La scomparsa di un magistrato di sorveglianza ricco di umanità di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2016 Sulla morte di Alessandro Margara, famoso magistrato di sorveglianza, hanno scritto e parlato molte persone importanti, adesso che è passato qualche giorno voglio dire qualcosa anch’io. Frequento le nostre Patrie Galere dal lontano 1972. L’ho incontrato in diverse carceri della Toscana prima come magistrato di sorveglianza e dopo come presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze. Diventato Capo dell’amministrazione penitenziaria, mi ero rivolto direttamente a lui per fare cessare la mia "deportazione" in Sardegna e s’era subito attivato per farmi trasferire in un carcere vicino casa per farmi incontrare più facilmente i miei giovani figli. Gli avevo scritto: "L’Amministrazione penitenziaria non rispetta un bel niente! È una struttura diabolica, è un Dio in terra e fa come gli pare, se gli pare e quanto gli pare. Mi creda i trasferimenti lontano da casa sono la tortura delle torture, spesso in carcere si soffre di più per la lontananza dalla famiglia che per la mancanza di libertà. Mi permetto, per documentarla, di allegarle copia di un mio esposto e ricorso al Tar". In carcere Alessandro Margara è sempre stato una specie di leggenda (un po’ come Marco Pannella) e molti prigionieri facevano a gara per fare le domande di trasferimento nel carcere dove lui operava. Su di lui nei cortili dei passeggi dei carceri si raccontano tante storie. Non so se sono tutte vere, si sa, i detenuti ingigantiscono le cose, ma su alcune sono stato da testimone diretto e in altri casi li ho sentiti con il passaparola. Ecco alcune sue famose frasi che i detenuti dicono di avere ascoltato da lui nei vari incontri e colloqui che concedeva ai detenuti, e non solo, anche ai loro familiari. "È ovvio che quando i detenuti dicono "io non centro" mentono, ma dietro questa bugia si cela il reale autoconvincimento di essere innocenti. È un guaio: la pena produce innocenza e quindi il detenuto non riconosce la necessità di un percorso di reinserimento". "Penso che un magistrato di sorveglianza che concede molti permessi premio o pene alternative ha meno probabilità di sbagliare di chi li concede con il contagocce." "L’applicazione rigida, letterale e categorica della legge rischia di danneggiare persone segnate da profonda sofferenza e sicuramente recuperabili con altri metodi perché la giustizia da sola, senza l’amore sociale, fa più danno che altro". "Spesso in carcere in nome della sicurezza si tocca il fondo e le varie restrizioni che s’inventano producano rabbia e odio verso le persone che rappresentano le istituzioni." "In carcere purtroppo si commettano molti reati in nome della legge o dietro lo scudo della legge." "Un giudice dovrebbe lavorare per la giustizia e non per la legge perché le leggi possono essere giuste o sbagliate, la giustizia invece dovrebbe essere come l’amore sociale, dovrebbe fare solo bene." "Uno Stato di diritto che rinunciasse alle garanzie di libertà e civiltà, fondando l’interpretazione della legge sul sentimento popolare finirebbe per rinunciare al diritto". Si racconta che di sua iniziativa andava a scovare i detenuti nelle celle di punizione che non facevano la "domandina" per parlare con lui. Concedeva i permessi premio anche ai detenuti più ribelli e più cattivi di tutti perché era convinto che questi più degli altri avevano bisogno di fiducia sociale. Era convinto che tutti meritavano una possibilità, non una, ma molte volte. Quando concedeva un permesso premio con parere contrario delle forze dell’ordine e del carcere i detenuti rimanevano sbigottiti per primi. A volte ai detenuti diceva in faccia: "Lo so che se ti do il permesso tu scappi, ma io te lo do lo stesso perché per pretendere fiducia bisogna darla per prima." Alcuni lo tradivano, in molti però rimanevano spiazzati e finito il permesso rientravano in cella anche se a quel tempo suonare il campanello del carcere fra i prigionieri era una specie d’infamità. Penso che se la riforma penitenziaria, i benefici, i permessi premio in Italia hanno funzionato in gran parte è merito suo. Alessandro Margara, era anche contro la pena dell’ergastolo perché da buon cristiano pensava che un uomo non dovrebbe mai essere considerato perduto per sempre. E che ci dovrebbe sempre essere la possibilità di recuperarlo e di farne un buon cittadino utile alla società. Forse ci sono anche dei rischi, ma io penso, come credeva lui, che valga lo stesso la pena di provarci perché penso che tutti possano diventare persone migliori a parte quelle che non lo credono perché se una persona pensi che un uomo non possa essere irrecuperabile lo stai già aiutando a essere migliore. Buon riposo magistrato di sorveglianza Alessandro Margara, molti detenuti la ricordano con stima, simpatia e affetto e molti di loro si sono rifatti una vita, sono migliorati e cambiati grazie alla sua umanità. Carceri e radicalizzazione, la risposta italiana è insufficiente di Francesca Buonfiglioli lettera43.it, 6 agosto 2016 Estremismo. Imam fai-da-te. Rabbia. Per l’islamologo Paolo Branca (Docente dell’Università Cattolica) ridurre il rischio proselitismo è possibile. E passa dalla cultura. Ma l’Italia sembra non capirlo. "Entri delinquente comune ed esci laureato in Jihad". Un ragionamento che da anni ormai fotografa il rischio di radicalizzazione in carcere. "La prison, c’est la putain de meilleure école de la criminalité", la prigione è la scuola migliore della criminalità, sosteneva già nel 2007 Amedy Coulibaly. Lo stesso uomo che il 9 gennaio di sei anni dopo venne ucciso nel blitz della polizia all’Hyper Cacher di Porte de Vincennes a Parigi non prima di aver ammazzato quattro ostaggi ebrei. La giustizia attraverso l’ingiustizia. Coulibaly negli anni della sua detenzione per rapina aveva girato un video clandestino in cui denunciava il degrado delle strutture carcerarie. "Comment vous voulez apprendre la justice avec l’injustice?", si chiedeva provocatoriamente: come volete imparare la giustizia attraverso l’ingiustizia? In carcere aveva stretto amicizia con Djamel Beghal, ex esponente del Gia, la brigata islamica integralista algerina. E si era radicalizzato. Sempre dietro le sbarre hanno abbracciato l’estremismo Salah Abdeslam, l’attentatore di Parigi che si rifiutò di farsi saltare in aria, Mohammed Merah il killer dei bambini ebrei di Tolosa e anche Adel Kermiche, l’attentatore di Rouen. In Italia 350 sotto sorveglianza. In Italia, come ha ricordato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nelle nostre carceri ci sono circa 10 mila detenuti di fede musulmana, di cui 7.500 praticanti. Trecentocinquanta sono in regime di stretta sorveglianza. Per evitare il rischio proselitismo, gli individui ritenuti più pericolosi, tra le altre precauzioni, sono spostati da un istituto all’altro. Ma è sufficiente? Quell’illusione di essere al sicuro. Paolo Branca, islamologo della Cattolica, nutre più di un dubbio. "Nel nostro Paese" - spiega - "non si è fatto quasi nulla. Dal 2001 c’è stata una stretta che però non ha portato risultati. C’è molta retorica, ma evidentemente il tema non è tra le priorità". Il fatto, secondo il professore, è che "ci illudiamo di essere al sicuro visto che l’Italia non è ancora stata colpita, forse perché siamo una passerella, un transito" per jihadisti e aspiranti tali. "E fare saltare la passerella sarebbe autolesionista". Come sempre poi in Italia "ci muoviamo per reazione e manchiamo di iniziativa". Il problema, è innegabile, esiste. In carcere "ci si può accostare alla religione in modo sbagliato". Spesso, spiega Branca, "si presentano punti di riferimento che però non hanno la necessaria preparazione religiosa". Imam fai-da-te, guide spirituali, "sceicchi", come li chiamava Kermiche. Sempre tenendo fermo un punto: l’estremismo non è sinonimo di terrorismo. Se non si riconosce la pena. Molti musulmani in galera "covano rabbia e risentimento, anche contro loro stessi". E questo perché "non si sentono aiutati a redimersi, visto che la pena per cui sono condannati non è contemplata dalla legge coranica". Insomma "non riconoscono la pena, e non c’è espiazione". Accumulano così elementi di emarginazione. Il risultato è che "sono portati a una adesione radicale ed estrema della lettura del Corano". Se a questo si aggiunge la loro scarsa cultura, ecco che questi detenuti si trasformano in prede perfette. Sposano una visione della religione "banalizzata, fatta di slogan". In poche parole, l’Islam secondo Daesh. L’antidoto, secondo Branca, esiste. O, meglio, esisterebbe. Restituire l’appartenenza perduta. "Bisogna proporre discorsi alternativi", spiega. "Restituire a queste persone il senso di appartenenza a una grande civiltà, attraverso mediatori e rappresentando tutte le correnti, sciiti e sunniti". Non solo. "Andrebbero spiegati i concetti di pena e perdono, la distinzione tra reato e peccato, e la funzione rieducativa delle nostre carceri", aggiunge il professore, "valori che fanno parte del nostro patrimonio". Ma che spesso non sono messi in pratica nemmeno per i detenuti italiani. Il fatto è che entrare nelle carceri con progetti simili, magari già finanziati, è quasi impossibile. "Anche mandare libri schedati in arabo è un’impresa", insiste Branca. "Ci si trova di fronte a un muro burocratico e alla resistenza di chi in carcere ci lavora già". L’eccezione di Bologna. Come sempre ci sono delle eccezioni, come il progetto Diritti, doveri, solidarietà al carcere della Dozza di Bologna che prevedeva il confronto-dialogo tra la Costituzione italiane e quelle dei Paesi musulmani per poi arrivare alla stesura di un’unica costituzione ideale. Lavoro dal quale è nato anche il film Dustur (Costituzione). Non è solo una questione (necessaria in uno Stato di diritto) di rispetto, tacciabile del solito ‘buonismò, ma anche di difesa. "Gli attacchi da parte di individui isolati sui cui poi Daesh mette il cappello sono sempre meno prevedibili", è il ragionamento, "per questo motivo occorre investire in formazione, premiando sul campo le realtà musulmane che propongono progetti efficaci" Se si mette il naso fuori dall’Italia e si guarda il sistema anglosassone, poi, lo spread si allarga ulteriormente. "Negli Usa e nel Regno Unito si fa molto di più", assicura l’islamologo. "Ci sono equipe di religiosi che si occupano di detenuti e degenti. Lavorano insieme con psicologi e sociologi". Nel nostro Paese, invece, "si pagano i privilegi della chiesa cattolica e del concordato. E le carceri sono praticamente terre di nessuno per le altre confessioni". A sorpresa rispuntano i vecchi Opg. Un disastro a cui porre rimedio superabile.it, 6 agosto 2016 Un emendamento approvato in Senato riapre di fatto una stagione che sembrava destinata a finire: i detenuti in infermità mentale e in osservazione psichiatrica saranno inviati nelle Rems. La denuncia di StopOpg che scrive al governo: "Torna la vecchia logica, intervenire subito". Dovevano essere chiusi da tempo, rischiano ora non solo di sopravvivere, ma di tornare a riempirsi e ad essere utilizzati come prima, seppur con un nome diverso. La storia infinita degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) si allunga con un nuovo capitolo, quello di un emendamento approvato al Senato che di fatto riapre l’intera stagione degli Opg, prevedendo l’invio nelle Rems (Residenze per le misure di sicurezza) di tutte quelle categorie di detenuti che in passato venivano trasferiti negli Opg. Alla faccia di tutti i passi avanti fatti finora, il nuovo provvedimento contraddice gli obiettivi che hanno spinto a operare negli ultimi anni per il superamento della vecchia logica così vicina al modello dei manicomi, negando di fatto la logica che ha condotto a puntare su progetti individuali con misure non detentive, da attuare nelle Rems. Il campanello d’allarme viene lanciato da Stefano Cecconi, Giovanna Del Giudice, Patrizio Gonnella e Vito D’Anza, che a nome del Comitato nazionale StopOpg scrivono una lettera - appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al sottosegretario alla Salute Vito De Filippo e per conoscenza al Commissario per il superamento Opg Franco Corleone. "Abbiamo appreso - scrivono i quattro - che è stato approvato al Senato un emendamento al Disegno di Legge 2067 (su garanzie difensive, durata dei processi, finalità della pena ecc.), che rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. L’emendamento in questione ripristina la vecchia normativa (quindi ante: legge 81/2014, Dpcm 1.4.2008 allegato C, Accordo Conferenza Unificata 13.11.2011), disponendo il ricovero nelle Rems esattamente come se fossero i vecchi Opg". "Se non si rimedia - affermano i componenti di StopOpg - saranno inviati nelle strutture regionali, già sature, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e addirittura quelli in osservazione psichiatrica. Invece di affrontare il problema della legittimità delle misure di sicurezza provvisorie decise dai Gip, e di quelle che rimangono non eseguite, si ipotizza una violazione della legge 81 ripristinando la logica e le pratiche dei vecchi Opg. Un disastro cui bisogna porre riparo". "Non solo si ritarda ulteriormente la chiusura degli Opg rimasti aperti (Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto) ma così le Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) diventano a tutti gli effetti i nuovi Opg", viene affermato. E non solo perché così facendo "si stravolge la funzione delle Rems (e le si travolgono visti i numeri delle persone potenzialmente coinvolte), che non sarà più "residuale": cioè destinata ai pochi casi in cui le misure di sicurezza alternative alla detenzione si ritiene non possano essere assolutamente praticabili". StopOpg fa notare che "l’obiettivo della legge 81 sulla chiusura degli Opg (e sul superamento della loro logica) è quella di far prevalere, per la cura e la riabilitazione delle persone, progetti individuali con misure non detentive, nel solco delle sentenze della Corte Costituzionale, la n. 253 del 2003 e la n.367 del 2004, ispirate esplicitamente dalla legge 180 (Riforma Basaglia). In tal senso sono illuminanti a questo proposito le riflessioni di responsabili di Dipartimenti di Salute Mentale e di Rems e della stessa Società Italiana di Psichiatria". Se il problema che l’emendamento vuol risolvere è quello di garantire le cure troppo spesso ostacolate o negate dalle drammatiche condizioni delle carceri, spiegano i quattro firmatari della missiva - occorre ricordare che "il diritto alla salute e alle cure dei detenuti non si risolve così. Occorre che si rafforzino e si qualifichino i programmi di tutela della salute mentale in carcere e che il Dap istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche. È grave che le persone c.d. ex art. 148 CP siano reclusi a Reggio Emilia senza rispettare il principio della territorialità. Semmai si devono potenziare le misure alternative alla detenzione. Così invece, moltiplicando strutture sanitarie di tipo detentivo dedicate solo ai malati di mente, riproduciamo all’infinito la logica manicomiale. Il rientro di queste persone nel carcere (o comunque nel "normale" circuito delle misure alternative alla detenzione) serviva e serve proprio a ridimensionare il ruolo del cd binario parallelo". "Ci aspettiamo - afferma StopOpg - un intervento deciso del Governo per rimuovere quanto inopinatamente l’emendamento in questione ha disposto, a sostegno del faticoso processo di superamento degli Opg. E nell’occasione - è la conclusione - rinnoviamo la richiesta di un provvedimento che eviti l’invio di persone con misura di sicurezza provvisoria nelle Rems, destinandole ai prosciolti definitivi". Anatomia degli errori giudiziari di Alex Saragosa La Repubblica, 6 agosto 2016 Ogni anno in Italia mille persone sono risarcite per ingiusta detenzione. Psicologi e altri esperti illustrano, fase per fase, i punti più a rischio di un’inchiesta. Si dice "errore giudiziario" e viene in mente Enzo Tortora, finito in prigione nel 1983, per le false accuse di alcuni camorristi. Da allora, di casi simili a quello del giornalista Rai, ce ne sono stati decine di migliaia: ultimo, poche settimane fa, quello di Pietro Paolo Melis, che era stato condannato a 30 anni per il rapimento di Vanna Lichen ed è stato scarcerato dopo 18 per non aver commesso il fatto. "Ogni anno in Italia, secondo i dati del ministero dell’Economia, circa mille persone vengono risarcite per ingiusta detenzione. In 9 casi su 10 si tratta di carcerazione preventiva, subita durante indagini finite poi con proscioglimento, ma, seppure in numero molto minore, non mancano le condanne definitive che poi si sono rivelate sbagliate" dice il giornalista Benedetto Lattanzi, che con il collega Valentino Maimone ha fondato il sito Errorigiudiziari.com, dove sono raccolti 700 casi. Cinque di queste storie sono raccontate nel docu-film "Non voltarti indietro", con la regia di Francesco Del Grosso. "Dal 1992 a oggi" continua Lattanzi "quasi 25 mila persone hanno ottenuto un risarcimento, con una spesa per lo Stato di oltre 630 milioni". Fare confronti con altri Paesi, con sistemi giuridici e norme per i risarcimenti diversi, è difficile, ma si può dire per esempio che in Francia dal 2000 ci sono stati "solo" 600 rimborsi. Le fasi del processo in cui è più facile sbagliare sono però ovunque le stesse. A partire dall’analisi della "scena del crimine", che dovrebbe fornire indizi "scientifici", e quindi inattaccabili. Per dimostrare che non è così basta però il caso dell’omicidio a Perugia dell’inglese Meredith Kercher nel 2007.1 due sospetti, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, sono finiti in prigione grazie anche alla asserita presenza del loro Dna su oggetti implicati nell’omicidio. Quelle stesse prove però alla fine sono state invece giudicate inammissibili per la contaminazione della scena del crimine e per gli scorretti metodi di raccolta e analisi dei reperti. "In effetti più le tecniche di analisi diventano sensibili, più il rischio di contaminazione cresce, ma è cresciuta anche la nostra consapevolezza e preparazione" spiega il tenente colonnello e biologo Andrea Berti, del Ris, il Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri. "Basta, per esempio, che un infermiere stringa la mano a una persona e poi si rechi per soccorso su una scena del crimine per trasferire sul posto il Dna di quella persona. Per questo noi del Ris seguiamo, e nei corsi di formazione indichiamo ai nostri colleghi e al personale di soccorso, standard severissimi da seguire: per esempio tutti quelli che operano su una scena del crimine devono usare guanti monouso, da cambiare più volte durante i sopralluoghi, mascherine, e altri indumenti protettivi. Chi poi - medici, pompieri, infermieri - è entrato prima degli specialisti della scientifica, deve fornire Dna, impronte digitali e delle scarpe, oltre a fare un rapporto dettagliato su tutto quello che ha fatto e toccato sulla scena. Solo così si può essere sicuri dell’autenticità degli indizi rilevati e contrastare la crescente tendenza degli avvocati ad attaccare, più che le prove, il modo in cui sono state raccolte". Nel frattempo negli Stati Uniti l’Fbi ha ammesso che "prove scientifiche" come analisi dei capelli, dei morsi, e le stesse impronte digitali non sono sicure come sì pensava e potrebbero aver portato innocenti in galera. "L’errore, in passato, è aver creduto che certi indizi dessero delle certezze assolute. In realtà se si vogliono usare prove scientifiche, bisogna sapere che il linguaggio della scienza si esprime attraverso probabilità. Ogni indizio, a seconda dell’accuratezza con cui è stato rilevato, produce una probabilità che un sospetto sia stato sul luogo del crimine, mai una certezza: solo l’incrocio di più indizi, alla fine, può dare ai giudici il convincimento necessario a condannare una persona". Anche se ben raccolti, gli indizi talvolta vengono utilizzati male. Come dimostra il caso del sardo Pietro Paolo Melis, arrestato nel 1998 per concorso nel sequestro di Vanna Lichen, mai tornata a casa. A incastrarlo era stata la registrazione di due persone che parlavano del sequestro: un perito fonico affermò che una delle voci, per i toni e il dialetto usato, era di sicuro quella di Melis. Invece non lo era, come ha accertato ora una nuova perizia fatta con software più sofisticati: nel frattempo, però, Melis è stato 18 anni in carcere. "Anche i periti dei tribunali dovrebbero ricordarsi di esprimere i loro risultati sempre in termini di probabilità" dice Marco Marchetti, criminologo dell’Università del Molise. "Più gli indizi diventano tecnicamente complessi, più per la difesa diventa difficile misurarsi alla pari con l’accusa" aggiunge Maimone: "l’imputato infatti non ha sempre i mezzi per assumere specialisti in grado di verificare i risultati delle perizie". Un altro terreno fertile per l’errore giudiziario è l’ascolto dei testimoni. Come racconta la vicenda del ventiduenne napoletano Massimo De Luise, che nel 2004 venne arrestato per l’omicidio di un camorrista, Massimo Marino: ad accusarlo fu la sorella della vittima, che "riconobbe" De Luise durante un incontro fortuito. De Luise aveva un lavoro, era incensurato e aveva pure un alibi, ma la sicurezza della donna convinse i giudici. Così lui restò in prigione otto anni, fino a quando il vero killer, Gennaro Puzzella, non confessò. In effetti somigliava moltissimo a De Luise. "Per la maggioranza di noi la memoria non funziona come una macchina fotografica" dice Anna Maria Giannini, docente di psicologia giuridica alla Sapienza di Roma. "Sforzandoci di ricordare possiamo mescolare ricordi provenienti da luoghi o tempi diversi e persino cose immaginate. E c’è anche il gun effect: se nella scena compare un’arma il testimone si concentra su quella e difficilmente ricorderà molto di chi la impugnava". L’ascolto dei testimoni dovrebbe quindi essere fatto seguendo regole precise: "Spesso, soprattutto nel caso di minori, i testimoni tendono a compiacere chi li interroga, arrivando anche a modificare inconsciamente i propri ricordi. Così bisogna stare attenti a non suggerire le risposte. Per esempio, invece di chiedere "C’era una donna?", è meglio usare un più neutro: "Chi c’era sulla scena?". Altri rischi si annidano nella fase dell’interrogatorio del presunto colpevole. Giuseppe Gulotta, arrestato nel 1976 per l’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, in Sicilia, confessò di essere stato lui, non ritrattò mai e per questo fu condannato all’ergastolo, passando 26 anni in galera. Nel 2012 però è stato dichiarato innocente: a farlo confessare e poi a terrorizzarlo tanto da spingerlo a non ritrattare furono le torture subite negli interrogatori. Pentiti di mafia hanno poi indicato altri come responsabili della strage di Alcamo. "E a volte un innocente confessa anche se non è sotto pressione" rivela Giannini. "Quando una persona comune, psicologicamente fragile, si trova nell’incubo dell’arresto, dei sospetti, delle notti in bianco, può subire un tale stress che, pur di farlo finire, ammette tutto. Può sembrare assurdo, ma in un certo stato mentale il soggetto può concentrarsi di più su un guadagno immediato che su possibili futuri danni a lungo termine". Ci sono rimedi? "Certo, chi interroga deve essere addestrato non a "far crollare" il sospetto con minacce e maltrattamenti, ma a cogliere, se ci sono, le contraddizioni nei suoi racconti, fatti ripetere più volte e confrontati con le altre evidenze e testimonianze". E se, dopo l’indagine, a creare l’errore fosse proprio il processo, a causa di pregiudizi, per esempio razziali, o per la pressione dei media su chi deve giudicare? Il tema è molto sentito negli Usa, dove il giudizio è spesso affidato a giurie popolari, non sempre libere da pregiudizi: statisticamente quelle composte di soli bianchi condannano neri accusati di reati contro bianchi molto più di giurie con etnie miste. "In Italia il sistema è diverso" spiega Giancarlo De Cataldo, scrittore, ma soprattutto giudice di Corte d’Assise da vent’anni. "Da noi il giudizio viene sempre dato da magistrati professionisti. Solo nelle Corti d’Assise questi sono affiancati da sei giudici popolari. La mia esperienza mi dice che mentre i giudici togati sono impermeabili al frastuono mediatico intorno ai casi di cronaca nera, quelli popolari sono spesso pieni di pregiudizi verso gli imputati, magari proprio per la cattiva opera fatta dalla tv. Anche loro però ben presto si rendono conto di quanto sia complesso ricostruire i fatti nei processi e dare un giudizio su persone reali". Ma siamo sicuri che i giudici riescano sempre a restare distaccati? "Un giudice deve giustificare nella sentenza il suo giudizio punto per punto, in base alle norme, ai fatti e alla logica, e in questo le sue personali simpatie o antipatie non hanno spazio". Ma allora, per concludere, perché in Italia si fanno così tanti errori? "Come sa chiunque abbia visto il film "Rashomon" di Akira Kurosawa, ricostruire a posteriori la verità, basandosi su indizi fisici, dichiarazioni e testimonianze, spesso contraddittorie, schivando la tentazione di prendere scorciatoie basate su pregiudizi, è cosa complessa: la scienza oggi aiuta gli inquirenti a stabilire alcuni punti fermi, ma non ha certo risolto il millenario problema di evitare gli errori giudiziari" dice Marchetti. "Detto questo, in Italia gli operatori di polizia giudiziaria sono in media di ottimo livello e non credo sbaglino più che altrove. Probabilmente da noi il vero problema è l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva: le motivazioni che la consentono sono talmente generiche da potersi applicare quasi in ogni caso. E per i sospettati c’è una bella differenza se un errore fatto durante le indagini lo sopportano da persone libere o stando dietro le sbarre". Caso Caridi: la fretta di Grasso e dei manettari di Francesco Damato Il Dubbio, 6 agosto 2016 Le critiche formulate da Piero Sansonetti e da Carlo Fusi all’ennesimo atto di sudditanza del Parlamento alle richieste e accuse della magistratura, per quanto riconosciute "implausibili", ai parlamentari che hanno la sventura di finire sotto indagine senza più il filtro preventivo del vecchio testo dell’articolo 68 della Costituzione sull’immunità, bastano e avanzano per farsi un’idea di quanto è accaduto a Palazzo Madama con l’autorizzazione all’arresto del senatore Antonio Stefano Caridi. Un’autorizzazione concessa nell’ultima seduta del Senato prima della sospensione estiva dei lavori, e con una inversione dell’ordine del giorno decisa personalmente dal presidente dell’assemblea, fra la sorpresa dichiarata del presidente del maggiore gruppo di Palazzo Madama. Agli argomenti di Sansonetti e di Fusi vorrei tuttavia aggiungerne due che possono contribuire a dare un’idea ancora più compiuta di ciò che è accaduto al Senato, curiosamente mentre ad Aosta veniva ricoverato un ex presidente della Camera, Luciano Violante, che da anni si prodiga inutilmente perché cambi finalmente registro nei rapporti fra politica e giustizia, o magistratura, come preferite. Un’azione, questa di Violante, tanto più apprezzabile perché svolta da un politico ex magistrato che ha contribuito in passato ad una svolta in questi rapporti a favore delle toghe, non immaginando che cosa sarebbe poi potuto accadere. Il Senato ha mandato in galera Caridi, perché potesse fare le ferie - come hanno scompostamente gridato i grillini - "al fresco" di un carcere e non dei monti o del mare dove avrebbero invece voluto mandarlo i contrari all’arresto, nove giorni prima delle decisioni che prenderà il tribunale del riesame. Al quale il senatore aveva fatto ricorso contro l’arresto disposto dal giudice competente di Reggio Calabria e inoltrato a Palazzo Madama per la necessaria autorizzazione. Il voto del Senato, inevitabilmente influenzato dalla politica che contraddistingue un’assemblea parlamentare, ha quindi preceduto un pronunciamento della magistratura ordinaria. Col rischio, avvertito e inutilmente segnalato da molti senatori, di condizionarlo. Quanto meno il buon senso, che evidentemente ha perso diritto di cittadinanza in questo Senato di cui verrebbe la voglia di dire che sta finalmente tirando le cuoia con la riforma costituzionale sotto procedura referendaria, avrebbe voluto un rinvio della votazione alla ripresa settembrina dei lavori parlamentari. Parlo di settembre di quest’anno, fra un mese, non dell’anno prossimo o successivi. Non c’è stata ragione perché questa opinione, maturata anche in larga parte del gruppo del Pd, fosse ascoltata. Incredibile, ma vero. L’altra osservazione che vorrei aggiungere riguarda la convinzione dei magistrati, ma soprattutto dei loro corifei, che nei presunti rapporti associativi fra il senatore Caridi e la malavita organizzata di Calabria sia rientrata anche la sua elezione al Parlamento. Ciò significa, con la legge elettorale che ha consentito l’elezione di Caridi, il cosiddetto Porcellum, bocciato dalla Corte Costituzionale anche per la storia delle liste bloccate, per cui non si è eletti ma nominati, che alla malavita appartiene anche il partito che ha avuto la sventura di candidare l’imputato di turno. Qualsiasi partito, e non solo quello del caso Caridi, che era il Pdl, ora Forza Italia. Non vi è in questo scenario un monopolio forzista. Mi chiedo se i magistrati si rendono conto della lettura alla quale si possono prestare le loro iniziative. E dei colpi che, volenti o nolenti, essi danno al sistema democratico. Luigi Manconi: "Caridi in galera perché in Senato si ignora la legge" di Errico Novi Il Dubbio, 6 agosto 2016 Luigi Manconi è tra i pochi, pochissimi autentici garantisti riconoscibili nell’attuale Parlamento. Presidente della commissione Diritti umani, figura integra ed esemplare per l’impegno pluridecennale nella difesa dei diritti, a cominciare da quelli dei detenuti, non può essere sospettato di alcunché. La scelta di spostare la conversazione sul piano del paradosso è un artificio utile a segnalare l’assurdità dell’autorizzazione all’arresto del senatore calabrese Caridi votata l’altro ieri dall’aula di Palazzo Madama. "Non lo si riesce a capire: il fumus persecutionis che dovrebbe indurre a respingere la richiesta d’arresto di un parlamentare non rimanda a una diabolica volontà del pm di perseguire il male dell’indagato. Basta che il pm ignori la tassatività con cui la legge pone le condizioni per ricorrere alla misura cautelare". Così il presidente della commissione Diritti umani Luigi Manconi critica il via libera del Senato (e del Pd) all’arresto di Antonio Caridi. Cosa dobbiamo pensare, presidente Luigi Manconi? Lei ha votato contro l’arresto del senatore Antonio Caridi in dissenso dal gruppo del Pd: non sarà mica complice dei malfattori? Guardi, l’ipotesi non regge neppure come esercizio di paradosso. Mi sono limitato a dichiarare con il mio voto che ritenevo non presentarsi le circostanze per poter adottare la misura della custodia cautelare. Circostanze ancora più tassativamente definite dagli ultimi interventi normativi. Fuori dal paradosso, il Senato sembra preda di un furibondo impazzimento. E nemmeno questo è vero. Il mio gruppo ha votato in blocco per il sì all’arresto, e ho letto negli occhi di molti miei compagni di partito un’effettiva convinzione. In questi casi ciò che induce a formare un’opinione è l’affastellarsi degli indizi, l’addizionarsi delle circostanze, degli elementi suggestivi, dei fatti inquietanti. Il che non c’entra con la fondatezza di una richiesta di arresto. Appunto. La Camera di appartenenza è investita della funzione di valutare l’esistenza di un fumus persecutionis dietro le richieste di misure cautelari. E per fare questa valutazione non si può che riferirsi al rispetto della normativa su questo istituto penale. Di recente precisato da sentenze della Cassazione. Sì, da quelle che richiamano la necessità che vi sia concretezza del pericolo di fuga, reiterazione del reato o inquinamento delle prove. E anche dalla recente pronuncia della stessa Suprema corte secondo cui ci deve essere una ragionevole vicinanza temporale tra il presunto reato e l’ordinanza cautelare. Nel caso esaminato e definito a giugno dalla Cassazione si è ritenuto fossero troppi due anni, qui le accuse a Caridi da parte dei pentiti risalgono a quindici anni fa. Principi ormai ignorati. Il Parlamento è ancora sotto la botta di Tangentopoli? Sì e no. È vero che quel trauma storico ha travolto limiti e vincoli e li ha subordinati a una valutazione di ordine storico, politico e culturale. D’altra parte a essere decisivo è l’equivoco di fondo sul mandato a cui si deve ottemperare nel momento in cui il Parlamento deve pronunciarsi su una richiesta di arrestare un proprio componente. E quel mandato appunto prevede semplicemente che si debba valutare se l’autorità giudiziaria ha osservato il principio di tassatività nel riconoscere la sussistenza dei requisiti per la misura cautelare. Se il magistrato deroga da quel criterio di tassatività, allora il Parlamento può ravvisare il fumus persecutionis. Criterio a cui evidentemente non si ispira il senatore Giarrusso, il cui eloquio è stato da lei definito ?capace di rendere garantista anche un boia. Mi riferivo al discorso che ha fatto in aula al momento delle dichiarazioni di voto. Ha usato un argomento che condotto alle sue coerenti ed estreme conseguenze sarebbe così riassumibile: dal momento che su Caridi non abbiamo evidenze sufficienti, proprio la carenza di prove e di evidenze adeguate confermano che siamo davanti a un membro autorevole dell’organizzazione criminale. Secondo il ragionamento di Giarrusso, Caridi sarebbe a tal punto consustanziale alla cupola da non offrire possibilità di documentarne l’appartenenza: sarebbe non indagabile proprio perché così promiscuo. Ecco, perfetto, abbiamo capito ancora meglio la battuta sul boia che diventa garantista. Ma i Cinque Stelle secondo lei sono un po’ nervosi? Cosa glielo fa pensare? La promessa della senatrice Cinque Stelle Blundo di consegnare ai pm tutti gli altri corrotti a partire da Zanda. Blundo si è scusata ma certo la mia risposta precedente era ironica. E in effetti penso di sì, che nel Movimento circoli molto nervosismo. E questo credo derivi dal fatto che per loro stessi è difficile non avere percezione di come la loro superba alterità risulti compromessa. Scatta un meccanismo di autodifesa: esaltare la propria funzione di espressione ontologica del bene contro il male. L’alternativa sarebbe riconoscere che sono come tutti gli altri, ma questo richiederebbe una capacità di autocritica radicale che evidentemente non riescono ad attivare. Sono anche loro corruttibili? Vorrei chiarire: non mi riferisco all’inevitabilità della corruzione, ma alla necessità della mediazione, alla dura fatica del compromesso che chi è chiamato al governo delle città dovrebbe pur scoprire. Spesso il Pd sembra ondivago, anche sulle autorizzazioni all’arresto, proprio perché condizionato dallo spauracchio grillino. Io ho alle spalle altre due esperienze in Parlamento, quella del ‘94 e l’altra nel 2001: se devo giudicare, i parlamentari di sinistra dell’epoca erano assai meno garantisti di oggi. È vero che restano oscillazioni nel voto sulle richieste cautelari, ma sono convinto che tutto si debba alla fragilità di quella benedetta norma. Perché è fragile la norma? È ambigua perché sembrerebbe riferirsi a una diabolica, pervicace volontà di perseguire il male dell’indagato. Ma visto che qui saremmo appunto nella dimensione del demoniaco, ci si dovrebbe convincere che il criterio va riferito all’eventuale assenza di rispetto della tassatività con cui sono posti i requisiti per le misure cautelari. Se il magistrato non tiene conto della tassatività con cui si richiede la sussistenza di determinati presupposti, allora questa negligenza può rimandare a una qualche tentazione persecutoria nei confronti degli indagati. Tentazione, lei dice: parliamo di sfumature. Ma in ultimo, presidente: lo ha sentito Caridi? Ma davvero le pare il capo della ‘ndrangheta? Le sembrerà incredibile ma ho imparato a sottrarmi a entrambi i ricatti: sia a quello di chi dice "come fai a presumere l’innocenza di uno così?" sia al suo, che mi vorrebbe inchiodare con la retorica del "ma davvero può pensare che quello lì sia il capo delle ‘ndrine". Un altro innocente in galera: vittima del Pm anti-Tortora di Errico Novi Il Dubbio, 6 agosto 2016 Indagato per droga, prosciolto con formula piena dopo 4 anni di calvario. "Allora te la porto io in Caserma, non preoccuparti". Francesco Raiola è al telefono con un commilitone: parla di una televisione full hd che si offre di acquistare nella propria città d’origine, Scafati, in modo da portarla all’amico che come lui è di stanza nella caserma di Barletta e fargli risparmiare un po’ di soldi. Ma i carabinieri che intercettano la telefonata pensano che parli di droga. Su questo equivoco si basa l’arresto del caporal maggiore dell’esercito: a ordinare la misura cautelare è la Procura di Torre Annunziata. Che per quattro anni non riconosce l’errore, e fa così perdere a Raiola il lavoro nelle Forze armate, dopo due missioni in Kossovo e una in Afghanistan. A guidare l’ufficio inquirente, all’epoca delle indagini, è Diego Marmo. Proprio lui, il pm che accusò Enzo Tortora di essere "un cinico mercante di morte". Trent’anni dopo un’altra sua incredibile svista condanna ancora una volta un innocente a un calvario giudiziario. Concluso, dopo diversi mesi agli arresti e incredibili traversie, con il proscioglimento ordinato dal gup di Nocera Inferiore con formula piena. È il 25 febbraio dell’anno scorso. "Sono innocente signor giudice, sono finito in un incubo da quattro anni, mi accusano di spaccio di droga ma io non ho mai commesso un reato, tutto per l’assurda interpretazione data ad alcune cose che ho detto al telefono". Francesco Raiola quel giorno ha 34 anni. È nel tunnel dal 21 settembre 2011, data dell’arresto per spaccio di droga. Parla con passione, si difende davanti al gup di Nocera Inferiore senza che i suoi avvocati aprano bocca. Dice una cosa forse decisiva nell’indurre il magistrato a credergli: "Finalmente ho l’onore di parlare con un giudice che abbia effettiva competenza sul mio caso". Fino a quel momento coincidenze, carambole e difetti di giurisdizione lo hanno trascinato in una gimkana di sostituti e interrogatori a vuoto. Alla fine dell’esame in udienza, Francesco legge negli occhi del gup e dei cancellieri "il rammarico di chi crede alla mia innocenza e vede la tortura che ho passato". L’avvocato Andrea Castaldo lo guarda e gli dice: "Come hai fatto a non piangere?". Non lo sa nemmeno lui. Verrà prosciolto a poco più di un mese di distanza "perché il fatto non sussiste". "Le mie parole hanno suscitato l’attenzione del giudice, quel mio incipit gli ha spalancato gli occhi". Peccato non sia avvenuto lo stesso quattro anni prima, con la Procura di Torre Annunziata. Da lì è partita l’indagine, operazione su un traffico di stupefacenti denominata "Alieno". Al vertice dell’ufficio inquirente di Torre Annunziata non c’è un magistrato qualsiasi: il procuratore della Repubblica è Diego Marmo. Sì, proprio lui, l’accusatore di Tortora. La toga che diede a Enzo del "cinico mercante di morte". E che trent’anni dopo si sarebbe cosparso il capo di cenere in un’intervista a Francesco Lo Dico sul Garantista: "Chiedo scusa ai familiari di Tortora", disse. Il soldato preso per spacciatore - Tre anni prima di quell’intervista Marmo non si era accorto del caso di Francesco Raiola. Da capo della Procura di Torre Annunziata non si era reso conto che nelle maglie dell’indagine affidata ai suoi sostituti era finito anche questo caporal maggiore dell’esercito, allora 30enne, originario di Scafati, provincia di Salerno, e di stanza a Barletta. Una ragazzo di valore: due missioni in Kossovo, una in Afghanistan con l’82esimo reggimento fanteria. Pilota di mezzi corazzati e, quando ancora non aveva ottenuto l’arruolamento definitivo nelle forze armate, già esperto nella guida dei tanks di ultima generazione. Prima della folle vicenda giudiziaria Francesco seguiva la specializzazione per i Vbm, i mezzi per i quali la Difesa aveva speso decine di milioni di euro e che si era deciso di sperimentare proprio nell’area di crisi afghana. Un uomo forte, integro, con la passione per la vita militare, accusato - forse giustamente in questo caso - dalla moglie di "aver sacrificato troppo per le forze armate", tanto da rinviare tre volte la data delle nozze pur di rispondere alla chiamata per le missioni. Tutto precipita per una telefonata in cui Francesco parla di televisioni. "Allora non preoccuparti, te la porto io in caserma, la prendo dalle mie parti". Si tratta di una tv full hd che Filippo, l’interlocutore, commilitone della stessa caserma a Barletta, non troverebbe dalle sue parti. Non a un prezzo competitivo: ad Altamura non ci sono grossi centri commerciali. A Scafati sì e si risparmia. Ma invece che di hi-tech, i carabinieri incaricati dalla Procura di Torre pensano che Francesco parli di carichi di droga. E che faccia da intermediario con i trafficanti campani finiti nell’inchiesta in modo portare grosse quantità di stupefacenti in Puglia, dove svolge l’attività di militare. In una delle conversazioni il caporal maggiore parla di una "partita". È quella che l’amico vorrebbe vedere su uno schermo piatto con inserimento diretto della scheda pay tv. I carabinieri che trascrivono i brogliacci pensano che la "partita" sia una partita di droga: cocaina e marijuana. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. Le inutili visite dei legali al pm - Arriva l’alba del 21 settembre, l’arresto per spaccio. Francesco viene prelevato a Barletta, direttamente in caserma. Tre settimane in carcere a Santa Maria Capua Vetere, in isolamento, poi gli arresti domiciliari, revocati dal gip di Napoli oltre quattro mesi dopo. L’avvocato Guido Sciacca comincia ad andare in processione periodica dal pm di Torre a cui Marmo ha chiesto di condurre le indagini. L’errore è chiaro. Le certezze del magistrato trascolorano in dubbi. Ma né lui né il suo capo, Diego Marmo, hanno il coraggio di confutare il teorema dei carabinieri. Ci vorrà un’istanza per incompetenza territoriale e il passaggio del procedimento al Tribunale di Nocera Inferiore. C’è un’altra Procura, un altro gup. In mezzo anche molti rinvii, perché l’inchiesta è grossa, 73 indagati, una sessantina di misure cautelari, e la Dia di Salerno chiede gli atti. Francesco è - parole sue - "in un tritacarne che non finisce mai". Fino a quella mattina davanti al giudice per l’udienza preliminare di Nocera, "allo sfogo in cui ho tirato fuori tutto, anni di sofferenze". Da quattro anni senza lavoro - Pochi giorni dopo l’udienza e prima della sentenza di proscioglimento, al militare di Scafati viene diagnosticato un melanoma. Operazione d’urgenza al Pascale, mesi con l’incubo delle metastasi. Che per fortuna non ci sono, ma intanto Francesco neppure pensa più alla fine dell’incubo giudiziario, non si scrolla di dosso l’angoscia per la malattia. La moglie, i due figli piccoli, il padre in questi mesi riescono a scuoterlo. A spingerlo ad occuparsi delle istanze per essere reintegrato nell’esercito, che avranno esito forse in autunno. "Sono stati più di cinque anni, cominciati prima dell’arresto, con appostamenti, perquisizioni improvvise, che nemmeno capivo da dove venissero: andavo a comprare giubbotti al mercatino di via Irno, a Salerno, e le gazzelle mi fermavano armi in pugno, con i carabinieri convinti che dentro la borsa nascondessi chili di droga". Verifiche andate tutte a vuoto: neppure questo ha scalfito l’atarassia dei pm e del loro capo Marmo, contagiati da un’ostinazione che ricorda purtroppo quella terribile sfoderata dallo stesso magistrato trent’anni prima contro Enzo Tortora. Il Tribunale di Nocera ha riconosciuto 41mila euro d’indennizzo per errore giudiziario, "ma io ne ho spesi 32mila per gli avvocati e il resto". Il vicepresidente del Copasir Peppe Esposito, senatore campano di lungo corso, ha presentato un’interrogazione ai ministri della Giustizia e della Difesa, oltre che a Renzi. Francesco Raiola, soldato, marito, padre, e uomo ancora in piedi dopo il calvario dice di credere ancora nella giustizia: "Perché ho trovato magistrati che mi hanno ascoltato, creduto e si sono messi a cercare nelle carte riscontri della mia innocenza che io non avevo tirato fuori. Agli innocenti come me dico di non mollare". Altri magistrati sono distratti. Qualcuno che se ne accorge, corregge e fa giustizia, prima o poi arriva. Reati punibili a querela estinti dal risarcimento di Claudia Morelli Italia Oggi, 6 agosto 2016 Introdotta una nuova causa di estinzione del reato che consiste nella condotta riparatoria/risarcitoria del responsabile di reati punibili a querela. Inasprite le sanzioni per il reato di scambio elettorale politico-mafioso e per i reati contro il patrimonio come furto in abitazione, con scasso e aggravato e rapina. Il "Trojan", il programma malware dalle potenti capacità captatorie e dunque nuovo strumento di indagine, entra nel codice di procedura penale: sarà il giudice a deciderne il perimetro di utilizzo. La commissione giustizia del senato è riuscita ad approvare dopo un anno il disegno di legge di riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario (As 2067). L’aula di palazzo Madama se ne occuperà alla ripresa: il ddl è l’unico provvedimento all’esame nella settimana dal 13 al 15 settembre. E proprio il capitolo Trojan è stato uno di quelli a più alto grado di scontro politico, toccando da vicino le intercettazioni. E così, almeno stando alle ultime dichiarazioni di fuoco che si sono scambiati i rappresentanti di M5s e Pd (i primi a ritenere che la formulazione della norma sia eccessivamente "garantista" per i colletti bianchi; i secondi a difendere la scelta a tutela della privacy e nel contempo della efficienza delle indagini), il tema rischia di essere a tutti gli effetti "il cavallo di Troia" capace di scompaginare in aula il difficile equilibrio che la commissione giustizia ha raggiunto. Se è difficile non ritrovarsi negli enunciati di principio (rafforzare le garanzie difensive, assicurare la durata ragionevole del processo, rendere effettiva la funzione rieducativa della pena), la individuazione delle soluzioni puntuali ha scatenato feroci battaglie politiche e anche molte perplessità tecnico-giuridiche, nonostante la soddisfazione espressa dal guardasigilli Andrea Orlando; e quella dell’Unione delle camere penali, per i "miglioramenti" apportati con il nuovo testo. L’associazione Riparte il futuro ha manifestato invece qualche perplessità. I capitoli che il ddl affronta nei 40 articoli (di cui alcuni di delega) sono tanti e delicati, molti dei quali di grande impatto sul sistema anche se passati nel "silenzio" mediatico. In sintesi indichiamo i principali. Modifiche al codice penale - Modificata la disciplina della prescrizione: nella decorrenza, per alcuni reati di maltrattamento, violenza sessuale, stalking, dal compimento del 18° anno di età della vittima minore; e in generale nella sospensione (allo scopo dichiarato di evitare l’andata in fumo di migliaia di processi per eccessiva durata) di un anno e sei mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e altrettanti dopo la sentenza di condanna in appello. Per alcuni reati di corruzione l’interruzione del reato avrà effetti sulla loro prescrizione, aumentandone della metà i termini. Sono inoltre disciplinati l’ampliamento delle ipotesi della procedibilità a querela di parte per i reati meno gravi contro la persona e le misure di sicurezza personale (principio di irretroattività e limiti al regime del cosiddetto doppio binario, per limitare al massimo il sacrificio della libertà personale). Modifiche al codice di procedura penale - Nel titolo II trovano spazio le modifiche ad alcuni temi del processo: definizione del procedimento per incapacità dell’imputato; comunicazione del domicilio eletto con assenso del difensore d’ufficio; introduzione del diritto della parte offesa a ricevere comunicazioni sullo stato del procedimento; tetto alla possibilità di proroga della indagini preliminari e limiti temporali (tre mesi) al pm per decidere se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione. Altri capitoli di riforma sono il giudizio abbreviato, i requisiti della sentenza e la semplificazione delle impugnazioni, anche questo capitolo delicato. È previsto che possa essere la parte stessa a proporre impugnazione (ma non per Cassazione); e che l’atto di impugnazione debba contenere l’indicazione delle prove delle quali si deduce l’inesistenza o l’omessa o erronea valutazione; e stabilita l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa; e la reintroduzione del concordato sui motivi in appello; sono introdotte alcune modifiche al giudizio in Cassazione, in particolare sugli aspetti relativi alla inammissibilità del ricorso e al tema della enunciazione del principio di diritto e della rimessione alle sezioni unite. Partecipazione al dibattimento a distanza - Diventa la regola quando l’imputato è soggetto a misure di protezione o se è imputato per reati di associazione mafiosa etc. Intercettazioni. Nel titolo IV è contenuta anche la delega per la riforma delle intercettazioni: perno della procedura è il pubblico ministero, che dovrà assicurare la riservatezza del contenuto di intercettazioni che siano inutilizzabili e lo contengano dati sensibili non pertinenti o rilevanti ai fini delle indagini sui reati per i quali si procede. Questo materiale sarà conservato in un archivio riservato, con facoltà di esame e ascolto ma non di copia per i difensori delle parti e per il giudice fino allo spirare del termine delle indagini preliminari. L’emendamento "D’Addario" - È introdotta una nuova fattispecie penale (punita con la reclusione non superiore a quattro anni) volta a punire coloro che diffondano il contenuto di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni telefoniche fraudolentemente captate, per recare danno alla reputazione. Le ragioni di difesa o di cronaca escludono la punibilità. Viene infine conferita delega per la disciplina dell’utilizzo dei captatori informatici (Trojan) che potranno essere messi in funzione solo da remoto, nei limiti stabiliti dal decreto di autorizzazione del giudice. La registrazione deve avvenire a cura della polizia giudiziaria o da incaricati, con la redazione di un verbale circostanziato e descrittivo delle modalità, tempi e durata; la registrazione deve essere inviata direttamente al server della procura. Non c’è reato se si occupa "in nero" un rifugiato di Daniele Cirioli Italia Oggi, 6 agosto 2016 Una nota del ministero del lavoro chiarisce le conseguenze dell’occupazione irregolare. Non commette reato chi occupa in nero rifugiati regolari. In tal caso, infatti, si applica solo la maxi sanzione per lavoro sommerso e non anche la pena della reclusione minima da sei mesi a tre anni e la multa di 5 mila euro applicate, invece, se l’occupazione in nero riguarda rifugiati irregolari. In quest’ultimo caso, inoltre, è da ritenersi esclusa anche l’operatività della diffida. Lo precisa il ministero del lavoro nella nota prot. 14751/2016 in risposta a un quesito relativo al nuovo status di rifugiato introdotto dal decreto legislativo n. 142/2015. Lo status di rifugiato. Il quesito concerne l’occupazione irregolare (in nero) di cittadini extracomunitari richiedenti protezione internazionale e asilo politico e chiede di sapere quali sanzioni applicare. In primo luogo il ministero ricorda che la disciplina sul riconoscimento dello "status di rifugiato", di cui al decreto legislativo n. 25/2008, è stata modificata dal decreto legislativo n. 142/2015 che ha attuato le direttive Ue n. 2013/33 e n. 2013/32. In base alle nuove norme il "richiedente protezione internazionale" è "lo straniero o l’apolide che ha presentato domanda di protezione ai sensi del decreto legislativo n. 25/2008 per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, in ordine alla quale non è stata ancora adottata una decisione definitiva, ovvero che ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale". Al richiedente la protezione è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido per sei mesi e rinnovabile fino a decisione della domanda; la ricevuta attestante la presentazione della richiesta di protezione, rilasciata contestualmente alla verbalizzazione della stessa richiesta, costituisce "permesso di soggiorno provvisorio". Tale permesso di soggiorno dà diritto a espletare attività lavorativa solo una volta decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di protezione se il relativo procedimento non si è, a tale termine, concluso e il ritardo non è addebitabile al richiedente. Resta fermo, tuttavia, che tale permesso di soggiorno non può essere convertito in permesso per motivi di lavoro. Rifugiati regolari. Per inquadrare correttamente la fattispecie di violazione, dunque, ciò che rileva è proprio la presenza o meno del "permesso di soggiorno provvisorio", ossia della ricevuta che attesta che è stata presentata la richiesta di protezione. Pertanto, spiega il ministero, indipendentemente dalla documentazione di fatto esibita dai lavoratori stranieri o dal datore di lavoro in sede di controllo, è necessario acquisire la ricevuta di verbalizzazione" della domanda di protezione, dal cui rilascio vanno calcolati i 80 giorni decorsi i quali è possibile l’espletamento dell’attività lavorativa. Il modello di ricevuta approntato dal ministero dell’interno, aggiunge il ministero, oltre a specificare che ha valore di permesso di soggiorno provvisorio, espressamente attesta che, decorso il termine di 60 giorni dal rilascio, il cittadino straniero "è autorizzato a svolgere attività-lavorativa". In conclusione, nel caso in cui venga riscontrata l’occupazione "in nero" (è tale, si ricorda, l’occupazione di soggetti senza avere effettuata la comunicazione preventiva di assunzione, la "Co") di stranieri in possesso della ricevuta dì verbalizzazione della domanda, trova applicazione soltanto la maxi sanzione, mentre sono escluse le conseguenze penali (ex articolo 22, comma 12, decreto legislativo n. 286/1998). Rifugiati irregolari. Diversamente, l’ipotesi di occupazione in nero di stranieri ai quali non sia stato rilasciato il permesso di soggiorno provvisorio (rectius la ricevuta, della verbalizzazione della domanda) ovvero prima che siano trascorsi i 80 giorni dal rilascio della ricevuta, integra la fattispecie dì occupazione irregolare di cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno. Il che comporta, prima di tutto, l’interessamento delle forze dell’ordine per verificare la posizione degli stranieri; in secondo luogo implica l’applicazione della maxi sanzione con contestazione di fattispecie aggravata, nonché delle sanzioni penali senza possibilità di ricorso alla diffida. Sulla discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza di Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2016 Quella che segue è l’ennesima testimonianza della disumanità che troppo spesso si annida nelle maglie della giustizia italiana. Ancora una volta il magistrato di sorveglianza di Catanzaro nega un permesso di necessità ad un detenuto a cui stava per morire il padre. Come si evince chiaramente dalla lettera e dagli atti, a parità di condizioni detentive e di tipologia di richiesta, in questo caso estremamente palese trattandosi di due fratelli e dello stesso padre morente, ad uno dei fratelli la richiesta si accoglie mentre all’altro si nega. Unica differenza il distretto di appartenenza. Mentre al sig. Sorrentino detenuto a Voghera la magistratura di sorveglianza di Pavia accordava il permesso di necessità per dare l’ultimo saluto al padre morente, al sig. Sorrentino detenuto a Catanzaro il Magistrato di Sorveglianza rigettava sistematicamente la medesima richiesta. Le numerose sentenze di Cassazione che stabiliscono che anche i detenuti in regime di 41bis hanno diritto a dare l’ultimo saluto ai congiunti morenti non hanno alcun valore per alcuni Magistrati di Sorveglianza. Eppure, come altre volte sollecitato, la Magistratura di Sorveglianza dovrebbe avere un ruolo di garanzia dei diritti dei detenuti e della corretta esecuzione penale, invece ci troviamo difronte ad una discrezionalità che determina un vero e proprio discrimine perché non solo la legge non è uguale per tutti ma, spesso, dipende dal luogo e dal tempo in cui una persona si trova a scontare la pena. La lettera dal carcere Mi chiamo Ciro Sorrentino, nato a Napoli, sono recluso a Catanzaro, per un residuo pena di 2 anni per reati contro il patrimonio (non contro la persona), ho 53 anni, sono pluri-infartuato, con fibroma al fegato e nevralgia che mi impedisce di camminare normalmente. Ho chiesto con urgenza un permesso di necessità per vedere mio padre di 76 anni, specificando che non lo vedevo da 14 anni, affetto da tumore, sottoposto a chemioterapia, che era stato dimesso dall’ospedale dopo una crisi respiratoria; viste le gravissime condizioni a mio fratello pure detenuto il giudice di sorveglianza di Pavia aveva concesso 4 ore di permesso immediatamente. Il magistrato di sorveglianza di Catanzaro, invece, ha rigettato l’istanza perché mancava la documentazione (allego ordinanza). Documentazione che non potevo avere vista l’urgenza e che non è prevista dalla legge. Mio padre è morto dopo una settimana. E non potremo rivederci. Vi chiedo di informare il Presidente della Repubblica come capo del Csm, il Ministro della Giustizia e il Procuratore Generale della Cassazione, per verificare se è normale un tale rifiuto considerato che la legge non prevede nessun obbligo di allegare documentazione, anzi è il giudice che ha il dovere di fare accertamenti sui motivi presentati (art. 30 bis OP). Visto il danno che ne é derivato. Chiedo alle stesse Autorità di valutare la posizione del giudice con la stessa superficialità e assenza di garanzie usata per rigettare la mia richiesta. Chiedo inoltre alle stesse Autorità se un tale giudice possa ricoprire un posto che è previsto dalla legge per tutelare i detenuti e non di affliggerli. Carcere di Parma, precisazioni su articolo testata parmatoday.it di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2016 Spettabile Redazione, con riferimento alle dichiarazioni del Garante del Comune di Parma, e riportate dalla vostra testata in data 2 agosto u.s., relative al ritenuto appello della Garante regionale per la prosecuzione dei lavori di costruzione del nuovo padiglione presso gli II.PP. di Parma, si precisa quanto segue, non essendo le stesse veritiere: ad aprile 2015, nel corso di una riunione dei Garanti regionali con i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, è stata data la conferma che sarebbero stati portati a termine i lavori di ampliamento del penitenziario parmense, con la costruzione di un nuovo padiglione, anche in ragione dell’aggiudicazione dell’appalto. Ciò premesso, come anche riportato di recente con un comunicato stampa (si veda il link in fondo) l’auspicio della Garante regionale è che i posti della nuova struttura vengano dedicati a ospitare spazi per l’ampliamento del Centro diagnostico terapeutico, di cui è costante la totale copertura dei posti disponibili e di conseguenza un numero eccessivo di detenuti affetti da gravi patologie, in ragione dei posti limitati a disposizione, viene collocato nelle ordinarie sezioni detentive, ambienti ovviamente inidonei per una persona malata il tutto nell’attesa, spesso lunga, che si liberi un posto. Tale criticità è stata segnalata all’Amministrazione Penitenziaria a più riprese dalla Garante regionale, in ragione delle doglianze giunte in maniera ricorrente da parte dei detenuti, soprattutto quelli con lunghe pene da scontare, legate alla promiscuità determinata dalla convivenza di persone sane e malate, che comporta un peggioramento delle condizioni di vita complessive, risultando fondamentale per la tutela del diritto alla salute delle persone detenute che i trasferimenti e le assegnazioni per motivi sanitari, giustificati per assicurare cure più adeguate al detenuto rispetto al carcere di provenienza, intervengano solo previa valutazione dell’effettiva sostenibilità della presa in carico nel breve periodo. *Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale Regione Emilia-Romagna Calabria: Rita Bernardini con delegazione radicale torna a visitare le carceri calabresi strill.it, 6 agosto 2016 Guiderà una delegazione del Partito Radicale composta da Giuseppe Candido, Gianpaolo Catanzariti, Rocco Ruffa, Ernesto Biondi, Cesare Russo, Claudio Scaldaferri, Antonio Giglio all’interno dei penitenziari di Catanzaro, Vibo Valentia e Palmi. Si parte venerdì 5 agosto alle ore 15 al carcere "Ugo Caridi" di Siano - Catanzaro, quindi sabato 6 alle ore 10 alla casa circondariale di Vibo Valentia ed infine domenica 7 agosto alle ore 12 al carcere di Palmi (RC). L’iniziativa si colloca nell’ambito della campagna "Spes contra spem - liberi dentro" per accendere i riflettori esterni proprio verso un mondo ancora troppo chiuso e per impedire che le condizioni di vita dei detenuti rimangano sotto un pericoloso cono d’ombra. "Essere speranza" contro "avere speranza" è il messaggio di Pannella che porteremo ai detenuti. Essere speranza contro l’avere speranza è il messaggio di Pannella che porteremo ai detenuti. Amnistia giustizia libertà è il programma per la transizione verso lo Stato di diritto attraverso l’affermazione del diritto umano alla conoscenza. Il partito radicale transnazionale prosegue infatti anche in Calabria, dopo il tour di Natale 2015 e Pasqua 2016, l’attività da tempo intrapresa e le campagne politiche decise a livello nazionale anche sul versante della giustizia dei diritti umani e della detenzione e che vedrà, per la prima volta, la celebrazione del 40° Congresso del Partito Radicale Transnazionale Transpartito, il primo dopo la scomparsa di Marco Pannella, all’interno del carcere romano di Rebibbia, nei giorni 1, 2 e 3 settembre. Viterbo: quel suicidio in cella che non convince neanche il Gip di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2016 Rigettata la richiesta di archiviazione sul suicidio di Claudio Tomaino, ritrovato senza vita nel 2008 al carcere di Viterbo. Per la terza volta consecutiva il gip del tribunale viterbese ha rigettato la richiesta di archiviazione presentata dal sostituto procuratore, Renzo Petroselli (pm titolare delle indagini, su un altro suicidio poco convincente: quello dell’urologo siciliano Attilio Manca), imponendogli altri mesi di indagini per dissolvere alcuni dubbi ritenuti importanti. Troppe cose non tornano. Claudio Tomaino, rinchiuso nel carcere di Viterbo in attesa di giudizio, viene trovato morto la mattina del 18 gennaio 2008. Le autorità carcerarie parlano subito di suicidio per soffocamento. L’uomo si sarebbe tolto la vita infilando la testa in una busta di plastica dentro la quale aveva immesso il gas di un fornello scaldavivande. Ma su quel presunto suicidio, la madre dell’uomo, ha sempre mostrato dubbi. Alcuni punti oscuri sono ancora da chiarire. Innanzitutto le tracce di sangue rinvenute sul volto del presunto suicida, sul lenzuolo e sulla federa del cuscino. Un suicidio per soffocamento non provoca fuoriuscita di sangue. Non torna nemmeno il ruolo dell’altro detenuto che era con lui e al quale era stato assegnato il compito di controllarlo: non si sarebbe accorto di nulla. E lo stesso detenuto aveva affermato che il giorno prima, il presunto suicida sarebbe stato aggredito e pestato a sangue da altre persone. L’avvocato dei familiari aveva denunciato un’autopsia, a due giorni dalla morte, "assai sommaria". C’è anche una curiosa coincidenza: si sarebbe ucciso pochi giorni prima dell’udienza davanti alla Corte d’assise di Catanzaro in cui avrebbe dovuto essere depositata la perizia psichiatrica che avrebbe determinato l’esito del processo. Tutte perplessità che a quanto pare non sono state chiarite dalle richieste di archiviazione. Ma ci sono tanti dubbi anche per il reato per il quale è stato tratto in arresto. Un reato indicibile: parliamo della strage di Caraffa avvenuta il 27 marzo del 2006 nel catanzarese nella quale venne sterminata a colpi d’arma da fuoco un’intera famiglia. Parliamo di Camillo Pane e la moglie Annamaria, i figli Eugenio e Maria, di 20 e 18 anni, zii e cugini di Tomaino. In un primo momento si parla di più autori dell’omicidio poi, invece, è lo stesso Claudio Tomaino ad autoaccusarsi; raccontando che era stato spinto da motivi economici e non solo. Una storia che forse è tutta da riscrivere. Ne è convinta Maria Pane, la madre di Claudio Tomaino, la quale aveva chiesto alla stessa Procura catanzarese di riaprire le indagini su quel caso, tramite un esposto presentato dall’avvocato Noemi Balsamo. Sicuramente, se era colpevole, non poteva essere l’unica persona a compiere quella strage. Tomaino venne arrestato con l’accusa di omicidio volontario plurimo aggravato in concorso con ignoti: gli inquirenti sono convinti che quella strage sia stata compiuta da Tomaino, ma in complicità con altre persone che non verranno mai rintracciate. Una strage che ha portato anche alla pista esoterica, oltre che economica. Nel suo appartamento, sulla scrivania, venne rinvenuto un contratto con Satana, firmato col sangue. A quel punto, durante il suo primo interrogatorio, disse di far parte di una setta satanica, alla quale apparteneva anche Camillo Pane, una delle vittime, e parlò degli incontri segreti avvenuti sia in Calabria che fuori, dei riti che dovevano essere eseguiti alla perfezione (egli stesso ammette: "Ho studiato e ho fatto pratica"), di come cancellare i segni dei sacrifici e dell’importanza del sacerdote rispetto agli adepti. Ed è proprio durante l’interrogatorio che si sarebbe accusato, dicendo che l’uccisione dei suoi quattro parenti sarebbe stato un sacrificio richiesto da Satana, in cambio dell’accrescimento del suo potere. Con la sua morte il processo per stabilire la verità è stato ovviamente chiuso. Ma rimane aperta ancora la verità su come sia effettivamente morto in carcere: suicidio? Oristano: il sottosegretario Gennaro Migliore "serve una sezione detentiva in ospedale" Agi, 6 agosto 2016 Il tema della sanità carceraria in Sardegna è una delle priorità individuate al termine della visita che oggi il sottosegretario della giustizia Gennaro Migliore ha effettuato al carcere di Massama, a Oristano, e alla colonia penale di Isili, accompagnato dalla parlamentare oristanese e segretaria della Camera dei Deputati Caterina Pes e dal direttore degli istituti di pena Pierluigi Farci. "È necessario per la Sardegna che si definisca una sezione detentiva in un ospedale, in modo tale che possano essere ricoverate persone che abbiano particolari esigenze di sicurezza senza arrecare danno ai cittadini comuni", ha dichiarato all’Agi il sottosegretario Migliore annunciando passi formali per trovare un accordo anche con gli altri referenti istituzionali. Al momento, infatti, è questo un problema che crea non poche difficoltà nel circuito carcerario isolano, privo del supporto ospedaliero necessario. Nel corso della visita due gli altri argomenti di maggiore rilevanza affrontati: quello degli organici negli istituti di pena, da tempo incompleti, è quello delle colonie penali, come strumento di miglioramento del percorso di espiazione della pena. "Noi abbiamo preso un impegno per potenziare l’attività delle colonie penali in Sardegna: Isili, Is Arenas e Mamone", ha dichiarato all’Agi il sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore. "E poi un impegno per verificare, con la collaborazione dei direttori, ai quali ho chiesto che mi inviassero delle relazioni, tutte le disfunzionalità che ci sono: scarsità di personale, nei rapporti con le autorità sanitarie". "Oggi", ha affermato ancora il sottosegretario Migliore, "ho potuto verificare il grande impegno del personale della polizia penitenziaria e civile presente negli istituti penitenziari in Sardegna, che hanno molteplici problematicità legate in molti casi al tipo di territorialità, comunque molto distante dal resto dell’Italia. Ci sono poi delle strutture, come Isili, che hanno grandi potenzialità ma che magari dal punto di vista infrastrutturale non sono sufficientemente adeguate". "Il percorso di investimento che l’Amministrazione vuole fare nei confronti della Sardegna", ha proseguito Migliore, "riguarda quindi non solo la riconfigurazione in relazione a quelle che sono anche le nuove tipologie di istituto e le tipologie di detenuto, ma anche la possibilità di realizzare delle coperture di organico per potenziare le attività. Per esempio qui a Oristano c’è un’esigenza particolare legata alla presenza di detenuti in alta sicurezza, quindi un maggiore carico dal punto di vista della pressione per quanto riguarda la sicurezza. Oppure c’è il caso di quanti sono destinati alla colonia penale, come la colonia agricola di Isili, nelle quali si può sviluppare la già ottima attività che si sta facendo sia per la produzione agricola, sia per la produzione e trasformazione alimentare. Si tratta, insomma, di avere la capacità di individuare quali sono i problemi e dare una mano affinché vi possa essere un pieno riconoscimento della funzione importantissima svolta dal personale". Carinola (Ce): apre una sezione per i sex offender, la protesta degli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2016 Sarà realizzato un nuovo padiglione destinato ai "sex offender" nella casa circondariale casertana di Carinola. Gli agenti penitenziari hanno accolto la notizia con grande preoccupazione e in merito alla vicenda, il presidente dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, ha inviato una lettera, tra gli altri, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo. "Con un organico previsto complessivo di 149 unità - dice Moretti - è inimmaginabile gestire un carcere come Carinola, destinato a 680 detenuti, essendo evidente che a fronte dell’aumento della popolazione detenuta e, quindi, ad una riduzione dei livelli minimi di sicurezza si è registrato un proporzionale aumento delle attività trattamentali". Il segretario Cirio Auricchio dell’Uspp aggiunge: "Non è tollerabile aprire reparti detentivi nuovi senza personale di polizia penitenziaria, sarebbe invece più opportuno collocare i sex offender nell’ex Opg di Aversa che potrebbero essere riqualificato e destinato esclusivamente ad ospitare questa particolare tipologia di detenuti". Attualmente il carcere di Carinola ha una capienza massima di 582 detenuti e ne ospita 434. Con il nuovo padiglione arriverebbe appunto ad una capienza massima di 680 detenuti. Il sindacato di polizia propone l’utilizzo dell’ex Opg di Aversa per inserire i sex offender. Ma l’istituto, già convertito in carcere ordinario, mano a mano sta per essere riempito da altri detenuti: ad oggi, secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero della giustizia, ne ospita 80. E anche in quel caso le polemiche non sono mancate. Come ad esempio l’ex senatore ed ex sottosegretario alla giustizia Pasquale Giuliano, padre del tribunale di Napoli Nord ad Aversa, il quale accusò il governo di non aver voluto trasformare - quasi a costo zero - l’ex Opg in una piccola cittadella giudiziaria. Secondo Giuliano, tale opera non solo avrebbe risolto tutti i problemi degli operatori di giustizia, dando, comunque lustro ad Aversa, ma avrebbe consentito di riaprire gli spazi interni alla città integrando, finalmente, due realtà sino ad oggi divise, risolvendo anche problemi di mobilità urbana all’interno del centro storico. Rimane comunque il dato oggettivo che c’è la necessità di aprire nel carcere di Carinola una sezione speciale riservata ai sex offender, detenuti che hanno commesso reati a sfondo sessuale (violenze nei confronti di donne e minori, sfruttatori della prostituzione, pedofili) e che per questo godono di uno spazio protetto rispetto al resto della popolazione carceraria che, secondo un codice non scritto, non ha rispetto per coloro che si sono macchiati di colpe infamanti. In Italia, poi, le strutture destinate ai sex offenders sono poche e, tra queste, c’è quella di Bollate, in provincia di Milano, considerata un modello. Per aprire padiglioni speciali ci vuole un personale adatto e un team di operatori esperti nel settore e capaci di far intraprendere un percorso di psicoterapia specifico. Si possono aumentare le pene, si possono varare norme che tengano ? come nel caso dei pedofili - i "sex offender" lontani dalle possibile prede come viene fatto in diversi paesi europei, ma se non si intraprende un percorso di cura, il sex offender di turno tornerà a commettere le violenze, fino a quando verrà scoperto nuovamente. Quindi è importantissimo il programma trattamentale. Infatti, tali programmi per sex offenders esistono in Canada, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Belgio, in Francia, in Spagna, nei Paesi Scandinavi e in Olanda. Tranne l’eccezione di Bollate che riesce a recuperare i sex offender, non esiste però in Italia, dove teniamo in carcere questi soggetti per un tempo più o meno lungo, senza nessun intervento e lasciati uscire senza nessun monitoraggio. Con il risultato che quelli più a rischio commettono recidive, e quelli che lo sarebbero meno finiscono per compiere reati comuni. Il rischio che un sex offender uscito dal carcere compia una truffa, un furto o una rapina è molto più elevato addirittura rispetto al rischio di recidiva sessuale. Questo è il risultato di un soggiorno in carcere di persone in genere incensurate, che entrano in contatto con un ambiente deviante e che quando escono non hanno più nulla (amici, legami familiari, lavoro), tantomeno un Servizio a cui riferirsi. Bologna: la Garante regionale Desi Bruno in visita al carcere "aumentano le donne" di Marco Sacchetti assemblea.emr.it, 6 agosto 2016 Aumento delle detenute (in totale 72, di cui 29 straniere e una di loro con un figlio); e la sempre "gravissima carenza di organico dei funzionari di area giuridico-pedagogica" riconosciuta dal giudice di sorveglianza su reclamo di un detenuto ma impugnata dall’amministrazione penitenziaria. Sono le due criticità al carcere della Dozza di Bologna rilevate in una visita tenuta nei giorni scorsi dalla Garante dei detenuti dell’Assemblea legislativa, Desi Bruno. La figura di garanzia per le persone private della libertà personale istituita dal consiglio regionale dell’Emilia Romagna ha visto anche la direttrice Claudia Clementi, con cui ha incontrato alcune detenute. Le donne - riferisce Bruno - hanno parlato "della difficile convivenza legata alla promiscuità fra chi deve espiare lunghe condanne e chi, al contrario, è prossimo alla fine della pena". Al momento della visita di Bruno erano presenti 745 detenuti, di cui 478 stranieri. I condannati in via definitiva sono 444; 94 sono nel circuito dell’Alta sicurezza; 72 appunto le donne, di cui 29 straniere; 14 persone ammesse a lavorare all’esterno; 5 semiliberi. I tossicodipendenti sono 233. Bruno ha anche incontrato alcuni detenuti ex collaboratori di giustizia, che vivono in una sezione separata dalle altre. Diffusa la richiesta di "incrementare" le attività lavorative, formative ed educative. Sempre in riferimento alla popolazione femminile, tre detenute soggiornano nelle due camere di pernottamento, comprensive anche di una piccola stanza per uso "ricreativo", dell’articolazione "Salute mentale" della Dozza. "Si sta valutando, in collaborazione con l’Ausl di Bologna- spiega la Garante- di organizzare il reparto psichiatrico in ambienti più adeguati al piano terra, dove in passato era collocata l’Alta sicurezza femminile", come già era stato sollecitato dall’Ufficio. Semaforo verde da Bruno invece per quanto riguarda le condizioni di "umanizzazione" della pena, con l’ampliamento progressivo degli orari di apertura delle celle. Il regime di massima apertura prevede fino a oltre 9 ore giornaliere ed è in vigore, in particolare, nel reparto penale, dove ci sono 97 detenuti condannati in via definitiva alla reclusione a 5 o più anni. Lo stesso regime riguarda anche gli spazi del reparto giudiziario, con il coinvolgimento di 100 detenuti, e la sezione femminile, dove sono collocate 36 donne condannate in via definitiva. Nella struttura bolognese, inoltre- sottolinea Bruno- è per lo più garantita la separazione degli imputati dai condannati in via definitiva. La Garante ha registrato positivamente anche l’esistenza di spazi dedicati alla prima accoglienza dei detenuti, dove rimangono fino a quando non sono stati effettuati gli screening sanitari per verificare se siano affetti da malattie contagiose e dove avviene una prima valutazione su eventuali rischi di suicidio. C’è anche una sezione cosiddetta dimittendi, destinata al reinserimento sociale di coloro cui rimangono pochi mesi prima della scarcerazione. È operativa anche la sezione di detenzione per accogliere i detenuti (44 al momento della visita di Bruno) dotati di una pericolosità e di una tendenza alla prevaricazione tali da dover essere gestiti con maggiore attenzione, ai quali è necessario, in ogni caso, garantire l’accesso a un adeguato trattamento affinché possa essere rivalutato il giudizio di pericolosità. Tempio Pausania: fallisce il tentativo di suicidio di due detenuti di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 6 agosto 2016 Uno è stato salvato dal compagno di cella e dal pronto intervento di un agente L’altro cercava di avvelenarsi con i farmaci. La segreteria Ussp elogia il collega. Due detenuti della Casa di reclusione "Paolo Pittalis" di Nuchis hanno tentato di togliersi la vita a poche ore di distanza uno dall’altro. Il primo atto di autolesionismo sul quale non è trapelata alcuna notizia si sarebbe verificato nella serata di mercoledì 3, quando un detenuto avrebbe cercato di avvelenarsi con dei farmaci. Trasportato al "Paolo Dettori" di Tempio è stato salvato dai medici. Il secondo episodio, di cui si è appreso grazie a un comunicato dell’Uspp (Unione sindacati di Polizia penitenziaria), è accaduto alle 7,15 di ieri, quando un detenuto ha cercato di impiccarsi. Ad accorgersi di quanto stava accadendo è stato un detenuto "lavorante", un incaricato cioè della pulizia, che avvicinandosi ad una cella, ha visto un uomo penzolare dal collo, tenuto disperatamente sollevato da un altro compagno di cella. Urlando, il detenuto lavorante ha attirato l’attenzione del poliziotto in servizio al piano che, rendendosi immediatamente conto di quanto stava accadendo, si è precipitato in soccorso del malcapitato. Immediatamente con grande perizia e prontezza di spirito, ha sciolto il cappio dal collo del detenuto, adagiandolo sul pavimento per i primi soccorsi. Sul posto sono arrivati subito altri poliziotti che altrettanto prontamente hanno trasportato l’uomo in infermeria per le cure del caso. È stato appurato che i lacci usati per l’insano gesto erano stati ricavati dal girovita dei pantaloncini. Sull’episodio (il primo noto dal 27 novembre del 2012, da quando cioè la struttura fu inaugurata), nella tarda serata ha diramato un comunicato l’Unione sindacati di Polizia penitenziaria che svela probabilmente una realtà che, dall’esterno si pensava assente nella struttura nuchese. "Ancora una volta - segnala la nota - assistiamo ad un evento di questo tipo. Grazie al detenuto che ha avvisato di quanto stava accadendo e al collega che prontamente è intervenuto si è evitato il peggio". La segreteria Provinciale Ussp "esprime un elogio al collega per la sua determinazione e rapidità nel salvare la vita ad un essere umano". Frosinone: Fns-Cisl; le carceri scoppiano, tra disagi e criticità di Giampiero Cinelli ciociariaoggi.it, 6 agosto 2016 Bisogna bilanciare il sovraffollamento nelle carceri e aumentare il personale di Polizia Penitenziaria. Questo in sostanza è il messaggio lanciato dalla Fns (Federazione Nazionale Sicurezza) Cisl regionale, che indica che ci sono 621 detenuti in più rispetto a quelli previsti, sparsi nei 14 istituti del Lazio. Per quanto concerne la nostra provincia, a Frosinone, nell’istituto "Giuseppe Pagliei", i detenuti regolamentari sono 506, quelli presenti 546. A Cassino i regolamentari risultano 203, ma con 284 detenuti presenti. A Paliano i regolamentari si contano in 77, mentre i presenti ammontano a 143. Appurato che c’è tanto da fare per venire a capo del problema, negli ultimi tempi si sono notati dei miglioramenti. Come fa sapere il segretario Massimo Costantino: "Stiamo assistendo in questi mesi ad un bilanciamento delle presenze negli istituti penitenziari ed un recupero dei posti attualmente non disponibili che vede deflazionare la popolazione detenuta all’interno di alcuni penitenziari, non tutti purtroppo. Allo stesso tempo vediamo aumentare l’uscita verso l’esterno, attraverso l’attivazione di iniziative d’ufficio, tramite le misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare". La situazione è aggravata - come detto all’inizio - dalla insufficiente presenza di personale addetto nei penitenziari dove attualmente è alto il sovraffollamento, così da non consentire lo svolgimento del servizio nelle migliori condizioni lavorative, garantendo maggiore sicurezza e controllo. Un ulteriore problema è quello dei detenuti affetti da patologie psichiatriche e/o trasferiti per ragioni di ordine e sicurezza penitenziaria, per i quali manca una copertura h24 da parte del personale medico. Anche per questo le lamentele degli addetti ai lavori si fanno sempre più dure e insistenti. Lo scorso 11 luglio infatti, si è svolta una manifestazione con tutti i sindacati. Porto Azzurro (Li): la raccolta differenziata? intanto iniziano i detenuti tenews.it, 6 agosto 2016 Saranno i detenuti di Forte San Giacomo a dare per primi il buon esempio necessario per far decollare la raccolta differenziata nel territorio comunale di Porto Azzurro. Il progetto è stato presentato nella mattina di venerdì 5 agosto all’interno della Casa di Reclusione "Pasquale De Santis", in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato - fra gli altri - il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Giuseppe Martone, il sindaco di Porto Azzurro Luca Simoni e la Presidente di Esa Gabriella Solari. Il progetto prevede da parte di ESA, che gestisce il ciclo dei rifiuti all’Isola d’Elba, una prima fase di formazione e informazione del personale coinvolto e degli stessi detenuti, con interventi anche nelle aree esterne dove saranno installate delle compostiere per i rifiuti agricoli. Il carcere di Porto Azzurro produce attualmente circa 650 kg di rifiuti al giorno, per un totale annuo di 237 tonnellate. Di questi, attualmente il 90% è rifiuto indifferenziato e il 10% soltanto è rappresentato da carta e cartone. L’obiettivo, seguendo gli schemi predisposti da ESA - contenitori specifici in ogni cella, contenitori appositi per il personale e le abitazioni civili, compresi bar e mense - è di raggiungere una percentuale vicina all’80% di raccolta differenziata. Durante la conferenza stampa il sindaco di Porto Azzurro ha annunciato l’ingresso del suo comune - l’ultimo dell’Elba - in ESA dai primi di ottobre, in contemporanea con l’inizio di una raccolta differenziata "molto spinta" sul suo territorio comunale. Eboli (Sa): "Le Canne Pensanti", la compagnia di detenuti e volontari va al Giffoni Teatro Ristretti Orizzonti, 6 agosto 2016 La compagnia "Le Canne Pensanti", gruppo teatrale formato da detenuti e volontari operanti presso la Casa di Reclusione di Eboli, porta in scena alla diciannovesima edizione di Giffoni Teatro "Purché sia purè". Con la regia di Massimo Balsamo Francesco, Raffaele, Antonio e tutti gli altri detenuti della compagnia "(in)stabile" dell’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli calcheranno la scena che è stata di Giorgio Albertazzi, Michele Placido, Peppe Barra, Mario Scarpetta e narreranno in chiave tragicomica la problematica che affligge sempre più famiglie della disabilità. Caratteristica della compagnia teatrale è la sostanziale autogestione all’interno dell’ istituto penitenziario in cui, da anni, si attuano percorsi di recupero basati sul fondamentale concetto dell’autodeterminazione: solo riappropriandosi del proprio senso di responsabilità si riesce a riappropriarsi del senso delle regole e del corretto vivere in una comunità di uomini liberi. Comincia, dunque, dal dentro (inteso sia nel senso dell’intima revisione del proprio vissuto, sia dello spazio fisico in cui detto processo si avvia, matura e viene portato a compimento) il percorso verso l’integrazione sociale. Uno degli strumenti fondamentali di cui ci si avvale in questo delicato percorso è proprio il teatro che, mai come in questo caso, riacquista tutta la sua forza catartica e liberatoria. Sulle tavole del teatro uomini non più liberi vengono messi nelle condizioni di "spiccare il volo" e di proiettarsi, in anticipo, verso quella futura libertà a cui il programma seguito all’interno della Casa di Reclusione è finalizzato. In tal modo il carcere diventa laboratorio di sperimentazione non solo artistica ma sociale ed il teatro strumento di riscatto. "La rassegna vuole essere un momento di confronto tra esseri umani giocato sul filo sottile e delicato delle emozioni. Non si è reclusi ma diversamente liberi quando, complice la finzione scenica, mondi solo apparentemente diversi si incontrano e si confrontano". È quanto si legge sulla brochure della rassegna teatrale "Diversamente Liberi" - giunta alla quarta edizione - in questo pensiero il direttore dell’Istituto, Rita Romano, sintetizza tutta la filosofia che si persegue all’interno dell’istituto: abbattere (almeno metaforicamente) i muri, superare i confini, divellere le sbarre per costruire ponti che siano garanzia di inclusione e di integrazione. Ravenna: premiazione del concorso letterario "Parole liberate: oltre il muro del carcere" faenzanotizie.it, 6 agosto 2016 Sabato alle 19 la consegna all’officina creativa "L’Infinito" di Brisighella (Ra), presenta Michele Cucuzza. Sabato 6 agosto alle ore 19, all’officina creativa/ristorante L’infinito" sarà consegnato il Premio "Parole liberate: oltre il muro del carcere" (paroleliberate.it), un premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane. Si tratta del premio promosso quest’anno anche a Sanremo nella serata finale. Dalla poesia di un detenuto una canzone musicata da un big, Virginio Simonella. Premiato Giuseppe Catalano del carcere di Opera a Milano per la sua poesia "P.S. (post scriptum)". L’iniziativa approda sotto i tre colli grazie all’interessamento di Gianluca Presciani, titolare de L’Infinito, ma è nata nel febbraio del 2014 da un’idea dell’autore Duccio Parodi, sviluppata con Michele De Lucia (giornalista e scrittore) e Riccardo Monopoli (attore). L’idea originale è quella, mai tentata prima in Italia, di chiedere ai detenuti non semplicemente di "scrivere una poesia", ma di divenire co-autori di una canzone: il bando prevede, infatti, che la lirica vincitrice sia affidata a un "big" della musica italiana, affinché la trasformi in Canzone. Si tratta del concorso promosso nell’ultima edizione di Sanremo per interessamento di Carlo Conti: nella serata finale fu Gabriel Garko a leggere la poesia di un detenuto, musicata da Ron. Quest’anno il premio, già presentato nel mese di giugno alla camera dei Deputati, è stato vinto da Giuseppe Catalano, detenuto del carcere di "Opera" a Milano, autore della poesia "P.S. (Post Scriptum)", mentre della musica si occuperà Virginio Simonelli, nuova stella del pop, già vincitore del programma di Canale 5 "Amici" di Maria de Filippi" nel 2011, autore fra gli altri anche di Laura Pausini. Saranno presenti all’appuntamento, presentato da Michele Cucuzza, i 3 fondatori e Enrico Maria Papes storico esponente de "I Giganti" che interpreterà alcuni brani dallo spettacolo "Se fossi Fabrizio" accompagnato dal noto pianista Pape Gurioli. Proprio da questo concerto di teatro/canzone, portato nei penitenziari, ha preso spunto il premio, richiamando l’attenzione su un’accezione non pietistica di chi vive la drammatica esperienza del carcere. Interverranno inoltre Zhang Changxiao, giovane manager esportatore della cultura musicale italiana in Cina e Zhang Chu il più apprezzato cantautore cinese. Entrambi saranno premiati dal sindaco, Davide Missiroli. Un’iniziativa analoga sta infatti prendendo corpo a Pechino. Annunciati infine, Giuseppe Catalano, vincitore del premio, gli attori Monica Vergassola, Marco Sani, e Marta Palazzi attivista per i diritti civili. Brisighella è candidata ad ospitare il premio anche in futuro. Il prossimo anno "Parole liberate" sarà dedicato alla memoria di Marco Pannella. Questa la poesia vincitrice del concorso. P.S. (Post Scriptum) Amo il tempo che leggevo poesie Quando la luna stendeva il bianco sull’asfalto e ci invitava a seguirla L’auto scivolava dentro quella luce calda dove mi perdevo in quel silenzio di parole e nel (tuo) profilo di una Venere antica Al di là del tuo viso le luci sfuggenti creavano l’atmosfera un dolce profumo inebriava quel momento Ho fermato quell’attimo socchiudendo gli occhi che ritrovo ogni volta che ti penso. Un flebile chiarore invade questa stanza guardo fuori attraverso il vetro spesso si perdono i miei pensieri tra la rugiada e la nebbia oltre quel muro senza tempo Amo il tempo che ti leggevo poesie dove io mi perdevo in quel silenzio denso di parole. Botte, minacce e persecuzioni: quando l’assistenza sociale diventa un incubo di Barbara D’Amico, Filippo Femia, Marco Sodano La Stampa, 6 agosto 2016 La polveriera welfare: c’è un’escalation di aggressioni agli operatori. E molte non vengono denunciate. L’esperta: "Con la crisi sono riemersi i disagi di 50 anni fa". Il paradosso dell’Italia: investe molto nei servizi, ma male. Bologna, 21 aprile 2016. Una donna di 22 anni fa irruzione negli uffici degli assistenti sociali del quartiere Navile urlando e scagliando oggetti contro chiunque tenti di fermarla. Non è chiaro perché sia così agitata, forse una sua richiesta non è stata accolta, forse è solo preda di una disperazione folle che non riesce a controllare, come accade spesso a chi si rivolge a un assistente sociale per chiedere aiuto. Ma sa perfettamente con chi prendersela perché i capri espiatori sono lì a pochi metri da lei, nell’ufficio che accoglie l’escalation di richieste da parte di poveri, sfrattati, disoccupati, persone che soffrono di dipendenze e che chiedono aiuto e risposte concrete. Soluzioni che però non sempre un solo assistente o ufficio di periferia può fornire. Mentre gli altri utenti dello sportello sociale si danno alla fuga, i tre operatori in servizio restano ostaggio dell’esasperazione della ragazza che continua a urlare e a spaccare vetri minacciando tutto il team, suo ostaggio per più di tre ore. Carbonara (Pavia), 17 marzo 2016. Il Comune ha finito gli alloggi disponibili per l’assegnazione delle case popolari e all’assistente in servizio tocca dare la comunicazione a un uomo di 35 anni, sfrattato e in attesa di sapere se potrà avere un tetto sopra la testa. No, niente casa per il momento. Una negazione che fa esplodere la rabbia dell’uomo: afferra il funzionario, una donna di 30 anni, e la strattona con tale violenza da farla finire in ospedale con una prognosi di 5 giorni. Anche in questo caso un no comunicato per dovere, nell’ambito del proprio lavoro, mette a rischio la sicurezza e la vita di un assistente sociale: una categoria a rischio che ora chiede aiuto e protezione. E lo fa scrivendo ai giornali e denunciando la propria condizione pubblicamente. La Stampa ha deciso di accogliere le segnalazioni e di indagare per capire quanto il fenomeno delle aggressioni sia esteso e se sia il sintomo di un malessere più grave. Capri espiatori - L’elenco delle violenze potrebbe continuare all’infinito: quelle appena descritte sono solo alcune delle aggressioni denunciate e portate alla luce da una categoria che in Italia è diventata trincea dell’esasperazione degli ultimi. Milioni di giovani e meno giovani, famiglie vittime della crisi, con un bagaglio di problemi impossibili da far risolvere a qualche migliaio di operatori su tutto il territorio. A denunciare il fenomeno delle aggressioni è soprattutto il Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali secondo cui ormai il lavoro dell’assistente non consiste tanto nella consulenza quanto nel disinnescare le micce di una polveriera. La polveriera welfare, il sistema sociale dove ciò che non funziona a livello centrale viene scaricato sulle spalle dei singoli operatori e delle strutture locali. "Ci stiamo battendo perché pubbliche amministrazioni, enti, ospedali e strutture dove prestiamo servizio si dotino di sistemi obbligatori di prevenzione e protezione degli assistenti sociali", denuncia Salvatore Poidomani presidente del Sindacato Unitario Nazionale degli Assistenti Sociali (Sunas). "Il tema delle aggressioni è un nodo fondamentale da affrontare ma quello che ci preme è garantire anzitutto condizioni di lavoro dignitose - spiega - Ad esempio vorremmo che tutti gli assistenti potessero contare sull’assistenza legale gratuita, cosa che invece oggi non avviene in modo automatico". Gestire da soli richieste e bisogni, infatti, significa dover fare i conti anche con la rabbia e le esasperazioni di chi chiede aiuto. Ma se il dialogo degenera e l’assistente vuole portare in tribunale il suo aggressore è molto probabile che dovrà anche pagarsi l’avvocato; con uno stipendio da dipendente pubblico che in media si aggira intorno ai 1300 euro al mese. "È noto che le risorse da dedicare alle politiche sociali sono scarse a causa dei vincoli di bilancio; ma è altrettanto noto come stiano aumentando il disagio sociale e le richieste di aiuto da parte dei cittadini" si legge nell’appello ai candidati sindaco di Torino lanciato dagli operatori del territorio poco prima delle ultime elezioni amministrative. Intervista: "Minacce e botte, la nostra vita in trincea". Aggrediti con il machete - Capita a volte che una persona sia così infuriata da doversela prendere con qualcuno per la sua condizione di povertà, per il fatto di non riuscire a trovare lavoro o per l’umiliazione di subire uno sfratto. A Savona nel febbraio 2011 un’assistente di 27 anni viene aggredita con roncola e machete negli uffici dove presta servizio: a colpirla è un italo-colombiano di cinquant’anni a cui, poco tempo prima, gli operatori dell’ufficio hanno tolto la custodia di entrambi i figli. Quel giorno vuole vendicarsi. La giovane viene ricoverata in gravi condizioni e solo dopo molti mesi di riabilitazione uscirà dall’ospedale. Nel 2012 lo Stato le riconosce lo status di "vittima del dovere" e un’indennità a vita per le ferite riportate in servizio. Come se si trattasse di un carabiniere o di un poliziotto, salvo il fatto che nel programma di studi per diventare assistente non esista un corso di addestramento militare per difendersi in caso di brutale aggressione. Eppure, il rischio di perdere un braccio o la vita non è una esclusiva dei servizi sociali italiani. La Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali ha creato di recente un manifesto, un Carta dei diritti "per supportare gli operatori che rivendicano il diritto a prestare i propri servizi in sicurezza". Tra le varie richieste c’è anche quella a un luogo di lavoro sano e in cui non si verifichino abusi. Drogati di cibo, alcol e sostanze a 12 anni di paolo russo La Stampa, 6 agosto 2016 Si abbassa drasticamente l’età in cui si sviluppano le dipendenze e i disturbi alimentari. Gli esperti: "Dietro c’è il desiderio di autodistruzione generato da un senso di abbandono". A soli 13 anni un adolescente su cento sperimenta lo stordimento da binge drinking, la bevuta compulsiva di 6 o 7 shot nel giro di un’ora. E a 14 anni i casi sono già raddoppiati. Baby dipendenti da tutto: droga, alcol e anche da cibo, con il "binge eating", le grandi abbuffate compulsive fatte a tempo di record. Sommando i dati di studi e statistiche sono ben 2 milioni gli adolescenti italiani dai 12 ai 19 anni che si fanno di sostanze ed alcolici o che soffrono di disturbi alimentari. E chi il problema lo affronta sul campo, nei pronto soccorso o nei centri di neuropsichiatria infantile, denuncia che l’età si sta pericolosamente abbassando, con ragazzini di appena 12 anni, a volte anche meno, che accusano disturbi del comportamento causati da qualche forma di dipendenza. Partiamo dai numeri. Il 26% degli studenti tra 15 e 19 anni fa uso di cannabis, un quarto di loro quasi quotidianamente e con un trend in costante crescita, rivela uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa condotto in oltre 400 istituti scolastici. Il 4% ha ammesso di aver provato almeno una volta la cocaina, mentre il 2,3% manda giù di tutto, erbe e pasticche, senza sapere cosa siano. E non è che con l’alcol le cose vadano meglio. L’Istat rileva che già ad 11 anni oltre il 5% ha alzato il gomito e a 15 anni la percentuale è del 41% per i maschietti, del 33 per la ragazzine. A soli 13 anni un adolescente su cento sperimenta lo stordimento da binge drinking, la bevuta compulsiva di 6 o 7 shottini nel giro di un’ora. E a 14 anni i casi sono già raddoppiati. Sono invece 600 mila gli adolescenti in trattamento per dipendenza da cibo. Un quadro impressionante, con fenomeni di dipendenza che riguardano oramai più bambini che veri adolescenti. A raccontare questa fuga nello stordimento dei nostri giovanissimi e i perché di un disagio montante sono gli operatori sanitari e scolastici che il dramma lo vivono sul campo. Lauro Quadrana, dirige la psicodiagnostica del day hospital psichiatrico per adolescenti del Policlinico Umberto I a Roma, un centro di riferimento nazionale per i giovanissimi con disturbi del comportamento. "Ne arrivano sempre più anche della fascia tra i 12 e i 14 anni, spesso afflitti da ansia e depressione. Dopo un po’ - racconta - si aprono e confidano di fare abuso di sostanze. Cannabis innanzitutto, ma anche droghe sintetiche, funghi allucinogeni, ultimamente eroina fumata e cocaina". Con una dipendenza da cocktail micidiali di cannabis, cocaina e ketamina è arrivata così con gravi disturbi depressivi una ragazzina di 14 anni, che l’impatto con la droga l’ha avuto ancora prima, nell’età in cui si gioca con le bambole. "A volte - spiega Quadrana - ci sono fattori genetici ereditari, ma spesso dietro questa ricerca dello stordimento c’è una voglia di autodistruzione generata da una sensazione di abbandono: non merito l’attenzione degli altri, la famiglia, la scuola e allora mi rifugio in un mondo anestetizzato". Insomma, dietro c’è l’inadeguatezza di famiglie e scuola, dove non di rado questi ragazzini hanno difficoltà di apprendimento. Troppo spesso scambiata per svogliatezza. Non è andata così in una scuola media dell’hinterland milanese. Anna, il nome dell’insegnante è di fantasia perché la privacy è d’obbligo, si accorge che qualcosa non va in un suo alunno di soli 11 anni. "Veniva in classe sempre con gli occhiali da sole e quando li ha tolti ho capito perché. Poi la psicologa scolastica attraverso le testimonianze dei suoi compagni ha ricostruito una storia di abuso di cannabis che partiva dalla quinta elementare". Poco più grandi, ma mica tanto, gli adolescenti che finiscono in coma etilico nei pronto soccorso. "Arrivano sempre più numerosi con intossicazioni acute da alcol anche a soli 13-14 anni", racconta Maria Pia Ruggieri, presidente del Simeu la società scientifica della medicina d’emergenza-urgenza. "Tanti dobbiamo trasferirli in rianimazione per coma etilico. Rischiano la vita senza saperlo ma dietro c’è un disagio più profondo perché spesso scopriamo che oltre all’alcol fanno uso di sostanze". E le famiglie? "Quando arrivano a riprenderli non credono siano i loro figli". Che stentano a conoscere oltre che a riconoscere. Migranti, il piano senza la Turchia di Davide Casati Corriere della Sera, 6 agosto 2016 A Bruxelles nessuno vuole parte di un’alternativa. Ma se salta l’intesa, l’idea è una sola: chiudere il confine greco e deviare i soldi da Ankara ad Atene. Nessuno, ufficialmente, ne parla. Anche perché, per ora, la realtà raccontata dal numero di migranti che attraversano l’Egeo per andare dalla Turchia verso la Grecia è lontana dalle parole infuocate del presidente turco Erdogan. Ma le istituzioni europee sanno che, se l’intesa con Ankara crollasse, e il flusso di profughi ripartisse in modo massiccio, la conseguenza operativa non potrebbe che essere una: la gestione dell’emergenza nel Paese di arrivo. E dunque, confermano fonti europee, lo spostamento del fronte migratorio sul confine settentrionale greco, con una sua "chiusura" - un controllo quanto più possibile ordinato. I dati e la retorica - Non ci sono, finora, discussioni operative in corso: il focus è ancora sul "piano A", come hanno ribadito le autorità europee (dal presidente della Commissione Juncker all’Alto rappresentante della politica estera Mogherini, al commissario per l’Immigrazione Avramopoulos) e tedesche. Il passo con cui l’Europa onora la sua parte degli impegni sta aumentando: i fondi stanziati per il supporto ai profughi in Turchia sono ormai più di 2,1 miliardi. Da Ankara, i dati erano, e restano, confortanti: se nel mese prima dell’accordo - siglato il 18 marzo - a prendere il mare erano stati in 1.740, a giugno quel numero era sceso a 47. Ma, ha detto due giorni fa il ministro per l’Immigrazione greco, Yannis Mouzalas, "se il flusso dovesse ripartire, non potremmo affrontarlo da soli. Abbiamo paura, ci stiamo preparando". A minacciare la tenuta dell’intesa, in questi giorni, sono state le prese di posizione del governo turco: il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha detto che, se l’Europa non concederà la possibilità ai turchi di viaggiare senza visto nell’area Schengen entro ottobre, l’intesa sarà carta straccia. La Commissione Ue ha ribadito che, prima, Ankara dovrà rispettare tutte e 72 le condizioni dell’accordo. Su 5 il lavoro è incompleto: soprattutto sulla legge antiterrorismo che, nella versione attuale, è talmente ampia da consentire, per l’Ue, arresti arbitrari. È qui che la questione si innesta sulla reazione, furibonda, al colpo di Stato fallito in Turchia. Le parole del presidente turco, nei corridoi di Bruxelles, sono considerate retorica a uso interno. L’interesse reale di Ankara è quello di far funzionare l’intesa con l’Ue, i cui fondamentali non sono mutati. Per quanto complesso, lo sforzo da compiere per l’Ue - si segnala - è quello di separare la reazione del governo turco al golpe dal trattamento riservato ai profughi. Se sulla prima si nutrono preoccupazioni, sulla seconda non si sono registrati peggioramenti. Ma è questo una delle "spie" cui si presta più attenzione. La rotta ormai chiusa - Nelle prossime settimane, mentre le istituzioni Ue torneranno a funzionare a pieno regime, è difficile immaginare che Ankara modifichi le norme sul terrorismo. E di fronte a uno stop sui visti, la pressione politica potrebbe rivolgersi sui 3 milioni di profughi siriani in Turchia. "Erdogan ha molto da guadagnare, ai fini elettorali, dalla loro naturalizzazione", spiega al Corriere Mujtaba Rahman, del think tank Eurasia. "Ma se Ankara li spingesse attivamente all’uscita, per la Grecia il problema sarebbe reale". Se l’accordo non terrà, l’Europa dovrà reagire in fretta. Certo, in Grecia - sottolineano da Bruxelles - in questi mesi le capacità organizzative e infrastrutturali sono state potenziate. Ma se il flusso crescesse, andrebbe subito inviato un contingente ampio di funzionari (finora rimasto ben sotto il livello previsto: "per mancanza di richiesta", specifica la Commissione); ad Atene andrebbero garantiti fondi adeguati, distogliendoli da quelli promessi ad Ankara o assicurati con altre leve. Resterebbe il tema della lentezza della redistribuzione dei profughi: dei 120 mila giunti in Europa, solo 3.700 sono stati portati in Paesi diversi da quelli di arrivo. E le istituzioni Ue non hanno strumenti immediati per far rispettare le quote.Il flusso di richiedenti asilo, si prevede a Bruxelles, dovrebbe essere inferiore a quello visto un anno fa. Gli effetti della chiusura della cosiddetta "rotta balcanica" sono ormai chiari a tutti i profughi. Ma nessuno intende verificare sul campo la bontà di questa ipotesi. Senza alternative - In ogni caso, la gestione dell’emergenza non potrebbe che ricalcare il piano rispolverato in questi giorni dalle autorità austriache e ideato a fine gennaio, quando - con l’accordo, si disse, del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk - fu inviato in Macedonia un gruppo di rappresentanti per capire come "chiudere" il confine con la Grecia. Tsipras accusò l’Ue di voler trasformare il suo Paese in una "scatola nera" per i rifugiati. La "chiusura", o gestione, del confine settentrionale della Grecia sarebbe la soluzione emergenziale più dura presa nel corso della crisi. Non sarebbe priva di conseguenze politiche: non solo in Grecia, ma anche in Germania - dove a Merkel verrebbe fatto pesare il crollo di uno dei pilastri, da lei fortemente voluto della sua Willkommenskultur. Anche per questo, si proverà fino in fondo a far funzionare il piano A. Ma, come ripetono a Bruxelles, se la situazione precipitasse, di alternative, purtroppo, non ne esisterebbero molte. La guerra dell’Isis è di religione di Antonio Polito Corriere della Sera, 6 agosto 2016 Papa Francesco sta facendo uno sforzo eccezionale, direi quasi sovrumano, per evitare che la Cristianità si senta in guerra con l’Islam. È un grande contributo alla causa della pace, ricorda e replica l’inflessibilità con cui Giovanni Paolo II respinse, anche dopo la strage delle Torri Gemelle, il tentativo di Bin Laden di trasformare la sua guerra in guerra santa, e di combatterla come guerra di religione. Però all’interno della più vasta Cristianità, alla cui dimensione globale appartiene un Pontefice per la prima volta nella storia non europeo, ma "venuto dalla fine del mondo", c’è una comunità di princìpi e di valori che affondano le radici nel Cristianesimo ma non si identificano tout court con esso. Questa comunità è l’Occidente, cristiano, laico e secolarizzato. E l’Occidente è invece certamente sfidato dal radicalismo islamico in una vera e propria guerra di religione, un conflitto cioè in cui chi uccide lo fa in nome di un credo, e a un dio con blasfemia dedica il sangue che versa. Sfruttando la duttilità e precisione della lingua italiana, si potrebbe dire che non è in corso una "guerra tra religioni", ma una "guerra di religione" sì. E l’Occidente, cristiano e non, deve saperla combattere come tale. Questa guerra di religione sconvolge innanzitutto il mondo islamico, si svolge al suo interno prima ancora che rivolgersi a noi. Non è affatto la prima volta che accade nella Storia. Anche i cristiani hanno dato vita a un secolo di sanguinosissime guerre di religione. In cui certamente giocavano un ruolo anche "gli interessi, i soldi, le risorse della natura, il dominio dei popoli", come ha detto Francesco a proposito di quella in corso adesso. Ma la cui ideologia necessaria, vale a dire senza la quale la guerra non sarebbe stata possibile, era l’intolleranza religiosa e lo scontro tra cattolici e protestanti sull’interpretazione delle Sacre Scritture e sul ruolo della Chiesa. Così è oggi. Muoiono molti più sciiti e sunniti che cristiani per mano degli islamisti. E per questo sarebbe assurdo, oltre che pericoloso, considerare i musulmani che vivono da noi come i nostri nemici, antropologicamente dediti a odiarci. Bisogna piuttosto provare pietà per l’enorme sacrificio cui sono sottoposti loro malgrado, come sul lungomare di Nizza, dove a festeggiare la presa della Bastiglia e a finire sotto un Tir c’erano decine di francesi di fede islamica. Bisogna rispettarne lo sforzo culturale ed esistenziale per far convivere la religione dei padri con la vita all’occidentale dei figli, soprattutto quando chiediamo loro di denunciare i correligionari per proteggere il nostro stile di vita. Ma se quella che abbiamo di fronte non fosse una guerra di religione, che senso avrebbe chiedere agli islamici europei di condannare e isolare i terroristi? Perché mai avremmo invitato i musulmani a pregare nelle nostre chiese, se a sconvolgerci non fosse un conflitto istigato da un centro operativo che si fa chiamare Stato Islamico e condotto da una minoranza di islamici per conquistare la maggioranza e trascinarla in una guerra civile europea? È stata da molti contestata a Francesco la mancata distinzione tra chi versa il sangue degli innocenti in nome di Dio e chi lo fa pur credendo in Dio, a proposito del suo equiparare un cristiano che uccide la fidanzata o la suocera a un islamico che fa strage gridando "Allah Akbar". È però difficile, e forse improprio, chiedere al vicario di Cristo di non condannare allo stesso modo l’assassinio, qualsiasi ne sia il motivo. A noi europei laici che non possiamo non dirci cristiani, spetta invece il compito di distinguere e capire, e di dare i nomi giusti alle cose, perché abbiamo il dovere di difendere la nostra civiltà da questa ennesima barbarie che la sta attaccando, come l’hanno difesa i nostri padri dai cristiani in camicia bruna durante la Seconda guerra mondiale e dagli atei con la bandiera rossa durante la Guerra fredda. Giovani terroristi tra arcaismo e postmoderno di Giovanni De Plato Il Manifesto, 6 agosto 2016 Psiche e jihad. Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico e sociale. È prima una gabbia culturale, è il rifiuto dell’incertezza, della precarietà. E la persona diventa rigida, intollerante e violenta. Sui possibili fattori che concorrono a determinare il fenomeno stragista di questi anni, in particolare degli ultimi giorni, occorre in primis capire, ascoltare, interrogarsi. Il volto sempre più giovane degli attentatori, spesso figli della stessa civiltà che vorrebbero abbattere, ci obbliga a una riflessione non tanto sulla loro fragilità o immaturità, quanto sul loro percorso formativo per divenire adulti responsabili, sul modello di società che stiamo costruendo con il dominio della tecnologia e la perdita di valori etici e di diritti umani. In questa era del postmoderno, dove persistono radici arcaiche e avanzano elementi innovanti, non bisogna smettere di conoscere. L’arcaismo che ci continua ad accompagnare nella nostra evoluzione, conserva tratti di primitivismo che possono riesplodere in condizioni di chiusura di quella vitale necessità di una prospettiva di buona emancipazione. Il postmoderno, a sua volta, spinge a innovare con una rapidità che muta strutturalmente le condizioni di vita, creando disagi esistenziali oltre che materiali. Disagi che ammassano le persone in aree di marginalità o esclusione sociale che possono divenire sacche esplosive. Arcaismo e postmodernità sono fortemente interconnessi e nella loro unità generano fenomeni che vanno analizzati a fondo per poterli superare o debellare. Il capire è possibile se si supera una visione scolastica e ci si apre a un approccio multidisciplinare. La singola chiave di lettura del radicalismo politico, del fondamentalismo religioso, della psicopatologia o della devianza sociale non aiutano a cogliere il tragico fenomeno in tutta la sua portata invasiva e carica distruttiva. Il contributo che possono dare le diverse discipline nello studio dello stesso fenomeno, è l’unica via lungo la quale possiamo arrivare a chiarire alcuni aspetti della violenza stragista. Uno dei fattori, forse non il più importante, che vorrei sottolineare è quello del fanatismo, in quanto cieco e totalizzante attaccamento a un’idea, una causa, una missione. Purtroppo su questo fenomeno l’approccio interdisciplinare (dall’antropologia alle neuroscienze) non ha prodotto molte conoscenze, in particolare sul fanatismo giovanile. Nonostante questo limite, qualcosa si può dire visto che è urgente aprire un dibattito a più voci. Prendo come iniziale riferimento la dichiarazione rilasciata in una recente intervista da Liliana Segre, instancabile e illuminante testimone della Shoah. Dice a proposito della crudeltà umana: "È il fanatismo che ha portato il popolo tedesco a fare ciò che ha fatto. Non si può parlare di pazzia, Hitler non era pazzo. È come se ci fosse una vena di violenza, di fanatismo negli uomini che a volte riaffiora. Io ho molta paura di questa deriva di violenza fanatica che ritorna". La sua paura è anche la nostra e la sua lucidità di analisi dovrebbe divenire anche una nostra apertura mentale. Siamo ancora portati a dare veloci risposte tranquillizzanti e ad allontanare interrogativi responsabilizzanti. Perché la violenza riappare in tutta la sua barbarie? Perché da vena sotterranea non si prosciuga ma riemerge? Perché le azioni terroristiche dell’Isis e dei suoi militanti o adepti sono così efferate e disumane? Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico, sociale, culturale e ambientale. È l’esito di un serie di vicende personali, di rapporti sociali, di ingiustizie e di diseguaglianze tra le persone. In questo contesto il processo educativo e formativo diventa decisivo per evitare la caduta dei ragazzi nell’odio verso chi è diverso, estraneo o fortunato. Il fanatismo è prima di tutto una gabbia culturale, chi rifiuta l’incertezza e la precarietà può divenire inconsapevolmente soggetto intollerante, rigido, inflessibile, violento. È facile che arrivi a perdere qualsiasi valore per la vita propria e altrui. È facile che si attacchi dogmaticamente alla missione di giustiziere o di angelo vendicatore. È sempre successo nella storia, facciamo in modo che oggi non si ripeta la brutalità del passato, prendendo atto che intanto esiste una emergenza educativa. Francia: aprono 13 Centri per disintossicare i giovani "drogati" della guerra santa di Luciano Gulli Il Giornale, 6 agosto 2016 Vi lavoreranno esperti e psicologi. Ci avessero pensato prima, ora padre Jacques Hamel, sgozzato nella sua chiesa di St.Etienne-du-Rouvray il 26 luglio scorso, forse sarebbe ancora vivo. E uno dei suoi due assassini, Adel Kermiche, 19 anni, conquistato al jihad dalle fervorose prediche del Califfo Al Baghdadi, farebbe magari il garzone in una macelleria halal nella banlieu di Rouen. Frequenterebbe la moschea, direbbe le sue brave preghiere da fedele devoto. Ma il coltello, finito il lavoro L’idea, a pensarci bene, non è neanche tanto peregrina. Ci riuscì Vincenzo Muccioli, a San Patrignano, strappando tanti giovani all’abbraccio mortale dell’eroina. Perché non dovrebbero riuscirci i francesi, che stanno progettando una serie di centri di "disintossicazione" per giovani islamici sfasati, caduti come allocchi nella trappola formata dal trinomio disagio sociale- radicalizzazione-terrorismo? Anche il borgo di Beaumont-en-Véron, con i suoi 2.900 abitanti, i boschi, le vigne e i castelli, ha l’aria di non essere tanto diversa da San Patrignano, laggiù sulla collina riminese. È qui, come si racconta in un bel reportage del sito di informazioni "Linkiesta", che sorge l’imponente complesso di Pontourny, costruito nel 1748. Qui Marie-Alphonse Gréban de Pontourny, nel 1895, creò una fondazione per ospitare orfani e donne, poi riconvertita in ospedale psichiatrico agli inizi del Novecento. Negli ultimi anni Pontourny ha ospitato minori in difficoltà e migranti. Ora, dal 1° settembre, diventerà un centro di deradicalizzazione per giovani che rischiano di essere inghiottiti dalla grande, velenosa medusa che dal suo antro fra Siria e Irak promette dozzine di vergini in cambio della propria vita immolata per la maggior gloria di Allah e del suo Profeta. Fanfaluche? Sogni a occhi aperti? Tutt’altro. C’è perfino una legge, approvata dall’Assemblea nazionale il 3 giugno scorso, che sancisce la creazione di centri come quello di Pontourny. E non due o tre, tanto per. Nel disegno di legge si parla di almeno tredici strutture, sparpagliate per il Paese. Come tante San Patrignano per "drogati di Allah" che vogliono "smettere", ma da soli non ce la fanno. Centri dotati di personale altamente qualificato (psicologi, psichiatri, esperti in storia delle religioni e geopolitica) il cui obiettivo sarà non solo la destrutturazione e la ricostruzione della personalità degli ospiti, già mesmerizzati dal malefico progetto della Jihad in Europa. Ma anche, se non soprattutto, il reinserimento nella società dei giovani già conquistati alla Causa o facilmente suggestionabili dai cattivi maestri di Isis. Ai prefetti, coadiuvati dalle famiglie e dai servizi sociali, il compito di segnalare i soggetti a rischio: gente che in moschea o con gli amici straparla o come quelli (vedi il citato Adel Kermiche e il suo confratello Abdel Malik Petitjean: disturbati mentali, disadattati) che hanno avuto a che fare con Siria e Irak o progettano di recarvisi per baciare la pantofola del Califfo. La durata prevista del soggiorno a Beaumont (numero di ospiti previsto: una trentina) è di almeno sei mesi. Ma si può "guarire"? Sembra di sì. A Lille esiste già un centro, guidato dalla psicologa e antropologa francese Dounia Bouzar, che opera in quartieri difficili, tra disoccupati ed emarginati. È lì che il proselitismo jihadista, e la propaganda salafita fanno maggior presa sulle pulsioni nichiliste e autodistruttrici di chi si autoemargina, facendosi fagocitare da tesi complottiste e persecutorie nei confronti dei musulmani. Il resto viene da sé, come abbiamo imparato dai tempi che sembrano ormai lontani del boia inglese "Jihadi John" che brandiva il coltello puntandolo alla gola della sua vittima. E osservando le schiere di chi, alienato nelle banlieu di tutta Europa, sogna il suo giorno da leone nel deserto siriano o (Dio non voglia) in un cinema europeo. Israele: in carcere i "terroristi" di 12 anni di Michele Giorgio Il Manifesto, 6 agosto 2016 Saranno incarcerati i bambini palestinesi che, secondo Israele, si renderanno colpevoli di violenze. La "Legge dei Giovani" è stata approvata a inizio settimana dalla Knesset. La parlamentare del Likud Anat Berko ha ottenuto ciò che voleva. Anche i bambini di 12 anni saranno incarcerati per "atti di terrorismo". Bambini palestinesi naturalmente. È a loro che Berko ha pensato quando, assieme alla sua collega del partito nazionalista-religioso Casa Ebraica e ministra della giustizia Ayelet Shaked, ha promosso la cosiddetta "Legge dei Giovani", approvata a inizio settimana dalla Knesset con 32 voti favorevoli, 16 contrari e un astenuto. "A chi è stato ucciso con un coltello non importa se il bambino che lo ha colpito ha 12 o 15 anni - ha commentato Berko - questa legge nasce per necessità. Affrontiamo una ondata di terrorismo e la gravità degli assalti (palestinesi) richiedeva un linea più aggressiva anche verso i minori". "Nessun terrorista camminerà in strada libero" titolava l’altro giorno Arutz 7, l’agenzia di stampa della destra israeliana, rappresentando una buona fetta dell’opinione pubblica. La legge non fa riferimento esplicito ad alcun gruppo. Lo scopo però è quello di colpire i palestinesi di Gerusalemme responsabili nei mesi scorsi, durante la nuova Intifada, dell’uccisione o del ferimento di israeliani. Gran parte degli aggressori, spesso adolescenti, sono stati uccisi sul posto dalla polizia. Berko e Shaked sono state spinte ad agire dal caso di un ragazzino palestinese, Ahmad Manasra, che lo scorso anno ha accoltellato e ferito gravemente un coetaneo israeliano in una colonia ebraica alla periferia di Gerusalemme. Al momento dell’aggressione Manasra aveva 13 anni non poteva andare in prigione. Così il procedimento nei suoi confronti è stato rallentato fino al compimento del 14esimo anno di età, in modo da permettere alla corte di condannarlo ad pesante pena detentiva per tentato omicidio. Berko e Shaked hanno insisto e ottenuto condanne anche per i 12enni. In Cisgiordania invece i giudici (militari) israeliani hanno già condannato ragazzi palestinesi molto giovani al carcere per "atti di terrorismo". Tra questi una bambina di 12 anni rimasta in cella per quattro mesi e liberata lo scorso aprile. Nell’ultimo anno e mezzo il governo del premier Netanyahu e la Knesset hanno approvato provvedimenti e leggi che inaspriscono le misure e le pene per gli "atti di terrorismo" che in Israele includono anche il lancio di pietre contro persone e autoveicoli (20 anni di carcere per chi lo fa intenzionalmente, dieci anni se non viene provata la volontarietà del gesto). Il condannato rischia di perdere, assieme alla sua famiglia, anche la residenza e l’assistenza sociale. Tra le poche voci che in Israele si sono levate contro la "Legge dei Giovani" ci sono il centro B’Tselem per la tutela dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati e Acri, l’Associazione per i diritti civili. "Imprigionare i minorenni vuol dire negare loro la possibilità di una vita migliore", ha protestato B’Tselem. Da parte sua Acri, che un anno fa aveva chiesto a governo e parlamento di non abbassare la soglia di età in cui si va in prigione, ha chiesto l’attivazione di programmi educativi e sociali per i minori colpevoli di atti di violenza. Palestina: lo sciopero della fame dei detenuti diventa di massa pressenza.com, 6 agosto 2016 Sono oltre 300 i detenuti nelle prigioni israeliane che rifiutano il cibo. Un nuovo sciopero della fame di massa è infatti ufficialmente partito, dopo che nelle scorse settimane molti detenuti si erano già uniti alla prima forma di protesta lanciata per sostenere Bilal Kayed che, arrestato nel 2002, aveva scontato la sua pena a 14 anni e mezzo di carcere quando, al momento del rilascio, è stato posto in detenzione amministrativa: sei mesi di carcere senza processo né accuse. Kayed ha cominciato a scioperare subito, oggi è al 51esimo giorno senza toccare cibo e le sue condizioni di salute si sono gravemente deteriorate. Israele sa come reagire alla protesta degli stomaci vuoti: secondo la Società dei Prigionieri Palestinesi (PPS), molti prigionieri detenuti a Eshel sono stati trasferiti il 4 agosto nella prigione di Ohalei Kedar, dove le forze israeliane li hanno legati, spogliati e fotografati, mentre si moltiplicano ovunque raid nelle celle e confische di beni personali dei detenuti. Tutte forme di pressione fisica e psicologica che le autorità carcerarie israeliane usano da decenni per interrompere gli scioperi della fame. Fin dagli anni 70 il movimento dei prigionieri politici, tra le colonne portanti del movimento di resistenza popolare, organizza ingenti scioperi della fame per ottenere condizioni migliori nelle carceri o per protestare contro forme di detenzione illegali. E la solidarietà dal mondo "esterno" è sempre immediata: in questi giorni si sono tenute molte manifestazioni e sit-in a sostegno dello sciopero della fame. Tra i presidi anche quello del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, in solidarietà con il giornalista Omar Nazzal, già posto in isolamento come forma punitiva. Palestina: se nello spot elettorale di Fatah ci sono gli israeliani ammazzati di Davide Frattini Corriere della Sera, 6 agosto 2016 Essere un partito di lotta e di governo rischia di accartocciare le convinzioni. "Abbiamo ammazzato 11mila israeliani, abbiamo sacrificato 170mila martiri". Una delle tante pagine ufficiali del Fatah ha scelto di elencare questi "successi" per attrarre i palestinesi indecisi che fra due mesi votano alle elezioni municipali. Il movimento fondato da Yasser Arafat ha voluto sorpassare in corsia del terrore i fondamentalisti di Hamas, avversari politici. Che i numeri siano iperbolici e lontani dalla realtà è meno sconcertante della decisione di esaltare la morte - dei "nemici" o la propria nel tentativo di eliminarli - e di scommettere che possa conquistare nuovi sostenitori. Il presidente Abu Mazen, che da Arafat ha ereditato anche la guida della fazione, ripete di voler riaprire i negoziati di pace congelati (ormai ibernati) dall’aprile del 2014. Ai diplomatici stranieri spiega di essere contro la violenza: è quello che gli riconosce l’intelligence militare israeliana, negli undici anni al potere ha dato ordine ai suoi poliziotti di contrastare gli attacchi. Poche settimane prima della seconda Intifada, Arafat aveva proclamato in un discorso da Ramallah "milioni di martiri marceranno su Gerusalemme" per poi delineare in un editoriale sul "New York Times" la sua visione della convivenza tra i due popoli. Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, accusa anche il successore Abu Mazen di parlare due lingue: l’inglese della conciliazione e l’arabo dell’ostilità intransigente. Manifesti come quello pubblicato su Facebook - tradotto dall’organizzazione Palestinian Media Watch che monitora le dichiarazioni anti-semite o anti-israeliane - possono solo approfondire il sospetto reciproco. Stati Uniti: 18enne afroamericano ucciso da agente, la polizia decide di mostrare il video La Repubblica, 6 agosto 2016 L’authority che vigila sull’operato delle forze dell’ordine cittadine ha pubblicato sul web le immagini drammatiche dell’inseguimento e della morte di Paul O’Neal, colpito alle spalle durante la fuga dopo che era stato intercettato su un’auto rubata: "Scene scioccanti e inquietanti". Un altro ragazzo afroamericano è stato ucciso la scorsa settimana da un agente di polizia a Chicago. Stavolta, però, il video sulla morte del 18enne Paul O’Neal, ucciso da colpi di arma da fuoco alle spalle lo scorso 28 luglio, è stato reso pubblico dall’Authority indipendente che vigila sull’operato della polizia, d’intesa con lo stesso Dipartimento di polizia, secondo quanto rende noto il Chicago Daily Tribune. Sharon Fairley, capo del consiglio di sorveglianza della polizia di Chicago, ha definito "scioccanti e inquietanti" le immagini registrate dalla bodycam di uno degli agenti impegnati nell’inseguimento. La decisione di rendere pubblico per la prima volta un video così drammatico, registrato direttamente dalla microcamera installata nella divisa di un agente, rappresenta una svolta, ma si inserisce nella nuova politica dell’amministrazione che sta cercando di ricostruire un rapporto "trasparente e aperto" con i cittadini dopo una serie di episodi che hanno profondamente minato la fiducia nelle forze dell’ordine, a partire dall’uccisione del diciassettenne Laquan McDonald, avvenuta nell’autunno del 2014, che incendiò la comunità nera del Southwest Side e dell’intera Chicago. Nel filmato diffuso oggi si vedono gli agenti intercettare l’auto che risulta rubata e sparare numerosi colpi di pistola verso il veicolo che sfugge al blocco. I colpi continuano quando il giovane, poi identificato come Paul O’Neal, abbandona la macchina e fugge infilandosi nei cortili di una serie di villette. Gli agenti lo inseguono e continuano a fare fuoco fino a che si fermano davanti a un cancello di legno, oltre il quale si sentono altri spari. Quando l’agente la cui bodycam ha registrato l’inseguimento arriva nel cortile posteriore di una delle case, si vede il ragazzo ferito, steso faccia a terra e ammanettato malgrado la ferita sanguinante alla schiena. Non ci sono immagini del momento in cui il ragazzo viene colpito. Il dipartimento di polizia ha detto di aver avviato accertamenti per capire come mai la bodycam dell’agente giunto per primo dove O’Neal era caduto non abbia funzionato. Dal dialogo tra gli agenti si intuisce come uno di loro creda o intenda far credere che O’Neal non fosse solo; poi parla di spari contro gli agenti. Sul posto e addosso al giovane, però, non è stata trovata alcun arma. L’autopsia ha confermato che il proiettile mortale ha colpito il diciottenne alla schiena. In attesa di accertare quale sia quello che ha sparato il colpo mortale, tre degli agenti coinvolti nell’inseguimento sono stati sospesi dal servizio. La famiglia O’Neal ha presentato querela contro il dipartimento. Il legale dei familiari del ragazzo, dopo aver visto le immagini, ha commentato: "È una delle cose più orribili che abbia mai visto". Il fatto di Chicago arriva in un momento di alta tensione per l’uso spropositato delle armi, le violenze e le brutalità di cui le forze di polizia sono accusate dalla comunità afroamericana negli Usa. All’inizio di luglio a Baton Rouge, in Louisiana, a morire sotto i colpi di un agente è stato il 37enne Alton Sterling. La sua uccisione ha scatenato proteste in tutto il paese, ma anche la strage di Dallas: durante una marcia di protesta di cittadini afroamericani, un ex soldato ha ucciso cinque agenti. I precedenti. Ma anche Chicago è stata teatro di episodi del genere. A far esplodere le proteste contro i metodi violenti della polizia era stata l’uccisione, il 20 ottobre 2014, del 17enne Laquan McDonald. Il giovane fu ucciso da un agente bianco con 16 colpi di pistola nel quartiere di Southwest Side. Il poliziotto disse che il ragazzo aveva un coltello e temeva per la sua incolumità, ma è stato incriminato e ora attende il processo. Per quell’episodio furono in molti a chiedere anche le dimissioni del sindaco Rahm Emanuel, ex braccio destro di Barack Obama alla Casa Bianca. All’inizio di quest’anno, una task force istituita proprio dal sindaco ha pubblicato un report in cui si accusa la polizia di Chicago di razzismo diffuso. Charlene Carruthers, portavoce nazionale del Black Youth Project 100, un’associazione con sede a Chicago che si occupa della gioventù afroamericana, ha detto che il video da un lato conferma la violenza sistematica che contraddistingue l’operato della polizia, dall’altro dimostra che neppure la dotazione della bodycam riesce a prevenire fatti come quello in cui è stato ucciso Paul O’Neal.