Addio a Margara. Anche se più soli, non possiamo mollare e non molleremo di Sergio Segio Vita, 4 agosto 2016 “Mentre scontavo la mia pena molte volte ho ripetuto ai compagni di cella che gli uomini politici i quali in passato avevano assaggiata la galera, portavano la grave responsabilità dell’ordinamento carcerario esistente, indegno di un popolo civile, perché, tornati in libertà, non avevano illuminata l’opinione pubblica sul problema e non avevano mai preso seriamente a cuore la sorte dei detenuti”. Ernesto Rossi in una lettera a Piero Calamandrei, “Il Ponte”, marzo 1949. Da questo agosto 2016 il popolo delle carceri è ancora più solo. Con Sandro Margara, entrato in magistratura nel 1958, scompare una delle figure più preparate e, al tempo stesso, umanamente coinvolte nel pianeta separato e negletto delle prigioni. Margara è stato uno degli artefici più professionalmente attrezzati e determinati delle - non moltissime, e spesso disapplicate, ma certo non per limiti o responsabilità sue - conquiste di civiltà che negli ultimi quarant’anni si sono faticosamente affermate nei codici e nei regolamenti penitenziari. Prima da magistrato di sorveglianza, poi da consulente e collaboratore dei - di nuovo, non moltissimi - politici, o tecnici prestati alla politica, che hanno provato nell’impresa titanica di riformare le carceri. In seguito, nel 1997, persino da Direttore dell’amministrazione penitenziaria, non per caso e assai prevedibilmente rimosso dopo soli due anni da uno dei rari Guardasigilli provenienti dalla sinistra, ma uno dei più solleciti nell’assecondare richieste e umori forcaioli dei potenti sindacati della polizia penitenziaria, i quali ben presto pretesero la testa di Margara. Infine, da Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Un ruolo, questo, di nessun potere, ma probabilmente quello più vicino alla sua cultura e ai suoi sentimenti. Del resto, per avere potere occorre se non amarlo almeno rincorrerlo, il che è stato quanto di più distante dalla sua sensibilità e lunga esperienza. Non sorprendono dunque le assenze istituzionali al suo funerale, celebrato a Firenze lunedì 1° agosto. Così come non può stupire, all’opposto, la profonda stima e vorrei dire l’affetto che gli è sempre stato riconosciuto non solo dai reclusi ma da una più ampia comunità di persone e di competenze che ruotano attorno al mondo delle carceri e a quello più vasto degli “ultimi”; che sono poi quelli che in massima parte nelle galere finiscono, trattati da scorie sociali. Un popolo di dannati già recentemente colpito dalla morte di un altro appassionato nuotatore controcorrente: Marco Pannella. Due figure assai diverse: convintamente laico e prorompente il primo, cattolico praticante e decisamente schivo il secondo. Eppure rese simili dalla passione civile e dal rigore morale da tutti loro riconosciuto, anche se da non moltissimi conosciuto per quanto riguarda Margara. Basta provare a cercare una sua immagine sul web per rendersi conto di quanto poco la sua straordinaria competenza ed esperienza fossero state, se non valorizzate, almeno registrate da un sistema mediatico - lui sì - innamorato del potere e pronto a inchinarvisi. In tempi di imperante paradigma vittimario - per dirla con lo storico Giovanni De Luna - Alessandro Margara osò incrinarne un caposaldo, affermando: “Il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima”. Un concetto tanto vero e “sovversivo” quanto indigeribile per una pubblica opinione sapientemente educata da decenni a risentimenti e pratiche di vendetta sociale. In modo diverso, da Radicale e da Presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, anche Pannella ha tenacemente provato a smontare le culture vendicative che riempiono le carceri e incrudeliscono le pene, sino all’abominio dell’ergastolo e del 41bis. E proprio oggi l’associazione umanitaria, dal nome biblico e programmatico, presenta il suo nuovo Rapporto che, come ogni anno, censisce e documenta la drammatica realtà delle esecuzioni capitali nel mondo e che, con questa edizione, ha voluto conferire un Premio alla memoria proprio alla figura di Pannella e al suo storico impegno anche nel Progetto “Spes contra spem”, per porre fine non solo alla pena di morte, ma anche alla pena fino alla morte. La speranza contro ogni speranza, dunque, è un lascito che ci viene da queste due figure, così simili e così diverse. La coerenza e lo spirito riformatore di Margara gli sono costati retrocessioni professionali, contrasti e impedimenti da parte della politica e dello stesso ambito della magistratura. Li ha sempre affrontati con la serenità del giusto. Come ha scritto oggi nel ricordarlo Franco Corleone (che, da sottosegretario alla Giustizia, con Margara nel 2000 ha voluto e varato il nuovo e più avanzato Regolamento penitenziario), “le disillusioni che ha vissuto, lungi da piegarlo, hanno semmai rafforzato la limpidezza del suo pensiero e delle sue scelte politiche. Tocca a noi essere alla sua altezza e non mollare”. Anche se più soli, non possiamo mollare e non molleremo. In memoria del Presidente Margara di Vincenzo Andraous progettouomo.net, 4 agosto 2016 Come cittadino detenuto colpevole, come ex detenuto, come cittadino libero, debbo molto all’intelligenza e alla fermezza di questo Magistrato, soprattutto in questo tempo di impegno e di responsabilità. Ho conosciuto il Dott. Alessandro Margara come Direttore Generale del Dap in più occasioni, ho avuto a che fare con l’Uomo e con il Giudice, in entrambi i casi; il rigore non ha mai disgiunto strada alla sua umanità, né l’autorevolezza della sua vista prospettica armeggiare con gli scarponi chiodati dagli interessi di potere. Nelle sue parole, azioni, analisi, traspariva la necessità di un ripensamento culturale che affermasse la giustezza di un principio, il quale non è filtrato da scuole di pensiero o strumentalizzazioni ideologiche: in carcere esiste un prima, un durante e un dopo, più il carcere recupererà persone, più il problema della sicurezza sarà soddisfatto, contrariamente a ciò che si è cercato di fare passare come principio sofistico. Margara stava anch’egli al centro del percorso del detenuto, dovendo fare camminare insieme con equilibrio e senza dimenticanze la funzione di salvaguardia della collettività e quella di recupero fattivo delle persone ristrette. Il carcere, il luogo per eccellenza più separato, escluso, ghettizzato, diventa lo spazio più facile da rimuovere culturalmente. Se il carcere che si vuole fare nascere non avrà spazi di risocializzazione, perché costruito su un ragionamento di solo contenimento del fenomeno criminale, se gli spazi in questione verranno immediatamente occupati per la troppa abbondanza di carne umana, mi sembra chiaro che continuerà a venire meno la funzione stessa della pena e cosa ben peggiore aumenterà la recidiva e la società si ritroverà in seno uomini ancora più incalliti di quando sono entrati, peggio uomini ritornati bambini incapaci di fare scelte responsabili. In questo senso assume grande rilievo l’impegno profuso dal Presidente Alessandro Margara, il suo tentativo di alimentare processi ripetuti di relazioni e interazioni, affinché fosse possibile un cammino di crescita individuale attraverso la sinergia di quattro poli convergenti: Magistratura, Istituzione Penitenziaria, Società e Detenuti. Egli sapeva benissimo che se solo una di queste componenti viene meno tutto il progetto è destinato a fallire. Lo stesso dibattito sulla Giustizia e in questo caso sulla pena e sul carcere è costantemente avvelenato dal flusso comunicazionale non sempre corretto e leale. Per cui il bene e il giusto che si riesce a fare in una galera, nelle persone ricondotte al vivere civile, premessa per ogni conquista di coscienza, rimangono ultimi e dimenticati. Margara con questa ingiusta croce ci ha fatto i conti ripetutamente. Di conseguenza rivendicare la propria dignità, ognuno per sua parte e nel proprio ruolo, sfugge a ogni regolamentazione giuridica e umana, ciò per una politica contrapposta e distante che disgrega e annienta quei “ponti di reciproco rispetto “a fatica mantenuti insieme. Margara ha cercato di insegnare a tutti: cittadini liberi e non, che il “carcere è società”, allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene, o peggio, non avviene dentro un carcere? La ringrazio ancora Signor Presidente e buona strada. 41 bis, al via a settembre un questionario per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2016 Iniziativa dell’Osservatorio carceri dell’Unione delle Camere Penali. Il fine nascosto del 41 bis che rende la detenzione inumana e degradante non consiste solo nel ledere la dignità del condannato, ma offende la stessa cultura del diritto. Lo afferma, in una nota, l’Osservatorio carceri dell’Unione delle Camere penali. Nei mesi scorsi, la commissione carcere della Camera Penale di Roma, aveva sottoposto all’osservatorio un’iniziativa: inviare a tutti i detenuti in 41 bis un questionario sulla loro vita detentiva in tutti gli aspetti caratterizzanti, destinato a ricavarne - a fini di studio e di denuncia - dati significativi sulle condizioni di privazione del regime di massima afflizione (descrizione della cella, salute e accesso alla cura, attività svolte, trattamento, socialità, colloqui con familiari e avvocati, corrispondenza, vitto, sopravvitto e quanto altro si ritenesse di segnalare) e sulle conseguenze di esse. L’osservatorio ha raccolto l’iniziativa della commissione carcere e a settembre, dopo un’interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, farà pervenire a ciascun detenuto ristretto ai sensi del 41 bis Ordinamento penitenziario, il questionario. Grazie alla collaborazione di Camere penali Tv, sono stati, dall’osservatorio carceri, realizzati inoltre, due video, con un’intervista a un ex detenuto, che ha scontato 4 anni di carcere, di cui 3 in alta sicurezza e l’ultimo al 41 bis. È il racconto di un oscuro e tragico percorso detentivo. Il primo filmato è disponibile sul sito della web tv dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Il secondo sarà pubblicato a settembre. L’osservatorio carceri denuncia di non comprendere le ragioni di un aggravamento del regime per chi già è da tempo, in Alta Sicurezza e certamente non è capo di un associazione criminale. “È evidente - chiosa l’osservatorio attraverso il comunicato - che la finalità del provvedimento non può essere impedire i collegamenti con l’esterno, ma va ricercata altrove”. Partendo da questi due casi concreti l’osservatorio carceri delle Camere penali individua prassi e regole che non sono in linea con lo spirito della norma, in quanto la limitazione dei diritti acquista quasi sempre unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, come tale incompatibile con la finalità rieducativa della pena come delineata nell’art. 27, comma 3, della Costituzione. Nel comunicato vengono spiegati i provvedimenti che si dovrebbero attuare nel rispetto dello stato di diritto: eliminare tutte le limitazioni che hanno esclusivamente carattere punitivo, come il tempo di uscita dalla stanza, talmente ridotto che penalizza la salute stessa della persona; il numero e la durata dei colloqui, sia visivi che telefonici, che non consentono un effettivo rapporto con la famiglia e compromettono quegli affetti necessari alla stessa sopravvivenza; come i divieti di lettura, inutilmente dannosi per l’effettivo recupero del soggetto. Va istituito - come esplicitamente affermato anche nella relazione del Comitato di Esperti degli Stati Generali - il controllo giurisdizionale (garantito dall’art. 13 della Costituzione, per tutte le limitazioni inerenti alla libertà personale) sull’adeguatezza dell’intervento ablativo del ministro della Giustizia; va rimossa l’anomalia processuale della competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma su tutti i reclami con cui si contesta l’instaurazione e la proroga del regime differenziato; vanno, infine, rimodulati i segmenti temporali, sia quello iniziale, sia quello di eventuali proroghe, da disporre solo dopo un effettivo contraddittorio tra le parti, dinanzi al magistrato. L’osservatorio carceri conclude con l’impegno di coinvolgere in questa battaglia impopolare tutte le Camere penali territoriali, per ribadire e rafforzare i loro principi di fronte ad una politica che non vuole la crescita culturale del Paese, ma solo immediato e facile consenso. Isis, 300 estremisti radicali in carcere: “hanno fatto festa per gli attentati” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 agosto 2016 Il ministro della Giustizia Orlando: “Ci sono elementi che fanno ipotizzare un ruolo dell’Isis sulla gestione del flusso di migranti verso l’Europa”. In tempi di offensive militari contro i presidi dello Stato Islamico, nessun segnale può essere tralasciato. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando comincia dal traffico di esseri umani che proprio in Libia ha le più importanti basi operative. “Ci sono elementi - dice il Guardasigilli - che fanno ipotizzare un ruolo dell’Isis sulla gestione del flusso di migranti verso l’Europa. È una pista investigativa che ha preso corpo nelle ultime settimane; non abbiamo trovato la “pistola fumante”, ma ci sono indizi su cui ha richiamato l’attenzione anche il procuratore nazionale antiterrorismo Roberti”. C’è il sospetto di una “centrale italiana” che gestisce il traffico e lo smistamento anche da qui? “Di questo non ci sono evidenze. Si sospettano canali di finanziamento del terrorismo attraverso le organizzazioni che fanno partire i migranti da Egitto e Libia, decidendo quanti mandarne in Italia, quanti in Grecia o altrove”. L’altro punto critico, per ciò che riguarda le sue competenze, è l’infiltrazione del radicalismo islamico nelle carceri. Ci sono particolari segnali di allarme? “Grazie al monitoraggio continuo abbiamo rilevato, dopo gli ultimi fatti di terrorismo, manifestazioni di esultanza e di simpatia nei confronti degli attentatori. Anche da parte di chi non era stato ancora segnalato come “radicalizzato”. In tutto, rispetto ai circa 10.000 detenuti di religione islamica, di cui 7.500 praticanti, parliamo di 350 persone che a vario titolo destano segnali di preoccupazione. All’interno di questo numero comunque esiguo, visto che siamo intorno al 5 per cento, ci sono quelli che hanno manifestato giubilo dopo gli attentati di Parigi o di Dacca, ma anche qualcuno che invece ha dato segni di dissociazione”. E l’amministrazione penitenziaria come reagisce? “Interveniamo con gli spostamenti da un istituto all’altro e altre precauzioni, anche per evitare il rischio del proselitismo. Il nostro modello non è Guantánamo. La nostra risorsa è il coordinamento reale tra forze di intelligence e di polizia, che ci consente di seguire i sospettati anche una volta scarcerati finché ce ne sono i presupposti; in alcuni casi si tratta di “falsi allarmi”, ma in altri si arriva a decidere l’espulsione dei soggetti che continuano a destare preoccupazione”. In carcere e fuori, i luoghi di preghiera sono quelli in cui possono innescarsi i processi di radicalizzazione. C’è chi chiede di chiudere le moschee, mentre voi avete preso un’altra strada. Perché? “Perché noi abbiamo bisogno che da quel mondo emerga il più possibile, in modo da poter controllare ciò che avviene. Noi dobbiamo garantire la libertà di culto, anche perché così si evita il pretesto dei diritti religiosi negati, e insieme monitorare il fenomeno del proselitismo radicale in ambito religioso. Se spingessimo gli islamici a chiudersi in luoghi di culto clandestini, dove può avvenire qualunque cosa, sarebbero più forti i segmenti radicali. Quindi nessun divieto, ma anche nessuna zona franca. Ne vale per la sicurezza nazionale”. Le comunità islamiche sono pronte ad accettare i controlli? “Abbiamo avuto atteggiamenti di disponibilità, però sono d’accordo con chi chiede prese di posizione più chiare da parte delle comunità islamiche. È accaduto in Francia dopo l’ultimo atto di terrorismo, mi auguro che accada anche in Italia”. Sempre in tema di relazioni internazionali, il presidente della Turchia Erdogan se l’è presa con i magistrati italiani che perderebbero tempo a inquisire suo figlio anziché combattere la mafia. Che cosa replica il Guardasigilli? “Il premier Renzi ha già stigmatizzato la totale irricevibilità di questo intervento. Io per parte mia ribadisco che la magistratura italiana è autonoma da tutti gli altri poteri nazionali, figuriamoci se può prendere ordini o subire condizionamenti da un capo di Stato straniero. Né ha bisogno che qualcuno le ricordi di contrastare la mafia, visto che lo fa da tempo e avendo pagato un tragico tributo di sangue”. Sul fronte interno, il Senato non è riuscito ad approvare la riforma del processo penale entro l’estate, come lei auspicava. “Ricordo che l’estate finisce il 21 settembre. Abbiamo incardinato la discussione in Aula che riprenderà il 13 settembre, ed è un importante passo avanti. Chi diceva che non saremmo riusciti a fare niente, dal falso in bilancio alla nuova legge anticorruzione, dovrà ricredersi anche stavolta”. Sulla prescrizione vi siete dovuti fermare a una posizione di compromesso. “Per i reati contro la pubblica amministrazione abbiamo evitato il rischio di veder morire i processi prima della loro conclusione. Certo, in astratto, sarebbe stato ragionevole fermare la prescrizione dopo la condanna di primo grado, ma di questo si potrà riparlare quando avremo assicurato tempi più brevi a indagini e dibattimenti, obiettivo a cui dovrebbero contribuire le altre norme contenute nella riforma”. E sulle intercettazioni? C’è chi dice che siete arrivati ultimi, dopo le circolari delle Procure e le raccomandazioni del Csm. “Il nostro testo risale a due anni fa, e il fatto che ci siano le circolari delle Procure è la conferma che ci vuole una legge, perché la tutela della privacy non può essere diversa in un luogo dove la Procura ha emanato direttive da un altro dove questo non è successo. E a differenza di quelle tentate in passato, questa riforma non incide sulla possibilità di utilizzare le intercettazioni nelle indagini; anzi, per quelle sulla corruzione può renderle più facili. Ci sono regole più stringenti per i magistrati riguardo alla loro divulgazione attraverso i provvedimenti destinati a diventare pubblici; sono pm e giudici a dover vigilare alla fonte, non si può scaricare la responsabilità solo sui mezzi d’informazione”. La preghiera della scrittrice: “svuotiamo le prigioni” di Gaja Cenciarelli Il Dubbio, 4 agosto 2016 Intervista ad Elena Stancanelli, finalista allo Strega. Con il suo ultimo romanzo, “La femmina nuda”, Elena Stancanelli è stata finalista nella cinquina del Premio Strega. Le chiediamo cosa pensi dei casi di femminicidio. “Io la penso come Luigi Manconi. A cosa serve il carcere? Cosa si ottiene a mettere in carcere una persona così? Io liberalizzerei qualsiasi cosa, svuoterei le carceri e agirei su un piano culturale”. Elena Stancanelli è scrittrice e ha studiato recitazione all’Accademia di arte drammatica. Il suo primo libro “Benzina”, uscito per Einaudi nel 2001, (in realtà è uscito nel 1998) ha vinto il premio Giuseppe Berto. Collabora con varie testate giornalistiche. Ha fondato “Piccoli Maestri”, una scuola di lettura i cui partecipanti - scrittrici e scrittori - vanno nelle scuole di tutta Italia a parlare dei loro libri preferiti. Il suo ultimo romanzo, La femmina nuda, pubblicato da La Nave di Teseo, è stato finalista nella cinquina del Premio Strega. È la storia di Anna che, scoperto il tradimento di Davide, si trasforma in una stalker. Succede più spesso che un uomo, alla fine di una relazione, spinga questa rottura alle estreme conseguenze. Perché? La sensazione è che la differenza sia culturale. Può certamente cambiare, sia in meglio che in peggio, purtroppo. Le donne agiscono la violenza più contro se stesse, che contro l’altro, hanno un atteggiamento autolesionista. Mentre gli uomini, parlo di casi rari fortunatamente, sono lesionisti, rivolgono la violenza verso la compagna. Il punto è che il dolore della fine è socialmente inaccettabile. Si è costretti a latitare dal dolore e a costruire una stanzetta nascosta in cui coltivare il mostro della sofferenza. Il tradimento virtuale è un tradimento vero? Non sarò io a condannare la virtualità: mi piace internet, mi ha dato tanto. È un mezzo e, come al solito, dipende da come lo si usa. Per noi, non nativi digitali, la vita è cambiata: l’impatto di qualcosa che prima non esisteva e ora è nelle tasche di tutti è stato devastante, nel bene e nel male. Non poteva non cambiarci la vita. Il tradimento, poi, è sempre virtuale. È sempre un racconto, una storia, un’ipotesi. È questa la sua vera potenza. Mette in moto l’immaginazione. Quando Anna va a cercare le prove del tradimento di Davide, in effetti costruisce letteratura. Trovando le foto, le chat, noi scriviamo il romanzo del tradimento. E la potenza di questo virtuale è disinnescabile solo facendolo rientrare nello spazio del corpo, del reale. Anna arriva all’epifania del corpo in due occasioni: la prima volta quando trova le fotografie di Cane (è il nome che Anna usa per chiamare la donna con cui Davide la tradisce, ndr), la seconda quando il fratello di Cane le appoggia la mano sulla coscia. Anna si salva quindi aggrappandosi al corpo. Anna si salva aggrappandosi al corpo, che è reale, di contro al virtuale che è puramente mentale. Anche io ho fatto la stessa cosa, con il mio libro: l’ho prosciugato della storia, del romanzo, di ogni sovrastruttura. Ho avuto bisogno di lasciarlo nudo, solo con il suo corpo, per creare disvelamento e lasciare solo ciò che era necessario. E secondo me, il principio di responsabilità dell’io di fronte alla fiction secondo me è proprio questo: usare spietatezza, pretendere nudità. Se costruisci finzione su finzione, vai verso la finzione pura. Ha scelto di pubblicare per La Nave di Teseo. Cosa la convince di questo nuovo progetto editoriale? Il mio romanzo è stato il primo di questa nuova avventura, a parte i due libri di Eco che sono fuori catalogo. Elisabetta Sgarbi aveva comprato il libro nel giugno 2015, con Bompiani, e sarebbe dovuto uscire a gennaio 2016. Era in seconde bozze, e c’era già la copertina, quando intorno alla seconda metà di novembre Elisabetta Sgarbi dichiarò all’Ansa che aveva fondato una nuova casa editrice e che avrebbe lasciato Bompiani. Io ho letteralmente dato fuori di matto. Ho urlato e pianto per due ore, finché non è arrivata la telefonata di Elisabetta Sgarbi che mi rassicurava sulle sorti del mio romanzo. alla fine sono stata felicissima, e l’uscita è stata addirittura anticipata al 31 marzo per consentirmi di partecipare allo Strega. Ha studiato all’accademia di arte Drammatica, e recitare non è solo parola, ma anche corpo. Alla scrittura manca la fisicità? Più passa il tempo, più me lo chiedo. Ho lavorato con Emma Dante, e l’ossessione per il ritmo e la fisicità erano atti fondanti. Credo che la scrittura in effetti lasci indietro il corpo, e il dovere della letteratura sia quello di riportarlo nella narrazione. Siamo comunque entrati in un’era di virtualità, ed è una cosa che pesa anche nei rapporti tra le persone. Alla virtualità deve necessariamente corrispondere una presa di coscienza fisica. Forse anche lo svincolo tra sesso e sentimento è motivato dal fatto che il corpo deve percorrere una strada parallela. Io la penso come Marsh, autore di Primo, non nuocere, che scrive “Il sentimento, ovvero quello sfarfallio elettrochimico”. A un certo punto, nella vita di tutti, succede qualcosa: un inciampo, qualcosa cui fatichiamo a dare un nome, ed è lì che il virtuale e il reale, mente e corpo si uniscono, solo che attualmente non abbiamo un modello per gestire questa amalgama. Lenni e Stella, le protagoniste di Benzina, e Anna, cos’hanno in comune? Con Anna, che già era la protagonista di Un uomo giusto, penso di aver messo a fuoco il personaggio che mi piace raccontare: ovvero il pasticcione, quello che sbaglia tutto, quello che sta al mondo con una grazia sconsiderata. Come dice Battiato, nella traduzione de I vecchi amanti di Brel: “C’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti”. Il nemico contro cui abbiamo combattuto per la paura della morte è l’adultità. Non avendo un modello per essere adulti, si produce ferocia, si trasmette livore, che sono sinonimi di distanza e antonimi di empatia. È di ieri la notizia che Sara Di Pietrantonio, la ragazza cui l’ex fidanzato ha dato fuoco a via della Magliana, qualche mese fa, è morta tra atroci sofferenze. Qual è la sua reazione di fronte a questa escalation di violenze contro le donne? È chiaro che la prima reazione sarebbe: diamolo in pasto ai genitori della ragazza. E tuttavia, in questi casi, io la penso come Luigi Manconi. A cosa serve il carcere? Cosa si ottiene a mettere in carcere una persona così? Certo, la si separa dalla società. Io liberalizzerei qualsiasi cosa, svuoterei le carceri e agirei su un piano culturale. Questo è precisamente uno dei vulnus della società: il carcere è una specie di coltura batterica di mostri, un grande rimosso. Forse bisognerebbe rileggere Foucault. Secondo me la nostra società ha prodotto metafore e sublimazioni per allontanarsi dalla violenza, ma ormai siamo al limite, ormai stiamo premendo contro il confine. Credo davvero che la società debba ripensare l’idea della carcerazione, altrimenti ci ritroveremo come nelle città parallele dei romanzi di Philip K. Dick. E, per quanto riguarda i femminicidi, io credo che tra uomo e donna si crei un gioco perverso di complicità. Se la violenza che talvolta è insita al sesso si ritualizza, si porta fuori, si guarda dritto in faccia, si riesce anche a disinnescare questa componente sadomasochistica, rendendo tutto un gioco. Il suo personaggio maschile preferito in letteratura? Nathan Zuckerman (Un personaggio immaginario che compare spesso, come narratore o protagonista, nei romanzi di Philip Roth, ndr) Detenuto 18 anni da innocente di Annalisa Chirico Panorama, 4 agosto 2016 La storia di Pietro Melis, arrestato nel 1997 per rapimento e liberato il 15 luglio scorso. “Non festeggio, mi hanno rovinato per sempre”. Colpevole. Anzi, innocente. Nel mezzo 18 anni, sette mesi e cinque giorni di galera. Il protagonista è Pietro Paolo Melis, allevatore sardo, che il 10 dicembre 1997 è tratto in arresto per ordine del gip di Cagliari. Alle porte del suo paese, Mamoiada, nel nuorese, una pattuglia di carabinieri gli intima di fermarsi. “Rientravo a casa dopo una giornata in azienda. Ho notato un posto di blocco sul ciglio della strada, all’improvviso mi sono ritrovato mitra puntati addosso” racconta Melis a Panorama. “Avevo già ricevuto un avviso di garanzia per la scomparsa di una signora mai vista prima in vita mia. Ero tranquillo perché non avevo nulla a che fare con quella storia, non avevo mai avuto problemi con la giustizia. Quando sono arrivato in commissariato, ho pensato: passo qualche ora qui e si chiarisce tutto”. Le cose andranno diversamente, e Melis resterà 18 anni in galera. La vittima è una possidente di Abbasanta, Giovanna Maria Licheri, 68 anni, rapita il 14 maggio 1995 da un commando di quattro uomini armati mentre lei è intenta, di prima mattina, a mungere il bestiame nell’azienda di famiglia. I suoi quattro figli sono pronti a pagare il riscatto ma la trattativa è ostacolata dalla legge sul blocco dei beni volta a impedire i contatti tra familiari e banditi. Il corpo della donna non sarà mai ritrovato. “Ho sempre rispettato il dolore della famiglia” dichiara Melis “ma è giusto che io sconti una pena per qualcosa che non ho commesso? Così le ingiustizie diventano due, non una soltanto”. Nel 1997 due persone sono condannate per il rapimento: Giovanni Gaddone, di Loculi, e lo stesso Melis. La condanna a trent’anni di reclusione diventa definitiva il 13 dicembre 1999. “Gaddone lo conoscevo superficialmente. Era un allevatore come me, io ero attivo nell’associazione regionale allevatori, mi occupavo dei conguagli del bestiame”. Dopo alterne vicende, lo scorso 15 luglio la corte d’Appello di Perugia revoca la condanna assolvendo Melis per non aver commesso il fatto. “Grazie alle nuove metodologie scientifiche impiegate dal nostro consulente fonico, è emerso che la voce dell’ignoto interlocutore che conversava con Gaddone nel settembre ‘95 non s’identificava con la voce di Melis” spiega l’avvocato Maria Antonietta Salis. “Va inoltre notato che la condanna non attribuiva a Melis un ruolo specifico nell’organico della banda dei rapitori, dal numero peraltro imprecisato”. Come si resiste al carcere da innocente? “Il mio antidoto è stato la speranza. Sapevo di essere innocente”. Nel 2012 la corte d’Appello di Roma dichiara inammissibile l’istanza di revisione asserendo che i risultati offerti dalle nuove tecniche scientifiche non sarebbero in grado di inficiare “con assoluta certezza” la perizia dell’epoca. L’anno dopo, la Cassazione annulla l’ordinanza e trasmette gli atti alla corte d’Appello di Perugia. Dopo un primo diniego, i difensori Salis e Alessandro Ricci ottengono la revisione del processo: la voce incriminata non è quella di Melis. “In carcere, prima a Spoleto e poi a Nuoro, ho avuto solo qualche permesso per far visita ai miei genitori. Mio padre è morto mentre ero dietro le sbarre, mia madre ottantacinquenne mi ha rivisto qualche giorno fa e non credeva ai suoi occhi”. Riprendere il filo di una vita interrotta dev’essere un’impresa. “Non ho voluto un pranzo o una festa, non ho nulla da festeggiare. Mi hanno rovinato per sempre. Al momento dell’arresto avevo 38 anni, oggi 56. Avevo una compagna, volevo costruirmi una famiglia, lei ha resistito otto anni poi mi ha lasciato. Non l’ho neanche sentita dopo la mia liberazione, non so se si sia sposata. Con una sola visita a settimana puoi resistere qualche anno, poi i sentimenti si raffreddano, è inevitabile”. In molti bussano alla porta per salutare il suo ritorno. “C’è un viavai interminabile, la gente di Marmoiada non ha mai creduto alla mia colpevolezza, è rimasta vicino alla mia famiglia. Io però non sono di grande compagnia. Mi sento frastornato, tutto è cambiato”. Come trascorreva le giornate in carcere? “Ho provato a tenermi in forma, ogni giorno facevo un po’ di corsa. Mi sono diplomato all’istituto artistico in carcere. Insieme a tre compagni detenuti abbiamo presentato un progetto sulle fontane di Spoleto e abbiamo vinto il primo premio. Quel giorno, per la premiazione, ci hanno concesso sette ore di libertà”. La vita fuori è spiazzante? “Un caro amico mi ha regalato un cellulare, non so usarlo. Ce l’hanno tutti questo aggeggio, le persone si parlano guardando lo schermo. Devo rassegnarmi a usarlo”. In carcere aveva accesso alla tecnologia? “A Spoleto avevamo il computer, ho imparato a scrivere e a usare diversi programmi. In carcere la connessione Internet è vietata, io non so navigare. Abbiamo pubblicato un libretto dal titolo Cucinare in massima sicurezza. Dietro le sbarre impari ad arrangiarti: affetti la pancetta con la latta dei pelati, oppure gratti il formaggio con il fondo della bomboletta del gas. L’importante è tenere la mente attiva. La peggior cosa che puoi fare è sdraiarti sulla brandina per fissare il soffitto. Ho visto detenuti che si sono auto-mutilati, avvelenati, suicidati. A Spoleto avevamo sette ore d’aria al giorno, a Nuoro quattro al massimo. Il carcere sardo è più arretrato, siamo arrivati a stare in cinque in una cella a causa del sovraffollamento”. Com’è stata la convivenza con gli altri detenuti? “Dietro le sbarre incontri gente strana, da tenere alla larga. Quando vedevo persone pericolose o squilibrate, evitavo di rivolgere loro la parola, non davo confidenza. Ci sono molti tossicodipendenti che avrebbero bisogno di strutture diverse da una prigione”. Lei ha mai guardato in faccia i suoi accusatori? “Ho assistito alle udienze fino allo scorso anno, quando sono stato colpito da un malore in tribunale. A quel punto ho deciso di farne a meno. Sentire quel che dicevano sul mio conto mi faceva stare troppo male, sono arrivato a fumare due pacchetti di sigarette in un giorno”. Ha intenzione di richiedere il risarcimento per ingiusta detenzione? “Seguirò i consigli dei miei avvocati. Senza di loro e senza il sostegno della mia famiglia, in particolare di mia sorella Rita, non sarei sopravvissuto”. Cannabis terapeutica. Orlando: “Il parlamento rifletta” di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 agosto 2016 Caso Pellegrini. Il Guardasigilli: “Il detenuto non è stato trascurato, i magistrati hanno applicato le leggi”. Breccia antiproibizionista nella Lega Nord. “Non sono stati rilevati profili di trascuratezza nel trattamento detentivo” di Fabrizio Pellegrini, il musicista malato di fibromialgia che ha trascorso oltre cinquanta giorni nel penitenziario di Chieti per aver coltivato in casa marijuana ad uso personale e terapeutico, prima di ottenere, due giorni fa, la detenzione domiciliare. Non ha dubbi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando che, dopo l’ispezione disposta sul caso, ha potuto così rispondere ieri al question time della Camera ad un’interrogazione del deputato di Sel, Gianni Melilla. “Ho disposto accertamenti preliminari attraverso l’Ispettorato e ho richiesto specifica relazione al Dap, con particolare riguardo alle condizioni del detenuto”, ha spiegato il Guardasigilli ricostruendo i vari passaggi della vicenda giudiziaria di Pellegrini, fino alla sua scarcerazione ottenuta il primo agosto dal Magistrato di Sorveglianza di Pescara. Nel cui provvedimento però, puntualizza Orlando, le condizioni di salute del musicista sono state ritenute compatibili con la detenzione anche se è stato accolto il beneficio alternativo di pena richiesto dal suo legale, l’avvocato Vincenzo Di Nanna, in via subordinata. L’incompatibilità con il carcere è stata esclusa anche dal medico del carcere, come evidenzia il Dap, dice Orlando, e Pellegrini sarebbe stato “adeguatamente sostenuto sotto il profilo sanitario e psicologico”, anche da “un proprio sanitario di fiducia”. Eppure sembra evidente che la cura a base di farmaci cannabinoidi di cui Pellegrini necessita sarebbe stata ancora più difficile da ottenere - e forse impossibile da seguire - in carcere. Non è un caso di malagiustizia, dunque, sostiene il ministro. Forse di malasanità, ma questo non lo dice. Anzi, rivendica “il potenziamento dell’assistenza sanitaria” dei detenuti come “una priorità del mio dicastero”. Però il problema c’è e Orlando non lo nasconde: “La normativa attuale - ricorda - sanziona le condotte di coltivazione di stupefacenti, sebbene finalizzato all’uso personale e a quello terapeutico. I magistrati sono chiamati ad applicare la legge anche in ipotesi di destinazione a fini terapeutici. È affidata alla dialettica parlamentare ogni ulteriore riflessione rispetto ai presupposti per l’incriminazione e alla congruità delle pene che derivano”. Come a dire, la questione è squisitamente parlamentare. Aspettando quindi che la Camera riprenda il dibattito appena cominciato sulla legge per la legalizzazione della marijuana, nel frattempo però il caso Pellegrini ha riacceso i riflettori almeno sulla cannabis terapeutica. I Radicali italiani e l’Associazione Luca Coscioni (che per primi hanno segnalato il caso) hanno chiesto al governatore abruzzese, il dem Luciano D’Alfonso, un “incontro urgente” sullo stato di attuazione della legge regionale per l’accesso ai cannabinoidi. Ma perfino nella maggioranza di centrodestra della Regione Lombardia si è aperto un varco di lucidità. In consiglio sono depositati tre progetti di legge ad hoc: l’ultimo è del Pd, che si aggiunge a quello del M5S e alla pdl di iniziativa popolare dei Radicali che ha raccolto 6mila firme, oltre la soglia necessaria. Addirittura, a fare da apripista contro “le ideologie proibizioniste” e le “cortine di pregiudizi un po’ vecchiotti” che sbarrano la strada alla cannabis terapeutica sono alcuni esponenti della Lega nord. In particolare, il vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, Fabrizio Cecchetti, che rivolge un appello soprattutto alla sua parte politica affinché si “superino le preclusioni ideologiche e si affronti da settembre, attraverso un gruppo di lavoro, un dibattito aperto e serio partendo dalle evidenze scientifiche, sia pur nel rispetto della sensibilità di ognuno”. Cecchetti, raggiunto al telefono dal manifesto, usa argomenti cari ai suoi corregionali: “Credo che sia giusto e doveroso che una regione come la Lombardia, con 10 milioni di abitanti, grande il doppio dell’Austria e come la Grecia, la terza assemblea dopo Camera e Senato in termini di numeri di rappresentanza, non rimanga indietro rispetto alle altre nove regioni italiane che hanno già legiferato in materia, compreso il Veneto che pure è governato dalla Lega. È nostro dovere semplificare la vita dei malati e normare l’accesso a un farmaco che molti cittadini lombardi sono costretti a procurarsi in Svizzera o in altre regioni”. Per dato anagrafico e culturale, Fabrizio Cecchetti (38 anni) non condivide affatto la paura tutta destrorsa di “aprire, con i farmaci cannabinoidi, un varco alla legalizzazione delle droghe leggere”. A dire il vero si pone anche una domanda semplice ma sensata: “In tutti questi anni di proibizionismo quali passi in avanti si sono fatti?”. Ma “ora il punto è un altro”, dice: da vicepresidente del Consiglio regionale si limita a ricordare le “migliaia di malati oncologici, di Aids, di Sla o più semplicemente di epilessia o di altre patologie più comuni, che hanno bisogno di cannabinoidi”. Non gente dell’altro mondo: “La Lombardia insieme al Lazio vanta il tristissimo record di incidenza più alta di nuovi casi di Hiv: 26 mila casi accertati”. Un fenomeno di ritorno, racconta, che “colpisce i giovani ma anche gli over 60, persone che, con l’uso di farmaci come il Viagra, hanno adottato stili di vita sessuale poco sicuri: Milano, con i suoi 13 mila affetti da Hiv è tra le prime dieci città europee più colpite, e gli esperti dicono che almeno il doppio sono sieropositivi ma non sanno di esserlo. Un indice paragonabile a quello di New York”. “C’è solo da applicare il buonsenso - conclude Cecchetti - che non ha colore politico”. L’incostituzionalità della legge sulle droghe di Vincenzo di Nanna* Il Manifesto, 4 agosto 2016 Caso Pellegrini. Mentre i veri spacciatori se la ridono, Fabrizio è stato richiuso per ben 56 giorni dentro una cella del carcere di Chieti insieme a sei compagni, in una condizione di palese violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura) e dell’art. 27 della Carta. L’8 giugno 2016 la Squadra Mobile di Chieti ha presentato, nel corso di una grottesca conferenza stampa, esibendole quasi come trofei, addirittura sei piante di marijuana sequestrate all’interno dell’abitazione del pianista chietino Fabrizio Pellegrini, “colpevole” d’essersi ostinato a coltivare cannabis per curarsi dalla fibromialgia, una grave e invalidante patologia che gli procura dolori insopportabili. In effetti, come certificano i medici da anni è questa l’unica cura realmente efficace, ma la Asl di Chieti l’8 ottobre 2010 scrive per dirgli che, nonostante lo stato d’ingenza del paziente, non è “nelle intenzioni di questa Azienda assumere l’onere economico del farmaco richiesto” (Bedrocan). Lo stato d’indigenza e la malattia finiscono dunque per rappresentare una “colpa” per la cui espiazione, sino al 2 agosto, è stato ristretto nel carcere di Chieti in condizioni inumane, privato dell’unica cura da cui trae giovamento. Trattato da criminale, solo per aver scelto di coltivare la sua medicina naturale, piuttosto che rivolgersi al mercato nero. Ma com’è possibile che un malato privo di mezzi che coltiva cannabis per uso esclusivamente terapeutico possa esser trattato alla stregua uno spacciatore? Una vicenda assurda e kafkiana che, inevitabilmente, sembra voler ripropone, con prepotente urgenza, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli articoli 3, 13 comma secondo, 25 comma secondo e 27 comma terzo della Costituzione nella parte in cui - secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità - non include tra le condotte assoggettate a mere sanzioni amministrative anche quella di coltivazione di piante di cannabis, laddove finalizzata all’esclusivo uso terapeutico della sostanza stupefacente. Nel caso di Fabrizio è inoltre quanto mai doveroso ipotizzare una chiara violazione dell’art. 32 della Costituzione, posto che la coltivazione della cannabis ha rappresentato un vero e proprio stato di necessità, comunque una scelta obbligata, visto che, negata la possibilità da parte della Asl di ricevere la cura a base di cannabis gratuitamente, si è visto costretto a coltivarla a causa dello stato d’indigenza. Una fattispecie unica, si spera irripetibile, al punto da poter consentire di riproporre con elementi d’assoluta novità la questione di legittimità costituzionale anche dopo il recente rigetto pronunziato dalla Corte Costituzionale (sentenza del 9 marzo - 20 maggio 2016). Nel corso del giudizio direttissimo fissato dinanzi al Tribunale di Chieti, per l’udienza dell’8 settembre, riproporrò dunque questa questione, così come intende fare l’avv. Giuseppe Rossodivita nel “simultaneus processus” fissato dinanzi al Tribunale di Siena a carico di Rita Bernardini, accusata d’aver coltivato e ceduto cannabis a malati ai quali tale cura era stata prescritta dai medici. In effetti, mentre i veri spacciatori se la ridono, Fabrizio è stato richiuso per ben 56 giorni dentro una cella del carcere di Chieti insieme a sei compagni, in una condizione di palese violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura) e dell’art. 27 della Carta. Queste le contraddizioni del proibizionismo e dell’attuale quadro normativo. Queste le assurde e grottesche conseguenze dell’omessa applicazione in Abruzzo della legge regionale istitutiva del garante dei detenuti e di quella che consente la coltivazione della cannabis per uso terapeutico. Ma per fortuna nella Regione di origine di Marco Pannella opera già, come garante di fatto e a titolo puramente gratuito, la radicale Rita Bernardini ed è grazie al suo interessamento che Fabrizio Pellegrini è tornato a vivere. *Avvocato, legale di Fabrizio Pellegrini, segretario di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi Cannabis terapeutica. Tutto bene, ministra Lorenzin? di Maurizio Acerbo* Il Manifesto, 4 agosto 2016 Ho perso il conto di persone disperate che mi contattano e raccontano le loro traversie. Come R.S. che con un compagno affetto da adenocarcinoma polmonare, non operabile, con metastasi ossee girava per l’Italia per procurarsi preparati costosissimi per la sua modesta pensione. Potrei continuare all’infinito e la questione non riguarda soltanto l’Abruzzo e l’insensibilità della giunta di Luciano D’Alfonso. L’assurda detenzione di Fabrizio Pellegrini ci ricorda che in Italia alla gran parte dei pazienti è negato l’accesso alla cannabis terapeutica. Anzi questi cittadini vengono trattati spesso da criminali. Sono costretti a rinunciare pur avendo ricevuto dai medici stessi informazioni sull’effetto positivo di cui potrebbero giovarsi. Oppure debbono rifornirsi sul mercato estero a prezzi proibitivi. Per non parlare di quelli che, come Fabrizio, non avendo i soldi per pagare ricorrono all’autocoltivazione o al mercato nero rischiando di essere perseguiti dalla “giustizia”. A volte i giudici si mostrano sensibili come nel caso di Gianni Adriano, un giovane di Introdacqua arrestato dai carabinieri, affetto da una grave forma di cefalea a grappolo. Pm e gip di Sulmona disposero l’archiviazione dopo avere visionato il piano terapeutico. Proprio la madre tempo fa lamentava il costo dei farmaci e le difficoltà con la Asl. Una situazione inaccettabile. È ancora più assurdo che Fabrizio o Gianni Adriano siano stati arrestati in una regione come l’Abruzzo, dove una legge di cui sono stato proponente è stata approvata nel gennaio 2014 e prevede l’erogazione da parte del servizio sanitario su prescrizione iniziale di uno specialista. Dopo anni di discussioni ottenne il voto favorevole da parte della maggioranza di centrodestra e dell’intero consiglio. La nuova giunta regionale di “centrosinistra” (Pd-Sel- centristi vari) in più di due anni non ha mosso un dito per applicare la legge considerata “più avanzata” in Italia. Eppure la Regione Toscana, il cui Consiglio riprese dalla legge abruzzese con celerità le parti più innovative, eroga farmaci e preparati galenici a un gran numero di pazienti e non dovrebbe essere difficile chiedere lumi ai colleghi. È notizia di pochi giorni fa che a Firenze il centro di Santa Maria Nuova assiste con cannabis circa 200 pazienti tra cui anche bambini. Ho perso il conto di persone disperate che mi contattano e raccontano le loro traversie. Come R.S. che con un compagno affetto da adenocarcinoma polmonare, non operabile, con metastasi ossee girava per l’Italia per procurarsi preparati costosissimi per la sua modesta pensione. Potrei continuare all’infinito e la questione non riguarda soltanto l’Abruzzo e l’insensibilità della giunta di Luciano D’Alfonso. È tollerabile ancora una situazione in cui l’accesso a cure sui cui effetti positivi nessuno recrimina - nemmeno Giovanardi! - debba dipendere dalla fortuna di vivere in una regione piuttosto che in un’altra? È accettabile che i pazienti debbano rivolgersi ai tribunali per ottenere il diritto alla cura come accadde sempre in Abruzzo, ad Avezzano nel 2010, con la prima sentenza che riguardava un malato di sclerosi multipla? È evidente che in Italia non vi è stato - nonostante le vanterie della ministra Lorenzin - un effettivo via libera all’uso terapeutico dei farmaci e dei preparati galenici a base di cannabinoidi. La ministra che si oppone alla proposta di legge per la legalizzazione oggi all’attenzione del parlamento, in realtà continua a ostacolare anche il diritto - che pure a parole riconosce - dei cittadini a curarsi. Quando il governo Renzi decise di non impugnare la legge dell’Abruzzo la ministra si affrettò a dichiarare che “la mancata impugnativa è una non notizia. Ricordo che in Italia l’uso terapeutico di cannabinoidi è pienamente legittimo”. Peccato che continui a essere inaccessibile alla gran parte dei malati che non possono permetterselo! Le evidenze scientifiche e le esperienze estere hanno suggerito alla ministra - e a quelli che come lei si ostinano nella difesa del proibizionismo sulla cannabis - a non perdurare in un atteggiamento di proclamato rifiuto ideologico dell’uso terapeutico. Ma la loro benevola negligenza e le direttive con cui tendono a restringerne l’utilizzo continuano a far danni nelle vite di tante persone. Il mio amico Osvaldo davanti a una bistecca ad una festa di Liberazione mi ha raccontato che prima non riusciva a mangiare né a dormire. La sua vita è cambiata da quando la Asl gli fornisce il preparato per la tisana. Perché tanti altri pazienti devono vedersi negato un diritto sancito dall’articolo 32 della Costituzione? *Segreteria nazionale Prc, ex consigliere della Regione Abruzzo Non devono essere i pm a riformare le intercettazioni di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Unione delle camere penali) Il Foglio, 4 agosto 2016 Chiamiamola burocraticamente Pratica num. 285/VV/2016 - come fosse una nota ministeriale abbandonata distrattamente su di una scrivania nella incipiente calura estiva - per esorcizzarne la natura sulfurea nascosta dietro una titolazione piuttosto neutra e mimetizzante: “Ricognizione di buone prassi in materia di intercettazione di conversazioni”. Summa teologale di tutte le circolari assunte da alcune procure al fine “di impedire la indebita diffusione di dati personali non rilevanti”, in realtà già vietata dalla legge e dalle norme in tema di trattamento di quei dati. Tutto ciò sarebbe dunque normale se questa “ricognizione” non suonasse alla fine come un autodafé, una possibile clamorosa confessione: sino ad oggi gli uffici giudiziari si sono resi responsabili di un trattamento indebito, violativo dunque delle leggi, al quale occorre finalmente porre fine. In una normale democrazia, fondata sugli elementari canoni della separazione e dell’equilibrio fra i poteri, il legislatore legifera al fine di regolamentare le prassi eventualmente distorsive e di ricondurre il riformato all’osservanza. Capita ora che oggetto della riforma sia proprio l’agire della magistratura, e che il parere dovrebbe essere dunque chiesto proprio a coloro che avrebbero dimostrato secondo lo stesso Csm una qualche (dichiarata) insubordinazione alla legge. Capita, tuttavia, nel nostro paese che sia la magistratura stessa a sottrarre dall’imbarazzo il Legislatore, anticipando ogni sua possibile iniziativa, ricordando però che non intende in alcun modo “condizionare” il legislatore, il quale tuttavia “farebbe bene ad attingere dalle linee guida”, con l’evidente consapevolezza del ruolo totalmente sbilanciato che la magistratura e il Csm hanno assunto nel nostro paese. La materia, dopo lo sdoganamento, per via interpretativa, dell’utilizzo di strumenti captativi intrusivi e ubiquitari, ha ad oggetto la tutela della libertà di comunicazione, l’inviolabilità del domicilio, la tutela della vita privata e familiare, di cui all’art. 2 Cost. e all’art. 8 Cedu, e del diritto di cronaca. Ci chiediamo ora come potrà il legislatore, rimasto a lungo silente sul punto, rifiutare una simile proposta offerta su uno splendido vassoio d’argento, dietro il cui baluginante aspetto si apre tuttavia il baratro di quella misera democrazia giudiziaria nella quale i nostri diritti e le nostre garanzie sono volute, scritte, interpretate, applicate e disapplicate per via di un unico autocratico potere. I giochi di prestigio della Corte sulle leggi retroattive di Rocco Todero Il Foglio, 4 agosto 2016 Dal Palazzo della Consulta, dove ha sede la Corte costituzionale, si cannoneggia di tanto in tanto contro la libertà individuale dei cittadini italiani utilizzando l’arma dal calibro grosso dell’efficacia della legge nel tempo. Non è bastata la sentenza sulla legge Severino con la quale i giudici costituzionali hanno ritenuto legittima l’applicazione retroattiva di quella che a tutti gli effetti è una sanzione limitativa della libertà personale, vale a dire la sospensione dell’esercizio di un diritto politico costituzionalmente tutelato. Qualche giorno fa alla Consulta sono andati oltre affermando che la legge successiva che prevede una sanzione amministrativa più mite per il trasgressore non si applica alla fattispecie verificatasi sotto la vigenza della legge che prevedeva la sanzione più grave. In altre parole, se al momento in cui è stata commessa la violazione la sanzione prevista era di 1.000 euro ma al momento in cui la si deve concretamente applicare il legislatore l’ha ridotta a 500, si continuerà a pagare di più invece che di meno. E ciò nonostante almeno tre considerazioni obbligherebbero a concludere in senso contrario a quanto ha deciso la Corte. Innanzitutto le sanzioni amministrative hanno un evidente effetto punitivo che risulta essere quasi sempre più grave rispetto a condanne penali lievi e condizionalmente sospese che rimangono lettera morta sul casellario giudiziario (chiedere agli imprenditori colpiti da sanzioni per centinaia di migliaia di euro per violazione della legislazione sul lavoro e della normativa tributaria). In secondo luogo considerato che l’articolo 2 del codice penale prevede che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, non si comprende perché il principio contenuto nella disposizione penale non debba valere anche per le sanzioni amministrative alla luce del loro evidente carattere afflittivo. Infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre affermato che a prescindere dalla formale qualificazione giuridica che l’ordinamento interno assegni alla sanzione il contenuto punitivo della stessa è sufficiente ad inserirla nel novero delle pene, con tutte le conseguenze che ne discendono, compresa (aggiungiamo noi) la necessità di ritenere applicabile la retroattività della legge più favorevole, con buona pace di quella che sempre la Corte europea definisce “la frode delle etichette”, cioè il tentativo dell’ordinamento italiano di chiamare pesce ciò che in realtà è carne. L’effetto della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di efficacia della legge nel tempo, invece, consiste nel riconoscimento in capo al legislatore di una discrezionalità assoluta (prossima all’arbitrio) nel disporre della libertà dei cittadini. La Corte costituzionale, infatti, ha affermato allo stesso tempo che: 1) il divieto di retroattività è previsto espressamente dalla Costituzione Repubblicana per la sola legge penale; 2) tuttavia esso (codificato nell’articolo 11 delle preleggi introdotte con Regio Decreto del 1942) è un principio generale di rango costituzionale posto a salvaguardia della libertà personale a cui può derogarsi solo dinanzi alla necessità di tutelare interessi pubblici di primario rilievo che di volta in volta saranno selezionati dal legislatore; 3) il principio del favor rei codificato nell’articolo 2 del codice penale non assurge a rango costituzionale cosicché esso potrebbe essere negletto dal legislatore ordinario tanto in ambito penale quanto per le sanzioni amministrative. In sostanza; ora si applicano sanzioni retroattive a condotte commesse sotto il regime di una più tenue disciplina, ora si applicano sanzioni più gravi a fatti per i quali il legislatore ha introdotto una condanna più lieve. È la discrezionalità del legislatore ordinario a dettare le regole. La Corte può sindacare l’esercizio della funzione legislativa esclusivamente allorché essa risulti affetta da irragionevolezza manifesta. Concetto quest’ultimo che non si è mai capito bene cosa voglia indicare. Siamo sicuri che non vi sia nulla da modificare e che si possa andare avanti così? L’Italia può dare lezioni di giustizia solo alla Turchia di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 agosto 2016 Nell’intervista esclusiva rilasciata a RaiNews24, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha evitato di rispondere alle accuse di violazione dei diritti umani dopo il fallito golpe del 15 luglio scorso, ricordando provocatoriamente all’intervistatrice italiana - Lucia Goracci - la vicenda giudiziaria che a Bologna vede suo figlio indagato per riciclaggio: “Se mio figlio in questo momento tornasse in Italia potrebbe essere arrestato, perché c’è un’inchiesta aperta nei suoi confronti dai magistrati italiani. Perché? Non c’è una risposta. E quando tu chiedi loro perché, non ti rispondono. È questo lo stato di diritto?”. Sui giornali di tutto il mondo è rimbalzata la replica del presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi (“I giudici rispondono alla Costituzione italiana, non a lui. Si chiama stato di diritto”), mentre è passata inosservata la risposta, fiera, della giornalista italiana: “Però in Italia c’è la presunzione di innocenza fino a che non ci sono prove che dimostrano il contrario”. Alt. Che la massiccia epurazione attuata da Erdogan in tutti i settori della società civile turca sia contraria ai principi basilari della liberal-democrazia è a dir poco evidente. Ma siamo proprio sicuri di essere noi, italiani, a poter ergerci a paladini della “presunzione di innocenza” e a dare lezioni sul rispetto dei capisaldi dello stato di diritto? Dov’è, ad esempio, il garantismo richiesto dalla nostra Costituzione quando nelle carceri italiane (spesso sovraffollate all’inverosimile) sono ospitati 9.074 detenuti in attesa di sentenza definitiva, di cui 8.301 addirittura ancora in attesa di primo giudizio (cioè il 16 per cento del totale)? Dov’è lo stato di diritto quando nel nostro paese per avere giustizia occorre aspettare, in media, 8 anni in campo civile e 5 anni in quello penale (con buona pace, peraltro, degli investitori stranieri)? Ma, soprattutto, dov’è la presunzione di innocenza quando un semplice avviso di garanzia basta a innescare l’ormai tradizionale e tutto italiano tritacarne mediatico-giudiziario, in cui persone semplicemente indagate vengono messe alla gogna salvo poi, svariati anni dopo, vedere riconosciuta la propria innocenza nel silenzio generale, in primis dei media? Lo si potrebbe chiedere, per esempio, all’ex presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, assolto dopo quattro anni e mezzo da un’accusa di corruzione che non stava in piedi, ma che nel frattempo gli ha distrutto l’intera carriera politica e anche la vita privata (“delinquente matricolato” furono le parole usate dai procuratori di Monza e rilanciate dagli organi di stampa). Lo si potrebbe chiedere a Vasco Errani, che a causa di un travaglio giudiziario durato sei anni ha dovuto rinunciare alla carica di presidente della Regione Emilia-Romagna, prima di essere assolto per la seconda volta lo scorso giugno. Lo si potrebbe chiedere a Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, per mesi bollato come camorrista da giornalisti e grillini, prima che alcuni giorni fa la stessa Direzione distrettuale antimafia di Napoli archiviasse l’accusa nei suoi riguardi per concorso esterno in associazione mafiosa. Sul rispetto del principio di presunzione di innocenza si potrebbe interpellare anche Maurizio Venafro, assolto di recente dall’accusa di turbativa d’asta, che però lo ha portato a dimettersi da capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti. Oppure Ilaria Capua, assolta dopo mesi di gogna pubblica dall’accusa di essere una “trafficante di virus”, ma che intanto ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti. E ancora: il senatore del Partito democratico, Salvatore Margiotta, dimessosi da vicepresidente della commissione di Vigilanza Rai prima di essere assolto in via definitiva per corruzione; Paolo Cocchi, ex assessore regionale della Toscana assolto dopo sei anni di processo e che oggi fa il pasticcere; l’ex super dirigente pubblico Ercole Incalza, che negli ultimi anni ha raccolto 15 assoluzioni in 15 processi; Ludovico Gay, che ha passato 120 giorni in carcere in semi-isolamento prima che si scoprisse che la “cricca al ministero dell’Agricoltura”, composta da lui e altre otto persone finite in carcere, non esistesse; Fausta Bonino, passata alle cronache come “l’infermiera killer di Piombino”, scarcerata dal Riesame di Firenze che ha bocciato le indagini dei pm; Silvio Scaglia, Mario Mori, Calogero Mannino, Vincenzo De Luca… Dov’era, in tutti questi casi, la nostra esemplare presunzione di innocenza? Rossano (Cs): visita dei Radicali al carcere “rafforzare il Corpo di Polizia penitenziaria” ecodellojonio.it, 4 agosto 2016 Nei giorni scorsi, una delegazione dei Radicali guidata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, ha effettuato una visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano, grazie all’autorizzazione concessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. La delegazione, della quale facevano parte anche Valentina Anna Moretti ed Ercole Blasi Nevone, stante l’assenza del Direttore Giuseppe Carrà e del Comandante di Reparto, Commissario Elisabetta Ciambriello, è stata ricevuta ed accompagnata dal Sovrintendente Damiano Cadicamo, sottufficiale della Polizia Penitenziaria, nella circostanza addetto al coordinamento della Sorveglianza Generale dell’Istituto. La delegazione, che ha visitato tutti i Padiglioni detentivi di Alta e Media Sicurezza nonché il Reparto di Isolamento, ha accertato che nella struttura erano presenti 216 detenuti (157 italiani e 59 stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti (1 in esubero) con le seguenti posizioni giuridiche : 204 condannati definitivi e 12 giudicabili (7 imputati, 3 appellanti e 2 ricorrenti). 129 sono i ristretti appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza (120 al Sotto Circuito As3 criminalità organizzata e 9 al Sotto Circuito As2 terrorismo internazionale di matrice islamica) e 75 quelli appartenenti al Circuito della Media Sicurezza. Tra di essi vi sono 26 condannati all’ergastolo dei quali 23 appartengono all’Alta Sicurezza e quindi “ostativi” e 3 alla Media Sicurezza. Per quanto riguarda le ulteriori “posizioni” della popolazione detenuta, i Radicali, hanno riscontrato la presenza di 18 tossicodipendenti e di 4 “lavoranti” in Art. 21 o.p. all’interno dell’Istituto. Nell’occasione 1 detenuto si trovava in permesso premio fuori dall’Istituto, beneficio accordatogli dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero. 2 detenuti, invece, provenienti da altri Istituti Penitenziari del Nord Italia, si trovano nel Reparto di Isolamento, poiché sottoposti al regime di sorveglianza particolare previsto dall’Art. 14 bis o.p. Con riferimento a questi 2 detenuti, entrambi di nazionalità straniera, la Delegazione ha preso atto che, tra le altre cose, è stato loro proibito di vedere persino la televisione e quindi di tenersi informati, rimuovendo il televisore dalle rispettive camere di pernottamento. Secondo i Radicali, esperti di questioni carcerarie, l’Ordinamento (Art. 14 quater o.p.) prevede che le restrizioni previste dal regime di sorveglianza particolare debbono essere “strettamente necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”. Non si comprende quali siano i motivi che giustifichino la rimozione dalle camere detentive del televisore, afferma il capodelegazione Quintieri, posto che tale apparecchio non può assolutamente ritenersi, nel caso specifico, funzionale al mantenimento dell’ordine e della sicurezza intramoenia per cui la sua rimozione è ingiustificata, inutilmente afflittiva ed illegittima non essendo “strettamente necessaria” allo scopo previsto dalla legge. Con la rimozione del televisore viene anche impedito ai detenuti di potersi avvalere dei mezzi di informazione, negandogli un diritto umano fondamentale costituzionalmente protetto dall’Art. 21 della Costituzione oltre che dall’Art. 18 comma 6 della Legge Penitenziaria. Per tali motivi, la Delegazione, con una nota inviata anche all’Amministrazione Penitenziaria ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, ha sollecitato l’intervento “d’ufficio” del Magistrato di Sorveglianza di Cosenza (poiché i detenuti non hanno presentato alcun reclamo) per valutare la legittimità del decreto disposto dall’Amministrazione Penitenziaria ed in particolare modo della restrizione segnalata, adottando i provvedimenti conseguenti qualora condivida che la rimozione del televisore sia “contra legem”. Nell’Istituto, da qualche mese, proprio grazie ai Radicali, opera un Mediatore Culturale dell’Associazione Alone Cosenza Onlus che si occupa gratuitamente dell’integrazione interculturale e linguistica dei detenuti stranieri. Infine, la delegazione Radicale, ha lamentato la grave carenza del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria nel Carcere di Rossano; nell’ambito della visita, infatti, erano presenti solo 11 unità di Polizia Penitenziaria fino alle 20 (2 delle quali in servizio dalle 8 del mattino ed 1 richiamato nonostante fosse in congedo per fare il Preposto) e che, successivamente, si sarebbero ulteriormente ridotte a 8 unità (dalle 20 alle 24) e poi ancora, nel turno notturno, a 7 unità dalle 24 alle 8 del mattino seguente. Il personale di Polizia Penitenziaria di Rossano, la maggior parte del quale ha una età superiore ai 50 anni, non può continuare a svolgere servizio in queste condizioni, anche perché la carenza di organico (mancherebbero oltre 30 unità), limiterà notevolmente la realizzazione delle molteplici attività trattamentali programmate dall’Istituto, con tutte le gravi conseguenze che ne deriveranno nella gestione e nel trattamento della popolazione ivi reclusa. Pertanto, la delegazione dei Radicali, ha sollecitato l’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, di voler intervenire tempestivamente per potenziare l’organico del personale di Polizia Penitenziaria presso la Casa di Reclusione di Rossano, ricorrendo anche ad eventuali distacchi da altri Istituti, al fine di eliminare disagi e stress per il personale operante e, contestualmente, al fine di consentire l’effettivo e concreto svolgimento di tutte le attività trattamentali programmate dall’Istituto di Rossano. Dell’esito della visita ispettiva condotta dai Radicali, con una dettagliata relazione, sono stati informati il Capo ed il Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e Massimo De Pascalis, il Provveditore Regionale della Calabria Salvatore Acerra, il Direttore della Casa di Reclusione di Rossano Giuseppe Carrà, il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero ed il Garante Nazionale per i Diritti dei Detenuti Mauro Palma. Velletri (Rm): autolesionismo e litigi fra detenuti, situazione critica in carcere di Lorenzo Mattia Nespoli lanotiziaoggi.it, 4 agosto 2016 Nuovi episodi di violenza al penitenziario di Velletri, che torna al centro delle denunce degli Agenti in servizio presso la struttura circondariale. In particolare, a sottolineare la gravità della situazione, è stata ancora una volta la rappresentanza sindacale dell’Ugl Polizia penitenziaria. Quella di domenica 31 luglio è stata una giornata piuttosto turbolenta. Nella mattinata, un giovane detenuto italiano è stato protagonista di contestazioni e minacce per futili motivi contro chiunque si avvicinasse a lui. Nonostante i tentativi di riportarlo alla calma, il ragazzo è arrivato a provocarsi un taglio alla gola con una lametta da barba. Il detenuto è stato soccorso dai poliziotti non senza difficoltà, proprio a causa della sua aggressività. Sempre domenica, altri due ospiti del carcere, italiani, hanno litigato fra loro, arrivando a un pesante scontro fisico, che ha causato lesioni e fratture. Per uno di loro, è stato necessario il trasferimento prima presso l’Ospedale di Velletri e poi al San Camillo di Roma, dove è stato sottoposto a un intervento chirurgico alla mandibola. “Gli Agenti che lavorano nel penitenziario di Velletri sono pochi, anziani e stanchi - ha commentato Ciro Borrelli, Segretario provinciale Ugl Polizia penitenziaria di Roma -, mentre la popolazione detenuta è in continua crescita. Mi congratulo con i colleghi, che continuano a dimostrare grande professionalità e spirito di sacrificio, nonostante siano stremati”. Gli episodi di domenica scorsa hanno suscitato anche le reazioni di Carmine Olanda, Segretario regionale della stessa sigla sindacale, che ha sottolineato l’urgente necessità di far fronte alle molteplici problematiche che affliggono le carceri del territorio. “Il Governo - ha detto - deve prendere atto delle gravi carenze di personale che tutti gli istituti penitenziari soffrono, e l’amministrazione penitenziaria deve necessariamente prendere provvedimenti, affinché si possa incrementare il personale attraverso bandi di concorso”. Alessandria: tra forchette finte e libri colorati, in cella esplode la fantasia di Valentina Frezzato La Stampa, 4 agosto 2016 Progetto “Cose recluse”, in un libro gli oggetti creati dai detenuti. Gli orologi sono fermi all’una e 25. Nei corridoi, nelle stanze comuni, anche in quelle dedicate allo “svago”. L’ha notato subito Mariangela Ciceri, la prima volta che è entrata nel carcere di massima sicurezza di San Michele e si è chiesta: perché? Il motivo disarma: “Il tempo, che non scorre mai, crea ansia ai detenuti”. Quindi, orologi fermi. Ma tutto il resto, invece, non lo è. Raccontare la vita dentro il carcere senza retorica non è una banalità. Ci riescono in pochi: fra loro un fotografo e una scrittrice che hanno provato a cambiare prospettiva: partendo dalle “cose”. Quegli oggetti che chi vive in cella si crea, dirozzando altri oggetti, riciclando ad arte e, soprattutto, per necessità. Oltre al tempo ciò che non fa difetto, dietro le sbarre, è la fantasia. “Il tempo non manca”, è una battuta ma qui nessuno ride. Fra le mura del carcere di San Michele, uno di quelli di massima sicurezza, costruito in periferia, vicino al casello di Alessandria Ovest. Il tempo, nei penitenziari, è un tema delicato, come ha notato subito Ciceri. Lei è una scrittrice e per sei mesi ha lavorato insieme con il fotografo Daniele Robotti al progetto “Cose Recluse”, che racconta la vita nel carcere attraverso gli oggetti dei detenuti. È un libro fotografico, nasce con l’intenzione di mostrare come la detenzione attivi fantasia e creatività: ogni cosa, dallo spazio all’oggetto, cambia e va riadattata a norme, regole, necessità e bisogni. “L’idea in realtà è nata durante un servizio in carcere: stavo scattando foto agli attori dello spettacolo “Il giardino incantato” e nelle pause chiacchieravo con un’educatrice che mi spiegava quanto gli oggetti, dentro, cambino”, racconta Robotti, che per la prima volta ha sentito parlare di ciò che è vietato in galera. Le posate, ad esempio. Poi coperchi per le pentole, felpe e accappatoi con il cappuccio. “Questi oggetti proibiti vengono ricreati con altri materiali”. Le copertine rigide dei libri (vietate) diventano sfogo artistico e rinascono con cartone e colori, i coperchi delle pentole (vietati) sono fatti con la carta stagnola, le forchette (vietate) sono costruite con i bastoncini dei ghiaccioli. Poi: piccole mensole, cestini, addirittura un ammazza-mosche artigianale. “Quest’ultimo - aggiunge Ciceri - è l’oggetto che mi ha colpito di più, creato da un bastoncino e un vasetto di yogurt. Dentro, c’è una sostanza che tiene intrappolato l’insetto”. È stata lei a occuparsi della parte scritta del libro (che è in vendita solo online). I suoi sono racconti sono toccanti: “Ho cercato di ricostruire le loro storie senza entrare nel dettaglio delle motivazioni per cui sono stati arrestati. Volevo raccontare la capacità di modificare lo spazio, di renderlo simile a una casa. Loro entrano in una stanza vuota e la riempiono”. La “magia” è tutta lì. Più sono gli anni (di reclusione), più è ricca, piena. Per Robotti passare dall’idea e la realizzazione non è stato così immediato: “Ne ho parlato con la responsabile degli educatori, Concetta Stuccilli, e con la direttrice di allora, Elena Lombardi Vallauri (ora dirige il carcere di Asti, ndr), infine ho inviato una richiesta al ministero”. Con le autorizzazioni, sono partiti: macchina fotografica con un solo obiettivo, lui (il grandangolo), bloc notes e penna, lei. Sei mesi, una volta alla settimana. “Le guardie carcerarie sono state collaborative al massimo e hanno facilitato il lavoro, perché il tempo a disposizione era poco”. Robotti ha scelto di scattare a colori: “Ho escluso il bianco e nero per evitare la classica immagine di luogo triste e cupo”. Alla fine il colore si è rivelata la scelta giusta, anche perché dà un senso di autenticità. Ha evitato gli stereotipi, si è concentrato sugli oggetti e ha documentato gli spazi, dalla cella alla lavanderia, dalla sala per i colloqui alla passerella per passeggiare. Quest’ultimo è l’unico luogo senza il soffitto sulla testa. La rivolta generazionale che alimenta il terrorismo di Ilvo Diamanti La Repubblica, 4 agosto 2016 Diventa sempre più urgente trovare il senso dell’odio che sale intorno a noi. È difficile capire cosa spinga tante persone, spesso di origine maghrebina, ma nate e vissute in Europa - e soprattutto in Francia - a provocare tante vittime, tanto sangue. Me lo sono chiesto nei giorni scorsi, passeggiando lungo la Promenade des Anglais, a Nizza. Dove, poche settimane fa, un uomo, alla guida di un camion, ha compiuto un massacro, uccidendo oltre 80 persone. La città, oggi, sta cercando di riprendere un ritmo di vita normale. Per quanto possibile. D’altronde, il lungomare e la spiaggia sono affollati come prima. Segno che neppure il terrorismo riesce a sconvolgere le nostre routine. Tuttavia, questa città è alla ricerca di un senso. I terroristi evocano la “guerra jihadista”. Ma è una spiegazione insufficiente. Perché il legame degli autori degli attentati recenti con l’IS e con gli jihadisti appare, spesso, debole. (Magari non nel caso di Nizza.) Infatti, si tratta di persone che non mostrano convinzioni religiose particolarmente intense. Sovente, si tratta di “convertiti”, in tempi recenti. La cui appartenenza all’Islam radicale e all’IS viene “recitata” in video e, quindi, rilanciata in rete. Talora dall’IS stessa. Perché la via del terrore per-seguita dello Stato Islamico incrocia, puntualmente, la via mediatica. Tuttavia, questi “nuovi terroristi” esibiscono la bandiera dell’IS ex-post. La stessa IS, non di rado, conferma la matrice degli attentati e degli attentatori solo “dopo”. Così si delinea un insidioso “patto di sangue”, letteralmente. Fra gli autori degli attentati, che ottengono un’identità, una legittimazione. E l’IS, lo Stato Islamico. Che dà senso “globale” alla “sua” guerra. Più che il mandante, appare il mito che giustifica il terrore, prodotto, talora, da “terroristi ex-post”. Così, appare concreto il rischio di perdersi, in una spirale di orrore e di in-comprensione. E diventa ancor più urgente trovare il senso dell’odio che sale intorno a noi. La spiegazione più frequentata fa riferimento alla marginalità sociale - e non solo - dei terroristi, di origine, perlopiù, nordafricana. Cresciuti nelle banlieue. Spesso finiti in carcere, per vicende di ordinaria criminalità. Lì hanno incontrato l’Islam radicale, come ha osservato Farhad Koshrokhavar, sociologo iraniano, direttore di ricerca all’EHESS di Parigi. E hanno coltivato identità e reti di appartenenza. Non a caso le banlieue, poco più di 10 anni fa, nel 2005, furono teatro delle rivolte che sconvolsero Parigi, dopo la morte di due ragazzi, a Clichy-sous-Bois, inseguiti dalla polizia. Tuttavia, la rivolta contro un destino di marginalità pre-scritto trova un senso più preciso in prospettiva “generazionale”. Gli attentatori sono, infatti, giovani, se non giovanissimi, spesso di origine maghrebina. Ma “francesi”, perché nati e cresciuti in Francia. Non sempre e non necessariamente nelle banlieue. Infatti, come ha osservato lo stesso Koshrokhavar, l’Islam radicale ha attecchito anche fra i giovani musulmani delle classi medie. Olivier Roy, anch’egli sociologo, presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, parla di una generazione perduta e sperduta. Alla ricerca di un’identità che la società e per prima la famiglia non sono state in grado di fornire loro. Così, il richiamo all’Islam, alla religione della tradizione, diventa una mappa per ritrovare la strada. “Una” strada. Solo che non si tratta dell’Islam “coltivato” dai genitori. Integrato e moderato. Ma dell’Islam mitico, delle origini. L’Islam radicale, predicato da imam “estremisti”. Offre loro motivo e riferimenti per realizzarsi. “Contro” i genitori. Il terrorismo francese, secondo Roy, più che una guerra di civiltà diventa, così, una rivolta generazionale. Perché, osserva Roy, i giovani terroristi sono tutti francesi di seconda generazione. Hanno studiato in Francia, in mezzo ad altri giovani francesi, di cui condividono la lingua, luoghi e stili di vita. Ma sono afflitti da un’identità incompiuta. “Marginale”. Non si sentono e non vengono sentiti francesi. E lo stesso avviene nei Paesi d’origine. In cui non si riconoscono. Dove non vengono riconosciuti. Così vivono in una condizione di non-identità. A differenza dei genitori, che hanno cercato, da sempre, il riconoscimento nel Paese dove sono “migrati”. Il rapporto dei giovani con i genitori si traduce, così, in una rottura, anzitutto, religiosa. E l’Islam radicale diventa il segno, il mezzo per combattere la loro “rivolta generazionale”. Che è, anche, culturale. Sociale. Una rivolta sanguinosa. Perché i giovani francesi di origine maghrebina uccidono i genitori metaforicamente. Di fatto, uccidono persone che non hanno altra colpa se non di essere “francesi”. Occidentali. E se sono, a loro volta, arabi e islamici, non è un problema. Al contrario. Per loro, il problema è l’integrazione degli arabi. E attraverso la versione estrema dell’Islam cercano una risposta all’assenza di riferimenti di valore, al “nichilismo radicale” che li affligge. Difficile non pensare alla distanza dai “nostri” giovani. Italiani. Nonostante vivano anch’essi un’identità imperfetta. Frustrati dal deficit di futuro. Visto che, in larga misura, sanno che non raggiungeranno la stessa posizione sociale dei genitori. A differenza delle generazioni precedenti. Mentre intorno a loro - e a noi - si diffonde un clima di nichilismo. Non ancora radicale né, per ora, violento come quello che affligge i coetanei francesi di seconda generazione. Perché in Italia la soluzione perseguita è diversa. I giovani: preferiscono andarsene altrove. Emigrare. E - sempre più spesso - non ritornano. Così gli italiani di seconda generazione, i figli di immigrati, sempre più numerosi in Italia, correranno meno il rischio della marginalità. Perché stanno divenendo maggioranza. Nelle scuole primarie e secondarie di molte regioni. Resteranno, fra qualche anno, gli unici “giovani” italiani in Italia. Comunque, i più numerosi. E se vorranno affrontare i problemi - economici, ma, prima ancora, di identità e riconoscimento - che affliggono la loro generazione, dovranno seguire l’esempio degli altri giovani italiani. E dei propri genitori. Cioè: emigrare. Riprendere il viaggio. Alla ricerca di un futuro sempre più ipotetico. Sempre più passato. Il femminicidio è una priorità. Quindi ne parliamo a settembre di Susanna Turco L’Espresso, 4 agosto 2016 Boschi istituisce la cabina di regia contro la violenza sulle donne: ma la prima riunione sarà tra trentacinque giorni. Alla faccia dell’urgenza. Arrivato alla terza estate il renzismo s’acquieta: il parlamento fa vacanze più lunghe, e i provvedimenti più scivolosi si rimandano a settembre (e oltre). Dal processo penale alla cannabis. Per non parlare della riforma sulle adozioni. Poiché lottare contro la violenza sulle donne è una “priorità del governo”, e ai femminicidi “non possiamo e non vogliamo abituarci”, è in arrivo una “cabina di regia interistituzionale” la cui prima riunione per promuovere “ulteriori risposte concrete” si terrà a brevissimo: l’8 settembre, tra trentacinque giorni. L’annuncio è di Maria Elena Boschi, ministra delle riforme con delega alle Pari opportunità. Mossa si suppone dovuta alla bruciante urgenza, dopo gli ennesimi due femminicidi di Lucca e Caserta che fanno salire a 76 le vittime nel 2016 (il dato del Viminale sui primi sei mesi era 74). Servirebbe a dire che le istituzioni si mobilitano. Appare invece più che altro il segno dei tempi. Cambiati. Dopo un paio d’estati vissute furiosamente il renzismo s’acquieta. Consente che lo stop del Parlamento sia qualche giorno più lungo persino della sua media: 40 giorni, stavolta. Generalmente attende. Rimanda i dossier più scivolosi, a settembre almeno: dopo il referendum ancora meglio, se si riesce. La tendenza s’è chiaramente appalesata una quindicina di giorni fa, quando il reato di tortura è stato lanciato verso un rinvio senza data precisa, per la gioia degli alfaniani (e lo scorno del Pd). Tra Camera e Senato è tutto un sospeso: il ddl concorrenza, quello della riforma dei partiti, le primarie per legge, la liberalizzazione della cannabis. La riforma del processo penale ha fatto appena in tempo ad arrivare in Aula al Senato: se ne riparlerà a settembre, e già questo è considerato un successo. Della riforma delle adozioni, quello sbandieratissimo da Renzi a febbraio per rimediare allo stralcio della stepchild adoption, s’è persa persino la sensazione, figurarsi il resto. Da aprile a fine luglio, la commissione Giustizia della Camera ha svolto una Indagine conoscitiva così approfondita che soltanto la lista degli auditi occupa tre pagine: tra essi, la ministra Boschi, che ha fra l’altro assicurato - giusto sempre per settembre - una riunione della Commissione per le adozioni internazionali (la prima, peraltro, dal giugno 2014). Il timone dei diritti civili, del resto, s’è naturalmente prosciugato con la faticosissima approvazione delle unioni civili. In commissione Giustizia al Senato, continuano a giacere - nonostante le buone intenzioni - il ddl di contrasto all’omofobia, così come quello sul cognome materno. Sono in buona compagnia, del resto. L’ultimo ordine del giorno prima della pausa estiva ha tredici punti all’ordine del giorno, per un totale di circa una sessantina di disegni di legge: praticamente un programma-monstre. Purché non si dica che la politica si disinteressa, si fanno liste di buone intenzioni. In attesa di scavallare Ferragosto. L’odio per le donne: una su tre ha subito violenze di Antonio Pitoni La Stampa, 4 agosto 2016 Tra i 16 e i 70 anni il 31 per cento è stata picchiata o abusata sessualmente: in Italia sono quasi sette milioni. Da gennaio 76 vittime. Spesso il responsabile è un familiare o un uomo con cui hanno avuto una relazione. Uomini che odiano le donne. E che, sempre più spesso, diventano assassini. È successo già 76 volte nel corso del 2016. Un vero e proprio bollettino di guerra che ha insanguinato l’ultimo decennio: 1.740 femminicidi secondo l’Eures. Una macabra contabilità della morte inferta, in molti casi, da un familiare o da un uomo con cui la vittima ha avuto una relazione. Come tragico atto conclusivo di un’inarrestabile escalation di violenza. Spinta fino alle più estreme conseguenze. I dati dell’Istat, aggiornati a giugno 2015, parlano chiaro: 6 milioni 788 mila, ossia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (quasi una su tre), hanno subito nel corso della propria vita una violenza fisica (il 20,2%) o sessuale (il 21%). Nel 5,4% dei casi veri e propri stupri (652 mila donne) o tentati stupri (746 mila), il 62,7% dei quali commesso da un partner attuale o precedente. Ma non è tutto. Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Mentre aumentano, in modo preoccupante, i bambini costretti loro malgrado ad assistere ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014). Sono loro le “vittime secondarie” dei femminicidi, scatenati nel 40,9% dei casi da un movente passionale: negli ultimi 15 anni, stando ai dati Eures, sono 1.628 i figli rimasti orfani spesso per mano dei loro stessi padri. I recenti casi mortali di Lucca e Caserta, riaccendono il dibattito politico. “Ancora due donne uccise in 24 ore. La strage continua. Contro il femminicidio oltre a leggi e fondi per centri antiviolenza, serve un’azione culturale”, chiede su Twitter la presidente della Camera, Laura Boldrini. Pensiero che la terza carica dello Stato chiarisce meglio sul suo profilo Facebook. “Le leggi ci sono e i centri antiviolenza devono tornare ad avere al più presto i finanziamenti necessari - scrive -. Ma intanto, mentre la strage prosegue, è importante rilanciare l’appello alle donne, perché denuncino senza esitazioni, senza una malriposta pietà, i loro compagni o ex compagni violenti: cambiarli è impossibile, bisogna fermarli per tempo”. Anche perché, se negli ultimi cinque anni, tornando ai dati dell’Istat, gli episodi di violenza denunciati da parte delle donne hanno fatto registrare un significativo aumento, l’11,8% dell’ultimo rilevamento resta comunque una soglia ancora limitata. “I femminicidi - conclude la Boldrini - non finiranno se non saranno anche gli uomini a rivoltarsi contro questa infamia”. Da Palazzo Madama, anche il presidente del Senato, Piero Grasso, affida il suo pensiero ad un post su Facebook. “Da uomo fatico a spiegarmi cosa possa spingere ad usare una tale brutalità, a covare così tanto odio nascondendosi dietro presunti sentimenti quali l’amore, il dolore per una storia che finisce, la disperazione. Niente di tutto questo: spero che non usino più, raccontando queste storie, termini ambigui e giustificatori come raptus, gelosia, disagio, rifiuto”, premette la seconda carica dello Stato, prima di dare sfogo al suo impietoso giudizio: “Sono solo squallidi criminali e schifosi assassini”. Episodi contro i quali “c’è un grande lavoro da fare”, spiega ancora Grasso, “per sradicare i resti di una cultura maschilista e possessiva che ancora permea la nostra società”. La soluzione? “Stare insieme è una sfida quotidiana - conclude il presidente del Senato -. Uomini e donne non si appartengono, si scelgono ogni giorno. Liberamente”. Mentre la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan chiede “una grande mobilitazione culturale della società civile, a partire dalla scuola e nei posti di lavoro, insieme ad una azione di prevenzione delle istituzioni”. La scia di sangue del patriarcato di Bia Sarasini Il Manifesto, 4 agosto 2016 E siamo a settantasei. 76 donne uccise, finora in Italia, nelle forme più varie ed efferate, dagli uomini che avevano scelto. Per una breve storia, un incontro, o anche per tutta la vita. L’ultimo episodio è successo in provincia di Caserta, dove Nicola Piscicelli ha assassinato con 12 coltellate alla schiena la moglie Rosaria Lentini. Nel frattempo è morta Vania Vannucchi, 46 anni, a cui ha dato fuoco un collega, infermiere come lei, che non rassegnava a essere mollato. Anche se nega, ha moglie e figli, ma non sa giustificare l’ustione al braccio. Colpisce il fuoco, un sistema facile per togliere la vita, basta un liquido altamente infiammabile e un accendino. “È stato un raptus” ha detto Piscicelli, nel consegnarsi alla polizia. “Spero che non si usino più, raccontando queste storie, termini ambigui e giustificatori come raptus, gelosia, disagio, rifiuto. Sono solo squallidi criminali e schifosi assassini” ha scritto il presidente del Senato Piero Grasso nella sua pagina fb. Parole forti di un uomo, che si rende conto di quanto la cultura maschile, anche quando non vuole, attenua e occulta la gravità e il senso dei gesti compiuti. Parole ancora più forti le ha dette papa Francesco, qualche giorno fa, sull’aereo di ritorno da Cracovia. “A me non piace”, ha detto, “parlare di violenza islamica, perché tutti i giorni quando sfoglio i giornali vedo violenze, quello che uccide la fidanzata, un altro la suocera, questi cattolici battezzati sono violenti cattolici e se parlo di violenza islamica devo parlare di violenza cattolica”. I violenti cattolici, i violenti occidentali sono quelli che uccidono le loro donne. Se con queste parole Bergoglio mette fine alla millenaria complicità del cattolicesimo con il potere maschile sulle donne, nella famiglia, l’equivalenza da lui enunciata tuttora non appare limpida a tutti, e tutte. Chi sgozza un prete sull’altare sembra più violento di chi colpisce la moglie 12 volte con il coltello. Sembrerebbe che l’amore, la passione, la gelosia rendano tutto più comprensibile, perfino irrilevante a leggere tante cronache in cui delitti efferati scivolano via come se nulla fosse. Eh no, dice il Papa, con un intervento che avrà un gran peso, è la stessa violenza di chi uccide in nome di Dio. Cito il Papa non per particolare venerazione, ma perché incide nel cuore di quella visione che regge il sistema che attribuiva ai maschi un potere sulle donne. Anche i più miserabili, quelli agli ultimi gradini della scala sociale, spettava almeno una donna. Nessuno avrebbe sindacato su come la trattava. La benevolenza dipendeva solo da lui. Mostrano a tutti, le parole di Francesco, che quel sistema è destabilizzato fin dalla radice. “Non c’è più religione”, è una battuta fin troppo facile che coglie una sostanziale verità, dice il sommovimento che ha investito gli uomini, che non capiscono più il mondo in cui vivono. Da padroni che erano si trovano privi di tutto, compreso il premio promesso. Gli omicidi di questi anni non hanno più nulla a che fare con l’antico delitto d’onore, pratica inserita con piena legittimità nell’ordine riconosciuto del patriarcato. Ora chi uccide difende un sé maschile smarrito in un mondo incomprensibile, in cui non c’è più un posto predeterminato dalla nascita, perché ti capita di essere maschio. Per questo è importante quello che dicono gli uomini, o non dicono, il lavoro iniziato da alcuni per dipanare la fitta trama delle complicità e delle omissioni. Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa. Quanto alle donne, la loro autonomia è un fatto reale, di popolo. Riguarda tutte, non poche signore delle élite, questa massa indica la forza del cambiamento. E per quanto riguarda i pericoli reali, ci sono tutti gli strumenti. Le leggi, che non bastano se non c’è l’educazione, la prevenzione. Ci sono i centri anti-violenza. Perché si tagliano i fondi? La ministra Maria Elena Boschi ha convocato un summit per l’8 settembre. Ma non ci vuole un summit speciale, per ri-finanziare i centri. O è solo propaganda? Pena di morte: 1.685 esecuzioni da inizio 2016, ma prosegue trend per l’abolizione di Anna Dichiarante la Repubblica, 4 agosto 2016 I dati del rapporto annuale diffuso da Nessuno tocchi Caino. Cina e Iran rimangono i Paesi in cui continua a essere praticata senza tregua: Pechino, nella sola prima metà dell’anno, ha fatto eseguire almeno 1.200 condanne, Teheran 209. Sono 160 i Paesi che hanno deciso di abolirla. In Europa resiste solo la Bielorussia. Allo stato d’emergenza si risponde con più stato di diritto. Perché è quando c’è un’emergenza che occorre tenere i nervi saldi e, soprattutto, tenere saldi i principi democratici su cui la nostra società si fonda. È questo il messaggio sotteso al rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo diffuso da “Nessuno tocchi Caino”. La lega internazionale affiliata al Partito radicale, che da anni monitora il ricorso alla pena capitale e conduce campagne per il rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale, segnala un’evoluzione nel complesso positiva riguardo alla questione. Ma, in tempi in cui è altissimo l’allarme per la minaccia terroristica e gli Stati si blindano con misure di sicurezza eccezionali, l’associazione mette in guardia su una possibile regressione democratica collegata alle esigenze di repressione. Tuttavia, nemmeno davanti alla violenza dei terroristi lo Stato deve cedere alla tentazione di mettersi esso stesso nei panni di Caino e di utilizzare la morte come strumento per difendersi. Una lezione che l’Italia conosce bene e ha già sperimentato durante gli anni di piombo nella lotta contro il terrorismo politico interno e negli anni successivi contro la mafia, fenomeni criminali combattuti sempre con i “codici alla mano”. I numeri. Secondo il rapporto, nei primi sei mesi del 2016 si contano già almeno 1.685 esecuzioni capitali, effettuate in 17 paesi. Il primato va alla Cina, che soltanto nella prima metà dell’anno ha eseguito 1.200 condanne a morte: un dato in linea con quello del 2015, quando le condanne eseguite erano state 2.400. Al secondo posto si colloca invece l’Iran con 209 esecuzioni, a fronte delle almeno 970 del 2015. Segue poi l’Arabia Saudita con 95 esecuzioni in questo primo semestre. Per quanto riguarda il 2015, il rapporto registra almeno 4.040 esecuzioni, a fronte delle almeno 3.576 del 2014. Un aumento significativo che consegue a quello delle esecuzioni in Iran, Pakistan e Arabia Saudita. Sul fronte opposto, i paesi che hanno deciso di non praticare più la pena capitale sono ora in tutto 160, mentre 104 sono quelli totalmente abolizionisti, 6 quelli abolizionisti per reati meno gravi e 6 quelli che attuano una moratoria. Ci sono inoltre 44 Paesi abolizionisti di fatto che non eseguono condanne da oltre 10 anni o che si sono impegnati a livello internazionale ad abolire la pena di morte. Anche i paesi che la mantengono sono diminuiti nell’ultimo decennio, ma sono aumentati nel 2016 rispetto all’anno precedente: da 37 a 38. La maggior parte di questi Stati, come segnala “Nessuno tocchi Caino”, sono regimi autoritari o dittature, una coincidenza che sottolinea il legame tra il ricorso alla pena di morte e la scarsa propensione al rispetto di diritti e libertà fondamentali dell’uomo. In sostanza, a quanto emerge dal rapporto, l’Asia è il continente dove più si pratica la pena di morte: in 12 paesi di questo continente, infatti, è stato eseguito il 98 per cento delle condanne a morte del 2016. L’Europa, invece, sarebbe libera dalle condanne a morte se non fosse per la Bielorussia, che ancora le prevede, e per la Russia, che però rispetta una moratoria delle esecuzioni. Lotta al terrorismo e pena di morte. Il dato che più allarma, tuttavia, è il nesso tra l’utilizzo della pena di morte e la lotta al terrorismo o al narcotraffico. Nel 2015 sono state almeno 100 le condanne a morte irrogate ed eseguite per reati di stampo terroristico in 12 paesi, tra cui Iraq, Iran, Cina, Somalia, Bangladesh. Ben 713, invece, sono quelle eseguite per reati di droga, di cui il 65 per cento in Iran. Numeri da cui si comprende facilmente come i regimi meno democratici approfittino delle istanze di sicurezza e di difesa sociale per giustificare involuzioni pericolose sul fronte del rispetto dei diritti umani. Per questo, uno dei prossimi obiettivi di “Nessuno tocchi Caino” è portare a compimento un progetto, già approvato dall’Unione europea, sul contenimento della pena di morte nelle legislazioni antiterrorismo in paesi cruciali come Somalia, Tunisia ed Egitto. Resta poi l’importante appuntamento del prossimo dicembre, quando l’Assemblea generale dell’Onu voterà la sesta risoluzione sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali, un’iniziativa fortemente sostenuta dall’Italia e da organizzazioni come quella radicale. Il problema della Turchia. L’involuzione autoritaria, del resto, è qualcosa che sta accadendo in questi giorni anche in Turchia. Dopo il tentato golpe del 15 luglio, le dichiarazioni rilasciate dal presidente Erdogan riguardo alla possibilità di reintrodurre la pena di morte preoccupano molto l’Unione europea. Anche dall’Italia arriva il monito per la Turchia a non cadere in forme di neo-nazionalismo, in base alle quali il voto di un Parlamento nazionale può da solo far saltare impegni e accordi presi con la comunità internazionale. Senza dimenticare, come ricorda “Nessuno tocchi Caino”, che la pena capitale era stata tolta dalla Costituzione turca nel 2004. La pena di morte mascherata. Al centro dell’attività di monitoraggio, comunque, non c’è solo il ricorso alla pena capitale. Per quanto riguarda in particolare il nostro paese, la battaglia del Partito radicale si estende da anni anche all’ergastolo ostativo, al regime di carcere duro previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e a tutti quegli automatismi legislativi che impediscono al soggetto detenuto di godere di pene alternative o di sperare in un’uscita anticipata dal carcere. Forme di “pena di morte mascherata”, come le definisce “Nessuno tocchi Caino” riprendendo parole usate da papa Francesco. E proprio per raccontare le storie di questi ergastolani, alla prossima Biennale di Venezia i Radicali presenteranno “Spes contra spem”, un docu-film girato nel penitenziario di Opera, con la regia di Ambrogio Crespi. L’omaggio a Pannella. La presentazione del rapporto 2016 di “Nessuno tocchi Caino” è stata anche l’occasione per assegnare il tradizionale riconoscimento di “abolizionista dell’anno”, a favore della personalità che si sia più spesa per l’abolizione della pena di morte. Quest’anno, però, il premio è stato dedicato alla memoria di Marco Pannella, il leader radicale scomparso a maggio, e il titolo è diventato “abolizionista del secolo” in onore delle numerose battaglie da lui condotte per l’affermazione delle libertà civili. Stop pena di morte, la battaglia continua nel nome di Pannella di Errico Novi Il Dubbio, 4 agosto 2016 A Marco il premio di “Abolizionista del secolo”. Non poteva che svolgersi nel segno di Marco Pannella la presentazione del Rapporto sulla pena di morte di Nessuno tocchi caino. L’organizzazione che da quasi un quarto di secolo si batte per cancellare le esecuzioni capitali in tutto il mondo assegna alla memoria dello storico leader radicale il premio di “Abolizionista del secolo”. Una variante inevitabile alla dicitura che viene tradizionalmente utilizzata, quella di “Abolizionista dell’anno”. “Marco è il nostro leader, e se ci guarda da lassù magari si sta pure arrabbiando: ci scuoterebbe con un ?ma quale memoria, io sono lì con voì“, dice in apertura dell’incontro a via di Torre Argentina Sergio D’Elia, che di Nessuno tocchi caino è il segretario. “Molti di noi ritengono che Marco continui ad ispirarci, a guidare i nostri passi”. Attorno a un banco dei relatori troppo piccolo per accogliere tutti si riuniscono i custodi del Partito radicale, Rita Bernardini, Maurizio Turco, Matteo Angioli, oltre a D’Elia e alla tesoriera della Ong abolizionista, Elisabetta Zamparutti, e a tre figure di rilievo del governo, Gennaro Migliore, Benedetto Della Vedova e Sandro Gozi, sottosegretari rispettivamente alla Giustizia, agli Esteri e agli Affari europei. Un affollarsi che è anche farsi forza di fronte all’assenza fisica di Marco. In un’atmosfera però che è di speranza, innanzitutto per il dato che più interessa segnalato dalla curatrice del rapporto annuale, Zamparutti, ossia il numero dei Paesi abolizionisti, che ha raggiunto ormai quota 160. Ma anche per l’incoraggiamento “non rituale”, come nota Della Vedova, che arriva dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La decisione di conferire a Marco Pannella, alla memoria, nell’anno della sua scomparsa, il titolo di Abolizionista del secolo, rappresenta un riconoscimento che ne sottolinea l’impegno pluridecennale, carico di passione civile e di positive conseguenze sul piano dell’impegno internazionale contro la pena di morte”, recita il messaggio inviato dal capo dello Stato, che D’Elia legge per intero svelando solo alla fine l’autore. Mattarella ricorda di Pannella “l’azione paziente e tenace di tessitore di un filo che, lungi dall’esaurirsi nella dimensione politica nazionale, ne ha trasceso i confini, ha assunto un valore globale, appassionando alla difesa della vita e della dignità dei condannati cittadini e leader politici di tutto il mondo”. Ma soprattutto il presidente della Repubblica segnala il peso che la battaglia radicale contro le esecuzioni capitali ha avuto rispetto al prestigio del Paese nelle relazioni internazionali: “Se oggi l’Italia costituisce, in Europa e nel mondo, un’autentica avanguardia contro la pena capitale, ciò si deve anche alla costante riflessione condotta in seno a Nessuno tocchi Caino, di cui il tradizionale Rapporto costituisce un risultato di elevato valore morale e indubbia valenza politica”. È il concetto che ribadisce l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi, sempre più compartecipe delle battaglie radicali, che ricorda come il ruolo dell’Italia alle Nazioni unite “si sia rafforzato proprio grazie alla campagna contro le esecuzioni”. I numeri - È Elisabetta Zamparutti a passare in rassegna le principali statistiche contenute nel rapporto. Innanzitutto quella che classifica i 160 Paesi che hanno deciso di abolire il patibolo: di questi, 104 sono totalmente abolizionisti, 6 sono abolizionisti per crimini ordinari e 6 sono quelli che hanno adottato una moratoria delle esecuzioni. Ma forse il dato più significativo è quello che registra il numero degli Stati dalla cui legislazione è stata cancellata la pena di morte: erano 54 nel 2005, al 30 giugno di quest’anno se ne contano 38. Ci sono però almeno due ombre pesanti. La prima è quella del numero delle esecuzioni totali compiute l’anno scorso, che è salito: 4.040 a fronte delle 3.576 conteggiate nel 2014. “Lo si deve al ricorso fortemente incrementato della pena capitale per i reati di droga e terrorismo in tre Paesi: Iran, Arabia Saudita e Pakistan. In quest’ultimo c’è stata alla fine del 2014 una revoca della moratoria per i reati di terrorismo, a causa della quale sono state impiccate almeno 30 persone”. In Iran si registra un aumento delle esecuzioni del 21 per cento: dalle 800 del 2014 si arriva alle 970 del 2015. Ma “il Paese boia”, dice ancora Zamparutti, resta la Cina, “che ha eseguito almeno 2.400 condanne a morte, circa il 59% del totale mondiale”. Sempre in Cina, Arabia Saudita e Iran si registra un trend preoccupante anche per i primi 6 mesi del 2016, in cui le pene capitali eseguite sono state 116. I reati di droga ripropongono l’emergenza in Indonesia, che ha fatto contare 14 esecuzioni l’anno scorso e 4 pochi giorni fa, il 29 luglio. Recentissime anche le 29 esecuzioni per terrorismo eseguite dall’Iran per 29 curdi sunniti. In Europa l’unico Stato che abbia fatto registrare esecuzioni capitali è la Bielorussia, dove quest’anno è stato giustiziato un cittadino, mentre gli Stati Uniti continuano ad essere il solo Paese delle Americhe che ricorra alla pena di morte, con 28 esecuzioni nel 2015. “Il quadro deve tenerci in allerta sia per le minacce propagandistiche di un ritorno alle esecuzioni da parte della Turchia”, ricordano sia Gozi che Della Vedova, “sia perché neppure la barbarie dei nazisti islamici può giustificare la difesa della vita attraverso la morte”. E questo Pannella lo avrebbe sottoscritto in pieno. Boia in azione per droga e terrorismo di Carlo Lania Il Manifesto, 4 agosto 2016 Pena di morte. Presentato il rapporto 2016 di nessuno tocchi Caino. sette i minori uccisi. La minaccia lanciata dal presidente turco Erdogan di reintrodurre la pena di morte nel paese, non poteva certo essere ignorata nella sede del partito Radicale dove ieri è stato presentato il rapporto sulla pena capitale nel mondo messo a punto come ogni anno da Nessuno tocchi Caino. “È inaccettabile che il presidente di un paese candidato all’ingresso nell’Unione europea dica che se il parlamento decide di reintrodurre la pena di morte, allora si può fare”, dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi dando voce a una preoccupazione comune tra i presenti. I timori dell’esponente di governo sono più che giustificati. E non solo perché l’eventuale decisione di Ankara equivarrebbe a un ulteriore e ancora più pesante arretramento per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani nel paese della Mezzaluna, già messi a dura prova dallo stato d’emergenza dichiarato dopo il fallito golpe del 15 luglio. Nonostante infatti aumenti ogni anno il numero dei paesi che decidono di sospendere in maniera definitiva le esecuzioni, o almeno di applicare una moratoria (oggi sono in tutto 160, 104 dei quali totalmente abolizionisti), le persone che perdono la vita per mano di un boia aumentano sempre più. Nel 2015 sono state 4.040, denuncia il rapporto dell’associazione radicale, a fronte delle 3.576 del 2014. Un incremento al quale hanno contributo paesi come la Cina (2.400 esecuzioni, il 60% del totale), ma anche Iran, Pakistan e Arabia Saudita. A oggi i paesi mantenitori della pena capitale sono 38, contro i 54 del 2005. La lotta al terrorismo e alla traffico di droga sono le due principali motivazioni per cui molti stati fanno ricorso al boia. “È impressionante il numero di persone mandate a morte per droga, ben 713 nel 2015”, spiega Elisabetta Zamparutti, responsabile dello studio. “In Iran oltre il 65% delle esecuzioni compiute ha riguardato reati legati alla droga., paese a cui ha fatto seguito l’Arabia Saudita”. Nel dettaglio le esecuzioni per droga sono state 64 in Arabia Saudita, 13 in Indonesia, almeno 632 in Iran, 3 a Singapore. Più un numero sconosciuto in Cina. Una tendenza confermata anche nei primi sei mesi del 2016, con 116 persone condannate a morte per lo stesso reato soprattutto in due paesi, Arabia Saudita (11) e Iran (almeno 105). Mistero, come al solito, sul numero delle esecuzioni compiute in Cina. Ma, come abbiamo detto, si uccide anche in nome della lotta la terrorismo. “Paesi autoritari e illiberali - è scritto nel rapporto di Nessuno tocchi Caino - hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime”. 12 i paesi responsabili complessivamente per la morte di 100 persone: Arabia Saudita (almeno 2), Bangladesh (4), Ciad (10), Cina (almeno 3), Egitto (7), Emirati Arabi Uniti (1), Giordania (2), India (1), Iran ((almeno 1), Iraq (almeno 30), Pakistan (30) e Somalia (almeno 9). Sono 121 le persone giustizia invece nel 2016 per terrorismo. Ma si può essere uccisi anche per reati non violenti o addirittura politici o d’opinione, nel 2015 è successo in Cina, Corea del Nord (almeno 13) e Iran (almeno 15). Da questo orrore di Stato non si salvano, purtroppo, neanche i minori sebbene l’esecuzione di persone che avevano meno di 18 anni nel momento in cui hanno commesso il reato sia in contrasto con quanto previsto da alcuni trattati internazionali. Nel 2015 sono stati uccisi 3 minori in Iran e 6 in Pakistan, mentre 7 sono quelli uccisi quest’anno (3 in Arabia saudita e 4 in Iran). Infine un ricordo di Marco Pannella. Al leader radicale, morto a maggio e protagonista di numerose battaglie contro la pena di morte, è stato assegnato il premio “L’Abolizionista dell’anno”, denominazione che per l’occasione è stata cambiata in “L’Abolizionista del Secolo”. Il parlamento rimanga aperto e si discuta della concessione delle basi aeree per la Libia di Pippo Civati e Giulio Marcon Il Manifesto, 4 agosto 2016 Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid. Ieri la ministra della difesa Roberta Pinotti - a un question time chiesto dal Pd - ha annunciato che l’Italia “è pronta a concedere l’uso delle basi e dello spazio aereo nazionale” per gli aerei americani o della coalizione anti-Isis chiamati a intervenire dal governo libico contro l’Isis. Gli americani hanno già iniziato a bombardare Sirte da due giorni e forse stanno già utilizzando le nostre basi. Nell’intervento la ministra -per l’utilizzo delle basi- non ha fatto riferimento al bisogno di autorizzazione parlamentare poiché la risoluzione 2259 dell’Onu già concernerebbe questa possibilità. Senonché, ora siamo a un punto di pericolosa accelerazione con davanti a noi 30 giorni (e forse più) di bombardamenti americani e l’utilizzo delle nostre basi. Non ce la si può cavare con un question time e una comunicazione della ministra alle commissioni esteri e difesa che ci sarà oggi. Il parlamento italiano ha il dovere di riunirsi anche nei prossimi giorni e votare sull’impegno del nostro paese in questa vicenda. Siamo ad un punto di passaggio pericoloso. L’avvio dei raid americani può avere effetti disastrosi, accendendo la miccia di una escalation di cui è difficile prevedere l’esito. E c’è una questione più concreta e drammaticamente importante: quei raid (e sappiamo quanti morti innocenti hanno fatto i droni americani in Afganistan e in Iraq) mettono a repentaglio la vita di 7mila civili tenuti in ostaggio in una zona di Sirte da un migliaio di combattenti dell’Isis. I precedenti dovrebbero invitare alla massima cautela. Non è la prima volta che in Libia si gioca una partita geopolitica assai complicata, con la Francia coinvolta in una guerra a sostegno di Khalifa Haftar che agisce in proprio, fuori dal controllo del governo centrale di Al-Sarraj. E proprio la risoluzione 2259 chiede ai paesi di evitare “il sostegno a istituzioni parallele”. Proprio quello che sta facendo la Francia con le milizie di Haftar: un elicottero francese pochi giorni fa è stato abbattuto (con tre soldati francesi morti) durante una di queste azioni “parallele”. La partita geopolitica ha per oggetto il controllo di risorse ed aree di interesse: per la Francia l’obiettivo principale è la Cirenaica con i suoi pozzi petroliferi. L’Italia non ne sta uscendo bene. Un anno fa la ministra Pinotti ha ventilato l’ipotesi di mandare 5mila soldati in Libia, salvo fare marcia indietro qualche giorno dopo l’altolà di Renzi e della comunità internazionale. Ora ci apprestiamo a dare le basi di Sigonella e Aviano per i raid senza aver valutato le conseguenze non solo per la Libia, ma anche per il nostro paese. Abbiamo lasciato campo libero a Francia e Usa che ci stanno portando su una china non proprio rassicurante. Più che una missione è un’omissione: il Parlamento viene tenuto all’oscuro. Domani dovrebbe chiudere i battenti, ma vanno riaperti subito per discutere di una avventura da valutare con la necessaria documentazione e con la massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e dei cittadini. Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid. Va bloccato il traffico delle armi verso quell’area e va rilanciata l’idea della convocazione di una nuova conferenza internazionale di pace, capace di un negoziato vero con gli attori locali, al riparo degli interessi e dell’offensiva geopolitica dei paesi occidentali, della Russia e delle altre potenze regionali. Questo è quello che vorremmo dire in parlamento, che chiediamo di riunire al più presto. Perché se c’è la guerra, le istituzioni repubblicane non possono andare in ferie. Tripoli e i raid: “Stanchi di questo terrore speriamo in un Paese unito” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 agosto 2016 Le testimonianze mentre gli Usa hanno dato il via ai raid richiesti dal governo. “Noi libici amiamo l’Italia con tutto il cuore. Siamo due Paesi fratelli”. “Adesso sembrerà che tutto il merito della sconfitta di Isis a Sirte sia degli americani. Noi per oltre tre mesi ci siamo dissanguati per combattere i jihadisti. Bastava poco per batterli definitivamente, se ci avessero mandato munizioni e armi pesanti non sarebbe stato necessario altro. Ce l’avremmo fatta da soli. Ma, senza consultarci, Fayez Serraj ha chiesto l’aiuto armato di Washington. I raid aerei Usa sono un’offesa per tutti noi giovani delle milizie in prima linea”. È il parere più critico dei raid americani che abbiamo raccolto ieri sera atterrando nella capitale libica. Arriva da Mohammad Amish, 26enne tripolino che dal 2011 milita nella Brigata dei Martiri, una delle tante che assieme a quelle di Misurata circonda Isis nella sua roccaforte a Sirte. Al momento si è preso una decina di giorni per rivedere la famiglia. Tornerà in prima linea entro venerdì, garantisce. Ma non lesina un giudizio politico: “Serraj, così facendo, si è giocato la carta del sostegno del parlamento di Tobruk. Ora è chiaro che i francesi stanno con il generale Khalifa Haftar e invece gli americani con Serraj. È già successo nel passato: quando Bengasi e Tobruk ridono, Tripoli piange. Adesso avviene l’opposto: Tripoli esulta e gli altri sono scornati. Ancora una volta l’intervento della comunità internazionale, pur sbandierando la nostra unità nazionale, non fa che contribuire in effetti ad aggravare le nostre divisioni interne”. Va però osservato che le sue critiche sono soltanto una faccia della medaglia. Tanti nella capitale libica si dicono infatti sinceramente felici per l’attacco americano contro Isis e ben contenti che l’Italia dia una mano. Ai tavolini del centralissimo “Caffè Roma”, nei pressi delle mura della cittadella medievale e i bei palazzi del periodo coloniale italiano, prevale decisamente il plauso per il premier e per l’aiuto militare di Washington. “Serraj ha fatto benissimo. E non importa che Haftar con i suoi amici francesi non siano contenti. Lui è un vecchio generale con manie da dittatore in pieno stile Gheddafi. Isis invece costituisce una minaccia per tutti. Un pericolo gravissimo che rischia di espandersi come la peste tra le rovine del nostro Paese e le divisioni interne. Va battuto subito e con ogni mezzo, lasciando da parte le sottigliezze della politica”, esclama Omar Ali Ghrada, 57enne direttore della “Savana”, una compagnia che fornisce servizi e supporto logistico alle grandi multinazionali del petrolio. “Isis attacca i pozzi, mette in ginocchio l’economia nazionale. Qui a Tripoli la gente si illude che sia una minaccia remota. Stanno sui bar del lungomare e non sanno nulla. Ma i jihadisti sono qui, nel deserto tutto attorno a noi”, aggiunge. E non manca un commento sull’Italia: “Noi libici amiamo l’Italia con tutto il cuore. Amiamo la vostra lingua, la vostra cultura, il cibo, il carattere. Siamo due Paesi fratelli. Spero ardentemente nel ritorno al più presto degli italiani in Libia. Le ditte italiane tra l’altro hanno costruito il grande complesso di Ouagadougou nel cuore di Sirte dove sono trincerati quelli di Isis. Potrebbero fornire le mappe, aiutare a stanarli”. Dello stesso tono sono i discorsi di Abdelhakim Abida, 48enne responsabile della “Hana”, compagnia libica che da un trentennio fornisce servizi di catering a 18 grandi campi petroliferi. Tra i suoi soci anche le maggiori ditte italiane, Eni e il terminale di Mellitah, la francese Total, la spagnola Repsol, le organizzazioni che gestiscono le piattaforme nel mare come quella di El Buri a 120 chilometri dalla costa. “Voi italiani non siete adatti per fare la guerra. Vi conosco bene. Ho lavorato con voi per un mucchio di anni. Ma siete fondamentali per ricostruire questo Paese. Ecco perché non potete tirarvi indietro se gli americani vi chiedono le vostre basi per i loro aerei. Dovete starci per non perdere il carro del dopo Isis”, afferma secco. Ad un tavolino poco distante due signore di mezz’età, una lavora come bibliotecaria l’altra è impiegata, si dicono però preoccupate per il persistere dello scontro frontale tra Tobruk e Tripoli: “Francesi e americani avrebbero dovuto coordinare la loro guerra contro Isis. Invece adesso Serraj e Haftar sono più che mai ai ferri corti. La vittoria contro Isis potrebbe costituire un’ottima occasione di rilancio per la costruzione della Libia unita. Ma la battaglia politica resta del tutto aperta”. “Costretto a militare in Boko Haram, vi racconto le stragi e i rastrellamenti” di Amalia De Simone Corriere della Sera, 4 agosto 2016 Abdullah, 20 anni, aderì al gruppo terroristico per salvare il padre: “Ma io non ho mai ucciso, ora chiedo protezione”. Sulle gambe bruciature, tagli, colpi e cicatrici lasciano poco spazio alla pelle sana. Non sorride mai perché gli hanno spezzato i denti con un calcio del fucile quando osò dire ai suoi “capi” che Boko Haram non gli piaceva, che voleva andare via da quell’esercito di terroristi. Alla fine ci è riuscito Abdullah Alì, ma non è stato semplice. È In Italia da appena un mese, parla poco, anzi parla solo se interpellato e lo fa con un inglese incerto oppure in presenza di un traduttore, nella sua lingua, la hausa, che è la stessa che si parla nell’esercito dove “la cultura occidentale è proibita” (questo significa letteralmente boko haram). Alì è accompagnato da un giovane operatore socio culturale Agostino Trinchese che da tempo si dà da fare con spirito di sacrificio, passione e volontà per l’accoglienza e il supporto ai migranti, soprattutto quelli africani e con storie simili a quelle dell’ex affiliato all’organizzazione terroristica. “Vengo da Maidguri in Nigeria. Sono stato in Boko Haram per tre anni da quando ne avevo 17. Un giorno alcuni capi vennero da mio padre chiedendo che mettesse a disposizione i suoi figli per il loro esercito. Mio padre rifiutò e fu rapito. Io per evitare la morte a mio padre, accettai di entrare nel gruppo terroristico. Innanzitutto cominciai l’addestramento. Vedevo armi di ogni tipo, soprattutto kalashnikov. Erano tantissime ma non so dire da dove provenissero. So che se si inceppavano ce le sostituivano subito. Ci hanno insegnato a montarle e smontarle oltre che ad usarle”. Alì parla con difficoltà ma anche con lucidità delle azioni di terrore compiute: “Facevamo rastrellamenti nelle città, si uccidevano uomini donne e bambini, chiunque si opponesse alla volontà del gruppo”. In effetti le ultime notizie arrivate dalla Nigeria parlano di stragi di bambini, alcuni bruciati vivi. I principali bersagli erano cristiani? - chiedo. “No se la prendevano con chiunque, cristiani o anche musulmani. Chiunque si opponesse al loro radicalismo islamico”. Alì non sa nulla di eventuali collegamenti con brand del terrore: l’Isis non sa nemmeno cosa sia ma racconta di giovani addestratori di kamikaze e attentatori. “Ci sono soldati che hanno giurato fedeltà alla causa e altri che vengono costretti a far parte dell’esercito, altri subiscono indottrinamento e riti”. C’è la possibilità che alcuni vengano mandati in giro, anche in Europa per compiere azioni terroristiche? - chiedo. “Si la possibilità c’è perché c’è gente che viene addestrata. Io avevo compiti da guardiano e ho assistito ad alcune fasi di addestramento. Poi le più importanti avvenivano in segreto. Quelli che hanno giurato sono destinati alle azioni più importanti ma spesso si mandano anche alcuni arrivati a Boko Haram sotto minaccia. In tanti non sono mai più tornati indietro”. Quando Alì seppe che suo padre era stato giustiziato decise di scappare e dopo alcuni tentativi ci riuscì. A casa non poteva tornare perché tutti sapevano che aveva fatto parte di Boko Haram e avrebbe rischiato il carcere così si diresse verso la Libia e da lì in Italia come i tanti che fuggono da miseria e violenza. “L’ho fatto solo per mio padre ma non ho mai ucciso. Loro uccidono per niente. Io sono contro di loro. Spero in Italia di essere al sicuro, spero che l’Italia mi protegga”. Israele: carcere per i dodicenni accusati di terrorismo di Victor Castaldi Il Dubbio, 4 agosto 2016 Il Parlamento approva la controversa misura. L’indignazione delle Ong. In questa travagliata stagione di attacchi jihadisti molti esperti hanno criticato l’approssimazione dei paesi europei in materia di sicurezza, evocando il modello israeliano come esempio di difesa efficace. In effetti decenni di abitudine agli attentati hanno formato i servizi di sicurezza dello Shin beth al duro lavoro della prevenzione (e della repressione) repentina in una società completamente militarizzata. Tra i metodi impiegati dal governo di Tel Aviv per limitare gli attacchi, ce ne sono alcuni di estremi ai limiti del diritto. Come il provvedimento approvato ieri dal Parlamento che prevede il carcere per 12enni condannati per reati di “terrorismo”. La legge consentirà alle autorità di imprigionare bambini ritenuti colpevoli di “crimini seri come l’omicidio, tentato omicidio o l’omicidio colposo anche se minorenni sotto i 14 anni”. La misura, si spiega in una nota, è dovuta alla serie di violenze che ha colpito il Paese negli ultimi mesi e che “richiede un approccio più aggressivo, anche verso i minori”. La promotrice della normativa, Anat Berko, parlamentare del Likud del premier Benjamin Netanyahu e vicina al ministro della giustizia Ayelet Shaked, ha difeso la mano pesante verso i minorenni, sottolineando che “a coloro che vengono uccisi con una coltellata al cuore non importa se il bambino ha 12 o 15 anni”. Secondo la legge i tribunali avrenno il diritto di autorizzare la detenzione dei ragazzini tra 12 e 14 anni in istituti speciali, per poi essere tradotti in un carcere minorile quando avranno compiuto 14 anni. Durissime le critiche delle organizzazioni per i diritti umani come B’Tselem, una ong israeliana che documenta regolarmente le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati, convinti che “piuttosto che mandarli in prigione, Israele avrebbe fatto meglio a mandarli a scuola dove sarebbero potuti crescere in dignità e libertà e non sotto occupazione”. In questo modo, ha sottolineato l’associazione, gli viene “negata la possibilità di un futuro migliore”. La legge militare israeliana, che si applica ai palestinesi residenti in Cisgiordania, già prevede il carcere per i 12enni.