è spaccato. Anche se Mario Tullo, dem genovese, politico concreto a cui è stato affidato il conteggio nel partito, calcola che il numero è passato da 85 a 104 favorevoli alla legalizzazione. "La strada per la riduzione del danno", commenta. Altre firme si sono aggiunte. Però rischia di essere la buccia di banana su cui la maggioranza di governo può scivolare. I centristi di Alfano hanno alzato le barricate. I cattolici dem sono allenati e, come sulla stepchild (l’adozione del figlio del partner in una coppia gay) quando si discuteva di unioni civili, chiedono lo stralcio. In effetti a spacchettare la legge sulla cannabis sta pensando Margherita Miotto. "Si porta avanti quella parte che riguarda solo l’uso della cannabis a fini terapeutici", spiega. Il dem Franco Monaco dissente profondamente non solo dal provvedimento ma dal ruolo che sta giocando il Pd: "Cosa stiamo diventando, un partito radicale allargato?". Dai Radicali e dall’associazione Luca Coscioni è partita la raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che rilancia e allarga la battaglia anti proibizionista. Sul sito Legalizziamo.it è illustrata l’iniziativa: legalizzare la cannabis e decriminalizzare l’uso di tutte le sostanze secondo l’esperienza del Portogallo che - dicono i radicali - ha portato a risultati di un calo consistente nel consumo. A Montecitorio, subito alla ripresa dì settembre, nel calendario d’aula ci sono l’assestamento di bilancio e la legge sulla legalizzazione della cannabis. Turchia: un milione di persone con Erdogan. "Pena di morte se il popolo la vuole" La Repubblica, 8 agosto 2016 La manifestazione dopo golpe e richiami Ue. Partecipano anche i leader dei partiti di opposizione Chp e del Mhp. Non invitato il Partito filo-curdo Hdp. Per la sicurezza schierati 15mila poliziotti e 13mila civili. Altre manifestazioni nel Paese. Polemiche contro la Germania. "Se il popolo vuole la pena di morte, i Partiti seguiranno la sua volontà". Le parole minacciose del presidente Erdogan sono risuonate da Istanbul, dove oltre un milione di persone è sceso in piazza su invito del leader turco contro il golpe fallito del 15 luglio e si sono diffuse in tutto il Paese dai maxischermi piazzati nelle 81 province dove si sono svolte altrettanti manifestazioni. "Molti altri Paesi hanno la pena di morte", ha aggiunto Erdogan sfidando gli appelli che in questi giorni gli sono stati rivolti dai leader europei: "Approverei la pena di morte se il Parlamento votasse per introdurla", ha sottolineato. "Non agiremo con una motivazione di vendetta ma dentro lo stato di diritto", aveva detto in precedenza il premier Binali Yildirim facendo riferimento alle oltre 60mila persone - militari, giudici, dipendenti pubblici e insegnanti - licenziati, arrestati o indagati per sospetti legami con il movimento di Fethullah Gulen, auto-esiliatosi negli Stati Uniti dal 1999. Il religioso è accusato di essere la mente dietro il colpo di stato e la Turchia ha chiesto la sua estradizione. "Gulen verrà in Turchia e pagherà per quello che ha fatto", ha assicurato il premier turco Binali Yildirim, durante la manifestazione. Sono state più di un milione, secondo vari media internazionali, le persone arrivate nella spianata di Yenikapi, nella parte europea di Istanbul per il mega-raduno definito "per la democrazia e per i martiri" voluto dal presidente. Con le altre iniziative simili che si sono svolte in numerose località della Turchia, secondo l’agenzia di stampa Anadolu il numero dei manifestanti raggiungerebbe i tre milioni, come previsto dal governo. "Venendo qui avete creato un quadro meraviglioso di grande gloria e di grande unità. E questa unità è la fonte della nostra forza che dà fastidio ai nostri nemici. Restiamo uniti, fratelli, noi siamo un unico popolo, il popolo della Turchia", ha detto Erdogan. "Queste immagini di unità danno fastidio a nemico ma noi lanciamo un segnale al nostro nemico e cioè che verrà sconfitto", ha aggiunto il presidente. Ad Istanbul sono state posizionate 2,5 milioni di bandierine turche, 1,5 milioni di cappellini e 5 milioni di bottigliette di acqua. Il trasporto pubblico, gratuito dal 16 luglio, sarà rafforzato da un dispositivo speciale di 250 traghetti e 70 autobus, mentre coloro che arrivano da Ankara (a 450 chilometri di distanza) avranno a disposizione mille autobus gratuiti. Circa 13mila persone lavoreranno durante la giornata, come parte del dispositivo di sicurezza che prevede anche 15mila poliziotti, 165 metal detector e 22 strumenti a raggi X. chiudere la manifestazione, cui partecipano anche i familiari dei 239 "martiri" del tentativo di golpe, sarà lo stesso Erdogan in serata. Il primo ministro turco, Binali Yildirim, ha fatto sapere che nessuno slogan partitico sarà tollerato che dovranno sventolare solo le bandiere turche e che si tratta di una manifestazione di unità politica delle forze del Paese. "Una sola nazione, una sola patria un solo Stato è lo spirito che deve prevalere", ha detto. La manifestazione di Yenikapi "rafforzerà la nostra unità", ha detto Erdogan nei giorni scorsi, "sono contento per la partecipazione anche dei membri dell’opposizione. Anche se la manifestazione è stata annunciata e promossa da Erdogan, i leader di due dei tre partiti di opposizione, infatti, hanno partecipato ugualmente convocando i loro sostenitori: il segretario del partito socialdemocratico Chp, Kemal Kiliçdaroglu, aveva inizialmente rifiutato di dividere la scena con i funzionari del governo ma venerdì ha annunciato la sua presenza tra i relatori dell’evento. Insieme a lui, il leader del partito ultranazionalista Mhp, Devlet Bahçeli, formazione di destra. Il partito di sinistra pro-curdo Hdo, terza forza del Parlamento, non è stato neanche invitato. Erdogan ha criticato la Germania per non avergli consentito di collegarsi in video durante un raduno di suoi sostenitori a Colonia e ha spiegato che le manifestazioni in Turchia continueranno fino a mercoledì. Il presidente turco ha detto che la Germania ha invece permesso ai militanti curdi di trasmettere in video conferenza. "Dov’è la democrazia? - ha detto Erdogan riferendosi alla Germania - Lasciate che alimentino i terroristi, loro torneranno a colpirli". E quella appena trascorsa è stata un’altra settimana molto difficile nei rapporti tra la Turchia e l’Europa, con il cancelliere austriaco Christian Kern che ha chiesto l’interruzione delle trattative tra l’Ue e Ankara, una richiesta non apprezzata dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, secondo cui lo stop all’adesione sarebbe "un grave errore". Un alt al negoziato con la Turchia è arrivato oggi anche da un leader politico tedesco, Bernd Riexinger, presidente del partito di sinistra Die Linke. "Un governo che dà la caccia ai giornalisti, ridefinisce la giustizia, getta gli oppositori in prigione e fa la guerra al suo stesso popolo non può essere incluso nell’Ue", ha tuonato Riexinger, intervistato dal gruppo editoriale Funke. Si sono spinti anche più in là il leader del Partito liberale tedesco (Fdp), Christian Lindner, ed il leader dell’estrema destra austriaca, Heinz-Christian Strache che in due diverse interviste hanno paragonato la repressione del post-golpe in Turchia a quella che, nel 1933, seguì l’incendio doloso del Reichstag di Berlino e che permise ad Adolf Hilter, proclamando lo stato d’emergenza e gridando al complotto comunista, di consolidare il suo potere. Lindner, in un’intervista alla Bild am Sonntag, sottolinea come Erdogan "sia costruendo un regime autoritario tagliato su misura esclusivamente su sé stessi". E, "siccome i diritti e le libertà individuali non giocano più alcun ruolo - ha scandito il leader dell’Fdp - non può essere un partner per l’Europa". Nei giorni scorsi il presidente turco ha attaccato l’Unione europea e il suo capo della diplomazia, Federica Mogherini, per come hanno reagito al golpe. Erdogan ha sparato bordate anche al nostro Paese: "La vicenda dell’indagine su mio figlio a Bologna potrebbe mettere in difficoltà le nostre relazioni con l’Italia, che dovrebbe occuparsi piuttosto della mafia", ha detto parlando di Bilal, indagato per riciclaggio dai pm emiliani. Turchia: profughi, visti e basi militari i fronti aperti con l’Occidente di Marco Ansaldo La Repubblica, 8 agosto 2016 Dall’accordo sui flussi migratori alla guerra in Siria: ecco perché la Ue teme il possibile asse con Putin. Turchia ed Europa. Molti fronti aperti e poche speranze di incontro. Rapporto difficile, sospettoso, ostile da entrambe le parti. Una relazione in fondo mai decollata dopo la storica ammissione di Ankara nel 2005 come Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea. Ma allora era un’altra Europa. E anche un’altra Turchia, che rispetto alle promesse non ha sciolto tutta una serie di nodi che la mettono in rotta di collisione ora non soltanto con la Ue, ma con l’Occidente. Qui di seguito i più urgenti. La liberalizzazione dei visti - Forse il problema maggiore che si profila: Ankara negli ultimi giorni è tornata a battere il pugno sul tavolo con l’Unione: o si liberalizzano i visti di ingresso entro l’autunno, oppure l’accordo sui migranti sottoscritto a marzo salta. Posizione espressa pochi giorni fa dal ministro turco per gli Affari europei Mevlut Cavusoglu in un’intervista alla Frankfurter Alllgemeine Zeitung: "Se entro inizio o metà di ottobre non ci sarà la liberalizzazione dei visti saremo costretti a prendere le distanze dall’accordo". Dichiarazioni che ricalcano quelle di Erdogan. La questione dei migranti - L’intesa raggiunta in primavera tra Bruxelles e Ankara sembra traballare. Finora, secondo le stime, i migranti irregolari sono stati sufficientemente controllati da Ankara, che ha impedito verso il continente europeo un afflusso generalizzato di persone. Inoltre, la Turchia ospita al suo confine più di 3 milioni di profughi siriani, e l’accordo con la Ue ha stabilito un compenso in aiuti per 6 miliardi di euro. Erdogan lamenta che solo una minima parte sia stata già erogata. Ed è in grado di decidere come regolare il flusso dei migranti che premono alle porte d’Europa. A Bruxelles c’è chi ipotizza un piano B, per togliere la questione (e il denaro) da Ankara e assegnarla ad Atene. Passo che farebbe infuriare Erdogan. La guerra in Siria - Per più di tre anni il governo conservatore di ispirazione religiosa, al potere ad Ankara dal 2002, ha chiuso un occhio sul passaggio - nel suo territorio - di jihadisti che volevano unirsi allo Stato Islamico in Siria e in Iraq. L’intento di Erdogan era quello di ottenere l’abbattimento di Assad, suo ex amico politico e personale. Solo quando il Presidente americano Barack Obama ha fatto la voce grossa, nel 2015, Erdogan ha iniziato a bombardare i seguaci di Al Baghdadi in Siria, ma puntando soprattutto sui guerriglieri curdi che invece li combattono (e che conducono pure una guerra ai militari turchi nel Sud est dell’Anatolia). Ankara considera i ribelli curdi come terroristi, ma la coalizione internazionale li ha come alleati nella guerra contro l’Is. La base di Incirlik - Nel Sud della Turchia ha sede una delle infrastrutture militari più importanti della Nato. La base di Incirlik rappresenta una roccaforte dell’Occidente, per contenere i pericoli che un tempo venivano dall’Unione Sovietica, e oggi dal Medio Oriente. Qui la Turchia ha almeno 50 testate nucleari. Ankara ha adottato una politica sempre più provocatoria sulla base militare - dalla quale partono gli aerei per bombardare la Siria - e l’installazione viene chiusa o riaperta a piacimento. Di recente il capo di Stato maggiore americano, generale Dunford, è andato a discutere con il premier turco Yildirim per affrontare la questione. L’abbraccio con Putin - Russia e Turchia avevano rotto i rapporti dopo l’abbattimento (novembre) di un Sukhoi che per 17 secondi era entrato nello spazio aereo turco. Mosca reagì non spedendo nemmeno un turista sulle coste turche, contribuendo a mettere in ginocchio la stagione estiva del Paese, già falcidiata da attacchi e attentati. Erdogan ha poi scritto una lettera al portavoce di Putin, e il rinnovo delle relazioni sarà siglato domani, nel vertice di San Pietroburgo. Summit che potrebbe siglare un nuovo patto Mosca-Ankara, in chiave antieuropea e antioccidentale, formando un inedito asse. Libia: a Sirte, nell’ultimo avamposto. "Così sconfiggeremo l’Isis" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 agosto 2016 A venti metri da noi i cecchini di Isis caricano di continuo i loro fucili ad alta precisione. Sono colpi secchi. Ogni tanto una raffica nervosa. Seguita da altre più lunghe, più intense. Sopra le nostre teste, i muri di cemento grezzo sono segnati da nuovi ghirigori di fori da proiettili in entrata, vanno a morire in una nuvoletta di fumo grigio che odora di polvere e zolfo. "Qui devi correre. Qui abbassa la testa, stai contro quella parete, riparati dietro quella porta di ferro", dice Ayman, il 23enne che si offre di guidarci sulla prima linea. Avvicinandoci, le stanze delle abitazioni sono via via sempre più ingombre di macerie, infissi sventrati, sporcizia avviluppata nei tappeti, cibo che imputridisce tra nugoli di mosche e olezzo. Sono i resti dei bivacchi dei miliziani. Sino a otto giorni fa erano quelli lasciati dai jihadisti di Isis, che si mischiano ora con quelli più freschi degli uomini della rivoluzione libica in avanzata. Tra le macerie - È una corsa guidata dall’adrenalina e, per chi come noi giunge dalle retrovie, dalla paura del pericolo incombente, onnipresente, che però non conosci. I colpi arrivano improvvisi. Ci si deve fidare dei cartelli precari scritti in arabo su tavole di legno e cartoni. "Non proseguire, cecchini", indicano con l’aggiunta di una freccia in rosso per il passaggio meno esposto. Sulla straducola che divide la zona liberata del quartiere "hei dollar", così chiamato per il fatto che era abitato dalle famiglie ricche che sostenevano Gheddafi, da quella ancora nelle mani dei combattenti del Califfato, siamo al capolinea. Più in là c’è Isis. Per raggiungerlo si deve passare per buchi scavati nei muri nelle case, superare porte sfondate e poi rimesse precariamente in piedi con appoggiate traversine di ferro che servono a lanciare l’allarme in caso di sortite nemiche. La zona è presidiata da una brigata di combattenti del quartiere di Tajura, a Tripoli. Giovani e giovanissimi con capelli e barbe lunghe. Sembrano godere della mobilia lussuosa, i tappeti colorati, le specchiere e le cucine lucenti, si sono bene organizzati con ghiacciaie mobili che contengono Fanta e Pepsi. Il loro rancio è a base di uova, peperoni, hummus e tonno in scatola. Qualcuno si occupa di raccogliere i fichi che maturano copiosi nei giardini. I raid Usa - "Gli americani fanno la differenza? Certo che la fanno. I loro raid avvengono soprattutto di notte. Di giorno mandano i droni in esplorazione, udiamo il ronzio. E con il buio arrivano gli attacchi. Colpi sempre molto precisi. Ma pochi. Troppo pochi. Sino ad ora hanno distrutto tre o quattro tank, un garage dove Isis riparava i mezzi, alcuni blindati e un paio di depositi. Purtroppo gli arsenali più importanti sono nascosti nei sotterranei. I missili intelligenti made in Usa non li possono individuare", dice Abdelaziz Othman, il 26enne che accetta di parlare ben contento di portarci ad un foro sbrecciato di proiettile dove, affacciandosi con circospezione, è possibile vedere i movimenti nelle postazioni di Isis. Qui due giorni fa un suo amico di giochi è stato freddato da un colpo che ha attraversato il braccio sinistro e il polmone vicino al cuore. "È soffocato nel suo sangue". "Non facciamo prigionieri" - Parlando con lui e i suoi uomini è possibile capire il carattere urbano e complicato dell’ultima sfida per Sirte. "Gli americani non potranno mai vincere solo dall’aria. A meno che non la radano al suolo sistematicamente. Ma è ovvio che non lo vogliono assolutamente fare", spiega Hassan Almagashush, il 36enne capo della brigata "Mujahed", di Misurata, da tre mesi impegnato nella battaglia. Una classica guerriglia urbana, che ricorda quelle ormai tristemente famose degli ultimi anni in Iraq e Siria. E più Isis sarà costretto nel cuore dei suoi ultimi nidi di resistenza, più sarà combattuta strada per strada, casa per casa, stanza per stanza. Nessuno fa prigionieri. "Isis ci taglia la testa. Noi, se li prendiamo vivi (ma è rarissimo perché si fanno saltare in aria), prima li interroghiamo, poi li eliminiamo con un proiettile", dice un giovane dall’aria di uno che non dice tanto per dire. A pochi metri da questa complicata linea del fuoco che zigzaga tra vicoli, giardini e villette, scopriamo che ogni blocco di case ha una sua guida che conosce gli ultimi sviluppi nel suo settore, indirizza per viottoli relativamente al riparo da cecchini e soprattutto cariche esplosive. "Isis le piazza di notte e sono diventate l’incognita più pericolosa. Sono vere mine nascoste tra le macerie, sotto la sabbia, appoggiate a cancelli e portoni. Rappresentano la causa maggiore delle nostre perdite", dice Suahib, 24enne, a sua volta di Misurata. Frigoriferi e Internet - Hassan lo sta contattando per una missione importante. A Misurata sono vicini di casa. Si conoscono dalle elementari. E cerca con lui di terminare una sorta di censimento delle forze sul campo. Hassan è parte di un comitato formato da 8 capi milizia incaricati di fare ordine tra i loro ranghi. Devono contarsi, valutare chi combatte davvero e chi fa solo atto di presenza per ottenere poi soldi, incarichi e onori dal governo di Tripoli sostenuto dalla comunità internazionale. È un problema che avevano anche durante la rivolta contro Gheddafi nel 2011. Ma adesso i comandi di Misurata e Tripoli devono provare agli americani e ai loro alleati che non sono più un’armata Brancaleone, che hanno un’organizzazione credibile e centralizzata. C’è una sorta di nuova polizia militare che pattuglia le strade del "quartiere 700": il nome gli venne dato negli anni Novanta, quanto Gheddafi volle premiare i suoi fedelissimi a Sirte costruendo appunto 700 ville. E qui adesso stanno acquartierati i comandi delle milizie. Hanno generatori, frigoriferi, depositi di carburante e di cibo, alcune sono riuscite persino a costruirsi un centro con collegamento a Internet. I telefoni invece non funzionano, se non quelli satellitari. Abu Obeid, un altro giovane delle milizie scelte, spiega che la loro avanzata di quasi un chilometro a "hei dollar", terminata due giorni prima dell’inizio dei raid Usa (ci tiene a sottolinearlo), li ha portati faccia a faccia con un gruppo di Isis comandato da un ex ufficiale di Gheddafi alla testa di jihadisti tunisini, egiziani e sudanesi. "Ma è ovvio che contro di noi ci sono anche libici, tanti libici locali, conoscono il territorio, combattono a casa loro", afferma. Il centro Ouagadougou - Per capire meglio come la geografia della battaglia sta cambiando grazie all’intervento americano ci rechiamo tra le brigate che accerchiano Ouagadougou, il gigantesco centro congressi voluto da Gheddafi e costruito su di una collina dall’italiana Impregilo dal 1992 al 1996. Lo osserviamo da un buco di proiettile in un muro a un chilometro di distanza. "È qui che gli americani colpiscono più di frequente per il fatto che si trova in una zona aperta, lontana dalle abitazioni civili, facile da individuare", dicono i giovani che lo sorvegliano sotto tendoni di fortuna al riparo dal sole del pomeriggio. Uno di loro con la cartina della zona in mano mostra le postazioni di Isis. In meno di un mese si sono ridotte ad una striscia di nidi di resistenza che corre da Nord a Sud nella cerchia urbana, dal mare al deserto, per circa sette chilometri, in alcuni punti larga solo poche centinaia di metri. "Isis l’anno scorso aveva ribattezzato Ouagadougou con il nome di Falluja. Pensava, si illudeva che la sua centrale in Libia resistesse come quella in Iraq. Ma ora Falluja è caduta, per Sirte ci vorrà qualche settimana in più", esclama Hassan. Quanto tempo occorra però è difficile stabilire. A fine giugno erano convinti fosse solo "una questione di giorni". Ora quelli che stanno davvero sulla linea del fuoco sono molto più cauti. Un nemico sfuggente - "Mai sottovalutare il nemico. Isis ha combattenti esperti, ben addestrati e coraggiosi. Venderanno cara la pelle. Abbiamo notato la loro grande capacità di adattamento. I loro sotterranei sono ancora ben forniti e pare che neppure le bombe americane riescano a centrarli", spiegano nel centro comando e controllo situato non lontano dall’ospedale da campo. Una delle armi più usate da Isis, oltre ai cecchini e alle mine, sono le auto-bomba blindate in modo artigianale nelle loro officine locali. Veri proiettili kamikaze coperti da lastre di acciaio saldate. Nulla possono contro di loro le mitragliatrici e i fucili delle brigate che li accerchiano. "Abbiamo avuto oltre 350 morti e migliaia di feriti - lamentano. Se anche voi italiani collaboraste attivamente con gli americani, la caduta di Isis sarebbe più veloce". Iran: sparito, celebrato, poi impiccato. La fine di Amiri, scienziato nucleare di Viviana Mazza Corriere della Sera, 8 agosto 2016 Scomparso alla Mecca durante il pellegrinaggio nel 2009, era riapparso a Washington. Gli americani dicono che aveva defezionato, lui dichiarò di essere stato rapito dalla Cia. Nel 2010 il brillante scienziato nucleare iraniano Shahram Amiri venne accolto all’aeroporto di Teheran con abbracci e fiori, come un eroe, al ritorno dagli Stati Uniti. Quattro anni dopo, la sua famiglia ha rivelato che era finito in una prigione iraniana. E ieri la madre ha riavuto il cadavere di Amiri: attorno al collo, i segni della corda con cui è stato impiccato. Il portavoce della magistratura Gholamhosein Mohseni Ejehi ha confermato ieri l’esecuzione: "Aveva fornito al nemico informazioni vitali sul Paese". La storia di questo scienziato trentanovenne è uno dei misteri che circondano il programma nucleare dell’Iran. E il fatto che Teheran abbia raggiunto un anno fa un accordo con l’Occidente non l’ha aiutato. La Cia e e le "pressioni psicologiche" - Amiri era sparito nel giugno 2009 durante il pellegrinaggio alla Mecca. Riapparve 13 mesi dopo a Washington, alle 18.30 davanti al cancello dell’ambasciata pachistana, che ospitava anche la sezione di interessi iraniana. Alle autorità iraniane disse di essere stato rapito dalla Cia e sottoposto a "intense pressioni psicologiche per fargli rivelare informazioni sensibili". Aggiunse che volevano rimandarlo in Iran attraverso gli Emirati, ma che l’operazione era fallita per il no delle autorità locali, così alla fine lo avevano accompagnato all’ambasciata pachistana. Queste dichiarazioni erano state precedute da una serie di video contraddittori pubblicati su YouTube: nel primo, lo scienziato raccontava che americani e sauditi lo avevano sequestrato e portato a Tucson, in Arizona; nel secondo negava tutto, dicendo di trovarsi bene in America; nel terzo, sosteneva di essere riuscito a scappare e di trovarsi in Virginia. La verità degli americani - Diversa la verità degli americani: Amiri avrebbe defezionato e rivelato spontaneamente una quantità di particolari sul programma nucleare iraniano che avrebbero permesso il passaggio di nuove sanzioni economiche. Fonti di intelligence, citate nel 2010 dalla tv Abc, spiegarono che lo scienziato aveva collaborato con la Cia, ma dopo un po’ aveva iniziato ad avvertire l’isolamento e la mancanza della sua patria e della sua famiglia. La moglie e il figlio erano rimasti in Iran. Gli era stato permesso di chiamare casa due volte: la seconda volta aveva risposto un funzionario iraniano che aveva minacciato di far del male ai suoi familiari. Poi, sempre secondo questa ricostruzione, la Cia avrebbe scoperto che Amiri aveva registrato via webcam un colloquio con un agente dei servizi di Teheran in cui affermava di essere stato rapito. Il secondo video di smentita pubblicato sul web si spiegherebbe dunque come un tentativo americano di sistemare le cose. Alla fine, comunque, la Cia avrebbe scelto di riconsegnare l’uomo: forse perché cinicamente non serviva più, forse perché impossibile da gestire, forse perché sospettavano che fosse un agente doppio, o ancora forse perché servì da contropartita per il rilascio di tre giovani escursionisti americani arrestati al confine tra Iraq e Iran. Detenuto in una località segreta - All’aeroporto di Teheran, Amiri sorridente teneva in braccio un ragazzino, il figlio, poi sollevava il braccio destro mostrando il segno della vittoria scortato da tre funzionari iraniani. Dopo quella iniziale accoglienza festosa, ben poco è noto di cosa sia successo. L’anno scorso il padre dello scienziato rivelò che Amiri era stato arrestato nel 2011 e processato (per tradimento, pare), poi detenuto in una località segreta. Alla famiglia era stato permesso di incontrarlo una volta, ed era stata consegnata loro la lettera di una commissione parlamentare che assicurava che sarebbe stato trattato con "compassione islamica". "Mi avevano detto che mio figlio era stato perdonato - disse il padre l’anno scorso, intervistato dalla Bbc. Ma mentivano". Iran, quella corda al collo dei sodomiti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 agosto 2016 Due settimane fa l’Ong Iran Human Rights aveva segnalato una rivelante riduzione del numero di esecuzioni fatte registrare in Iran nei primi sei mesi e mezzo dell’anno: "solo" 250, sempre più di una al giorno ma molte di meno rispetto allo stesso arco temporale del 2015. Le autorità iraniane hanno presto provveduto a rimettere le cose a posto. Venerdì scorso, 20 oppositori sunniti di etnia curda sono stati impiccati per reati di terrorismo. Il giorno dopo è stata la volta dello scienziato nucleare Shahram Amiri. In precedenza, era arrivata la terribile notizia dell’impiccagione, avvenuta il 18 luglio, di Hassan Afshar: messo a morte a 19 anni, dopo essere stato arrestato a 17 per un reato di sodomia che avrebbe commesso a 16. Il condizionale è d’obbligo: secondo l’accusa, il rapporto sessuale sarebbe stato frutto di violenza, secondo la difesa consensuale. Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che l’Iran ha eseguito l’ennesima condanna a morte nei confronti di un minore di 18 anni al momento del reato, atto del tutto illegale sulla base del diritto internazionale, oltretutto per un reato (a volerlo chiamare tale) che non può far minimamente parte dei "crimini più gravi" per i quali le norme internazionali considerano ancora lecita la pena capitale. Il 3 agosto avrebbe dovuto essere eseguita un’altra condanna a morte di un minorenne al momento del reato. Ma, come già accaduto il 15 maggio, grazie alle pressioni dell’opinione pubblica locale e internazionale, Alireza Tajiki è stato provvisoriamente salvato. Oggi 20enne, Alireza Tajiki è stato arrestato all’età di 15 anni e condannato a 16 anni per avere, secondo l’accusa, sodomizzato e ucciso un coetaneo con un gruppo di amici. Il ragazzo ha denunciato di essere stato tenuto in isolamento per due settimane, picchiato, frustato e sospeso al soffitto fino a quando non ha confessato. Una prima condanna a morte era stata annullata, nell’aprile 2014, per insufficienza di prove. La seconda, emessa senza che nel nuovo processo fosse emerso alcun fatto nuovo, è stata invece confermata nel febbraio 2015. Dal 2005 al 2015, secondo Amnesty International, l’Iran ha messo a morte almeno 73 minorenni al momento del reato. A fine anno sapremo quanti altri rei minorenni saranno stati impiccati nel 2016. Nei bracci della morte del paese, aspettano quel destino 160 ragazzi. Pakistan: attacco suicida in ospedale civile, più di 40 morti e decine di feriti La Repubblica, 8 agosto 2016 Ancora provvisorio il bilancio dell’esplosione avvenuta nella struttura dove si trovava il cadavere di Bilal Kasi, presidente dell’ordine provinciale degli avvocati del Balochistan, ucciso nelle scorse ore. È di oltre 40 morti e più di 50 feriti il bilancio provvisorio di un attentato avvenuto presso un ospedale a Quetta in Pakistan. Si tratta soprattutto di avvocati e giornalisti, che si trovavano nella struttura in quanto vi era stata portata la salma del presidente dell’Associazione legali del Balochistan (Bba), Bilal Anwar Kasi, ucciso nelle scorse ore. "Secondo le ultime informazioni di cui disponiamo, ci sono 40 morti, ma questo bilancio potrebbe aggravarsi ulteriormente", ha dichiarato Saleh Baloch, responsabile provinciale della Sanità. Tra il feriti c’è anche l’ex presidente della Bba, Baz Mohammad Kakar. La deflagrazione è avvenuta presso l’entrata principale della struttura, causata probabilmente da un attentatore suicida. La polizia ha immediatamente messo cordoni intorno all’area dell’attentato ed è stato lanciato un segnale di emergenza a tutti gli ospedali della città, dove stanno confluendo i feriti. Nel frattempo, il ministro dell’Interno del Balochistan, Sarfaraz Bugti, ha annunciato l’avvio di un’inchiesta su quella che giudica una "falla nella sicurezza" e l’ispettore generale della polizia, A.D. Khawaja, ha emesso un’allerta massima in tutto il Sindh. Gli avvocati pachistani da tempo sono nel mirino dei terroristi locali, che recentemente hanno avviato una campagna di assassini mirati. L’ultimo in ordine di tempo è avvenuto il 3 agosto e ha visto il legale Jahanzeb Alvi ferito a morte lungo la Brewery Road. Dopo la sua morte, lo stesso Bilal Kasi aveva denunciato quanto sta avvenendo e per protesta aveva boicottato per due giorni i procedimenti penali in corso. A giugno, invece, era stato trucidato sulla Spini Road il rettore della facoltà di Legge della University of Balochistan, Barrister Amanullah Achakzai. Le azioni di oggi, finora non sono state rivendicate, ma gli investigatori ritengono possa essere opera di al-Qaeda o dei guerriglieri separatisti, anche se prevale la prima ipotesi, che operano nella provincia, sita al confine con l’Afghanistan e l’Iran. Il premier, Nawaz Sharif, ha condannato l’attentato e ha detto che "non permetterà a nessuno di perturbare la pace". Stati Uniti: secondo una ricerca i video con oceani e boschi calmano i detenuti violenti di Filomena Fotia La Presse, 8 agosto 2016 Mostrare video dove la natura è protagonista, con immagini di oceani, foreste e montagne maestose ha un impatto notevolissimo sui detenuti violenti. Potere delle bellezze naturali. Mostrare video dove la natura è protagonista, con immagini di oceani, foreste e montagne maestose ha un impatto notevolissimo sui detenuti violenti, riducendone l’aggressività, con un effetto straordinariamente calmante: lo hanno scoperto allo Snake River Correctional Institution nell’Oregon, sottoponendo i 48 uomini chiusi nelle celle di massima sicurezza del blocco Imu-E - tutti detenuti per crimini violenti - alla visione di una serie di video naturalistici. "Abbiamo scoperto che i detenuti che avevano guardato i video commettevano meno infrazioni violente al regolamento, il 26% in meno per la precisione", spiega sul ‘Washington Post’ l’autrice dello studio, Patricia H. Hasbach, psicoterapeuta clinica. In pratica, "si tratta di una sostanziale riduzione verificatasi in condizioni reali, dal momento che quasi tutti questi eventi si traducono in lesioni ai compagni di cella o agli agenti". La ricercatrice, che ha presentato lo studio nei giorni scorsi al convegno dell’American Psychological Association, ha anche condotto un’indagine intervistando i detenuti. L’esperta riferisce che questi ultimi hanno apprezzato soprattutto i video con spiagge, giungle e foreste. Ma via via che la ricerca è andata avanti - è durata un anno - gli studiosi hanno notato anche una riduzione (del 10-20%) nella visione dei video. Questo forse perché i filmati disponibili erano limitati, e per i detenuti erano ormai diventati vecchi. In ogni caso i carcerati hanno riferito che i video sulla natura li hanno aiutati a sentirsi più calmi, e hanno migliorato la loro comunicazione con lo staff della prigione, che dal canto suo ha confermato. Insomma, a promuovere i filmati è stato oltre il 90% dei detenuti, mentre l’80% ha detto che quando si sentiva agitato, bastava pensare alle immagini di questi video per calmarsi. Sudafrica: Pistorius "ferito ai polsi". Amministrazione carceri: non è tentato suicidio Ansa, 8 agosto 2016 Campione paralimpico ha detto di essere caduto dal letto. Oscar Pistorius, condannato a sei anni di prigione per l’omicidio della fidanzata Reeva Steenkamp, è stato ricoverato in ospedale con delle ferite ed è già rientrato in carcere a Pretoria dopo essere stato sottoposto alle cure necessarie. Secondo la Bbc Pistorius si è ferito "ai polsi". Singabakho Nxumalo, portavoce del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha riferito che Pistorius ha raccontato di essersi ferito cadendo dal letto. Il portavoce non ha aggiunto altri particolari per motivi di privacy, ma ha annunciato che è stata aperta un’inchiesta sull’accaduto. "Oscar Pistorius respinge le speculazioni su un tentato suicidio". Lo riferisce un responsabile dell’amministrazione carceraria sudafricana, Manelisi Wolela, dopo il ricovero dell’atleta paralimpico per sembra ferite ai polsi, già tornato in cella dopo le cure. Pistorius, in carcere per l’omicidio della fidanzata Reeva Steenkamp, è stato prima assistito dallo staff medico della prigione Kgosi Mampuru II di Pretoria e poi trasferito al Kalafong hospital, ha aggiunto il funzionario. "Non possiamo discutere le condizioni di un detenuto in pubblico", ha chiarito Wolela.