I veri poteri del Garante dei detenuti di Alessandro Monti* Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2016 Inadempienti sul fronte della repressione della tortura, non avendo ancora introdotto nel Codice penale un apposito reato, Parlamento e governo hanno deciso di intervenire sul fronte della prevenzione. Un decreto ha dunque istituito presso il ministero della Giustizia il "Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale", così da rispettare anche gli obblighi discendenti dalla ratifica del Protocollo Opzionale della Convenzione Onu contro la tortura che richiede la creazione di "meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione della tortura". Rispetto ai Garanti regionali, il nuovo organismo, nominato con decreto del capo dello Stato e su parere delle commissioni parlamentari, si caratterizza per l’uniformità delle garanzie a tutela dei diritti dei detenuti, estese all’intero territorio nazionale. Il legislatore ha però disegnato una figura istituzionale inconsueta, un incrocio tra autorità indipendente e ufficio ministeriale dotato di autonomia, che ha richiesto oltre due anni per divenire operante. Solo a marzo si è arrivati alla nomina del presidente del collegio del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, già presidente del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (Ctp) a Strasburgo e dell’Ong Antigone, e de gli altri dei due membri, Emilia Rossi e Daniela De Robert. Il ministro della Giustizia, tenuto a fornire risorse umane e finanziarie senza aggravi per la finanza pubblica, si è limitato ad assegnargli fino a 25 unità del proprio organico e 200mila euro. Sarà comunque cruciale la sistematicità dei controlli sulle modalità di esecuzione della custodia, tanto dei soggetti detenuti, tanto di quelli internati o sottoposti a misura cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà, per verificare il rispetto dei diritti e della dignità della persona. Strumenti chiave sono visite e monitoraggi senza necessità di alcuna autorizzazione, preavviso e restrizione: 31 al 22 luglio. E non solo ai penitenziari ma anche alle residenze per le misure di sicurezza psichiatriche e alle altre strutture destinate ad accogliere detenuti, alle comunità terapeutiche o comunque alle strutture, anche mobili, ove si trovino persone sottoposte a misure alternative al carcere. Nel caso di flagrante violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti"), il Garante deve informare l’autorità competente perché provveda immediatamente a fermare la violazione in atto. Finora ignorata dai media, la nuova istituzione merita invece particolare attenzione e sostegno: nonostante sia priva di poteri diretti d’intervento e armata di meri rilievi e raccomandazioni, la sua autorevolezza e imparzialità potrebbero avere effetti dirompenti sul clima opaco di omertà, prevaricazioni, violenze fisiche e psichiche che, nei luoghi di detenzione, è alimentato da chi sfrutta lo stato di soggezione e vulnerabilità delle persone private della libertà. Per assumere la funzione prioritaria che gli assegna il Protocollo Onu, di deterrente alla tortura e di punto di riferimento nazionale contro ogni forma di abuso sui detenuti, restano però determinanti regolarità e trasparenza dell’operato del Garante, tenuto a pubblicare sul proprio sito l’esito di visite e monitoraggi e il Rapporto annuale sui risultati dell’azione svolta, da trasmettere innanzitutto al presidente della Repubblica che lo ha nominato. *Professore ordinario senior di Politica economica presso la Facoltà dì Giurisprudenza dell’Università di Camerino. Per svuotare le carceri si vogliono "liberare" tutti i malati psichiatrici di Lodovica Bulian Il Giornale, 5 agosto 2016 Il ddl penale semplifica l’accesso alle Rems per i detenuti "disturbati". Ma non c’è posto. Sono diventate realtà in ritardo e a singhiozzo, con il compito di accogliere i malati psichiatrici pericolosi, dopo la chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Ma le neonate Rems, "residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza", rischiano già di scoppiare. Non solo perché non ci sono posti a sufficienza nemmeno per eseguire le ordinanze di misura cautelare provvisorie di procure e gip di mezza Italia, motivo per cui al 1° giugno 2016 c’erano ancora 195 persone "socialmente pericolose" in un limbo di semi o completa libertà. Il che sarebbe già di per sé un’emergenza, in un momento di elevata minaccia attentati e di timore per fenomeni di emulazione da parte di persone fragili di mente. Le nuove preoccupazioni arrivano dalla riforma dell’ordinamento penitenziario all’esame della commissione Giustizia al Senato, che potrebbe scaricare sulle strutture numeri insostenibili rispetto alle capacità. L’eventualità è racchiusa in un sub emendamento a firma di Maria Mussini (Misto), approvato dalla commissione prima della pausa estiva con cui si estende a un’indefinita platea di detenuti con problemi psichiatrici, la possibilità di uscire dal carcere e di accedere alle nuove residenze. Che non saranno più una destinazione riservata esclusivamente a quelle persone a cui "sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del reato", come invece prevedeva un emendamento dei relatori Cucca e Casson che recepiva le raccomandazioni degli Stati generali dell’esecuzione penitenziaria e del ministero della Giustizia. Ma potranno anche accogliere i condannati "per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena" e coloro per i quali "occorra accertare le relative condizioni psichiche", nel caso in cui "le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi". Cade così una distinzione "sostanziale" che fa dire a Franco Corleone, commissario unico per il superamento degli Opg e garante regionale dei detenuti in Toscana, che siamo di fronte a una scelta "grave", di certo "non eseguibile". Questione di numeri. Se sono 491 le persone inserite nelle Rems, tra misure provvisorie e definitive, nelle case circondariali, secondo quanto scrive l’ultimo rapporto Antigone, il 50% dei detenuti assume terapie farmacologiche per problemi psichiatrici. Esistono sezioni specializzate per queste categorie di reclusi, ma sono sottodimensionate e spesso vengono usate come "valvole di sfogo" per ospitare detenuti difficili. In Italia c’è una sola sezione per minorati psichici, e si trova nel carcere di Roma Rebibbia. Reparti di osservazione psichiatrica sono stati istituiti a Monza, Bologna, Firenze, Napoli, Pescara, Reggi Calabria, Torino, Palermo, Cagliari, Genova, Livorno e in qualche carcere minore. È alle cure di reparti come questi che il testo proposto dai relatori al Senato affidava i condannati con problematiche psichiche sopraggiunte durante la reclusione. L’ultima modifica che schiude le porte della cella a chiunque registri uno squilibrio, accertato o da accertare, tale da ritenere che non possa essere trattato adeguatamente con altre modalità se non quella delle Rems, non solo è un’ipotesi "non praticabile" assicura Corleone, ma espone l’intero meccanismo a "strumentalizzazioni". Come quelle, chiarisce il commissario, di detenuti che possono tentare di fingersi disturbati pur di accedere a misure alternative alla cella. "Le Rems - conclude Corleone - sono strutture pensate per persone la cui infermità sia stata certificata da sentenza definitiva. Vanno separate le posizioni di coloro che sono certamente affetti da patologie psichiatriche da coloro per i quali è in corso accertamento o che siano stati raggiunti da infermità dopo il reato. Non ci sono i presupposti per affrontare un simile scenario". Senza contare che le residenze non sono ancora tutte in funzione: ne sono state istituite 24, sulle 30 previste dal piano ministeriale. Così si combatte il terrorismo nelle carceri Left, 5 agosto 2016 Come si sta muovendo l’Italia sul fronte della prevenzione del terrorismo? E nelle carceri, dove il fenomeno della radicalizzazione potrebbe sorgere più che altrove? Un quadro della situazione l’ha offerto ieri Andrea Orlando durante l’audizione al Comitato parlamentare sull’attuazione dell’accordo di Schengen che si occupa di vigilanza in materia di immigrazione. Da una parte il ministro della Giustizia ha reso noto quello che era più che un sospetto: e cioè che a dirigere il traffico di migranti vi sono anche uomini dell’Isis "che svolgono azioni di controllo e di indirizzo nella gestione dei flussi migratori verso l’Italia provvedendo anche a dare direttive sui criteri di distribuzione in Italia dei migranti". Ma Orlando non si è spinto oltre per il "segreto investigativo gravante sulle attività". Invece ha parlato dell’attività di prevenzione nelle carceri, il luogo in cui è più facile fare proselitismo da parte delle cellule jihadiste. Un fenomeno che si è visto anche nei casi dei terroristi che hanno operato in Francia nell’attentato al Bataclan. Anche soggetti che si trovano detenuti per reati comuni è stato dimostrato che i carcere possono cadere facilmente nella rete di predicatori fondamentalisti. Il ministro ha ricordato più volte che esiste un’azione di coordinamento che fa capo alla Superprocura antimafia che dall’aprile 2015 ha anche i compiti di contrastare il terrorismo e anche la sinergia in atto tra ministero della Difesa e ministero dell’Interno. "Abbiamo avviato una intensa attività nelle carceri con lo scopo di analizzare, neutralizzare e contrastare quella zona grigia di proselitismo del terrorismo di matrice jihadista che fa presa soprattutto sulla seconda generazione di immigrati", ha detto Orlando. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato predisposto un apposito servizio di coordinamento per le informazioni che giungono dai vari penitenziari, per il collegamento con le forze di polizia e per l’accesso alle banche dati nazionali ed estere Quest’ultime sono fondamentali per la lotta al terrorismo così come la condivisione dei dati, ha sottolineato Orlando. Sapere per esempio che un soggetto che si trova in carcere per reati comuni in Italia, ma che in un altro Paese ha avuto condanne per terrorismo, serve per prevenire qualsiasi sua azione a contatto con altri detenuti. Nelle carceri italiane, vi è comunque una rigorosa separazione dei detenuti, gli integralisti sono isolati. Il fenomeno della radicalizzazione in carcere va poi monitorato costantemente, in modo da intervenire d’urgenza. Per esempio, può anche capitare, continua Orlando, che un detenuto "a rischio" una volta trasferito in un altro penitenziario, circondato da altri compagni, non scivoli più nella spirale jihadista. Con la premessa che "il monitoraggio in Italia non è così allarmante", Orlando ha fatto il quadro della situazione dei detenuti "interessati al fenomeno della radicalizzazione". Sono 345, di cui 93 sospettati, 99 hanno dimostrato approvazione per gli attentati dell’Isis, 153 sono a forte rischio e 39 sono detenuti di Alta sicurezza, imputati per reati di terrorismo. I detenuti che provengono dai paesi di fede musulmana sono 10.500 mentre quelli praticanti sono 7.500. A questo proposito, proprio per stroncare qualsiasi sentimento di vendetta, "per creare gli anticorpi contro l’odio sociale e religioso", Orlando ha parlato anche del fatto che debba essere garantito l’esercizio del culto ai detenuti, stipulando accordi con associazioni e comunità musulmane. In sostanza, ha concluso la sua relazione il ministro, la lotta al terrorismo è una "prova per l’Europa democratica", ci sono scelte urgenti da fare politicamente, scelte però che non prevedano "un appesantimento repressivo". La strategia invece è quella di badare all’efficacia effettiva degli interventi con analisi, monitoraggio e cooperazione. Magari con una procura europea forte, ha sottolineato il ministro. Se a prevenire la radicalizzazione dei detenuti musulmani sono religiosi "sospetti" di Gian Micalessin Il Giornale, 5 agosto 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando grida "al lupo", ma dimentica che i primi a spalancar le porte alla bestia sono i suoi uomini. Nell’intervista di giovedì al Corriere della Sera - in cui denuncia la presenza nelle carceri di 345 detenuti islamici radicalizzati che inneggiano allo Stato Islamico - il ministro si guarda bene dal ricordare che dentro le stesse prigioni operano, grazie ad una convenzione stretta dal suo ministero, gli imam dell’Ucoii, ovvero l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, considerata intimamente connessa alla Fratellanza Musulmana. Tutto inizia lo scorso novembre quando, in concomitanza con le stragi di Parigi, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo firma un protocollo d’intesa con l’Ucoii. Grazie a quel protocollo gli imam scelti dall’associazione ottengono il libero accesso a otto carceri. A Torino, Milano, Brescia, Verona, Modena, Cremona e Firenze i predicatori con il tesserino dell’Ucoii diventano i "gestori" della sala utilizzata come luogo di culto dai detenuti musulmani ed i responsabili di quelli che il protocollo definisce "momenti collettivi di preghiera". Ma non solo. L’intesa - come sottolinea lo stesso Ucoii - va ben più in là perché punta a "promuovere azioni mirate all’integrazione culturale avvalendosi dei mediatori indicati dall’Ucoii anche attraverso la stipula di convenzioni con Università ed Enti che cureranno la formazione dei volontari cui è data la possibilità di accedere con continuità negli istituti penitenziari". Grazie a quell’accordo l’Ucoii monopolizza, insomma, la gestione degli oltre seimila detenuti musulmani presenti nelle nostre carceri e si ritrova nella condizione di plasmarli e indirizzarli. Per capire quali siano i rischi connessi a quest’operazione bastano i recentissimi elogi indirizzati al presidente turco Recep Tayyp Erdogan da Hamza Piccardo, fondatore e uomo di punta dell’Ucoii. "Quel che conta afferma Piccardo - è che a quasi 100 anni da Ataturk la Turchia torna ad essere una grande nazione musulmana di fatto e di diritto. Allah protegga nostro fratello Recep Tayyip Erdoan e tutto il popolo turco". Posizioni perlomeno discutibili, ma che diventerebbero pericolosissime se ripetute, diffuse e propagandate davanti ai detenuti di fede musulmana dai predicatori dell’Ucoii. Il rischio, detto in soldoni, è che gli imam - fatti entrare nelle nostre carceri per prevenire la radicalizzazione - svolgano una funzione esattamente opposta trasformandosi nei catalizzatori stessi del ben noto processo contribuendo a trasformare i piccoli criminali in terroristi provetti. Un disguido tecnico, chiamiamolo così, già sperimentato in Francia dove gli imam, fatti entrare nelle prigioni già negli anni 90, hanno finito con il svolgere proprio la deleteria funzione di istigatori del fanatismo islamista. A rendere il tutto più inquietante s’aggiungono le recenti prese di posizione di Maryan Ismail, l’esponente somala e musulmana fuoriuscita da un Pd milanese accusato d’intrattenere rapporti troppo stretti con varie organizzazioni, tra cui l’Ucoii, legate all’Islam radicale. "Un Islam - spiega la Islamil - dove politica e religione sono profondamente intrecciate, identificabile in quel wahabismo della Fratellanza Islamica promosso da varie sigle nazionali e territoriali come Ucoii e la milanese Caim". Per capire cosa intenda Maryan Ismail basterà ricordare che l’ideologia dei Fratelli Musulmani, a cui aderiscono tanti dirigenti e militanti dell’Ucoii, è la stessa di Hamas e punta ad estendere il ruolo guida della "sharia" (la legge del Corano) a tutti i campi dell’attività umana dalla gestione dello stato a quella della famiglia e dei rapporti sociali. A prima vista non sembrerebbe la ricetta migliore per prevenire la radicalizzazione, ma evidentemente al ministero di Giustizia non devono averci fatto troppo caso. Lista Tosi: i detenuti che gioiscono per gli attentati scontino la pena nel proprio paese Adnkronos, 5 agosto 2016 "Detenuti che gioiscono nelle carceri italiane per gli attentati terroristici e per cui spendiamo oltre 250 euro al giorno: devono scontare la pena nel proprio paese". Così il capogruppo della Lista Tosi in Consiglio regionale veneto Stefano Casali commenta le dichiarazioni del ministro della Giustizia Andrea Orlando. "In questi mesi di attentati terroristici e nello stato d’allerta in cui siamo, nessun segnale può essere tralasciato - spiega Casali - rimango dunque allibito quando il ministro afferma, sulla stampa, di aver rilevato dopo gli ultimi fatti di terrorismo, manifestazioni di esultanza, giubilo e di simpatia nei confronti degli attentatori da parte di detenuti di radice islamica". "A fronte di questi gravissimi episodi che sono stati monitorati - aggiunge Casali assieme ai colleghi tosiani in Consiglio regionale Andrea Bassi, Giovanna Negro e Maurizio Conte - e considerato il sovraffollamento nelle carceri italiane, in cui oltre il 30% sono stranieri (un detenuto su tre) chiediamo al ministro di attivarsi in maniera efficace, diversamente da ciò che avviene oggi, per far sì che questi detenuti che costano allo Stato Italiano oltre 250 euro al giorno vengano espulsi dall’Italia e rispediti a scontare la pena nelle carceri dei Paesi da dove provengono. È il minimo che si possa chiedere alla massima carica politica della Giustizia italiana che oggi però sembra concentrarsi solo su un obiettivo: trovare degli escamotage per far adottare i bambini alle coppie omosessuali". I tosiani chiedono ufficialmente al ministro Orlando: "Di metter mano alla riforma della giustizia in modo serio - affermano i quattro - prevedendo tempi certi e accettabili per avere delle sentenze, civili o penali che siano; la separazione delle carriere tra chi accusa e chi deve giudicare (Pm e giudici); certezza delle pene e sconto delle stesse nei paesi d’origine". Intesa tra Federsanità e Ministero della Giustizia per uso della telemedicina nelle carceri quotidianosanita.it, 5 agosto 2016 Scopo dell’intesa è sostenere la cura della salute del detenuto, dall’ingresso in carcere, durante la permanenza negli Istituti di Pena e fino alla fine del suo periodo di detenzione, fornendo concrete opportunità di riqualificazione professionale e favorendo la condivisione e la gestione dei dati sanitari dei detenuti per migliorare la comunicazione relativamente alla continuità dei processi di cura. Garantire il diritto alla salute delle persone private della libertà personale facilitando l’operato dei medici attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Con questo obiettivo Federsanità Anci e il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, Direzione Generale Sistemi Informativi e Automatizzati) hanno siglato un Protocollo d’Intesa per sostenere la cura della salute del detenuto, dall’ingresso in carcere, durante la permanenza negli Istituti di Pena e fino alla fine del suo periodo di detenzione, fornendo concrete opportunità di riqualificazione professionale e favorendo la condivisione e la gestione dei dati sanitari dei detenuti per migliorare la comunicazione relativamente alla continuità dei processi di cura. Con il decreto DL 230/99 e successivo D.P.C.M. 1 aprile 2008, le Regioni hanno assunto la piena competenza della sanità in tutti gli Istituti Penitenziari con il fine di garantire uniformità di assistenza sanitaria su tutto il territorio nazionale nonché standard preventivi, di pronto intervento e di assistenza e continuità di cura per i detenuti. "Molte Aziende Sanitarie Locali - ha spiegato Angelo Lino Del Favero, Presidente di Federsanità Anci - con il passaggio delle competenze sanitarie dalla Autorità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, si sono trovate a far fronte a una serie di problematiche logistiche, oltre che sanitarie, molto diverse da quelle che quotidianamente vengono gestite sul territorio o all’interno degli Ospedali. Il passaggio di competenza sta comportando un cambiamento multidimensionale sia nell’organizzazione dei servizi, che richiede competenze nuove e quindi un’opportunità di riqualificazione degli operatori, sia un cambiamento tecnologico indotto dalla dematerializzazione della documentazione e dall’utilizzo di strumenti innovativi per garantire una continuità nella comunicazione a salvaguardia della salute del Detenuto. In questa prospettiva - ha detto - si configura la necessità di promuovere un’attività di medicina ‘in retè nelle Carceri che contempla l’impiego di soluzioni innovative anche per gli Istituti di Pena". "Bisogna cambiare il modo di fare sanità all’interno delle carceri - ha aggiunto Lucio Alessio D’Ubaldo, segretario generale della Confederazione - non solo in funzione della mutata forma giuridica del servizio, ma soprattutto nel rapporto con l’uomo e la donna detenuti. Federsanità Anci in forza dell’Accordo siglato con il Ministero della Giustizia il 3 luglio 2015, ha costituito con lo stesso un Tavolo di Lavoro finalizzato proprio alla definizione di un modello innovativo di gestione della salute all’interno degli Istituti di Pena che prevede l’adozione del Diario Clinico del Detenuto, sia per gli effetti di continuità terapeutica che tale strumento può garantire in caso di trasferimento di un detenuto, sia per gli effetti che ha sulla riservatezza medica e sulla trasparenza delle informazioni in caso di accesso a esse per indagini o approfondimenti di situazioni critiche". Una maggiore disponibilità di informazioni e la circolarità delle stesse fra gli Operatori dei processi sanitari contribuisce in modo evidente al miglioramento della salute e all’abbattimento dei costi. Il Protocollo d’Intesa punta al raggiungimento di questi obiettivi mediante una revisione profonda delle attuali modalità organizzative-operative, basata sulla "digitalizzazione" dei dati sanitari in ambito penitenziario. "È un paziente diverso quello che incontriamo in carcere ed al quale - ha sottolineato Luciano Lucania, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - pur nel rispetto delle norme generali e delle regole dell’istituzione, va data una risposta sanitaria del tutto peculiare, non diversa, ma specifica. Il protocollo siglato da Federsanità Anci va nella direzione di fare dell’attività sanitaria in ambito penitenziario un altro tassello dell’offerta del Servizio Sanitario Nazionale. Ho sempre creduto in questo principio, fondante la riforma, pur in presenza di una medicina penitenziaria che è spesso medicina sociale, delle marginalità, delle problematiche di salute amplificate dalla detenzione, di quel disagio che dalle periferie esistenziali spesso si sposta alle carceri. Non è un contesto facile, né facilmente gratificante. Ma è un contesto di sanità vera, dove sì contano le capacità professionali, ma ancor di più quelle umane". Il Senato dice sì all’arresto dell’On. Caridi (Gal), accusato di associazione mafiosa Corriere della Sera, 5 agosto 2016 Voto segreto con 154 a favore, 110 no e 12 astenuti. Il senatore di Gal, accusato dalla Procura di Reggio Calabria di associazione mafiosa, si è consegnato in carcere. Rinviato a settembre il ddl Editoria. L’Aula del Senato ha accolto con 154 sì, 110 no e 12 astenuti la proposta della Giunta per le Immunità di dire sì all’arresto di Antonio Stefano Caridi. Il senatore di Gal (Grandi autonomie e libertà) è accusato dai magistrati di Reggio Calabria di essere al vertice della cupola segreta della ‘ndrangheta. La votazione è avvenuta con voto segreto, come richiesto dai senatori di Gal, nonostante il Pd avesse proposto il voto palese. Dopo il voto Caridi, commosso fino quasi alle lacrime e rosso in volto, ha lasciato l’Aula di Palazzo Madama. Baci e abbracci da numerosi colleghi del centrodestra hanno trattenuto il senatore una manciata di minuti nell’emiciclo, dove l’esito della votazione è stato accolto in un quasi totale silenzio. Dopo il via libera dell’Aula al suo arresto, Caridi, 46 anni, si è consegnato al carcere di Rebibbia, come hanno confermato i legali del senatore, tra cui l’avvocato Valerio Spigarelli, ad alcuni esponenti del gruppo di Gal. Spigarelli si è limitato a dire: "Il momento è delicato". M5S e Pd hanno votato a favore - Il senatore del M5S, Mario Michele Giarrusso, ha cominciato il suo intervento nell’Aula di Palazzo Madama, con il quale ha annunciato che il suo gruppo avrebbe votato a favore dell’arresto di Caridi, sostenendo che "questa è l’imputazione più grave che sia mai stata mossa a un parlamentare della Repubblica. È un’accusa da 416 bis. Contrariamente a quanto vi è stato detto da alcuni in quest’Aula non è affatto un concorso esterno, ma l’accusa proprio di partecipazione all’associazione mafiosa". "Il nostro dovere - ha aggiunto Giarrusso - è vedere se questa attività dei magistrati abbia nei confronti del collega un intento persecutorio. Ma se lui dice che è indagato da 15 anni senza che gli sia mai stato fatto nulla, non può venirci a dire che è un perseguitato. Del resto da quanti anni durano i processi per le stragi mafiose?". "Sgombrato il campo dall’inesistente persecuzione non resta altro da fare che consentire alla magistratura di lavorare. Voteremo sì alla relazione del presidente della Giunta. Lui avrà tutti i tempi per difendersi nel suo processo e non qua al Senato", ha concluso Giarruso. Per il senatore Pd Andrea Marcucci ha spiegato che il suo partito ha confermato il voto dato nella Giunta per l’immunità: "Chi ha sperato in imboscate, ora sarà deluso. Lette le carte, abbiamo ritenuto che non ci fosse fumus persecutionis nell’inchiesta che riguarda il senatore Caridi. Sono decisioni comunque difficili, che il gruppo dem affronta sempre a viso aperto, con rigorosità, senza pregiudizi e caso per caso". Manconi: "Ho votato contro" - "Ho votato contro l’autorizzazione all’arresto di Caridi", ha detto il senatore Pd Luigi Manconi spiegando di non averlo anticipato: "Per rispetto nei confronti del mio gruppo, che ha preso una decisione assai complessa e travagliata". "La mia - ha proseguito - è stata diversa, assunta in piena coscienza e in totale libertà: e dovuta a quelle che ritengo palesi carenze e gravi debolezze delle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di arresto. Dunque ho votato no, ulteriormente incentivato dall’intervento del senatore Giarrusso, capace di rendere garantista persino un boia di professione. E ho votato no - ha osservato ancora Manconi - nonostante il fatto di trovarmi in compagnia di tanti simil-garantisti, contrari a "mandare in galera qualcuno", specie se parlamentare, ma silenziosi quando in cella ci stava Fabrizio Pellegrini, malato di fibromialgia; e tanti altri anonimi poveri cristi italiani e stranieri". L’inversione dell’ordine del giorno - All’inizio dei lavori di giovedì il presidente del Senato Pietro Grasso ha deciso di invertire l’ordine del giorno. Una decisione di Grasso che ha suscitato qualche malumore in diversi senatori. L’Aula, dunque, ha affrontato prima la richiesta di arresto del senatore Antonio Stefano Caridi (Gal), approvata mercoledì in Giunta per le immunità con 12 sì e sette no, e poi il voto sul ddl editoria. Quest’ultimo però è stato rinviato a settembre, dopo che l’Aula ha votato a favore della richiesta di slittamento avanzata dalla Lega, con Roberto Calderoli. D’accordo si è detto il Pd, mentre contrari sono stati i Cinque Stelle. In questo modo, il ddl Editoria, di cui mercoledì è stato approvato l’articolo 1, slitta alla seduta del 13 settembre. Il Senato come Pilato e scattano le manette di Carlo Fusi Il Dubbio, 5 agosto 2016 Votare in maniera favorevole all’arresto di un parlamentare è sempre un esercizio di grande difficoltà. Il meccanismo democratico, infatti, si fonda sulla separazione dei poteri, a cominciare da quello giudiziario rispetto a quello politico. Non a caso nella Costituzione fu prevista l’autorizzazione a procedere, strumento con il quale si sanciva la primazia della valutazione politica su ogni altra considerazione, salvo ovviamente la flagranza di reato. Ora quella guarentigia non c’è più, cancellata dal tornado di Tangentopoli. Ciò non toglie che votare per privare della libertà personale un rappresentante del popolo, sia pure sotto l’accusa di gravi reati, è un fatto che obbliga ad un soprassalto di attenzione, proprio per la delicatezza del tema. In buona sostanza quel che non si dovrebbe comunque fare è privilegiare atteggiamenti di sapore pilatesco che rappresentano il contrario di quell’assunzione di responsabilità a cui una decisione siffatta obbliga. Una matassa delicata e complicata da maneggiare, soprattutto in una fase in cui il rifiuto della richiesta dei magistrati viene considerata come un’indebita autodifesa della Casta rispetto ai suoi privilegi. Significa che, del tutto indipendentemente dal merito della vicenda, opporsi all’arresto è certamente assai più impopolare che sostenere il contrario. Ieri, ancora una volta, un’aula del Parlamento si è trovata di fronte alla richiesta di privazione di libertà formulata dalla magistratura nei confronti di un senatore. Il calendario dei lavori di palazzo Madama, approvato dai capigruppo, prevedeva che la delibera su Antonio Stefano Caridi di Gal - su cui si era già pronunciata per l’arresto la Giunta per le autorizzazioni a procedere - avvenisse dopo l’esame della legge sull’editoria. Il presidente Pietro Grasso - con una decisione tanto legittima quanto adottata in assoluta autonomia accogliendo una sollecitazione del M5S come pubblicamente si compiace il senatore Giarrusso - ha deciso di capovolgere l’ordine dei lavori e mettere al primo punto il voto sulla richiesta presentata dai magistrati di Reggio Calabria che accusano Caridi di appartenere al vertice della cupola segreta della ?ndrangheta. Scelta che ha suscitato una valanga di polemiche e che ha sorpreso anche il Pd: "Apprendo la sua decisione solo nel momento in cui l’ha comunicata all’Assemblea", ha detto il capogruppo Luigi Zanda. Dunque si è determinata una situazione che poteva diventare occasione di lacerazioni e strumentalizzazioni. Sulle determinazioni che riguardano la libertà personale dei parlamentari, infatti, si vota a scrutinio segreto. E al riparo dell’anonimato non era inimmaginabile ci potesse essere chi ne avrebbe approfittato per votare contro l’arresto pur avendo ufficialmente annunciato il Sì, cogliendo così l’occasione di mettere in difficoltà sia il centrodestra, compatto per il no, sia lo stesso Pd. Se insomma la pronuncia fosse stata a favore di Caridi, l’opposizione grillina ne avrebbe approfittato per attaccare le altre forze politiche colpevoli di opporsi alla richieste dei giudici e voler "salvare" un senatore gratificandolo di un trattamento diverso rispetto agli altri cittadini. Il Pd ha fiutato la trappola, e infatti Zanda ha chiesto che il voto fosse palese. Richiesta respinta. Alla fine il voto segreto ha visto comunque prevalere i favorevoli all’arresto. Manovre e contromanovre al riparo dell’urna, dunque. La voglia di allontanare strumentalizzazioni, rigettando l’ipotesi di possibili atteggiamenti persecutori da parte dei giudici, ha prevalso. Anche stavolta. Ancora una volta. Cosa covasse dietro il voto lo si capisce dalla senatrice a Cinque stelle, Enza Blundo, che twitta: "Abbiamo votato per consegnare il senatore Caridi alla magistratura, in attesa di consegnare tutti gli altri, a partire da Zanda". Successivamente, in aula, la Blundo si scusa per il tweet "ambiguo". La pd Anna Finocchiaro invita a una riflessione perché specie quando si parla dell’onorabilità delle persone "è necessario fare attenzione al linguaggio". Un episodio che ben illumina l’attuale clima politico. Davvero poco esaltante. Luigi Manconi dice no e accusa "a sentire Giarrusso pure un boia diventa garantista" di Simona Musco Il Dubbio, 5 agosto 2016 Antonio Caridi deve andare in carcere. Oltre sei ore di discussione in Senato per arrivare a prendere una decisione che, a dire di Carlo Giovanardi, "entrerà (negativamente, ndr) nella storia". Una decisione presa con voto segreto, che porta la firma di 154 senatori favorevoli alla richiesta di arresto avanzata dalla Dda di Reggio Calabria, contro i 110 contrari e i 12 astenuti. Caridi, in quota Gal, è coinvolto nell’inchiesta "Mamma Santissima", ritenuto strumento della cupola di "invisibili" che controlla la città. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi, che ha condensato su due pagine il proprio pensiero. "Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria", ha affermato in aula. Negando di aver mai avuto rapporti "o stipulato patti con la ?ndrangheta", né di aver mai partecipato ad associazioni segrete. "Non c’è un fatto - ha dichiarato - che dimostri questa infamante accusa", come a San Luca, patria del clan Pelle. La seduta si è aperta con uno scontro tra il presidente del Senato e Lucio Barani, di Ala, dopo la decisione di spostare al primo punto dell’ordine del giorno la discussione su Caridi. Barani ha accusato Grasso di intaccare la democrazia, "su pressioni sappiamo di chi", ha gesticolato. Grasso ha quindi invitato il senatore a "non permettersi di avanzare ipotesi" del genere. Ma Barani è andato oltre: "c’è già stato qualcuno che Matteotti l’ha ucciso - ha affermato letteralmente - e vorrà dire che qualcuno ucciderà anche me, perché lei non mi può minacciare". Da qui la replica, ancora più incredula, di Grasso: "Ma io la minaccio? È lei che propone cose indicibili". Barani ha quindi concluso sostenendo l’impossibilità di votare serenamente. "Vorremmo vedere le carte per capire di cosa stiamo parlando - ha replicato -. I padri costituenti si stanno rivoltando nella tomba". Il sì è arrivato in blocco dal Pd, con un’unica voce fuori dal coro: Luigi Manconi, che ha votato contro l’arresto per "palesi carenze e gravi debolezze delle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di arresto". Decisione incentivata dall’intervento del senatore Michele Giarrusso, del M5S, che ha paventato il rischio di una politicizzazione della magistratura. Un intervento, ha affermato Manconi, "capace di rendere garantista persino un boia di professione. E ho votato no - ha aggiunto - nonostante il fatto di trovarmi in compagnia di tanti simil-garantisti, contrari a "mandare in galera qualcuno", specie se parlamentare, ma silenziosi quando in cella ci stava Fabrizio Pellegrini, malato di fibromialgia; e tanti altri anonimi poveri cristi italiani e stranieri". Favorevole, invece, il collega calabrese Francesco Molinari, del Gruppo misto, tra i pochi ad aver avuto tempo e modo per leggere anche le 107 pagine di richiesta d’arresto presentate dalla Dda. "Contestazioni puntuali e gravissime", ha ricordato il senatore. "La gravità dei fatti contestati va a minare le istituzioni - ha aggiunto -. Tocca a noi ridare onorabilità al Senato". Dichiarazione alla quale ha fatto eco quella di Corradino Mineo, di Sinistra italiana, che ha utilizzato il sì all’arresto come conferma della "uguaglianza davanti alla legge" di tutti i cittadini. Il centrodestra ci ha provato ad ottenere il rinvio della discussione. Almeno in attesa della decisione del Riesame, prevista per lunedì, come chiesto da Lucio Malan, di Forza Italia. Ma l’aula si è espressa contro le pregiudiziali e la sospensione, richieste avanzate allo scopo di approfondire meglio le carte, un malloppo di quasi 5mila pagine. Anche se la relazione di Dario Stefano, presidente della giunta per le immunità, di pagine, in realtà, ne aveva solo 12. Una relazione che concorda con l’arresto, in virtù della "straordinaria gravità del reato contestato - si legge, la consistenza delle ricostruzioni indiziarie e degli elementi probatori, l’evidente non implausibilità delle motivazioni addotte dalla magistratura richiedente e la stessa situazione dei coindagati". Ma per Malan, "questa è stata in assoluto la trattazione più breve per un problema di questo genere". Mauro Guerra, un altro caso Cucchi? di Marco Zavagli Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2016 Mi sono imbattuto nella storia di Mauro Guerra per caso. Qualche settimana fa, durante un dibattito, mi si avvicina una signora. "Mi chiamo Giusi Businaro, sono la mamma di Mauro Guerra". Pochi secondi dopo mi vergognerò di non aver capito subito di chi mi stesse parlando. Era lì per conoscere me e, soprattutto, Ilaria Cucchi. Le ho presentate. Al termine dell’incontro Giusi mi dirà che lei, in fondo, è stata più fortunata di Ilaria. "Almeno il mio Mauro me lo hanno restituito integro nel volto". Quella empatia, provata da una madre orfana del figlio, mi ha colpito. Ho accettato l’invito alla giornata in ricordo della morte di Mauro Guerra, che si è tenuta lo scorso 29 luglio. Mauro ha perso la vita il 29 luglio 2015 trafitto da un proiettile. Sparato da un maresciallo dei carabinieri. A Carmignano Sant’Urbano, 1.600 anime nella provincia veneta tra Rovigo e Padova, tutto si sviluppa lungo una via. In via Roma c’è la caserma. Passi cento metri e c’è la casa della famiglia Guerra. Prosegui e incontri il municipio e, in fondo, il campo dove è stato ucciso Mauro. Chi era Mauro? Era un uomo di 32 anni. Famiglia di lavoratori, di fede cattolica e di anima leghista. Lavorava in uno studio di commercialista e la sera, lui bodybuilder, non disdegnava di fare anche il buttafuori. Il suo corpo l’ha sempre curato dai tempi del servizio militare, quando entrò proprio come carabiniere nel Reggimento paracadutisti Tuscania. Quelle mani non solo alzavano pesi e facevano calcoli, disegnavano e dipingevano. Il paese, nell’anniversario della morte, era addobbato con i suoi quadri e le sue magliette. Non voglio nascondere le cose spiacevoli. Mauro aveva alle spalle una condanna per stalking. Altre cose spiacevoli le ho lette solo sulle cronache locali dei giorni successivi alla sua uccisione. Quel 29 luglio Mauro viene convocato in caserma. Dopo mezz’ora torna correndo verso la sua abitazione. A inseguirlo ci sono alcuni militari. Di lì a poco diventano una decina. Dicono che devono sottoporlo a un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio (che nessuno aveva ordinato). Dopo tre ore di "trattativa", finge di dirigersi verso l’ambulanza per poi fuggire verso i campi. È in mutande. Disarmato. Percorre 800 metri prima di essere raggiunto da un carabiniere che gli mette una manetta al polso. Si divincola e inizia a picchiare il militare. A questo punto l’altro carabiniere spara. Prima due colpi in aria, poi sul corpo nudo di Mauro. Il carabiniere ferito entrerà in ospedale con "frattura della teca cranica, della mandibola e di sei costole, ma non in pericolo di vita". Verrà dimesso 24 ore dopo. Prognosi 30 giorni. Chi ha sparato è stato indagato per omicidio colposo. A un anno di distanza gli esiti della perizia (autopsia ed esame balistico) non sono ancora stati depositati. Anzi, il pm ha chiesto altri sei mesi di proroga. A gennaio qualche indiscrezione sugli esami tossicologici trapela sui giornali. Si affermava che Mauro non aveva assunto sostanze dopanti né stupefacenti, smentendo così una delle prime tesi date in pasto ai media. Già, i media. Dicevo delle cronache locali. Leggendole ho notato un copione cui da tempo sono abituato. La demonizzazione della vittima. I carabinieri chiamati dagli stessi familiari che lamentavano il "precario equilibrio umorale" del loro congiunto. Mauro - pardon "un energumeno di oltre 100 chili", un "giovane squilibrato" - era "completamente fuori di sé", "farneticava". Spunta anche un "papello delirante" in cui entrano "Dio, il diavolo e il destino del mondo". Il ritratto perfetto del pazzo privo di controllo. I familiari sostengono di aver parlato con testimoni che raccontano una storia diversa. Mauro si sarebbe liberato del primo carabiniere con una serie di pugni per poi lasciarlo a terra e proseguire la fuga. A quel punto sarebbe stato raggiunto dal proiettile. Giusi aggiunge che "non sappiamo perché quel carabiniere abbia sparato quando c’erano almeno 12 uomini intorno a mio figlio che lo potevano bloccare. Non sappiamo perché per un’ora e mezza ci è stata tenuta nascosta la sua morte né perché non sia arrivato un pm sul posto". A ricordare Mauro c’è mezzo paese, stipato dentro e fuori una piccola sala dove si combatte l’afa a suon di ventilatori. Luigi Manconi interviene con un videomessaggio per dire che "non si può morire come Mauro Guerra". Una citazione, probabilmente involontaria, della sentenza Aldrovandi: "Non si può morire come Federico". Ma sembra che siano sempre di più i nomi da affibbiare a questo divieto tanto bistrattato da rimanere appena una speranza. Interviene dalla platea un caro amico di Mauro. In mano ha un foglio. Il giorno del funerale non ce l’ha fatta a leggere. Il pianto gli ha strozzato in gola i primi versi. Ora riesce a finirla quella poesia. È ‘Sono una creaturà di Ungaretti: "Come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede.// La morte/ si sconta/ vivendo". La morte si sconta vivendo. Lo sanno da anni Patrizia Moretti, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Domenica Ferrulli e tante altre. Lo sta imparando anche Giusi. Claudia Francardi: "ecco perché aiuto l’assassino di mio marito a rinascere" di Giacomo D’Onofrio Avvenire, 5 agosto 2016 Il dolore è una cosa seria. Ce lo mostra anche il Vangelo, con Gesù che piange per la morte dell’amico Lazzaro. Il dolore è una cosa seria, ma può diventare anche una strada attraverso la quale si scopre la pietra rotolata via dal sepolcro. Che il dolore possa essere anche uno spazio di rinascita lo testimoniano da oltre due anni Claudia Francardi e Irene Sisi. La prima è la vedova dell’appuntato scelto Antonio Santarelli, il carabiniere ridotto in fin di vita e morto dopo un anno di coma per l’aggressione subita in un posto di blocco nella zona di Pitigliano, nel Grossetano. La seconda è la mamma di Matteo, il giovane autore di quell’aggressione, diventata poi mortale, per la quale sta scontando la sua pena. Dal buio della disperazione che, in modi diversi, le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, non scontata. Ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme hanno dato vita all’associazione "AmiCainoAbele" con la quale si impegnano per affermare la cultura di una giustizia riparativa, fondata sulla valutazione del reato non solo come violazione verso lo Stato, ma anche come riparazione - appunto - del danno provocato e di riconciliazione tra le parti. Claudia Francardi e Irene Sisi hanno intrapreso il loro percorso di riconciliazione non solo per provare a ricomporre ciò che quel 25 aprile 2011 rischiava di aver mandato in frantumi per sempre, ma anche per ripetere agli uomini del nostro tempo che "non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono", come diceva san Giovarmi Paolo II. Nulla di "facile", non una favoletta" infarcita di buoni sentimenti: il percorso imboccato dalle due donne ha lasciato che il dolore - quello che toglie il respiro - facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Insieme. Mano nella mano. Donna con donna. Madre con madre. Sguardo con sguardo. Così raccontarono il loro cammino due anni fa presentando, a Grosseto, la loro associazione assieme a don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana, che le ha accompagnate in questo percorso. Nulla di umanamente facile però. Claudia raccontò la fatica, il travaglio, i mesi di buio, la rabbia, il dolore nell’assistere all’agonia del marito. Fino a quell’I l maggio 2012, quando Antonio è deceduto. "Quel giorno mi sono detta che non volevo vivere il resto della mia vita nella rabbia". Nel frattempo la giustizia stava facendo il suo corso: processo di primo grado, l’accusa, che da tentato omicidio diventa di omicidio, la sentenza di condanna. "In quel momento - raccontò la donna - mi sono sentita morire un’altra volta". Non voleva credere che a Matteo, che pur si era macchiato di un fatto gravissimo, non fosse data una possibilità di riscatto. L’incontro tra le due mamme, intanto, c’era già stato. Irene aveva fatto recapitare a Claudia una lettera con la richiesta di perdono. Claudia quella lettera la aprì e la lesse. È servito tempo perché la richiesta trovasse una risposta. Poi un giorno queste due mamme, esili e forti, si sono incontrate in un abbraccio. Claudia e Matteo, invece, si sono visti per la prima volta il 23 gennaio 2013. Lei gli ha guardato le mani, le ha toccate. Quel giorno a mediare tra Matteo e Claudia non ci fu né un avvocato, né un assistente sociale, né un prete. Ci fu una corona del rosario posata tra la mano di lui e quella di lei. La forza della riconciliazione è passata da quel gesto semplice e dirompente. Il percorso continua, la risalita è lenta. Due sopravvissute: così si sono definite di recente, in un incontro promosso dalla diocesi di Grosseto nell’ambito dell’Anno della misericordia. Sopravvissute grazie al perdono, che come ha detto ieri papa Francesco ad Assisi, apre squarci di Paradiso. E il perdono fa guardare avanti. "Oggi - commenta Claudia - ci consideriamo persone nuove, rinnovate. Stiamo lavorando a vari progetti che diano concretezza al nostro personale percorso. Quando fai questi passi in avanti - continua la donna - non sempre le persone riescono a capire; vorrebbero relegarci nel passato, ma noi ci sentiamo persone nuove, cambiate, presenti nell’esistenza l’una dell’altra. Questo non vuol dire dimenticare, ma far rifiorire la vita". Con l’esposto anonimo scatta il sequestro di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 4 agosto 2016 n. 34450. Una denuncia anonima può bastare a far scattare perquisizioni e sequestri: è sufficiente che la polizia giudiziaria, dopo la ricezione dell’esposto, abbia svolto quel minimo di attività necessaria ad acquisire la notitia criminis, per poi dar tempestivamente seguito all’accertamento della prova di cui il sequestro è lo strumento principe. La Corte di cassazione - Sesta penale, sentenza 34450/16 depositata ieri - scioglie le briglie degli investigatori allargando i paletti dell’articolo 24o del Codice di procedura ("I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti nè in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato"). Il caso arrivato al giudizio di legittimità riguardava l’inchiesta della procura di Ancona contro un dipendente pubblico che nel dicembre scorso aveva caricato sul social media Facebook una serie di post offensivi verso il presidente della Repubblica e di vilipendio della nazione italiana (articoli 278 e 291 del Codice penale). L’uomo, un quarantenne del posto, era stato denunciato con un esposto anonimo e dopo poco si era trovato la polizia giudiziaria in casa e al lavoro per vedersi sequestrare il telefono cellulare, una pen drive e gli hard disk dei due computer in uso. Immediata l’impugnazione davanti al Riesame, con esito negativo, e quindi il ricorso in Cassazione per lamentare l’utilizzo improprio del sequestro probatorio, fondato appunto su una "delazione" anonima. Anche la Suprema Corte ha però validato le iniziative adottate nell’indagine preliminare - cioè i sequestri - in quanto orientate ad "assicurare le fonti di prova". In questo contesto, scrive la Sesta sezione, "si è in presenza di una fonte valida a stimolare l’attività di indagine d’iniziativa della polizia giudiziaria", pg che proprio sulla base dell’esposto aveva subito riscontrato la notitia criminis sul profilo Facebook riferibile alla persona finita sotto indagine. E per trovare ulteriori riscontri all’ipotesi di reato, e soprattutto sulla responsabilità dell’indagato, la procura aveva immediatamente avviato la rogatoria internazionale per ottenere i dati in possesso del gestore del servizio di social media. Se è vero che una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine, scrive l’estensore, "e quindi non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono indizi di reità", è altresì vero che gli elementi contenuti nell’anonimo "possono stimolare l’attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi elementi utili per l’individuazione di una notitia criminis". Assistenza penale tra gli Stati membri dell’Unione, legge in "Gazzetta" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2016 Entra in vigore oggi la legge delega (n. 149/2016) con la quale viene ratificata la Convenzione sull’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione. Con la norma, pubblicata nella Gazzetta ufficiale di ieri, (n.181) la Camera ha anche delegato il Governo ad adottare, entro sei mesi, i decreti legislativi per introdurre le modifiche nell’ordinamento interno. La legge, all’insegna della semplificazione soprattutto in materia di rogatorie e del dialogo diretto tra le autorità giudiziarie degli Stati Ue, è tesa a favorire la circolazione degli atti di indagine tagliando i tempi. Centrale la disciplina delle intercettazioni, con precisi obblighi nel caso in cui venga trasmessa una richiesta all’autorità giudiziaria di un altro Stato membro. Le modifiche alle norme interne, oggetto di delega, riguarderanno in particolare gli interventi per disciplinare la restituzione delle cose pertinenti il reato, la procedura di trasferimento per le indagini dei detenuti, gli effetti processuali delle audizioni in videoconferenza, anche di testimoni e periti, la disciplina per le intercettazioni all’estero, le operazioni sotto copertura e le questioni legate alla responsabilità civile e penale dei funzionari stranieri. Modifiche anche al libro XI del codice di procedura penale nella parte relativa ai rapporti con le autorità giurisdizionali straniere, con una chiara distinzione tra Stati membri e extra Ue ai quali non è applicata la Convenzione. Tra le novità del testo anche l’utilizzo delle squadre investigative comuni. Santa Maria C.V. (Ce): una condotta idrica per il carcere, lavori al via dopo 20 anni di Vincenzo Altieri Il Mattino, 5 agosto 2016 Sono trascorsi venti anni prima che si mettesse nero su bianco per avviare l’iter per la realizzazione di una condotta a idrica a servizio del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ieri mattina, al termine di una lunghissimo percorso burocratico, è stato siglato il protocollo di intesa tra il Comune della città del Foro e la Regione Campania. Un accordo che consente l’avvio delle procedure finalizzate all’erogazione del finanziamento di 2 milioni e 190rnila euro, nell’ambito del Por Campania 2014-2020, relativo alla progettazione e all’esecuzione dei lavori necessari. "La sottoscrizione del protocollo - ha spiegato il sindaco Antonio Mirra che, ieri mattina a Napoli, ha apposto la firma al documento alla Direzione generale per l’ambiente e l’ecosistema - rappresenta un momento essenziale per la risoluzione della problematica relativa alla condotta idrica per l’approvvigionamento della struttura carceraria di Santa Maria Capua Vetere. Si metterà fine, in questo modo, ad una situazione che ha fatto registrare nel corso degli anni notevoli negative conseguenze sui diritti umani della popolazione dei detenuti. L’amministrazione ha inteso dare un’immediata accelerazione ad un iter burocratico che andava avanti oramai da anni. Adesso, a breve, si potrà finalmente dare vita agli atti relativi alla progettazione e alla esecuzione dei lavori". La struttura, diventata attiva nel 1996, non ha mai goduto di un proprio allaccio sulla condotta idrica. L’acqua è sempre stata fornita da pozzi risultando assolutamente insufficiente, soprattutto durante la stagione estiva, a soddisfare le reali esigenze dell’intera popolazione di detenuti che ammonta a circa 1.000 unità. Il disservizio non è stato superato nemmeno quando, nel 2013, è stata consentito l’ampliamento della struttura con l’apertura di un nuovo padiglione detentivo per 370 detenuti. Spesso, in occasione dei mesi estivi, è stato necessario provvedere alle esigenze dei detenuti con serbatoi o addirittura bottiglie di acqua potabile utilizzate per l’igiene personale. Sulla vicenda è intervenuta, nei giorni scorsi, anche la deputata del Pd Camilla Sgambato: "La collaborazione interistituzionale messa in campo negli ultimi due anni è servita a dare una risposta seria e concreta a un problema molto avvertito dalla vasta popolazione carceraria e dal personale del penitenziario. Voglio ringraziare per la sensibilità mostrata la giunta regionale che, lo scorso mese di aprile, ha previsto lo stanziamento di due milioni di euro per l’allaccio delle rete di distribuzione interna alla casa circondariale alla condotta idrica comunale". Padova: "Il mercante di Venezia" in scena al Due Palazzi per i detenuti di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 5 agosto 2016 "Il mercante di Venezia" appena rappresentato nel Ghetto di Venezia mercoledì in carcere: attori da tutto il mondo e una regista speciale. Dopo aver messo in scena per cinque serate "Il mercante di Venezia" nel Ghetto di Venezia, dove Shakespeare l’aveva ambientato, la regista newyorkese Karin Coonrod ha voluto portare lo spettacolo in carcere, al Due Palazzi di Padova. "Perché il teatro deve andare, deve essere, dappertutto, nell’ovunque più lontano o difficile". E l’ha fatto, con 34 dei 40 componenti della compagna internazionale dè Colombari di cui fan parte attori e musicisti dall’Europa, Stati Uniti, Israele, Australia. Ed è riuscita a farlo grazie all’incontro con l’inarrestabile Nicola Boscoletto, patròn della cooperativa Giotto in carcere, che si è tuffato nel progetto e ha fatto rete, coinvolgendo il coinvolgibile. Per primo il direttore Ottavio Casarano ("Vogliamo che il carcere sia una parte della società, in contatto con il mondo esterno e il teatro è un veicolo per creare varchi nelle emozioni blindate di chi vive qui") affiancato da Lorena Orazi responsabile delle attività educative. Senza dimenticare il Teatro Carcere di Cinzia Zanellato che li dentro lavora con una trentina di detenuti-attori. E così in un magazzino nel settore della Giotto diventato sala teatrale, con scenografie, palco per i musicanti e il pubblico tutto intorno, l’altro ieri pomeriggio è andato in scena Il Mercante. Due ore strepitose, davanti a un centinaio di detenuti, 14 dei quali, indossata una sciarpa rossa, hanno partecipato a una scena, e con un tot di ospiti ufficiali dal questore Gianfranco Bernabei alla vice sindaco Marina Buffoni, dai rappresentanti dei carabinieri al Provveditore regionale Enrico Sbriglia. Recitazione quasi tutta in inglese, salvo alcune parti in veneziano: i presenti a compulsare il libretto con testo e traduzione a fronte, all’inizio ogni spettatore ritrovandosi a seguire lo spettacolo ciascuno da una pagine diversa. Cinque diversi Shylock hanno creato momenti di straniamento ma, dopo un po’ di pratica, il tutto è diventato agevole. E le emozioni per lo spettacolo, e per quei temi, la giustizia, il diritto, la clemenza, sono esplose come accade quando il teatro irrompe dentro il carcere: tutto elevato alla potenza. Agli applausi finali, uno degli attori (tutti professionisti), si è sciolto in lacrime, non esibite e così vere. Riad è uno dei detenuti-spettatori che frequenta i laboratori di Teatro di Cinzia Zanellato; 34 anni, fine pena nel 2019: "Mai avrei pensato a fare teatro o seguirlo. Mi piace tanto. È una grande scoperta, un modo diverso anche di stare con gli altri". Monza: sala di registrazione in carcere, una raccolta fondi per realizzarla di Arianna Monticelli ilcittadinomb.it, 5 agosto 2016 È online, da metà luglio, il terzo album registrato all’interno del carcere dai ragazzi detenuti. Una produzione frutto dal laboratorio con il rapper Kiave, nell’ambito di "Parole oltre i muri". Un percorso, ormai collaudato, realizzato con l’associazione "Il razzismo è una brutta storia". Una sala di registrazione in carcere per avere memoria delle buone pratiche e per raccontarle a tutti. Perché la musica può "liberare" in qualsiasi luogo, soprattutto dove si è costretti a rimanere dietro a un muro, da dove non si riesce più a vedere il resto del mondo. Anche qui, però, ci si può sentire liberi. Lo strumento per farlo, in questo caso, sono le parole. Che siano scritte, cantate o lette, poco importa: le parole acquistano potere. In questa prospettiva una sala di registrazione è un posto dove imparare a "custodire", per poter poi diffondere anche all’esterno, i risultati del lavoro artistico di tante persone detenute, fatto grazie a progetti diversi e a un impegno che regala loro nuovi stimoli e prospettive. Dopo quasi tre anni di percorsi nel carcere di Monza, l’associazione "Il Razzismo è una brutta storia" ora lancia un appello a tutti. "Vogliamo realizzare la prima sala di registrazione all’interno della struttura - spiega Giulia Frova dell’associazione che promuove e gestisce iniziative culturali, campagne di comunicazione e progetti legati al tema delle discriminazioni - dove le fiabe, i racconti, le storie e la musica potranno diventare podcast, programmi radio, audio-libri, cd". La campagna per la raccolta fondi è già partita. L’obiettivo è ambizioso: 100 giorni per portarla a termine; 20 se ne sono già volati via. Ma ne restano ancora tanti per poter contribuire. Per farlo si può partire proprio dalla musica già creata in carcere. È infatti online, da metà luglio, il terzo album registrato all’interno del carcere di Monza dai ragazzi detenuti. Una produzione frutto dal laboratorio con il rapper Kiave, nell’ambito di "Parole oltre i muri". Un percorso, ormai collaudato, realizzato con il sostegno della Fondazione della Comunità di Monza e Brianza e del Centro Servizi per il volontariato della Comunità di Monza e Brianza, basato sulla cultura e sullo storytelling, che ha dato vita a momenti condivisi tra detenuti e cittadini tra scrittura, cinema e musica, in casa circondariale. Resta comunque la musica il linguaggio più immediato per molti ragazzi detenuti: lo strumento migliore, anche duro, per potersi esprimere. Ragazzi, operatori e volontari hanno mostrato i risultati di questa contaminazione anche oltre le mura del carcere, all’Arci Scuotivento, (lo scorso 9 luglio, ndr) con un concerto e la presentazione del nuovo album. Qui si è tenuto anche un laboratorio di graffiti con gli artisti Giac0 e Vash, il cui ricavato è andato proprio a sostegno della campagna di raccolta fondi per realizzare lo studio di registrazione. E l’album è il miglior prodotto per mostrare le potenzialità esistenti. Nove le tracce scritte e musicate sui beat di Apollo Brown da Manna, Mario Mof, Giacomo, Patrice ed Entu. Proprio con l’album è stata lanciatala campagna Il Razzismo è una brutta storia #Registriamone1Altra, per la raccolta fondi online per la sala. Durante la presentazione dell’album diversi cittadini si sono offerti per organizzare nuovi eventi di sostegno sul territorio. Intanto alcuni strumenti musicali sono già arrivati, ma per il resto del materiale (microfoni, sistema operativo, software, amplificatori etc...) serve l’aiuto di tutti. Per continuare a concedere momenti di libertà, anche dietro le mura del carcere. (Per donare strumentazione info@razzismobruttastoria.net. Informazioni su album e sala: razzismobruttastoria.net). Cuneo: Osapp; al carcere Cerialdo detenuto aggredisce i poliziotti penitenziari targatocn.it, 5 agosto 2016 A denunciarlo è il sindacato Osapp. L’uomo ha devastato la cella. Ieri - mercoledì 4 agosto - verso le 10, presso la Casa Circondariale di Cuneo, un detenuto ristretto al Reparto Ordinario di nazionalità Gabonese K. D., classe ‘94, detenuto per violazione legge stupefacenti ed altro, senza motivo ha devastato completamente la cella ove era ristretto. All’arrivo del personale di Polizia Penitenziaria il carcerato ha lanciato addosso l’urina che aveva raccolto in un contenitore. Il personale ha dovuto accompagnare il detenuto per le cure in infermeria e nel tragitto, lo stesso, si è scagliato aggredendo i Poliziotti intervenuti i quali sono stati successivamente accompagnati al Pronto Soccorso per le cure del caso. È stato evitato il peggio solo grazie alla indiscussa professionalità del personale intervenuto che ha dovuto faticare non poco e a cui va la nostra vicinanza. A denunciare l’episodio è il Segretario Generale dell’O.S.A.P.P. (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci il quale afferma che si tratta dell’ennesimo episodio occorso nelle carceri italiane a dimostrazione del fatto che è sempre e solo la Polizia Penitenziaria a pagare, anche a prezzo della propria incolumità personale, le conseguenze dei disservizi e della disorganizzazione che connotano l’organizzazione degli Istituti di pena Italiani, soprattutto in un momento in cui è lasciata ai detenuti, anche di notevole pericolosità la massima libertà di movimento nelle sezioni detentive e non si procede neanche in via disciplinare per prevenire e/o per reprimere la crescente violenza che sta caratterizzando il sistema penitenziario in danno delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con particolare veemenza nelle carceri Piemontesi. Il totalitarismo religioso dell’Isis di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 5 agosto 2016 In comune con le ideologie dei regimi del ‘900 il Califfato individua come "nemico oggettivo" una categoria di persone che vanno perseguitate e colpite fino alla morte: tutti i non credenti e persino i musulmani considerati infedeli L’estremizzazione fideistica conta più delle difficoltà sociali. È fondato, e soprattutto serve a qualcosa, considerare il terrorismo dell’Isis come un fenomeno di tipo totalitario, se non anzi il nuovo totalitarismo del XXI secolo? La domanda e il paragone che sottende si sono affacciati più volte nei commenti delle ultime settimane o mesi, soprattutto nella forma di un confronto tra il terrorismo islamista e il nazismo. In effetti, se pensiamo ai due grandi totalitarismi del ‘900, quello di Hitler e quello di Stalin, è soprattutto al primo che rimanda il terrorismo islamista di oggi, per quell’elemento nichilistico che era appunto caratteristico del nazismo più che del comunismo sovietico. Ed anche perché, nella concreta realtà storica, è stato il totalitarismo nazista a scatenare, tra il 1939 e il 1945, la sua guerra totale. Il terrore, scriveva Hannah Arendt oltre sessanta anni fa, rappresenta l’autentica essenza del fenomeno totalitario. E l’inclinazione alla violenza terroristica, l’uccidere e insieme l’incutere terrore uccidendo, ritorna appunto come un dato centralissimo nel terrorismo islamista, unitamente ad altri caratteri strutturali del regime di Hitler ma anche di quello di Stalin: dal totale disprezzo per la vita alla pretesa di controllo assoluto sugli esseri umani. Le differenze rispetto all’oggi ci sono e sono evidenti (come c’erano del resto tra il comunismo e il nazismo in quanto fenomeni totalitari), ma non sembrano veramente sostanziali. In particolare, è significativo che nel terrorismo islamista si ritrovi una delle caratteristiche peculiari del totalitarismo: l’idea di un nemico oggettivo, cioè di una categoria di persone individuata e colpita (fino alla morte) non per ciò che fa ma per ciò che è. Come il nazismo puntò a sterminare qualunque ebreo, così l’Isis esorta a uccidere a caso, qualunque cristiano o europeo, qualunque islamico considerato infedele. Se nei totalitarismi del ‘900 a svolgere un ruolo fondamentale era un’ideologia che assumeva caratteri millenaristico-religiosi, l’Isis ricava la propria ideologia da un’interpretazione radicale della religione islamica: un’ideologia che predica la distruzione/soggezione dell’Occidente cristiano come di tutti i popoli e Paesi che seguono una diversa interpretazione dell’Islam. Il fatto che un tale obiettivo, quello di un Califfato esteso all’Europa, al Medio Oriente e oltre, appaia sostanzialmente folle, non fa che confermare il confronto tra l’Isis e i totalitarismi del ‘900, in particolare quello nazista. I fini ultimi di Hitler - la purificazione della razza, la nascita del Reich millenario - appartenevano infatti a una dimensione utopica e apocalittica, integralmente ideologica, non diversamente dai sogni di dominio mondiale formulati oggigiorno dall’Isis. Interrogarsi sulla natura totalitaria del terrorismo islamista è tutt’altro che una questione accademica. Se siamo di fronte a un terrorismo che predica la nostra distruzione in quanto noi siamo individuati in blocco come nemici, ha poco senso, rischia anzi di portare fuori strada, continuare a evocare la mancata integrazione degli islamici europei di seconda generazione come un modo per combattere il terrorismo. Eppure lo si continua a fare. Ancora pochi giorni fa Alessandro Rosina in un editoriale su Avvenire (28 luglio) ha chiamato in causa il "nodo esplosivo" tra terrore e giovani determinato dall’inasprimento delle disuguaglianze legato alla crisi economica, sottolineando la necessità di misure per l’integrazione e così via. Il problema dell’integrazione degli immigrati esiste e va affrontato, naturalmente. Ma, come ha giustamente sostenuto di recente la cancelliera tedesca Angela Merkel, una cosa è l’integrazione e cosa diversa la lotta al terrorismo e all’Isis. Confondere i due piani può essere pericoloso. Internet: si scrive cyberbullismo, ma si legge norma ammazza web di Fulvio Sarzana (Avvocato) Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2016 Sei anni di carcere per i cittadini, i blogger e le testate che pubblichino anche una sola informazione in grado di violare i dati personali o di ledere l’onore e la reputazione di qualsiasi soggetto, con confisca del telefono, del computer e rimozione del contenuto obbligatoria. È questa la novità di agosto (in realtà del 27 luglio) della proposta di legge C 3139 (prima firmataria la senatrice Dem Elena Ferrara), che, con l’accordo di tutte le forze politiche, eccetto alcuni parlamentari di opposizione che ne hanno contestato l’applicazione, verrà votato dalla Camera a partire dal 12 settembre prossimo. La norma che dovrebbe occuparsi di cyberbullismo, quindi teoricamente di tutela del minore, transitando alla Camera, con i relatori Dem Micaela Campana e Paolo Beni è divenuta, con i profondi ritocchi dei relatori e della Commissione riunite Giustizia e Affari sociali, una vera e propria norma ammazza web, che riguarda anche e soprattutto ogni maggiorenne che si affaccia alla rete internet. E sì, perché diversamente dalla disposizione originaria approvata anche dal Senato, che era incentrata principalmente sulla tutela del minore, il testo uscito il 27 luglio, è stato completamente stravolto, divenendo una norma repressiva sul web a tutti gli effetti. Le Commissioni hanno approvato diversi emendamenti tra i quali questo testo: "2-bis. Ai fini della presente legge, con il termine "cyberbullismo" si intende qualunque comportamento o atto, anche non reiterato, rientrante fra quelli indicati al comma 2 e perpetrato attraverso l’utilizzo della rete telefonica, della rete internet, della messaggistica istantanea, di social network o altre piattaforme telematiche. Per cyberbullismo si intendono, inoltre, la realizzazione, la pubblicazione e la diffusione on line attraverso la rete internet, chat-room, blog o forum, di immagini, registrazioni audio o video o altri contenuti multimediali effettuate allo scopo di offendere l’onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime, nonché il furto di identità e la sostituzione di persona operate mediante mezzi informatici e rete telematica al fine di acquisire e manipolare dati personali, nonché pubblicare informazioni lesive dell’onore, del decoro e della reputazione della vittima". Nel testo e nelle altre disposizioni scompaiono i riferimenti ai minori al fine di delimitare l’ambito di applicazione della norma. In base a questa questa, qualsiasi attività, anche isolata (e quindi effettuata anche una sola volta), compiuta dai cittadini anche maggiorenni sul web conferisce la possibilità a chiunque (altra innovazione portata dalla Camera) di ordinare la cancellazione di contenuti, salva la possibilità che questa attività venga ordinata dal garante privacy. E chi non si adegua? Rimozione e oscuramento dei contenuti e sanzione sino a 6 anni di carcere. In pratica le attività di critica sui social network, attraverso blog o testate telematiche, farà scattare la possibilità di richiedere la rimozione del contenuto, dell’articolo, del messaggio, di qualsiasi cosa insomma sia presente sul web, con la possibilità di far bloccare il contenuto anche rivolgendosi al garante privacy. Un blog scomodo, una commento troppo colorito sul forum, una conversazione un po’ ardita tra maggiorenni su Whatsapp, qualsiasi pubblicazione di dati a opera di maggiorenni, qualsiasi notizia data su un blog o su una testata, e che riguardano maggiorenni, ricadranno in quella definizione e saranno oggetto di possibile rimozione. Da Facebook a Whatsapp ai blog tutto viene inserito nella furia iconoclasta del legislatore pronto a punire le attività peccaminose dei maggiorenni sul web. Con buona pace del cyberbullismo sui minori che è divenuto un elemento del tutto residuale della norma. Un bavaglio in piena regola. Per essere sicuri che chiunque potesse essere assoggettato a sanzione i relatori personalmente hanno pensato bene di far approvare una nuova norma (l’articolo 6 bis della proposta) che prevede per tutti i cittadini la possibilità di essere sanzionati con un reato che prevede il carcere fino a 6 anni, e - si badi bene - la confisca di tutto quanto sarebbe servito per commettere il reato. A opporsi a questa deriva sono stati solo un drappello di parlamentari del Movimento 5 Stelle, Baroni, Lorefice e Agostinelli, che si sono battuti duramente per il ritorno allo spirito originario della norma, ovvero alla tutela attraverso azioni di sostegno e di reazione rapida a beneficio dei minori. Senza però ottenere risultati a quanto pare, dal momento che a partire dal 12 settembre la Camera potrebbe varare definitivamente il testo uscito dalle Commissioni. C’è tempo fino all’8 settembre per emendamenti. Con la speranza che settembre non porti con sé, insieme al fresco, anche la prima norma liberticida per il web del 2016. I limiti e le insidie della trasparenza di Paolo Valentino Corriere della Sera, 5 agosto 2016 Occorsero due anni dalla pubblicazione dell’articolo d’avvio dell’inchiesta Watergate, a firma di Bob Woodward e Carl Bernstein, prima che il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, rassegnasse le dimissioni. E ne erano passati quattro, dal 1971 al 1975, dall’inizio delle rivelazioni dei Pentagon Papers, i documenti segreti sul coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam, prima che la guerra nel Sudest asiatico giungesse al termine e l’ultimo ambasciatore americano abbandonasse in fretta e furia Saigon. Sono bastate poche ore, dopo la pubblicazione da parte di WikiLeaks delle email e delle telefonate interne del Partito democratico, perché Debbie Wassermann Schultz, la presidente del Dnc, fosse costretta a lasciare la carica alla vigilia della Convention di Filadelfia, schiacciata dall’accusa di aver favorito Hillary Clinton contro Bernie Sanders nella corsa delle primarie. Fatte le debite proporzioni e basandoci su questa evidenza dovremmo concludere che, dopo i Panama Papers, siamo di fronte a una nuova riprova che il centro gravitazionale dei cosiddetti mainstream media, i media tradizionali, sia definitivamente slittato. E che sia il giornalismo corsaro, data-based e senza mediazioni di WikiLeaks a dominare ormai il paesaggio. È il definitivo "trionfo cosmico della trasparenza", come si era chiesto nel 2011, al tempo del primo grande scoop mondiale di WikiLeaks, l’allora direttore del New York Times Bill Keller? O è piuttosto, come Keller già sospettava e temeva, l’ingresso non ancora certificato in un’era di "anarchia dell’informazione", che non promette nulla di buono per il futuro? Il dubbio posto dal secondo quesito è più che lecito, di fronte alle circostanze piene di torsioni e contrappassi del nuovo colpo dell’organizzazione guidata da Julian Assange. Quello che si voleva paladino di una verità non filtrata da considerazioni di sorta, all’insegna del motto "scoperchiamo i governi", si ritrova invischiato in un classico scenario da "misure attive", tipico delle guerre tra servizi segreti. Dove una potenza straniera, non necessariamente con un piano preordinato o un obiettivo strategicamente definito, cerca di confondere le carte di un’elezione americana, usando proprio WikiLeaks come cassa di risonanza. Nel frattempo, i codici fiscali, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri di cellulari di milioni di americani si ritrovano alla mercé di chiunque per qualunque tipo di uso non autorizzato. Quello che si credeva il nuovo burattinaio si scopre burattino. Al punto che perfino Edward Snowden, l’ex specialista in computer che aveva denunciato il programma di sorveglianza planetaria della National Security Agency, ha criticato Assange e la sua ostinazione a pubblicare ogni cosa di cui viene in possesso, senza neppure una minima selezione (curation) dei contenuti. Certo è coraggioso ma anche paradossale che Snowden faccia la sua reprimenda ad Assange da Mosca, dove vive in auto-esilio, protetto proprio da Vladimir Putin, cioè da colui che tutti indicano come il fornitore di ultima istanza dei segreti del National Democratic Committee, attraverso gli hacker manovrati dalle sue agenzie d’intelligence. Ma il punto vero è un altro. Quale tipo di strumento utile per giudicare e farsi una propria opinione offre al cittadino questo gioco di specchi e rimandi? Nel quale una valanga di informazioni non verificate o contestualizzate rafforza la percezione reale o presunta di "un gioco truccato", la Russia usa a proprio vantaggio uno scoop mediatico, i due candidati alla Casa Bianca cercano di ricavarne una narrazione a loro favorevole e finisce in rissa il confronto serio su cosa fare nei confronti di Mosca, proprio nel momento di maggior collaborazione da alcuni anni a venire tra Russia e Stati Uniti? Quello dei limiti e delle insidie della "trasparenza cosmica" è un ragionamento che potremmo estendere anche all’ambito della politica, dove il mito della partecipazione in streaming e del controllo civico attraverso la Rete come moderno surrogato di una democrazia diretta affascina e permea nuovi soggetti politici. E anche qui emerge con forza il rischio di una condizione di anarchia, dove l’assenza di ogni mediazione (partiti, movimenti, strutture di organizzazione di base) può nascondere al meglio un’assenza di progetto, al peggio una volontà dominante e manipolatrice. WikiLeaks era nata come un’utopia, il sogno di un giornalismo 4.0, democratico per definizione, globalmente irriverente in nome di una ideale sfera di cristallo. Un nuovo cane da guardia, per un potere sempre più ermetico ed elitario. Ora rischia di diventarne una sorta di buca delle lettere, aperta anche a manovre sofisticate e inconfessabili. Non è colpa della vanità di Assange. Il difetto è nell’assenza di verifiche, contestualizzazioni, rispetto per la privacy, attenzione alle conseguenze non volute della pubblicazione di ogni notizia e materiale, cioè il sangue e la carne di un giornalismo che non passa mai di moda. No alla scuola delle telecamere e del sospetto di Giuseppe Caliceti Il Manifesto, 5 agosto 2016 L’assenso del Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini a installare telecamere negli ambienti scolastici è un altro passo verso la militarizzazione della scuola e la creazione della scuola di polizia. Di fronte all’intensificarsi dei casi di violenza all’interno di asili e scuole pubbliche e private a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, arriva l’assenso del Ministro dell’Istruzione a installare telecamere negli ambienti scolastici. Non solo per prevenire i crescenti episodi di bullismo, ma anche per "controllare" i docenti e "rassicurare" i genitori degli studenti. Ecco la militarizzazione della scuola. Ecco la scuola di polizia. Le parole del Ministro assomigliano a quelle del vescovo di Ravenna di circa un anno fa quando, di fronte a un caso di pedofilia in parrocchia, ha dichiarato di non voler lasciare più un adulto da solo insieme a dei bambini. Quale è il messaggio che si dà ai bambini e ai ragazzi, con affermazioni del genere? Semplice: che ogni adulto, compresi i propri docenti ma, perché no, magari anche i propri familiari, sono il lupo. Che non ci si deve fidare di loro. Ecco, questa trovata, che mina il patto educativo di fiducia tra docenti e genitori degli studenti, sempre più pericolosamente incrinato, rischia non solo di condannare definitivamente a morte la scuola, ma anche l’infanzia. È una resa. È una sconfitta. Di fronte ai bambini e ai ragazzi e di fronte a noi come adulti. Significa dire ai minori: non fidarti di me. Mentre bambini e studenti, specie in un’epoca come la nostra, hanno necessità proprio di trovare figure di cui fidarsi, credere, confrontarsi. Trovo gravissimo che, mi si dice, vi siano otto proposte di legge per mettere telecamere nelle scuole come deterrente della "cattiva scuola". Trovo gravi e demagogiche le parole del ministro su questa delicata questione. Perché non dire la verità: cioè che l’insegnamento è forse il lavoro più bello del mondo ma è probabilmente uno dei più psicologicamente usuranti? E qui si parla di arrivare a docenti che hanno sessantasette e poi settant’anni? Che a livello di opinione pubblica si sta portando avanti l’idea che per educare i più piccoli bastino persone non professioniste e non sufficientemente preparate? Che il governo della buona scuola dice ai docenti ecco un buono di 500 euro di spesa e la formazione fatevela voi, come vi pare? Se si commette il peccato di far vivere bambini e ragazzi in una cultura del solo sospetto, quanto male si fa ai propri figli e ai propri studenti, nell’illusione di far loro del bene? Invece di fomentare la paura, occorre ricordare ai genitori che il bambino diventa più autonomo - cioè cresce - solo se allontanato dalla madre e dalla famiglia per alcune ore al giorno e affidato a figure adulte di cui ci si fida. Se non si taglia questo cordone ombelicale, invece di proteggerlo, gli si fa del male. Genitori italiani, invece delle telecamere, chiedete una scuola migliore per i vostri figli con maggiori investimenti, maggior formazione dei docenti. La buona scuola delle telecamere e del sospetto non è una buona scuola. I problemi si risolvono alla radice, se si vogliono veramente risolvere. Migranti, il modello di accoglienza dei Comuni solidali che funziona di Luigi Manfra* Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2016 In Italia ben 5.627 comuni hanno meno di 5.000 abitanti, vale a dire il 69,9% del totale, e di questi, secondo una recentissima ricerca di Lega ambiente e Anci, ben 2.430 soffrono un forte disagio demografico ed economico. Negli ultimi 25 anni in questi territori un abitante su sette se ne è andato. Le case vuote, conseguenza di questo esodo che ha coinvolto soprattutto giovani, sono 1.991.557, cioè un terzo del totale. Questi comuni, abitati in prevalenza da anziani, non hanno prospettive per il futuro e, inoltre, si trovano in aree marginalizzate, lontane dalle principali vie di comunicazione. In Italia esiste, però, un paese, Riace, in provincia di Reggio Calabria, situato a 300 metri sopra il livello del mare, che si è ribellato al lento spopolamento e ha reagito trasformandosi gradualmente in un paese modello di integrazione di rifugiati. Riace, oggi, conta 1.726 abitanti di cui 400 sono extracomunitari. Il sindaco Domenico Lucano, a cui si deve questa trasformazione, è stato nominato dalla rivista americana Fortune come una delle 50 persone più influenti al mondo, per essere riuscito a fare di Riace un modello di accoglienza. Esempi come quello di Riace non sono isolati e anche altri comuni hanno avviato lo stesso percorso, tra questi Acquaformosa, Gioiosa Jonica e molti altri dimostrando, invece, che le migrazioni possono essere gestite in un altro modo, aiutando chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni ma, anche, le comunità locali che praticano l’accoglienza. In Italia la Rete dei comuni solidali, (Re.co.sol.), conta 800 comuni coinvolti nella rete Sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar). Di questi circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni con potenzialità simili a Riace. Come di recente ha dichiarato Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa e responsabile per le politiche di migrazione della regione Calabria, "i nostri progetti si svolgono tutti nei centri urbani, dando la possibilità ai migranti di integrarsi nella nostra comunità che è un modo per rispondere alla scommessa che riguarda tutto il meridione: lo spopolamento". Con i 35 euro giornalieri previsti per ogni migrante dal Ministero degli Interni, è possibile finanziare progetti mirati a una reale integrazione piuttosto che pagare alberghi o residenze nelle quali parcheggiare i migranti a tempo indefinito. Accoglierli nei paesi significa recupero di vecchi mestieri, collaborazione per la cura del territorio e riapertura delle scuole quando ci sono bambini. Gli effetti positivi di questo tipo di accoglienza consentono la rinascita dei territori destinati a un sicuro declino. Di fronte all’arrivo massiccio dei richiedenti asilo che, nella prima parte dell’anno, ha già superato il tetto di 120mila immigrati a cui vanno aggiunti 13mila minori non accompagnati, questa strada alternativa va costruita, e l’aiuto dell’Europa può fare la differenza. L’Italia può svolgere un ruolo decisivo in questa direzione valorizzando un modello di inserimento dei migranti più solidale ed inclusivo. L’integrazione, soprattutto di famiglie, in piccole comunità rappresenta, infatti, un’alternativa che ha grandi potenzialità e che può dare un futuro a quella parte dell’Italia destinata altrimenti a sparire. *Responsabile progetti economici-ambientali Unimed, già docente di politica economica presso l’Università la Sapienza di Roma Egitto: caso Regeni; "il capo del sindacato ambulanti un informatore degli 007 egiziani" di Alberto Custodero La Repubblica, 5 agosto 2016 Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters, l’esponente sindacale al quale s’era rivolto il ricercatore italiano per il suo studio frequentava il quartier generale dell’intelligence del Cairo. Ma agli atti dell’inchiesta della magistratura italiana la circostanza non risulta. È un’inchiesta giornalistica dell’agenzia Reuters ad aggiungere un nuovo tassello alla ricerca della verità sul caso Regeni. Un’informazione che, se verificata, potrebbe confermare una delle ipotesi investigative in campo. Secondo questa ipotesi, Regeni sarebbe finito in una trappola, venduto da informatori dei servizi segreti che, poi, lo hanno usato per faide interne agli stessi servizi di sicurezza, secondo una regia degna di un intrigo internazionale che mirerebbe a indebolire il vertice egiziano. E a incrinare i rapporti - fino a prima della vicenda buoni - tra Italia ed Egitto. Secondo la Reuters, Mohamed Abdallah, il capo di quel sindacato ambulanti al centro della ricerca di Giulio Regeni al Cairo, "ha visitato di frequente uno dei quartier generali della sicurezza egiziana e sei mesi prima della morte dell’italiano ha anche incontrato un ufficiale". Lo dicono due fonti della sicurezza egiziana, coperte da anonimato, come riporta la Reuters sul suo sito. "Non so se fosse proprio un collaboratore, ma era monitorato. Uno del genere ha un mutuo beneficio ad avere un rapporto con la sicurezza", spiega una delle fonti. Gli studi "segreti" di Cambridge. Regeni svolgeva uno studio didattico commissionatogli da Cambridge, ma la facoltà s’è rifiutata di rivelarne l’oggetto in quanto "segreto". Non è dato sapere il motivo di tanta riservatezza, quel che è certo è che il ricercatore di Udine stava "studiando" per conto dell’ateneo inglese i sindacati indipendenti, organismi fortemente contrastati dal governo egiziano. E per questo Giulio dialogava con Mohamed Abdallah, il capo di quegli organismi, al quale aveva promesso di devolvere i 10mila euro che avrebbe ricevuto dalla Fondazione britannica Antipode come finanziamento per la sua ricerca. Ma sarebbe stato il denaro offerto da Regeni a Abdallah a far precipitare la situazione in quanto in Egitto sarebbero vietati i finanziamenti esteri ai sindacati indipendenti. E attorno a questa problematica sarebbe nato un duro scontro con Abdallah, il quale prima aveva preteso lo stanziamento. Poi, il giorno dopo il ritrovamento del corpo di Giulio (il 3 febbraio), ha rilasciato una dichiarazione alla stampa denunciando - con una certa ambiguità - di aver avuto da Regeni "l’offerta di soldi in cambio di informazioni sui sindacati", lasciando intendere che il ricercatore avesse altri fini rispetto a quelli della ricerca. Tra i sospetti degli investigatori italiani c’è anche il fatto che Abdallah abbia venduto Regeni spacciandolo per ciò che non era, una spia. Se lo scoop della Reuters sarà confermato, si potrà fare un significativo passo in avanti verso la verità. Anche se gli interrrogativi senza risposta restano molti: perché è stato torturato così brutalmente? Perché è stato fatto ritrovare il suo cadavere con modalità anomale, abbandonato seminudo sul ciglio dell’autostrada che collega Alessandria con il Cairo? E perché tanti depistaggi e tanta omertà da parte delle autorità egiziane sulla sua morte? Turchia: l’Europa ha perso se stessa venendo a patti con Erdogan di Fausto Corvino Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2016 La Turchia è certamente un partner fondamentale per l’Europa. O per meglio dire la Turchia gioca un ruolo chiave per l’impostazione geopolitica che oggi prevale tra gli europei. Ankara dispone della possibilità di chiudere o riaprire la rotta balcanica dei migranti. In Medio Oriente consente alla Nato di arginare l’influenza di Mosca. E per dove è posizionata il suo contributo nella lotta al terrorismo non è sicuramente trascurabile. Perciò, guardando la faccenda da una prospettiva realista, non possiamo permetterci di fare troppo gli snob o gli schizzinosi riguardo la leadership turca. Detto ciò, se anche volessimo infischiarcene dei diritti e delle libertà di chi ha la sfortuna di vivere al di fuori dei confini europei, il prezzo che l’Europa ha pagato nell’ultimo anno per salvaguardare le relazioni con Ankara sembra eccessivamente superiore ai vantaggi che ne ha conseguito. Innanzitutto, in poche mosse gli attuali leader europei hanno inflitto un colpo mortale alla narrazione di un’Europa che è orgogliosa di essere un baluardo dei diritti umani e un luogo di progresso sociale. Con l’accordo sui migranti abbiamo messo in piedi un respingimento di massa di richiedenti asilo politico. Abbiamo attribuito alla Turchia di Erdogan lo status di luogo sicuro, aggirando così le norme internazionali che ci avrebbero proibito di sbattere la porta in faccia a chi fugge da guerra e violenza. Per non dovere alterare minimamente il nostro stile di vita e potere continuare a condurre un’esistenza distaccata dalla disperazione che scoppia tutto intorno, oltre i confini, e che noi abbiamo contributo a creare con la nostra politica estera dell’ultimo ventennio, abbiamo rispedito i richiedenti asilo in un Paese in cui negli ultimi anni le forze di opposizione, i mezzi di informazione, le università e i magistrati sono stati messi al centro di un’azione repressiva. Come giustamente osservato da Bridget Anderson in un articolo pubblicato su Fortune poco dopo l’annuncio dell’accordo sui migranti: "Per una generazione l’Europa si è avvolta in quello che oramai appare essere un mito: un Continente di decenza e diritti umani, consapevole del suo brutale passato, ma più maturo e più saggio, aperto a tutte le razze e le fedi, disposto a guidare il Mondo verso un futuro più aperto e più pieno di speranza". In altre parole, tutto quell’apparato argomentativo sull’Unione Europea come spazio di libertà e opportunità, che è stato dispiegato in abbondanza nel dibattito sulla Brexit, è oggi se non addirittura inutilizzabile quanto meno minato alle sue fondamenta. Poi è venuto il golpe. Più di 15.000 persone sono finite in manette, tra cui 234 accademici, oltre 2.000 magistrati e 100 giornalisti. Hanno dovuto chiudere i battenti 3 agenzie di stampa, 16 canali tv, 23 radio, 45 giornali e 29 case editrici. Inoltre con le leggi sullo stato di emergenza varate dopo il tentativo di golpe è estremamente difficile per gli arrestati provare la propria innocenza. Ma l’Unione europea continua a considerare la Turchia un luogo sicuro in cui spedire richiedenti asilo inermi. Ogni forma di opposizione laica è stata zittita, i sostenitori di Erdogan si sono presi le piazze, i luoghi di protesta, che fino a poco tempo fa appartenevano ai loro antagonisti politici. In un interessante articolo pubblicato su Open Democracy Defne Kadioglu Polat ha giustamente sottolineato come Erdogan dopo il fallito golpe abbia finalmente ottenuto il suo "Gezi Park": è riuscito a dare una forte spinta all’agognata svolta presidenzialista riprendendosi allo stesso tempo il sostegno della sua gente. L’Unione europea ha lasciato completamente sola l’opposizione laica turca. Ha continuato a trattare con il governo di Ankara come se nelle ultime settimane non fosse accaduto nulla. Così facendo ha mostrato che nei rapporti con la Turchia non esiste nessun principio di condizionalità. Ankara può continuare a fare ciò che vuole nelle sue faccende interne, tanto Bruxelles continuerà ad avere bisogno del suo aiuto. Vale poi la pena aprire qui una parentesi. La rotta balcanica dei migranti è ora chiusa anche perché i confini europei in quell’area sono stati sbarrati. Le terribili immagini di Idomeni dei mesi scorsi lo testimoniano. Quindi se l’accordo con la Turchia saltasse siamo davvero sicuri che un numero ingestibile di migranti si getterebbe lungo il confine con l’Europa pur sapendo che si troverebbe la strada sbarrata? Su questo punto non sembra esserci molta chiarezza. A cosa ci ha portato tutto questo? Gli incentivi per un’inversione di marcia democratica e liberale in Turchia sono al minimo storico. Se i leader europei avessero posto dei paletti fissi sulle libertà fondamentali quale condizione minima per sedersi ad un qualunque tavolo di trattativa avrebbero forse potuto offrire una sponda a chi in Turchia si batte per la democrazia. Invece l’unica linea rossa che è stata imposta con chiarezza dopo il fallito golpe è la non reintroduzione della pena di morte. Come se questo fosse un sufficiente criterio di decenza per uno Stato. L’Unione Europea è scesa a compromessi, mettendo a rischio la sua stessa identità, e i vantaggi che ne ha ottenuto non sembrano bastare per far quadrare il bilancio. Turchia: la giustizia di Erdogan? peggio del fascismo e dell’inquisizione di Ezio Menzione* Il Dubbio, 5 agosto 2016 Di fronte all’ultima perentoria richiesta di Erdogan che i PM di Bologna lascino stare suo figlio Bilal, da loro indagato per riciclaggio, e si dedichino invece alla mafia, altrimenti ne andrebbero di mezzo le relazioni Italia-Turchia, non basta rispondergli, come bene ha fatto Renzi, che nel nostro ordinamento i magistrati sono soggetti solo alle leggi poiché il nostro è uno stato di diritto: è opportuna qualche considerazione in più. Anche perché la richiesta rivolta all’Italia è simmetricamente e specularmente analoga a quella rivolta agli Usa di estradare Fetullah Gulem, altrimenti ? anche lì ? ne andrebbero di mezzo le relazioni fra i due paesi. In questo caso, peraltro, il suo primo ministro ha saggiamente attutito la portata di precedenti dichiarazioni affermando che un conto sono le relazioni internazionali e un conto è l’estradizione dell’imam rifugiatosi ormai da molti anni in Pennsylvania. Nel primo caso si chiede di cessare le indagini e lasciar stare il figliolo, mentre nel secondo si chiede perentoriamente di travalicare ogni regola sull’estradizione ed espellere un cittadino per poterlo perseguire: e fucilarlo, ove fosse ripristinata la pena di morte. Ed è legittimo il sospetto che il ripristino di un simile orrore sia funzionale proprio a colpire Gulem. Insomma, Gulem sarebbe il primo della lista delle esecuzioni capitali. In ambedue i casi, si evince una considerazione della magistratura e della giustizia come qualcosa che, fuori da ogni regola, possono essere piegate ai voleri del capo, alle sue vendette o addirittura ai suoi capricci. Insomma una visione della giustizia da autocrate che non intende stare alle regole. E questa sua assenza di regole ? anzi, questa sua pretesa di far valere solo la regola da lui dettata caso per caso ? si dovrebbe espandere fino a coprire altri stati, e non solo la Turchia. Anche in questa applicazione del proprio "diritto" al di fuori del proprio Stato denuncia una concezione autoritaria della norma. In materia, ne sa qualcosa l’Italia che, col suo codice penale fascista tenta in più punti di imporre le proprie norme al di là del proprio territorio. Con la differenza che l’Italia, sulla scia anche di altri ordinamenti, questa espansione la persegue almeno con la legge; Erdogan invece intende perseguirla con il ricatto diplomatico, economico o venendo meno agli accordi presi, riguardino essi i migranti o le basi militari. Del resto, piegare la magistratura ai propri voleri è stato sempre ed è soprattutto ora uno degli obbiettivi principali di Erdogan. La prima purga avvenne nei primi mesi del 2014, quando quasi il 10% (circa 700) dei magistrati venne rimosso dal proprio posto per avere seguito quell’indagine sulle mazzette che vedeva coinvolto suo figlio Bilal e alcuni ministri del suo governo, essendo allora primo ministro. Poi, nel marzo di quest’anno, ha riscritto l’ordinamento giudiziario per sancire che una quota di magistrati delle corti superiori dovrà essere espressa dall’esecutivo. Infine (ma ci sarà mai una fine in questa deriva?) l’epurazione che ha seguito lo pseudo golpe ha coinvolto più di 2700 magistrati, di cui 140 arrestati. Una magistratura ferreamente dominata dall’esecutivo e dal presidente: ecco l’idea di giustizia di Erdogan. Ma fin qui siamo nel campo dei suoi granitici desideri o delle controriforme ordinamentali. L’attacco alla giustizia che Erdogan sta portando avanti, in verità, passa anche dallo stato di emergenza che è stato dichiarato e dalle leggi che lo hanno accompagnato. Cosa sono lo stato di fermo portato da 4 a 30 giorni, il divieto per il fermato di colloquiare con parenti e difensori per tutto il periodo del fermo, ed eventualmente anche oltre, se non pesantissime ipoteche sul modo di operare della giustizia? È di questi giorni la notizia che alle migliaia di arrestati non è concesso (almeno per ora) nominare un avvocato di fiducia, ma che l’avvocato ce lo mette il PM procedente. Per carità, anche noi abbiamo conosciuto un’aberrazione abbastanza simile fino al 2001, quando finalmente arrivò la nuova legge sulla difesa d’ufficio: fino ad allora anche da noi il difensore d’ufficio era scelto dal PM o dal giudice procedente; ma si poteva ovviamente scegliere il difensore di fiducia. In Turchia invece, oggi, è proprio la figura del difensore di fiducia che viene meno. Né l’Inquisizione né il fascismo, da noi, erano arrivati a tanto. *Osservatore internazionale per l’Unione delle Camere Penali Libia: Sirte, dopo 4 giorni di raid l’Isis è sempre lì di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 agosto 2016 Libia. Nessun avanzamento dei miliziani governativi. Parlamento italiano spaccato sulla concessione delle basi agli Usa. Nel mirino non c’è solo l’eliminazione di Daesh ma l’arginamento del generale Haftar e degli interessi francesi. Quarto giorno di raid sulla città costiera libica di Sirte, una decina i bombardamenti partiti dai jet statunitensi. Mercoledì sera erano già nove, faceva sapere il Comando Usa in Africa che elenca anche i target colpiti: "Un lanciarazzi, un escavatore, un camioncino con un cannone e un altro camioncino con cannone". Si spiegano così i trenta giorni di raid autorizzati dalla Casa Bianca: un tempo piuttosto lungo, visto che gli islamisti del "califfo" a Sirte sono confinati in quattro o cinque compound nei quartieri vicino al mare. Ma se le bombe Usa per ora si sono limitate all’equipaggiamento Isis, di tempo ne servirà di certo. Non a caso ieri il portavoce dell’operazione anti-Isis del governo di unità del premier al-Sarraj riportava che di scontri a terra non ce ne sono stati altri: "L’Isis mantiene ancora il pieno controllo del Centro Ouagadougou e dei quartieri 1-2-3 sulla costa in prossimità del porto della città - ha detto il generale al-Ghasri - Le forze terrestri non riescono a progredire verso i nascondigli dello Stato Islamico per la presenza di cecchini sui tetti che mirano ai soldati". Ci si potrebbe chiedere perché l’aviazione Usa non colpisca i compound occupati per eliminare definitivamente qualche centinaio di miliziani. Ma gli islamisti si nascondono tra le case: sebbene due terzi della popolazione civile di Sirte sia fuggita da tempo dalla città, sono presenti ancora circa 30mila persone, anche nei quartieri limitrofi alla "zona Isis". Di certo a Sirte si muore: secondo fonti mediche del posto, sarebbero cento le vittime (per lo più islamisti e soldati, non si hanno informazioni su civili) negli ultimi tre giorni. "I medici riferiscono di molti morti ma anche di tantissimi feriti per fratture, contusioni e traumi vari - spiega Foad Aodi, presidente delle comunità del mondo arabo in Italia (Comai) - Ci sono pochi strumenti a disposizione e i medici sono minacciati dai jihadisti perché siano curate solo le persone che decidono loro". La situazione resta grave, le bombe hanno riacceso rivalità e interessi di parte. I motori dei jet Usa si sono accesi per dare credibilità al governo di al-Sarraj, a scapito del generale Haftar, capo dell’esercito del parlamento di Tobruk, ex riferimento occidentale che non ha mai riconosciuto come legittimo il nuovo esecutivo. Screditare Haftar significa anche indebolire la Francia che sul renegade libico ha puntato: non è un mistero che truppe francesi combattano al fianco dell’Esercito nazionale, prova ne è l’abbattimento del jet francese la scorsa settimana. Ieri l’esercito Haftar è tornato a tuonare contro l’intervento Usa, parlando di "violazione della sovranità libica" perché "ogni decisione del governo che non ha la fiducia del parlamento è incostituzionale". Gli fa eco Sovranità Patriottica, gruppo parlamentare del presidente della Camera di Tobruk, Aguila Saleh: il capogruppo al Deghiri ha invitato, riporta Agenzia Nova, gli italiani a fare pressioni su Roma perché rispetti le istituzioni libiche e si coordini con loro prima di concedere le basi. La questione delle basi è calda in Libia come lo è in Italia: mercoledì sera la Camera ha votato a favore della mozione di maggioranza sulla politica estera, 225 sì contro 82 no. Passa dunque la linea del ministro della Difesa Pinotti, che mercoledì si era detta pronta a mettere a disposizione di Washington le basi italiane. Come a dire che finora non sono state usate, posizione smentita dal portavoce libico dell’operazione di Sirte, al-Ghasri. Comunque sia, la polemica è esplosa. Ieri il vicepresidente della Camera Di Maio attaccava la decisione perché aumenterebbe il rischio di attentati in Italia. Una dichiarazione che segue all’abbandono da parte dei deputati 5Stelle della riunione congiunta delle commissioni Esteri e Difesa, per l’assenza dei ministri Gentiloni e Pinotti. Dura la posizione di Arci che parla di "ennesima iniziativa militare portata avanti senza un chiaro mandato delle Nazioni Unite e senza il consenso della maggioranza delle parti locali": "L’evolversi della crisi dimostra che la guerra in Libia è stato un tragico episodio del neocolonialismo europeo e americano il cui unico esito sarà una radicalizzazione dello scontro". Un’agenda occidentale, insomma, almeno a metà: i raid Usa spaccano la Libia, spaccano l’Italia ma spaccano anche il fronte europeo che nel 2011 si lanciò nella crociata anti-Gheddafi. La Francia continua a non commentare. Martedì Parigi si è limitata a riaffermare il proprio sostegno al governo al-Sarraj, dopo la rabbia del primo ministro per l’impegno militare di truppe francesi nell’est del paese. Ma niente di più. Washington sembrerebbe puntare ad arginare Parigi, isolando Haftar. Ieri il presidente Barack Obama si è incontrato al Pentagono con i consiglieri militari e alla sicurezza nazionale per discutere dell’eventuale ampliamento dell’operazione anti-Isis. Francia: presa di ostaggi da parte di un detenuto nella Sarthe, cessato l’allarme Ansa, 5 agosto 2016 Il ministro della Giustizia francese: l’agente e un altro detenuto stanno bene. Allarme cessato per la presa di ostaggi da parte di un detenuto del penitenziario Le Mans-Les Croisettes, situato alla periferia del comune di Coulaines, nella Sarthe. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia francese Jean-Jacques Urvoas, precisando che "è finito tutto bene" per l’agente penitenziario minacciato e un altro detenuto. "Grazie al sangue freddo del personale e al coraggio del secondino, è andato tutto bene", ha twittato il ministro, ringraziando tutti quelli che hanno contribuito al rilascio e in particolare all’agente preso in ostaggio". Il sequestratore, condannato per un reato legato al traffico di stupefacenti, chiedeva di essere trasferito nel carcere di Condè-sur-Sarthe, precisa Le Point. Venezuela: rivolta nel carcere Alayon della città di Maracay, 5 morti e 30 feriti Ansa, 5 agosto 2016 Cinque detenuti sono morti e almeno altri 30 sono rimasti feriti durante una rivolta nel carcere Alayon della città di Maracay, capitale dello stato di Aragua, al centro della costa settentrionale del Venezuela. Secondo le ricostruzioni della stampa locale, la notte scorsa un gruppo di detenuti ha fatto esplodere due bombe artigianali, sembra a causa di una scontro fra bande rivali per il controllo dei traffici illeciti nel penitenziario. Secondo le Ong, che si occupano della situazione nelle carceri venezuelane, la maggior parte delle prigioni è di fatto in mano a bande organizzate di detenuti, che molte volte dispongono anche di armi pesanti ed esplosivi. In Venezuela esistono poco più di 30 carceri, previsti per una popolazione penale di circa 16 mila persone, ma attualmente albergano più di 80 mila detenuti. Medio Oriente: 325 prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane infopal.it, 5 agosto 2016 Sono ormai 325 i prigionieri palestinesi che hanno preso parte allo sciopero della fame nelle carceri israeliane, secondo quanto hanno reso noto giovedì la Società per i prigionieri palestinesi -PPS - e altre organizzazioni. PPS ha dichiarato che 285 prigionieri affiliati a Hamas, incarcerati a Eshel e Nafha, hanno iniziato lo sciopero della fame, giovedì, per protestare contro le misure oppressive del servizio carcerario israeliano - IPS, e altri 40 prigionieri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina - Fplp - sono in sciopero a sostegno del prigioniero Bilal Kayid. Kayid è entrato ne 51° giorno di sciopero della fame per protestare contro la propria detenzione amministrativa - senza imputazione e processo. Secondo il gruppo Addameer, nelle carceri israeliani sono rinchiusi circa 7.000 detenuti prigionieri, compresi 715 in carcere amministrativo. L’ampio movimento di protesta dentro alle carceri israeliane ha provocato una violenta repressione da parte delle IPS, che conducono assalti quotidiane nelle sezioni e nelle celle, trasferendo i detenuti da una prigione all’altra, nel tentativo di ostacolare lo sciopero. PPS ha riferito che giovedì le IPS hanno invaso la sezione 10 della prigione di Eshel e hanno trasferito diversi detenuti nella prigione di Ohalei Kedar. Secondo le testimonianze raccolte da PPS, le forze israeliane hanno invaso le celle della prigione di Eshel, hanno ammanettato e spogliato i prigionieri, mentre agenti del IPS scattavano foto. Il movimento dei prigionieri ha ispirato sit-in nei Territori palestinesi, organizzati dalle famiglie dei detenuti in sciopero della fame. Membri del Consiglio legislativo palestinese -PLC- hanno allestito dei sit-in nella città di Gaza, in solidarietà con i prigionieri in sciopero. Il vice-presidente del PLC a Gaza, Ahmad Bahr, ha lanciato un appello a tutte le fazioni della resistenza palestinese affinché si uniscano per il rilascio dei prigionieri. Bahr ha anche chiesto all’Autorità palestinese di porre fine al coordinamento con Israele.