Solidarietà di un ergastolano alle vittime della strage di Nizza di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2016 In tanti anni di carcere ho imparato che ti senti meglio se lotti per cambiare il tuo destino o se fai qualcosa per gli altri, invece di stare in cella senza fare nulla a commiserarti e a odiare, a torto o a ragione, le istituzioni. Fino all’ultimo, però, sono rimasto indeciso se scrivere qualcosa su questa orrenda strage avvenuta a Nizza, sia per rispetto delle vittime, sia perché penso che là fuori non interessi a nessuno il parere di un ergastolano. Oggi però mi sono deciso e cerco di farlo con delicatezza e solidarietà verso tutti i familiari colpiti dal lutto provocato da questo folle spargimento di sangue. Conosco molto bene quella città. Ci abita mio padre con la sua seconda moglie dopo che è emigrato dalla Sicilia, dopo la mia nascita. Ci portavo i miei figli in vacanza. Mi ricordo che una volta li ho portati proprio alla Promenade des Anglais, dove è avvenuto il massacro, per vedere i fuochi d’artificio del 14 luglio in occasione dell’anniversario della rivoluzione francese. Forse anche per questo ho provato ancora più sdegno, rabbia e dolore per questa atroce strage di bambini e di persone innocenti che hanno avuto solo la colpa di essere in quel posto nel momento sbagliato. Ormai sono chiuso da un quarto di secolo in una cella e, quando accendo la televisione, non capisco l’odio e la furia bestiale che ci sono al di là del muro di cinta e mi viene subito voglia di spegnerla perché, in fondo, io non faccio più parte della famiglia umana che mi ha maledetto ad essere cattivo e colpevole per sempre. Eppure non ci riesco. E mi accorgo, con dolore, che ormai il mio mondo non esiste più. Al suo posto ce n’è uno che non riconosco e che mi fa paura. Quello che non comprendo proprio è perché ci sono persone in questa terra che ammazzano per motivi religiosi. In fondo, nel mondo c’è posto per tutti, sia per chi crede che per chi si professa ateo, sia per gli indecisi, che per chi crede solo nel momento del bisogno. Una volta si pensava che per risolvere i problemi della società bastasse mettere in carcere le persone pericolose, condannarle a morte o infliggere loro la pena dell’ergastolo. Ma con questi "fuori di testa" cosa fare quando la pena di morte se la danno da soli e magari vanno a messa la domenica o in moschea il venerdì? Non lo so. Tuttavia, so che spargere odio politico e sociale equivale a mettere benzina sul fuoco. Quello che mi da più fastidio sono le dichiarazioni di alcuni politici, anche a livello internazionale, i quali pensano di chiudere le frontiere e risolvere il problema solo ed esclusivamente sbandierando misure di sicurezza draconiane. Penso che i diritti non possano rincorrere la sicurezza, ma debbano precederla con la prevenzione, l’amore e la giustizia sociale. Lo so, in questo modo non si potranno evitare tutte le stragi, perché qualche folle criminale fuori di testa sarà sempre in azione e non sarà sempre possibile fermarlo (come nel caso del giovane di Monaco). Eppure credo che questo sia l’unico modo per limitare i danni. Avere letto che la Norvegia ha scelto, dopo la strage di Breivik all’isola di Utova nel luglio 2011, di mettersi in discussione, in nome dei suoi principi di Stato di diritto, i cui valori sono validi anche per i nemici che lo vogliono distruggere, mi ha fatto pensare che una società avanzata non dovrebbe mai rinunciare alla sua umanità, anche in nome della sicurezza dei suoi cittadini, per dimostrare di essere migliore del male che combatte. Per Sandro Margara, nel giorno dell'ultimo saluto in chiesa di Francesco Maisto Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2016 "Vai e non farti vedere più...", mi dicesti nell'ultimo incontro a casa tua, dopo aver registrato e filmato l'intervista a ruota libera sul passato, sul presente e sul futuro in questo mondo. Capii cosa mi volevi dire... Ecco, ora sono tornato Sandro. Con la dipartita di Sandro perdo molto, anche solo le ultime e sofferte telefonate. Molti perdono, anche tra i detrattori o i farisei plaudenti dei tempi andati. Chi ha amato Sandro conserva una ricca eredità di valori. Hanno detto bene in tanti in questi due giorni: "coraggioso", aggiungo anche appassionato; "faceva cose importanti", ma anche il quotidiano ed apparentemente meno importante lavoro in ufficio; "controcorrente", ma nella linea degli iconoclasti di Magistratura Democratica; "sempre sereno", ma talvolta con la risposta "di picca", come nei due saggi "Repetita (non) iuvant" (come dirci che non siamo d'accordo) e "Leggi ingiuste e razziste"; "il riferimento " dei magistrati e degli operatori per il carcere e la pena, ma anche per la critica di leggi carcerogene ed incostituzionali; "il difensore dei diritti dei detenuti", ma anche della nuda umanità violata. Sandro era generoso e si faceva voler bene anche quando si litigava sulla impostazione di "pezzi" a quattro mani. Amava, e non esagero, la nostra Costituzione e questo sangue fluiva nel suo cuore quando scriveva le ordinanze di rimessione di leggi alla Corte Costituzionale, quando ha curato l'articolato della legge Gozzini, quando ha scritto il nuovo Regolamento penitenziario (poi epurato), quando ha riscritto l'intera Riforma penitenziaria rimasta in cassetti di dignitari di corte. Annoverato, a pieno titolo, e questo lo voglio ricordare soprattutto ai più giovani, nella pattuglia degli "iconoclasti" di Magistratura democratica, (medagliette sul petto, diceva lui) con i suoi tre procedimenti disciplinari alle spalle: quello del 1970, nei per la contestazione dell’avocazione di un processo da parte del Procuratore generale e contro il governo autoritario della magistratura, quello del 1973, per la contestazione delle variazioni tabellari; quello dell’89 per le presunte licenze in eccesso ai semiliberi di Sollicciano, paradossalmente incolpato di mala gestio della legge Gozzini. Sandro, nei 40 anni di vigenza della legge penitenziaria, ha saputo incarnare a 360 gradi il ruolo che il legislatore repubblicano ha assegnato alla funzione del magistrato di sorveglianza in tutte le competenze ed attribuzioni, sia giurisdizionali che amministrative, sia nel carcere che sul territorio. E ciò ha fatto togliendo ai magistrati di sorveglianza l'originario complesso della deminutio, della serie B e, soprattutto, senza la paura del carcere e dei carcerati, come dimostrò nel corso della rivolta di Porto Azzurro. E tuttavia, avendo quotidiana consapevolezza della quota di rischio supplementare connessa alla funzione, come, bandendo ogni retorica parolaia e comportamentale, mi ha testimoniato e insegnato nei mesi della "campagna" della lotta armata sul "fronte delle carceri". Ha vissuto intensamente, sempre in prima linea, tutte le fasi storiche del penitenziario italiano: dalla "galera" (come diceva lui) della povera gente al carcere di massima sicurezza e del terrore, a quello della speranza, a quello dell’emergenza della criminalità organizzata, al carcere balcanizzato, fino al carcere della globalizzazione. I destini o, per meglio dire, le scelte professionali di Margara sono state corrispondenti a una vocazione giudiziaria dai caratteri fortemente definiti in senso sociale, in una volontà di impegno in quei settori dell’ordinamento vivente dove più sofferta, più bruciante è la frizione tra l’ordine costituito e il disordine o lo smarrimento di un’umanità debole, o marginale o ribelle e tuttavia irrecusabilmente partecipe della nostra stessa condizione antropologica, ovvero di un’umanità prepotente nell’appropriarsi di beni spettanti alla collettività. È questo un dato di unanime riconoscimento nella magistratura italiana alla quale ben noto è Margara, pubblicamente elogiato nella seduta del Csm che ne deliberò il collocamento a riposo il 24 giugno del 2002. Il giorno dei fuochi di San Giovanni - mi disse - ma non erano per me". E poi sappiamo bene che ben altro fu che il riposo: la presidenza della Fondazione Michelucci, la missione in Turchia per il controllo dello stato dei carcerati, la funzione di Garante Regionale. La sapienza di Sandro si impara innanzitutto dal contatto diretto; emerge con nettissima evidenza dalla lettura delle numerose pubblicazioni, dalle collaborazioni a riviste (anche di argomento criminologico o penitenziario), dagli incontri di studio, dalle relazioni in convegni e congressi, dalle tante commissioni di studio o di riforma di leggi - a livello ministeriale come a livelli regionale e locale - delle quali ha fatto parte. E che si tratti di una vocazione coltivata con successo è dimostrato proprio dal consenso manifestatogli da ambienti scientifici cui le competenze criminologiche, psichiatriche, mediche, psicologiche, educative, tossicologiche, infettivologiche, pediatriche sono coessenziali, ambienti peraltro esterni al mondo della giurisdizione, che hanno sollecitato e da lui collaborazioni e contributi anche dopo il pensionamento. Il primo magistrato di sorveglianza - effettivo conoscitore della realtà penitenziaria - nella storia d’Italia assurto al vertice dell’Amministrazione penitenziaria e solo per un anno, sei mesi e 21 giorni, perché "licenziato" in tronco da un ministro " sinistro". Al mutamento di stile di quella funzione aggiunse l’apertura al Dap di una fucina di idee e di progetti sfociati poi nelle leggi che portano i nomi di Simeone-Saraceni-Fassone e di Smuraglia, in quella di ampliamento delle misure alternative speciali per portatori di Aids e per genitori con figli minori, fino al decreto di riordino della medicina penitenziaria. La sua preoccupazione di configurare gli strumenti concreti per superare le inattuazioni della legislazione penitenziaria e dare, in particolare, un senso all’affettività dei detenuti in un nuovo Regolamento di esecuzione, ha avuto una versione "purgata" da altri dopo due anni di gestazione ministeriale. Ma ormai montava il clima, ha scritto Sandro, della "cattiva politica, di quella che vede la deriva dei frammenti spezzati delle idee di solidarietà, di attenzione alle varie aree del disagio sociale riassunte nel carcere, che tutte le raccoglie; della cattiva politica che procede alla rottamazione di quelle idee in cambio di un modello nuovo di zecca di città, senza barboni e con galere fiammanti, piene di delinquenti di tutte le dimensioni (ma, quando in galera sono tanti, non si sbaglia: la pezzatura largamente prevalente è quella piccola). Ricordare o dimenticare New York? Non quella ovviamente di Frank Sinatra, ma quella di Rudolph Giuliani". Ecco che torna il magistrato scomodo anche nella lettera di commiato al ministro È stato poi un magistrato coerente intellettualmente, fino a quella testardaggine che gli ha consentito di privilegiare, dal ’75, gli aspetti pratico-operativi delle misure alternative alla detenzione, e la "gestione" delle stesse, evidenziando fin dallo storico convegno De Nicola di Lecce, i rischi delle procedure particolarmente giurisdizionalizzate (la burocratizzazione delle conoscenze e dei riti) e a sottolineare che la giurisdizionalizzazione ("sine metu", secondo il richiamo insistente di Pino Borrè) e la terzietà del giudice non rappresentano sempre un progresso per la tutela dei diritti dei detenuti. E ha contrastato sottilmente altri modelli emergenti contenenti rigurgiti di neoretribuzionismo e di affermazione di prevalenza delle esigenze dei mezzi su quelle dei fini: "È tutta giudiziaria (nel senso, direi, di curiale, corporativa) l’idea che l’intensificazione della giurisdizionalizzazione segni l’intensificazione della tutela". Stare in tanti sulle sue orme sarebbe una buona cosa, perché abbiamo bisogno della semplicità profonda e della genialità delle intuizioni di Sandro. Giurista, magistrato, sociologo, persona colta, si, ma anche marito e babbo. In un modo a noi sconosciuto ora Nora e Sandro sono teneramente a braccetto, come li ricordo in una serata da favola a Trani. A Niccolò e Francesco resterà viva la presenza di un babbo attento, amorevole, ( correva per partita di pallone insieme ai ragazzi suoi), ma soprattutto il rispetto per l'educazione alla libertà. Ciao Sandro, con affetto. Carcere, la riforma nel nome di Margara di Franco Corleone Il Manifesto, 3 agosto 2016 Lunedì abbiamo salutato per l’ultima volta Alessandro Margara, che ha chiuso la sua lunga vita a Firenze, nella stessa chiesa dove due anni fa gli fummo vicini in occasione del funerale della sua adorata compagna di vita, Nora Beretta. Nel dicembre scorso aprimmo un convegno sulla riforma penitenziaria del 1975 con la presentazione della raccolta di scritti di Margara intitolata "La giustizia e il senso di umanità"; una antologia di quattrocento cinquanta pagine sulle questioni del carcere, degli Opg, delle droghe e sul ruolo della Magistratura di Sorveglianza. Nella mia prefazione, significativamente intitolata Il cavaliere dell’utopia concreta, ripercorro la sua straordinaria vicenda umana e politica, dedicata alla costruzione di un modello di pena e di carcere rispettoso della Costituzione, in specie dell’articolo 27 che prescrive il principio del reinserimento sociale del carcerato. La ricchezza del suo pensiero, espresso in tanti saggi, articoli, documenti, proposte di legge, è davvero impressionante. È un volume che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe diffondere in tutte le carceri e farne la base della formazione di tutto il personale. Sandro Margara ha ricoperto molti incarichi e in tutti ha lasciato un’impronta indelebile. Come giudice di sorveglianza è stato un maestro per i suoi colleghi e un mito per i suoi "clienti", i detenuti che sapevano che c’era un giudice per gli ultimi. Ricevette la nomina a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal ministro Giovanni Maria Flick, dopo la tragica e improvvisa scomparsa di Michele Coiro. Quella nomina rappresentò una svolta simbolicamente rivoluzionaria, e accese davvero la speranza dei detenuti e anche di molti operatori. Il suo licenziamento pochi anni dopo, preteso dal potere sindacale e concesso dalla subalternità della politica, dette il segno della restaurazione. Fu poi scelto come presidente della Fondazione Michelucci e infine fu eletto come primo Garante dei detenuti della Regione Toscana. Lasciò quest’ultimo incarico dopo averne definito il carattere e volle che fossi io il suo successore. Ho avuto la fortuna di stargli vicino, di confrontarmi con lui per tanti anni, di collaborare su questioni importanti: voglio ricordare soprattutto la stesura del Regolamento penitenziario del 2000 e la costruzione del Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano. Molti hanno conosciuto e amato l’uomo intelligente, acuto, capace di ironia acuminata accompagnata da coraggio intellettuale e da assoluto rigore morale. La sua intransigenza sui principi non lo portava a posizioni astratte, ma si inverava sempre in proposte concrete e realizzabili. Ricordiamo le sue ultime e disincantate considerazioni avanzate al Convegno su "Il carcere al tempo della crisi", quando affermava: "Forse i progetti sono consentiti solo ai vecchi, che sono gli ultimi giovani (o illusi) rimasti. Non è possibile stare zitti, anche se parlare fosse solo consolatorio". Sono parole che ci interrogano, tutti. Gli Stati Generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Andrea Orlando, hanno coinvolto tante energie in uno sforzo riformatore condiviso. Se si vuole davvero la riforma, anche parziale, si dovrà ripartire dalle proposte di Margara, a cominciare dal diritto all’affettività in carcere, dall’abolizione dell’ergastolo (almeno quello ostativo) e dalla modifica del regime del 41bis per eliminare gli aspetti macroscopicamente contrari ai diritti umani. Alessandro Margara è stato un riformatore convinto. Le disillusioni che ha vissuto, lungi da piegarlo, hanno semmai rafforzato la limpidezza del suo pensiero e delle sue scelte politiche. Tocca a noi essere alla sua altezza e non mollare. Ricordo di Desi Bruno per Alessandro Margara Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2016 Nel mio percorso professionale ho avuto il piacere di apprezzare le straordinarie qualità umane di Alessandro Margara. Da avvocato, l’ho conosciuto personalmente quando era impegnato nella battaglia, quanto mai attuale, per il rispetto dei diritti umani, delle garanzie democratiche, della tutela dei diritti di difesa e delle condizioni di detenzione in Turchia, con particolare riguardo ai reati politici e alla questione curda. Ci incontrammo nel 2002, entrambi componenti di due delegazioni di osservatori internazionali, al rientro da un viaggio in Turchia. Poi, quando ho iniziato a esercitare la funzione di garante dei detenuti, a Bologna, sono stata testimone della stima di cui godeva presso la popolazione ristretta, anche in espiazione di pena per reati gravissimi: dai colloqui effettuati con i detenuti del circuito differenziato dell’Alta Sicurezza emergeva la sua figura di campione della garanzia dei diritti dei detenuti che, nell’esercizio della funzione di magistrato di sorveglianza, si adoperava rigorosamente per l’attuazione del trattamento rieducativo anche nei confronti dei detenuti più scomodi, offrendo concrete opportunità di responsabilizzazione. Infine, lo ricordo come dispensatore di consigli preziosi per il consesso dei garanti che muoveva i primi passi nella forma del coordinamento dei garanti territoriali. Ci mancherà. Cedere carceri storiche per costruire penitenziari nuovi, il progetto del Governo con Cdp italyjournal.it, 3 agosto 2016 Con l'aiuto della Cassa Depositi e Prestiti, lo Stato conta di cedere le carceri storiche per costruire penitenziari nuovi e all'avanguardia. Il governo italiano venderà le sue prigioni storiche, da San Vittore a Poggioreale, a Regina Coeli. L'obiettivo è fare cassa per costruire penitenziari nuovi, che dovrebbero evitare i problemi del sovraffollamento e delle strutture fatiscenti. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha rilevato: "C’è bisogno urgente di un modello di carcere diverso, che esca dall’attuale modello passivizzante, in cui stai in branda e non fai nulla, in attesa che passi il tempo della pena, il presupposto giusto per la futura recidiva. Negli altri Paesi il carcere è studio, lavoro, sport e la recidiva cala". Il progetto di vendere le carceri storiche non è nuovo. Se n’era parlato più volte, ma adesso sembra giunto davvero il momento. C’è infatti il sì non solo da parte del ministero, ma anche della Cassa Depositi e Prestiti, che ha già avuto esperienze simili, dopo aver convertito la caserma "La Marmora" di Torino in residenze e spazi per la città. "Stiamo lavorando al progetto. Dobbiamo superare i moloch ottocenteschi, strutture con costi di manutenzione altissimi per servizi come lo smaltimento dei rifiuti o il riscaldamento. Edifici che, anche fisicamente, con lo schema di un corpo centrale e dei raggi, puntano solo alla sicurezza attraverso una segregazione che spinge i detenuti alla passività, senza alcuna logica riabilitativa". Una dozzina i penitenziari che potrebbero essere alienati. Cominciando proprio da San Vittore di Milano, che attualmente ospita 750 detenuti, Regina Coeli a Roma, che all’interno ha 624 ospiti, e Poggioreale a Napoli, con i suoi 1.640. San Vittore è stato costruito nel 1879, all’epoca in una zona periferica del capoluogo meneghino; Regina Coeli sorge in un ex convento costruito a metà del 1600 e diventato prigione nel 1881; Poggioreale è stato costruito nel 1914. Nessuno dei tre, oggi, risponde alle esigenze di corretta detenzione. Le mura, che oggi si trovano in zone centrali, possono diventare molto preziose ritrasformandole. Potrebbero diventare residenze private, spazi collettivi ma anche alberghi. Ma come collaboreranno Cdp e ministero? Il secondo cede le tre strutture e sottoscrive un contratto per la costruzione di nuove carceri, che la Cassa realizza. Il ministero ne diventa proprietario. Cdp, cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e relativa ristrutturazione, si potrebbe quindi occupare della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Sarebbe Cdp la proprietaria dei penitenziari storici. È invece un ‘nò secco all’ipotesi di carceri nelle mani dei privati. Il ministro Orlando "sono 345 i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione" Ansa, 3 agosto 2016 Sono 345 "i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione in carcere, di cui è possibile fornire una distinzione in base al grado di pericolosità". Lo ha riferito il ministro della Giustizia Andrea Orlando al Comitato Schengen della Camera presieduto da Laura Ravetto. Il Guardasigilli ha aggiunto che "i dati acquisiti attraverso il monitoraggio in corso mostrano come la situazione in Italia non sia così allarmante come quella di altri Paesi europei". Dei 345 detenuti, "ce ne sono almeno 93 - per i quali non sono emersi segnali concreti di radicalizzazione - che rimangono sospettati e sottoposti ad osservazione. Novantanove, pur non ancora classificati come radicalizzati, hanno manifestato atteggiamenti di approvazione in occasione degli attentati di Parigi, del Belgio e di Dacca". "Dei totali 345 detenuti - ha ricordato ancora Orlando - 153 sono classificati a forte rischio di radicalizzazione, di cui 39 sottoposti al regime detentivo di Alta Sicurezza, essendo imputati per reati di terrorismo". I detenuti che provengono da Paesi di fede musulmana "sono complessivamente 10.500 e sono 7.500 quelli che la professano". "Per quanto la situazione non sia allarmante - ha ribadito il titolare del dicastero di via Arenula -, non possiamo permetterci di sottovalutare nulla, perché il carcere è un luogo dove si realizzano forme di radicalizzazione rapida e perché si tratta di soggetti vulnerabili. In carcere è alto il rischio che si diffondano forme di esclusione e isolamento. Sono queste le condizioni su cui il radicalismo fa leva per trasformare l'isolamento in senso di vendetta e odio contro la società". Il Garante nazionale dei detenuti alla Camera, incontro con Laura Boldrini Dire, 3 agosto 2016 "Abbiamo parlato con la presidente dell’importanza dell’istituzione di una funzione di garanzia che ora c’è anche in Italia per tutte le persone private della libertà, condividendo insieme sia l’ampiezza del mandato sia il segnale positivo che il Paese si sia dotato di un’organizzazione di questo genere. Oltre ad essere un’organizzazione di controllo, infatti, l’Autorità Garante dei detenuti deve anche promuovere una diversa cultura rispetto alla privazione della libertà". Lo ha detto il presidente dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, al termine dell’incontro a Montecitorio con la presidente della Camera, Laura Boldrini. Rispetto al Rapporto di Antigone sulla situazione delle carceri italiane, recentemente presentato alla Camera, Palma ha poi commentato: "Il Rapporto di Antigone riguarda in particolare la situazione del carcere e della detenzione relativamente a dati che anche il ministero della Giustizia aveva reso fruibili. Con la presidente Boldrini abbiamo parlato di quello perché il carcere è sempre un tema di riferimento, ma abbiamo parlato anche delle altre aree perché noi ci occupiamo della privazione della libertà nel suo complesso: ci sono le stanze della polizia, le stanze dei carabinieri, i trattamenti sanitari obbligatori e soprattutto la situazione di tutti i migranti- ha concluso- privati della libertà o rinviati nei propri Paesi". Salute in carcere: un detenuto su due assume farmaci per problemi psichiatrici di Marco Sarti linkiesta.it, 3 agosto 2016 L’associazione Antigone fotografa lo stato di salute dei nostri istituti penitenziari. Torna a crescere il numero dei detenuti e degli stranieri (sono 39 gli islamici radicalizzati). Ci sono 43 bambini rinchiusi con le proprie madri. In sei mesi già 23 suicidi, ma mancano psichiatri e psicologi. Nel carcere di Sondrio sono rinchiusi 40 detenuti, ma la capienza regolamentare ne prevede al massimo 29. Nella casa di reclusione di Augusta i problemi all’impianto idrico garantiscono, durante i mesi estivi, solo tre ore di acqua al giorno. Nel carcere di Frosinone, invece, l’acqua manca del tutto. E in alcune sezioni è stata denunciata la presenza di topi e insetti. Ci sono solo sei educatori nella casa circondariale di Bologna, ma secondo quanto previsto in organico dovrebbero essere almeno il doppio. Da almeno due anni, infine, a Castelfranco Emilia è stato bloccato il progetto di lavanderia industriale che occupava i detenuti. Il motivo? Si è rotta la caldaia. Pillole dalle carceri italiane. Episodi raccontati dagli osservatori dell’associazione Antigone, che nei primi sei mesi dell’anno hanno potuto effettuare una cinquantina di visite negli istituti penitenziari del nostro Paese. Se le situazioni rilevate sono spesso problematiche, da Antigone assicurano che rispetto agli anni passati molto è migliorato. Restano evidenti criticità, certo. Eppure dal 30 novembre 2010 - quando l’Italia raggiunse il massimo storico della popolazione detenuta pari a 69.155 unità - si è registrato un importante cambiamento. Oggi i detenuti sono circa 54mila. Dopo la condanna da parte della Corte Europea dei diritti umani per le condizioni degradanti derivate dal sovraffollamento carcerario, l’Italia è riuscita a ridurre il numero della popolazione carceraria. Eppure, denuncia Antigone, nell’ultimo anno i detenuti sono tornati, seppure di poco, a crescere. Di 1.318 unità. Un trend preoccupante, che a lungo andare potrebbe riportarci alla condizione di partenza. Pochi giorni fa l’associazione ha presentato a Montecitorio il pre-rapporto 2016 sulle condizioni di detenzione. Un documento articolato, che fornisce una dettagliata fotografia degli istituti penitenziari d’Italia. Un aspetto interessante riguarda la presenza dei detenuti stranieri. Al 30 giugno scorso erano 18.166, pari al 33,5 per cento della popolazione reclusa. Uno su tre. Nel giro di un anno sono cresciuti di quasi mille unità (nel giugno 2015 erano 17.207). "Il tutto - si legge nel documento - nonostante il movimento migratorio, seppur con un saldo positivo rispetto all’anno precedente, presenti una flessione rispetto agli anni precedenti". Intanto cambia anche la composizione di questa componente. Fino al 2015 la nazionalità più rappresentata era quella rumena, pari al 16,8. Oggi sono di meno. "Si respira un minor pregiudizio nei loro confronti e conseguentemente i loro detenuti perdono il primato della rappresentatività straniera in carcere a favore della componente marocchina". Il 17 per cento delle persone rinchiuse in carcere viene proprio dal Marocco. Tra le altre realtà più rappresentate ci sono albanesi (13,7 per cento), tunisini (11,1 per cento) e nigeriani (4,2 per cento). Il dato degli stranieri è inevitabilmente legato a quello della fede religiosa. Se quasi 30mila detenuti si professano cattolici, gli islamici sono 6.138. Un dato sottostimato, probabilmente. È facile che molti abbiano deciso di non dichiarare la propria religione, andando a ingrossare le fila delle 14.235 persone di cui non è stata rilevata l’appartenenza religiosa. Intanto tra gli islamici detenuti, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 39 i "radicalizzati". Su un totale di quasi 300 detenuti sotto particolare osservazione dopo le ultime, tragiche, vicende internazionali. Scorrendo i numeri, colpisce il dato dei suicidi. Il documento cita il dossier "morire di carcere" di Ristretti Orizzonti, che ha segnalato - solo nei primi sei mesi dell’anno - già 23 suicidi all’interno delle nostre carceri. In tutto il 2015 erano stati 43. Ci si toglie la vita impiccandosi, nella quasi totalità dei casi. Ma sono stati registrati anche un soffocamento e un avvelenamento. I due detenuti più giovani che si sono uccisi avevano 25 anni, erano rinchiusi a Siracusa e Reggio Emilia. Il più anziano aveva 72 anni, si è tolto la vita nel carcere di Perugia. Discorso a parte per le 39 detenute madri - 24 di loro sono straniere - con figli al seguito. Dal documento dell’associazione Antigone emerge che oggi nelle carceri italiane sono rinchiusi 43 bambini sotto i tre anni, insieme alle proprie mamme. Un altro dato in crescita. Un anno fa gli istituti penitenziari ospitavano 33 detenute con 35 figli piccoli. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 23 suicidi. Ci si toglie la vita impiccandosi, nella quasi totalità dei casi. Ma sono stati registrati anche un soffocamento e un avvelenamento. I due detenuti più giovani che si sono uccisi avevano 25 anni, erano rinchiusi a Siracusa e Reggio Emilia. Poco raccontato è il dato relativo alla salute mentale dei detenuti. Una realtà che troppo spesso viene dimenticata da report e statistiche. Eppure il tema è tutt’altro che secondario. "Rispetto a chi è nel sistema penitenziario - si legge nel rapporto - si calcola che oltre il 50 per cento dei detenuti assume terapie farmacologiche per problemi psichiatrici". Secondo quanto prevede la legge, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di "Osservazione psichiatrica" per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e "stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario". Gli osservatori di Antigone lamentano una situazione "molto critica". Nelle oltre 50 visite avvenute dall’inizio dell’anno, è stata rilevata la presenza di letti di contenzione e "celle lisce", senza alcun tipo di mobilio, non consentite dal regolamento penitenziario. Anche se in nessun caso, specifica l’associazione, i letti di contenzione erano in uso al momento dell’ispezione. In particolare il rapporto segnala le situazioni di Roma Rebibbia, "che, nell’unica singola, ha un letto per praticare la contenzione", e del Reparto Sestante del carcere di Torino, provvisto "di una "cella liscia" dove vengono collocati pazienti in acuzie". In generale il documento racconta delle pessime condizioni delle celle nelle strutture sanitarie psichiatriche. "A Verona-Montorio non ci sono neanche i bagni, a Livorno l’armadio è posto in corridoio anziché nella cella, mentre a Firenze Sollicciano è del tutto assente, così come altre suppellettili al di fuori del letto, tavolo in muratura e sgabello mobile". E ancora, vengono segnalati indebiti trasferimenti nei reparti psichiatrici. Procedure a volte poco trasparenti: "In generale si ha la percezione che questi reparti vengano usati come "valvole di sfogo" per ospitare (e contenere) detenuti problematici - ma senza patologie psichiatriche conclamate - che hanno problemi di convivenza nelle sezioni ordinarie". In generale è stato rilevato un carente numero di operatori sanitari specializzati. In carcere mancano, cioè, psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Intercettazioni, ora i pm rischiano (almeno un po’) di Errico Novi Il Dubbio, 3 agosto 2016 Sì del Senato al divieto di trascrivere le telefonate che violano inutilmente la privacy. La stretta sulle intercettazioni c'è. "Il pm che non rispetta l'obbligo di vigilare sugli ascolti rischia l'illecito disciplinare", spiega al Dubbio Felice Casson, senatore del Pd, ex pm e relatore della riforma. Un passo avanti verso la disciplina del più delicato tra gli strumenti d'indagine: può essere definito così il testo approvato all'una meno venti di lunedì notte dalla commissione Giustizia del Senato. Si tratta della delega sulle intercettazioni contenuta nel più ampio disegno di legge che riforma il processo penale. Ddl che la commissione presieduta da Nico D'Ascola ha definitivamente licenziato, con tanto di mandato ai relatori: Casson, appunto, e Giuseppe Cucca, sempre del Pd. Il testo comprende anche una delega sulla riforma dell'ordinamento penitenziario e le ormai celebri modifiche sulla prescrizione. Domattina si va in aula, con la relazione e l'inevitabile rinvio della discussione all'8 settembre. "Ma rispetto all'articolato uscito da Montecitorio il lavoro fatto finora in Senato è stato tutt'altro che notarile", osserva D'Ascola, "il testo era complesso, molto difficile, e lo abbiamo integrato in diversi punti: ci sarà modo di apprezzare la quantità e la qualità degli interventi compiuti". Rischi per i pm che violano la privacy - Nel fotofinish di lunedì notte si è sciolto dunque il nodo delle intercettazioni con un testo frutto del confronto tra Pd e Ncd. Sancito l'obbligo per i pm di evitare che gli agenti di polizia giudiziaria trascrivano le conversazioni "non pertinenti all'accertamento delle responsabilità per cui si procede", o che riguardino fatti e persone estranei alle indagini. Quel materiale resterà solo sui "nastri", niente brogliacci, e sarà semplicemente catalogato con numeri progressivi. Successivamente si procederà alla distruzione di queste registrazioni ritenute irrilevanti: lo si farà davanti al gup nella cosiddetta "udienza filtro", già prevista dall'articolo 268 del codice di procedura penale. Ma è evidente che la selezione e l'esclusione degli ascolti che violano inutilmente la privacy dovrà avvenire prima. E che a vigilare sulla selezione sarà il pm che conduce le indagini. E questo, come spiega Casson, "è per il magistrato inquirente un obbligo: se non lo rispetta, il procuratore capo può ravvisare l'illecito e trasmettere gli atti ai titolari dell'azione disciplinare: il ministro della Giustizia e il procuratore generale presso la Cassazione". È vero che già esistono specifiche fattispecie di reato per chi viola il segreto d'indagine: ma i rischi per il magistrato introdotti dalla delega sono effettivamente delle novità. "Paletti rigidi, che abbiamo indicato a tutela della riservatezza, senza limitare lo strumento d'indagine", dice Casson. Dalle circolari a una legge vera - Si tratta ancora della delega, cioè del perimetro entro cui il governo dovrà poi scrivere la legge vera e propria. Ma l'indicazione è specifica, e va oltre le circolari diffuse nei mesi scorsi da molti procuratori capo, poi riordinate dalla recente delibera del Csm. "Prima erano 3, poi sono diventate 4, poi 19: ma quelle circolari", osserva ancora Casson, "non coprivano comunque tutto il territorio nazionale. E soprattutto non costituivano un obbligo giuridicamente vincolante: noi lo abbiamo sancito". Significativo che proprio l'ex pm Casson precisi in modo così chiaro il peso delle norme approvate in Senato. Ora serve il sì della Aula, l'ulteriore via libera della Camera e poi i decreti delegati: ma se le nuove regole diventeranno legge sarà quasi impossibile che ai giornali arrivino intercettazioni invasive e prive di valore processuale: "sputtanopoli" subisce un duro colpo. In ogni caso "il ministro Orlando si confronterà con editori e direttori di giornali prima di scrivere i decreti", spiegano da via Arenula. La polemica di M5s su trojan e cimici - Precisata meglio la "norma D'Addario": "È punito chi acquisisce dichiarazioni o immagini della persona offesa al solo fine di danneggiarne la reputazione", ma non vale per chi esercita il diritto di difesa e il diritto di cronaca. Polemiche urlate dei cinquestelle, Mario Giarrusso in testa, sull'uso delle intercettazioni ambientali, quelle con le "cimici" tradizionali, e sulle regole per la captazione con i "trojan", i virus installati dagli inquirenti sui telefonini degli indagati. Sdoganato di recente dalla Cassazione, il sistema trasforma in vere e proprie microspie audio-video gli stessi cellulari dei presunti criminali. Ai grillini Cappelletti e Giarrusso non piace che le informazioni così acquisite "possano essere utilizzate anche in procedimenti diversi" solo nel caso dei delitti più gravi. E che per gli altri reati i trojan possano entrare in gioco anche nel domicilio privato solo se "vi si stia svolgendo l'attività criminosa". Con un notevole salto logico, Giarrusso parla di "bavaglio". Casson liquida: "Giarrusso non ha letto bene il testo". Legnini (Csm): "sulle intercettazioni decide il pm, ma ora rafforzata la privacy" di Marco Ventura Il Messaggero, 3 agosto 2016 Bene la riforma del processo penale e "un passo avanti" la formulazione che la Commissione Giustizia del Senato ha definito per l’utilizzo delle intercettazioni, il vero nodo sciolto a Palazzo Madama dopo una notte di trattative. È soddisfatto Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, che saluta l’approvazione del testo di revisione del processo penale e la delega sulle intercettazioni come "un fatto positivo, anzitutto perché si sblocca una riforma molto importante per la giustizia penale". Come valuta complessivamente il lavoro sulla riforma svolto da governo e Parlamento? "Volentieri do atto al Ministro Orlando, alla Commissione Giustizia del Senato e ai relatori di avere raggiunto un’intesa utile su un testo condiviso per una riforma estesa del rito penale. Mi auguro che l’aula possa ora varare al più presto il provvedimento e che dopo la terza lettura della Camera siano celermente emanati i decreti delegati". È superato il contrasto tra politica e magistratura sul tema delle intercettazioni e, quindi, delle prerogative dell’accusa? "Il testo sulle intercettazioni soddisfa la necessità di tutelare l’utilizzo irrinunciabile di questo strumento riaffermando da un lato la centralità del pubblico ministero, dall’altro una maggiore protezione del diritto alla privacy. E questa duplice attenzione fa sì che per la prima volta una materia così delicata non venga affrontata in un clima di contrasto fra magistratura e Parlamento. Inoltre viene preservato il diritto di cronaca". Nel complesso quindi un buon testo… Con quale risultato? "L’obiettivo dev’essere quello di ottenere finalmente, con le numerose norme contenute nel provvedimento, un processo penale celere ed efficace, rispettoso dei princìpi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso". C’è chi attribuiva una eccessiva discrezionalità ai pm nella gestione delle intercettazioni e delle relative trascrizioni… "Il testo della delega sulle intercettazioni è molto migliorato rispetto a quello uscito dalla Camera, nel senso che la delega è stata rafforzata, è più articolata, meno generica. Proprio quella genericità era stata oggetto di osservazione critica da parte del plenum del Csm in sede di espressione del parere previsto dalla legge. Il ruolo del pm è rafforzato e lo è nella direzione di un esercizio responsabile delle sue prerogative in modo da poter coniugare l’obbligatorietà dell’azione penale con tutti i princìpi costituzionali coinvolti, compreso il diritto alla riservatezza personale per comunicazioni irrilevanti rispetto alle indagini penali". I giornalisti avranno meno da scrivere, visto che alcune trascrizioni non ci saranno più? "Nel testo, leggo con soddisfazione, è stato anche precisato che il diritto di cronaca è tutelato e va esercitato sulla base delle decisioni e dei princìpi elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una disposizione importante che mi sembra sia stata valutata non negativamente anche dalla Federazione nazionale della stampa, che pure ha sollecitato un ulteriore confronto nella fase di stesura del decreto delegato". I suggerimenti del Csm forniti con le linee guida sull’utilizzo delle intercettazioni hanno rappresentato una dimostrazione di buona volontà anche della magistratura e questo ha favorito una soluzione di compromesso? "Bisognerà attendere l’approvazione definitiva del testo e poi il decreto delegato che dovrà tradurre in norme puntuali i princìpi di delega. Solo allora potremo dare una valutazione compiuta. Mi preme però sottolineare che dopo anni di conflitti tra forze politiche e tra queste e la magistratura, si perviene alla definizione di norme e princìpi che accorciano la distanza tra i diversi punti di vista. E penso che il Csm abbia dato un contributo importante, nell’interesse della giustizia e quindi anche dei cittadini onesti e dell’autorevolezza della magistratura stessa". È soddisfatto anche dei limiti posti all’uso dei virus, i trojans, per strappare le informazioni attraverso il sistema informatico? "Il trojan è uno strumento molto invasivo. Credo che si sia arrivati a una soluzione positiva, che oltretutto recepisce l’orientamento della Corte di Cassazione definito con una recente importante sentenza". Bene quindi certe limitazioni? "È stato giusto prevederne sempre l’utilizzo per i reati gravi, quelli di terrorismo e mafia, così come ritengo sia stato giusto individuare limiti e garanzie per un suo utilizzo generalizzato". Alla luce di questo risultato, quale importanza ha avuto il decalogo del Csm e in estrema sintesi quali sono i criteri che principalmente lo caratterizzano? "Il governo autonomo della magistratura si è fatto carico di individuare la più corretta applicazione della normativa vigente, elaborando princìpi equilibrati e preziosi e recependo le importanti circolari delle procure di Roma, Torino, Napoli, Firenze e altre. In questo modo ha inteso mettere a disposizione di tutte le procure italiane princìpi di buone prassi e spero abbia aiutato a trovare una soluzione legislativa giusta. Penso che abbiamo fatto bene a emanare quella risoluzione, utile per oggi e per il futuro". Qual è il nocciolo di quei princìpi? "Sono stati indicati molteplici princìpi. Ne sottolineo due: primo, la centralità del pm nella selezione delle conversazioni rilevanti, senza deleghe in bianco alla polizia giudiziaria, con l’individuazione delle procedure di stralcio e distruzione di quelle irrilevanti e, secondo, la definizione di precise misure organizzative per la custodia e la gestione delle conversazioni. In questo modo si ottiene di rendere più agevole l’individuazione della catena di responsabilità di ciascuno dei partecipanti, a diverso titolo, al procedimento. Più in generale lo sforzo che rintraccio, sia nella risoluzione, sia nei princìpi di delega approvati, è quello di valorizzare la funzione del pm ma anche quella del difensore". In Senato i 5 Stelle, a cominciare da Mario Michele Giarrusso, attaccano e dicono che in realtà il pm ne esce indebolito e che viene neutralizzato lo strumento informatico che trasforma lo smartphone in microfono ambientale… "Non voglio e non posso entrare nel dibattito politico o comunque tra forze politiche, e rispetto le opinioni di ciascuno. Mi limito a rilevare che la nostra posizione espressa prima col parere sul disegno di legge e poi con le linee guida, è stata quella di non accettare alcuna limitazione all’utilizzo di questo indispensabile e irrinunciabile strumento di indagine penale, cioè le intercettazioni, che è tanto più necessario con la massiccia diffusione e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Abbiamo tenuto fermo questo principio e affermato al contempo che è possibile contemperare questa necessità con il rispetto dei diritti delle persone, indagate e non". Vedremo però meno intercettazioni sui giornali? "In nessun altro paese del mondo accade ciò che è accaduto con troppa frequenza in Italia, cioè che persone estranee alle indagini o fatti irrilevanti per l’accertamento dei reati finiscano per essere resi pubblici in contrasto con le prescrizioni emanate per esempio dal garante della privacy. Mi piacerebbe vivere in un paese, e mi auguro che alla fine ci si arriverà, nel quale a preoccuparsi delle intercettazioni e della loro pubblicazione siano i delinquenti e non le persone per bene". Clandestini, mancato rimpatrio senza pena aggiuntiva per condotte di particolare tenuità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2016 Giudice di pace di Ravenna - Sentenza 7 giugno 2016 n. 247. No alla sanzione penale, in aggiunta a quella amministrativa dell'espulsione, per il clandestino incensurato che non abbia ottemperato all'ordine di espulsione del questore se nel complesso la condotta posta in essere ha un "minimo disvalore criminale". Lo ha stabilito la Sezione penale dell'Ufficio del Giudice di pace di Ravenna, con la sentenza 7 giugno 2016 n. 247, stabilendo il non luogo a procedersi nei confronti di un extracomunitario per la "particolare tenuità del fatto". L'extracomunitario era imputato del reato previsto dall'articolo 14, comma 5 ter, del Dlgs 286/1998, perché in violazione dell'ordine di rimpatrio impartito dalla questura di Forlì si era trattenuto abusivamente in Italia. Ed il pubblico ministero ne aveva chiesto la condanna alla pena di 15mila euro di multa. La sentenza ricorda che la Corte Costituzionale, nel delineare la legittimità dell'intervento del diritto penale complementare, ha chiarito che "la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno nel territorio dello Stato è di fatto connessa alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in materia di immigrazione". E le relative ipotesi, commissive ed omissive, configurano fattispecie di reato di pericolo astratto "in cui il legislatore ha inteso anticipare la soglia di punibilità del bene giuridico tutelato". In questo senso il giudice è comunque tenuto "a valutare in concreto l'offensività della condotta ed a verificare la sussistenza, o meno, dei presupposti sottesi alla particolare tenuità del fatto". Nel caso specifico secondo il giudice di pace tali presupposti esistono. Per quanto attiene al giudizio sull'offensività della condotta: "il fatto lede in misura minima il bene giuridico primario della sicurezza pubblica tutelato dalla norma". L'extracomunitario, infatti, era stato fermato nel corso di una ordinaria attività di controllo mentre era alla guida di un ciclomotore. E al di là della "modesta condotta di mostrare ai militi documenti di altro connazionale (carta di circolazione del motociclo, permesso di soggiorno e codice fiscale) pur riferendo "...di sua sponte che non era titolare di patente di guida poiché mai conseguita...", non sono emersi ultronei elementi tali da far ritenere che il medesimo sia dedito ad attività criminali, risultando, di converso, privo di precedenti penali e di polizia, oltre che coniugato ed operaio". Inoltre aveva complessivamente tenuto un contegno "non ostativo". Tali aspetti, prosegue la sentenza, vanno considerati al fine di valutare la "giusta ponderazione degli interessi sottesi alla condotta illecita, tenuto conto dell'interesse primario sancito dalla direttiva 2008/115/CE, costituito dal celere rimpatrio del cittadino non comunitario". In definitiva, il quadro ordinamentale "permette di ritenere primaria l'esecuzione della sanzione amministrativa rispetto a quella penale, allorché, così come nel caso in esame, la concreta offensività del reato di pericolo resti circoscritta nella semplice cornice delle ipotesi di cui all'art. 13, comma 2, lettere a) e b), ossia della mera irregolarità amministrativa". Sentenza Eternit, il principio della "ne bis in idem" ha un valore trasversale di Diego Conte e Alessandro Foti Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2016 È applicabile alle vicende tributarie il principio del ne bis in idem, secondo cui per vietare la duplicazione dei procedimenti e sanzioni penali impone di guardare al fatto storico considerato dal giudice, mentre rende sostanzialmente irrilevanti le qualificazioni giuridiche dello stesso? Questo il principio di diritto espresso nella recente sentenza della Corte Costituzionale 200/2016 sul cosiddetto caso Eternit. Una vera e propria pietra miliare in materia ma anche un passaggio obbligato per chi intende comprendere i limiti del principio nelle sue varie declinazioni, ivi comprese quelle tributarie, senza perdersi nella babele giurisprudenziale che si sta formando: proprio la natura di "principio di civiltà giuridica" irrinunciabile sia a livello nazionale che internazionale ha reso il ne bis in idem oggetto di numerose pronunce dai tratti talvolta contrastanti o, comunque, scarsamente intelligibili. Nel caso di specie, i quesiti posti alla Corte erano due. L’articolo 649 Ccp, che vieta la duplicazione di processi penali aventi a oggetto il medesimo "fatto", deve essere interpretato con riferimento alla sola condotta realizzata dall’imputato (come pareva al rimettente discendere dalla giurisprudenza Cedu) o la valutazione deve essere più ampia e comprendere anche gli eventi che da esso conseguono, per il che sarebbero possibili più processi se a unica condotta conseguono più eventi? La stessa disposizione può essere applicata nel caso di concorso formale di reati, ovvero nel caso in cui vengano intentati più processi aventi a oggetto la medesima condotta ma molteplici violazioni penali? La duplice risposta della Corte è frutto dello stesso principio: ciò che rileva è esclusivamente il complessivo fatto storico valutato nei due processi e non le sue implicazioni giuridiche, per cui, da un lato, non può attribuirsi rilevo alla sola condotta del soggetto agente ma occorre considerare tutti i fatti e gli eventi che ne scaturiscono; dall’altro, la possibilità di applicazione dell’istituto del concorso formale di reati non è ostativa all’operatività del ne bis in idem laddove i fatti storici sono medesimi. Interessanti sono i possibili effetti in materia tributaria. In linea generale è possibile affermare che la necessità di invocare il principio del ne bis in idem è spesso esclusa dalla stessa normativa nazionale: vi sono, infatti, norme volte proprio a scongiurare la duplice applicazione di sanzioni penali e tributarie per i medesimi fatti (Dlgs 74/2000). D’altro canto, affrontare la questione esclusivamente da un punto di vista strettamente sostanziale e, cioè, delle sanzioni concretamente comminate significa applicare solo parzialmente il principio del ne bis in idem elaborato in ambito internazionale: infatti, secondo la giurisprudenza europea, tale divieto non riguarda soltanto l’aspetto strettamente sanzionatorio ma anche ed innanzitutto quello processuale, tutelando il diritto del cittadino a non vedersi assoggettato a plurimi procedimenti giudiziari per lo stesso fatto. Da questo punto di vista è del tutto evidente che norme come quelle di cui agli articoli 19 e 21, Dlgs 74/2000 non valgono a scongiurare la lesione dei diritti dei contribuenti, proprio perché inidonee a evitare la duplicazione dei processi. In altre parole, se è possibile attribuire natura penale alla sanzione amministrativo-tributaria sulla base dei cosiddetti criteri Engel elaborati dalla Cedu (sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi), non basta evitare l’esecuzione di una doppia sanzione penale per realizzare il ne bis in idem, ma occorre concretamente paralizzare il secondo processo. In quest’ottica la sentenza della Corte Costituzionale non può che essere letta con estremo favore poiché, attribuendo rilievo esclusivamente ai fatti storici oggetto di processo, pone nuovamente l’accento sulla necessità di applicazione trasversale del principio del ne bis in idem. Un principio sacrosanto in uno stato di diritto. Vigevano (Pv): morto detenuto dimagrito di 40 chili, aveva rifiutato la dentiera La Repubblica, 3 agosto 2016 Il 60enne malato di tumore al polmone era stato operato un anno fa. La drammatica protesta dopo che i giudici gli avevano negato la sospensione della pena. È morto nella notte tra lunedì e martedì in ospedale il 60enne condannato all'ergastolo e detenuto in carcere a Vigevano (Pavia), operato per un tumore al polmone e al quale più di un anno fa i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Milano avevano negato la sospensione della pena o una perizia per approfondire il suo stato di salute dato che, in meno di un anno, aveva anche perso una quarantina di chili in quanto aveva rifiutato la dentiera compromettendo la sua capacità di alimentarsi. A dare la notizia della morte dell'uomo è stato il suo legale, Andrea Dondè, che ha spiegato che il suo assistito ha subito l'intervento a maggio quando oramai la malattia era in fase avanzata e che le sue condizioni di salute sono rimaste critiche. Un anno prima, il 10 aprile del 2015, l'avvocato aveva chiesto ai giudici una perizia sulle condizioni di salute e la sospensione della pena per il detenuto, che, in meno di un anno, aveva perso 40 chili. Richiesta però respinta con un'ordinanza secondo la quale mancavano le condizioni di incompatibilità tra lo stato di salute del 60enne e il carcere. Nel provvedimento si attribuiva infatti il dimagrimento al rifiuto dell'uomo, con problemi piscologici, non solo di mettere una protesi dentaria, ma anche di adeguarsi ad altre prescrizioni mediche, come l'astensione dal fumo, consigliata dai medici dai quali era "costantemente monitorato" anche perché era affetto da una broncopneumopatia, una malattia progressiva che causa problemi respiratori. Per la vicenda l'avvocato Dondè critica, non tanto la magistratura ma "le strutture sanitarie all'interno delle carceri che operano senza controlli adeguati". Genova: lavori socialmente utili al posto del carcere, scontro Procura-Inail di Stefano Origone La Repubblica, 3 agosto 2016 Allarme del Procuratore Capo Cozzi: "Attività gratuita, non è un impiego che richiede un'assicurazione". Per l'Inail, l'istituto introdotto per i reati puniti con una pena non superiore a 4 anni (guida sotto l'effetto di alcol con incidente senza feriti, piccolo spaccio, omissione di soccorso, danneggiamento aggravato, furtarelli) che prevede lavori di pubblica utilità - come la manutenzione del verde - per evitare un processo, non è opera di volontariato, ma un impiego che comporta un'assicurazione presso l'ente. Di diverso avviso la Procura, che ha chiesto un intervento del ministro della giustizia Andrea Orlando. "Il lavoro è gratuito, questa posizione rischia di obbligare le piccole associazioni dove prestano l'opera i soggetti, a sostenere costi impossibili e di conseguenza non sarebbero più disponibili", lancia l'allarme il procuratore capo Francesco Cozzi. La messa alla prova è in pericolo. Entrata in vigore nel 2014 con la legge 67 voluta dal ministro Orlando, a Genova è stata subito un successo, tanto che in regioni come il Lazio, l'Emilia e la Campania si contano un minore numero di applicazioni. "Nella mia direttiva è prevista di estenderla anche al reato di lesioni colpose stradali senza le aggravanti - come l'abuso - sopra i 40 giorni di prognosi perché può essere uno strumento di deflazione". Una misura svuota-carceri? "Più che svuotare dopo, non riempiamo. Ci sono pene alternative che sono l'affidamento in prova quando uno ha una condanna, ma arrivano dopo il processo. Con la messa alla prova si previene, non si fa il processo, ma certo presuppone un riconoscimento di responsabilità". Inail mette i paletti. "È in atto un contrasto, ma il ministero è già intervenuto perché è una cosa contraddittoria - precisa Cozzi. Normalmente la persona è assicurata con la stessa assicurazione che ha l'associazione con i propri soci, oppure l'amministrazione ne fa una ad hoc, anche di tipo privatistico, come quelle che si possono fare, per esempio, con una badante se viene una volta ogni tanto. L'Inal invece sulla base di un'interpretazione che noi non condividiamo, ritiene che sia obbligatoria l'iscrizione di una posizione assicurativa presso l'istituto. Questa cosa rischia di imporre anche degli adempimenti, di tipo di personale, di contabilizzazioni, presso enti e associazioni minime, che non ce la fanno economicamente a sostenere certi costi e quindi non sarebbero più disponibili. Noi ci siamo resi conto che questo potrebbe rappresentare un ostacolo e abbiamo invitato il ministero a un tavolo di confronto in modo da definire questa questione. Trattandosi per noi di un'attività basata su fondo volontario, dove non c'è un rapporto di lavoro, non sussiste l'obbligo di tipo assicurativo". I dati della messa alla prova su Genova e Savona (quest'ultima incide circa un decimo), dicono che nel primo anno "si sono concluse 106 messe alla prova, mentre l'anno dopo, fino a pochi giorni fa, ne sono state emesse 520. Per avere un riferimento, a giudizio vengono mandati al tribunale monocratico, quindi per tutti i reati, anche per quelli che non la prevedono, in circa 5.500. Quindi quel 520 è come dire che abbiamo tolto una fetta di processi e condanne, in primo, secondo e terzo grado". Cozzi snocciola altri dati. "Al 5 luglio, oltre a quelle finite, abbiamo 450 istanze in attesa di fissazione udienza e già ritenute ammissibili, sono nuove diciamo; altre 440 assegnate con predisposizione di un programma di trattamento e 340 già concesse, che devono partire o già partite. Questa situazione con Inail ci ha preoccupato perché questo è un istituto importante perché toglie lavoro ai giudici. I dati sono un segno incoraggianti perché nelle nostre indicazioni generali c'è un circuito penale sanzionatorio che accanto alla pena del carcere prevede delle pene alternative fatte di contenuto, non di "vuotaggine". Sono il segno della certezza della pena anche se paradossalmente non c'è pena. In carcere devono andarci i pericolosi e devono uscire in maniera progressiva, quando si dimostrano meno pericolosi. Per le altre cose, minori, il lavoro "volontario", ma in realtà obbligatorio, secondo le attitudini e se accompagnato all'attenzione alla vittima e al risarcimento, sono la pena di elezione. Non è detto che ci sia l'equazione pena uguale carcere. Non è una pena sospesa, ma fatta in modo diverso". Parma: firmato protocollo di intesa tra ospedale e carcere per la cura ai detenuti parmaquotidiano.info, 3 agosto 2016 Sono oltre 1.000 le persone che nel 2015 sono transitate nel carcere di Parma e 560 sono i detenuti presenti al 31 dicembre. Il carcere rappresenta una "comunità nella comunità", un luogo dove le persone arrivano con problemi di salute, dove, come altrove, possono ammalarsi, e curarsi, perché anche in carcere è garantita assistenza sanitaria e attività di prevenzione. Con l’obiettivo di tutelare l’integrità psico-fisica di queste persone, oggi l’Azienda USL e gli Istituti Penitenziari siglano un apposito protocollo di intesa. Un accordo corposo, della durata di tre anni, che si sviluppa in 27 articoli, dove sono indicate le forme di collaborazione tra i firmatari, impegnati, ciascuno per le proprie competenze e nel rispetto delle reciproche esigenze istituzionali, a garantire il diritto alla salute dei detenuti. Il protocollo definisce le modalità organizzative con cui è assicurata l’assistenza sanitaria all’interno della struttura carceraria e le procedure da seguire qualora sia necessario un ricovero ospedaliero o un esame diagnostico in centri esterni. Particolare attenzione è posta alla gestione dei casi sanitari più complessi, per i quali le parti si impegnano a definire programmi di intervento specifici e alla realizzazione di una efficace azione di prevenzione. Al riguardo, sono previsti settori detentivi dedicati dove i professionisti dell’Azienda sanitaria visitano ed eseguono esami di screening all’arrivo del detenuto o dove è garantita, all’occorrenza, assistenza sanitaria di livello più intenso rispetto all’ordinario e, infine, aree dedicate in caso di necessità di isolamento sanitario. Sul fronte della prevenzione vi è anche l’impegno congiunto di favorire l’attuazione del progetto di promozione della salute in carcere, attraverso la figura del "promotore di salute" e l’organizzazione di attività di informazione collettiva, oltre che di discussione di gruppo su temi riguardanti stili di vita e prevenzione. In aggiunta alla collaborazione sancita nei mesi scorsi tra Azienda Usl, il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e il Garante del Comune di Parma per migliorare la presa in carico delle segnalazioni da parte dei detenuti, dei loro familiari e dei legali e, più in generale, di tutela della salute, con il protocollo siglato oggi, l’Azienda sanitaria si impegna ad adottare un’apposita Carta dei Servizi sanitari per i detenuti, dove, tra altro, saranno indicate le varie figure professionali presenti in carcere, le modalità per l’accesso ai servizi sanitari, le regole comportamentali per consentire il migliore funzionamento dell’assistenza e facilitare la fruibilità dei servizi. Cagliari: Caligaris (Sdr); di nuovo in cella e allettata nonnina 83enne Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2016 "È allettata e giace immobile per una semiparesi e con piaghe da decubito in una cella della Casa Circondariale di Cagliari-Uta Stefanina Malu, 83 anni, tornata dietro le sbarre ieri mattina, dopo un lungo ricovero ospedaliero dapprima in due nosocomi pubblici e ultimamente in una Clinica privata. Inspiegabili le sue dimissioni dalla Casa di Cura. Le sue condizioni destano viva preoccupazione giacché nella sezione femminile del carcere non ci sono stabilmente né un medico né un’infermiera. Una donna in queste condizioni non può stare in una cella, ha bisogno di essere accudita costantemente. In questo stato di semi incoscienza non bastano le amorevoli attenzioni di Agenti sensibili e preparate o della compagna di cella. È inammissibile. Occorre un intervento urgente del Magistrato di Sorveglianza in attesa dell’esito del Tribunale in programma il 18 agosto". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha appreso del ritorno dietro le sbarre dell’anziana donna dalla figlia Angela Floris. "Stefanina Malu - ha sottolineato la figlia - non è più la stessa. Non è autosufficiente e in ospedale, dopo l’ictus, mi occupavo quotidianamente di nutrirla. Adesso sono davvero disperata anche perché non capisco il motivo per cui sia stata riportata in una cella dal momento che ha solo bisogno di cure e attenzioni. Mia madre è anziana, potrebbe vivere nella mia casa. Concederle i domiciliari è un atto umanitario, nel frattempo però è indispensabile riportarla in un ospedale, anche perché i familiari possano vederla e accudirla". "La permanenza dell’anziana donna in carcere - sottolinea Caligaris - crea non pochi problemi nonostante le infermiere e le operatrici socio sanitarie in turno intervengano per accudirla. Per lei è stato necessario trasportare un letto ospedaliero dal Centro Clinico. Quasi impossibile poter garantire i colloqui ai familiari in quanto la donna non può lasciare il letto. Appare molto difficile che possa costituire un pericolo sociale, anche se la sua storia passata ne ha delineato una fisionomia tutt’altro che benevola. A questo punto la situazione rischia solo di degenerare - conclude la presidente di Sdr - e gestirla in un carcere è un segnale di grande debolezza da parte delle Istituzioni". Rossano (Cs): Radicali; detenuti in isolamento privati anche della televisione lacnews24.it, 3 agosto 2016 Una rimozione per la delegazione "ingiustificata, inutilmente afflittiva e illegittima". La stessa ha sollecitato anche l’Amministrazione Penitenziaria per chiedere con urgenza il potenziamento del personale all’interno della struttura. Una delegazione guidata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, ha effettuato una visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano. Nella struttura, ad oggi, sono presenti 216 detenuti (157 italiani e 59 stranieri), di cui 204 condannati definitivi e 12 giudicabili. 129 sono i ristretti appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza e 75 quelli appartenenti alla Media Sicurezza. Tra questi 26 condannati all’ergastolo. Riscontrata la presenza di 18 tossicodipendenti e di 4 "lavoranti" all’interno dell’Istituto. Di questi due provenienti da altri Istituti del Nord Italia, si trovano nel Reparto di Isolamento, poiché sottoposti al regime di sorveglianza particolare. Con riferimento a quest’ultimi, entrambi stranieri, la Delegazione ha preso atto che, tra le altre cose, è stato loro proibito di vedere persino la televisione e quindi di tenersi informati, rimuovendo la tv dalle loro camere di pernottamento. Per i Radicali, "non si comprende quali siano i motivi che giustifichino la rimozione - afferma il capodelegazione Quintieri - posto che tale apparecchio non può assolutamente ritenersi, nel caso specifico, funzionale al mantenimento dell’ordine e della sicurezza intramoenia per cui la sua rimozione è ingiustificata, inutilmente afflittiva ed illegittima non essendo ‘strettamente necessarià allo scopo previsto dalla legge. Con la rimozione del televisore - aggiunge - viene anche impedito ai detenuti di potersi avvalere dei mezzi di informazione, negandogli un diritto umano fondamentale costituzionalmente protetto dall’Art. 21 della Costituzione oltre che dall’Art. 18 comma 6 della Legge Penitenziaria". Per questi motivi, la delegazione, con una nota inviata anche all’Amministrazione Penitenziaria ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, ha sollecitato l’intervento "d’ufficio" del Magistrato di Sorveglianza di Cosenza. La delegazione ha lamentato la grave carenza del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria nel Carcere sollecitando l’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, "a voler intervenire tempestivamente per potenziare l’organico del personale ricorrendo anche ad eventuali distacchi da altri istituti, al fine di eliminare disagi e stress per il personale operante e, contestualmente, al fine di consentire l’effettivo e concreto svolgimento di tutte le attività programmate dall’Istituto". Padova: Shakespeare al carcere in occasione del Giubileo della Misericordia La Stampa, 3 agosto 2016 L’adattamento dell’opera "Il mercante di Venezia" si terrà mercoledì 3 agosto al Due Palazzi di Padova. Dopo il concerto per Papa Francesco il 13 dicembre scorso, quella del 3 agosto è la seconda iniziativa che Officina Giotto organizza in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia. Si tratta, questa volta, della messa in scena della celebre opera teatrale di William Shakespeare "Il Mercante di Venezia", realizzata da una compagnia italo-newyorkese di livello internazionale. Grazie alla disponibilità della regista Karin Coonrod e della Compagnia dè Colombari, l’adattamento dell’opera si terrà mercoledì 3 agosto alle 17,00 presso il carcere Due Palazzi di Padova. Agosto è il mese per eccellenza di abbandono delle carceri e dei detenuti. "Vedremo questa opera assieme ad un centinaio di detenuti e cercheremo di arrivare con questo messaggio a più carceri italiane ed estere possibile", spiegano gli organizzatori dell’evento. Giustizia, perdono e misericordia rappresentano infatti il cuore di tutta l’opera. L’allestimento, per genesi e struttura, è internazionale ma anche - almeno in piccola parte - padovano. Nella rielaborazione della regista le porte di Shakespeare vengono infatti aperte da un monologo sull’amore del Ruzzante. L’opera, dopo essere tornata "a casa", nella comunità ebraica di Venezia, trova una nuova ma non meno adeguata dimora nel carcere, luogo dove la giustizia dovrebbe compiersi, ma che troppo raramente riesce nel suo intento di riportare giustizia. La rappresentazione riprende due importanti e unici anniversari: il quarto centenario della morte di Shakespeare e il quinto della fondazione del Ghetto Ebraico a Venezia, al quale questo adattamento è prioritariamente destinato; è inoltre la prima volta che l’opera shakespeariana viene rappresentata nel luogo in cui l’autore l’ha concepita. Ai due anniversari si aggiunge poi un’altra ricorrenza, non meno unica: il Giubileo Straordinario della Misericordia, indetto da Papa Francesco. Il Pontefice cita proprio uno dei personaggi del Mercante di Venezia (Shylock) in occasione del Giubileo. "Poche vicende - scrivono gli organizzatori - più di quella di Shylock, Porzia e Antonio, possono meglio rappresentare in un carcere l’eterno conflitto tra sostenitori di una giustizia afflittiva e di una misericordia che, pur riconoscendo la necessità che i colpevoli scontino per intero la pena, non lascia alla condanna l’ultima parola. È il luogo giusto per un autore e della sua intensa e dolorosa esplorazione dell’amore e dell’odio, della giustizia e, soprattutto, di cosa significhi essere umani". Fossano (Cn): il cinema al carcere Santa Caterina, per evadere dalla quotidianità targatocn.it, 3 agosto 2016 Si è tenuta l'altro ieri sera, lunedì 1 agosto la proiezione di "Smetto quando voglio" nel cortile interno della casa di reclusione Santa Caterina di Fossano. Il film di Sydney Sibilla con Edoardo Leo, Neri Marcorè e Valeria Solarino è stato scelto dai detenuti che lo hanno guardato insieme al pubblico accorso per una proiezione unica nel suo genere. Una commedia brillante che gioca sulla facilità di intraprendere "la cattiva strada" in momenti di vita particolarmente avversi. Presenti alla proiezione la garante dei detenuti di Fossano, Rosanna Degiovanni, il garante regionale Bruno Mellano, che ha introdotto la serata auspicando in una continuità negli eventi di inclusione e di inserimento sociale delle persone detenute. Una serata importante per la consulta giovani del comune di Fossano e per il cinema teatro i Portici che sono riusciti a organizzare una serata senza intoppi nonostante le notevoli difficoltà di logistica nel portare un pubblico eterogeneo all’interno di una struttura detentiva. Ma è stata anche una serata di speranza, come spiegato da Mario, uno dei detenuti, nel discorso introduttivo "Un giorno la paura ha bussato alla porta, è andata ad aprire la speranza e non ha trovato nessuno". In questa affermazione, superata la barriera della retorica, emerge il significato profondo che serate come quella di ieri hanno per i detenuti: la speranza che sia l’inizio di un percorso inclusione e condivisione che porti la struttura fossanese a essere in tutto e per tutto allineata con quanto previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. In un film il diritto e la speranza di tornare a essere uomini liberi di Maria Brucale Il Dubbio, 3 agosto 2016 "Spes contra Spem, Liberi dentro", il film documentario del regista Ambrogio Crespi, è stato ammesso alla Mostra internazionale d'arte cinematografica, la Biennale di Venezia 2016. Il lavoro di Crespi, prodotto da Nessuno Tocchi Caino e ds Index Production, ha come tema centrale proprio la speranza intesa non come un anelito cui tendere ma come un impeto di azione: essere speranza! Mostrare un cambiamento che è possibile perché è. "Spes contra spem" era il titolo del VI Congresso di Nessuno Tocchi Caino, tenuto nel carcere di Opera, tratto dalla Lettera di San Paolo ai Romani sull'incrollabile fede di Abramo che "ebbe fede sperando contro ogni speranza". Protagonisti del film sono un gruppo di persone detenute al carcere di Milano Opera, tutte da oltre un ventennio, le loro vite segnate dal crimine e percorse dal rimorso e dallo struggimento, i loro giorni spezzati, quando erano ancora ragazzi, da errori purtroppo irrecuperabili, il loro cammino di consapevolezza e presa di coscienza di un sé dapprima smarrito. Gaetano, Orazio, Alfredo, Vito, Roberto, Ciro, Rocco, Giuseppe, sono ergastolani ostativi. Hanno commesso reati contemplati dall'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario. La norma preclude a chi ha commesso quei delitti (c. d. reati ostativi), tra cui, primi, i reati associativi, l'accesso a ogni beneficio penitenziario e alla liberazione condizionale, salvo che collabori con la giustizia o che la sua condotta collaborativa sia divenuta inutile o inesigibile. L'ergastolo per i reati contemplati dall'art. 4 bis dell'Ordinamento penitenziario si espia per intero. È morte viva; assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, di proiezione. È sottrazione di qualsivoglia spinta di cambiamento; è apparenza di vita. È il "fine pena mai", 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione pena emessi dalle Procure, la suggestione di un numero periodico che si ripete, all'infinito, indicazione balorda e subdola di un tempo che non può arrivare. L'ergastolo ostativo è vistosamente incostituzionale. Chi subisce una condanna deve poter dare una proiezione alla sua speranza, individuare un obiettivo certo cui tendere, credere che avrà un'altra opportunità. Neppure il rimorso trova spazio in una pena senza fine. Perde ogni utilità l' introspezione, la revisione critica del sé. Altro che rieducazione! Non ha senso la riabilitazione se non ci potrà mai essere restituzione alla società. Ambrogio Crespi entra nella vita dei suoi protagonisti e spalanca una finestra di verità. Cambiare è possibile. Il carcere può essere un luogo di restituzione e di rinnovamento. Occorre avere fiducia e credere. Ricordare che dietro il reato e gli assurdi sbarramenti normativi astratti, ci sono delle persone. Nella casa di reclusione di Milano Opera, il Direttore, Giacinto Siciliano - insieme al Comandante Amerigo Fusco, al personale di polizia penitenziaria ed agli operatori intramurari - ha avuto fiducia. Ha creduto al cambiamento creando le premesse per un circolo virtuoso nel quale le Istituzioni diventano per le persone detenute una possibilità viva di rinascita che conduce ad una riconciliazione concreta con la società civile e con lo Stato. Gli ergastolani di Opera hanno fatto parte di associazioni criminali, hanno commesso atroci delitti, hanno versato sangue e portato dolore e morte e ora ci regalano, con un atto di grande umanità e coraggio, la confessione struggente di chi, rivedendo se stesso e le proprie azioni passate, inorridisce, di chi sconfessa ogni scelta criminosa e la ripudia, di chi prende pubblicamente le distanze dalla delinquenza organizzata e la addita come fonte di perdizione e di distruzione. Il loro è un grido potente e rabbioso che non può rimanere inascoltato. Chi, in carcere come loro, espia un ergastolo ostativo, guardando il meraviglioso film di Crespi, non potrà non sentire un rigurgito nella sua anima che lo porti quantomeno ad interrogarsi sulla propria vita e sulla possibilità, ancora, di cambiarla. Chi assisterà alla proiezione da uomo libero, con scetticismo, ancorato a un cieco bisogno di punire, di arginare i colpevoli di crimini in una gattabuia senza ritorno né recupero, si troverà di fronte a uomini, che giovanissimi hanno interrotto le loro vite per spegnerle negli istituti di pena, ai quali il carcere non serve più, hanno riconosciuto il male e lo hanno estirpato. Hanno diritto di tornare a vivere, ad essere, liberi. Spes contra Spem, un grande lenzuolo bianco appeso ai balconi della legalità. Le prigioni europee e gli islamisti radicali ilpost.it, 3 agosto 2016 In Europa si sta discutendo su dove tenere i detenuti accusati di terrorismo: c'è il rischio che reclutino altri carcerati ma le soluzioni trovate finora hanno diversi problemi. Negli ultimi mesi in Europa il terrorismo di ispirazione islamista è diventato un enorme problema di sicurezza. Centinaia di persone accusate di essere coinvolte in qualche maniera in attività terroristiche sono state arrestate, e altrettante sono sotto la sorveglianza delle agenzie antiterrorismo dei vari paesi europei. Un problema collegato alle attività antiterrorismo - che coinvolge soprattutto il Belgio e la Francia, due paesi da cui sono partiti centinaia di miliziani per unirsi allo Stato Islamico (o ISIS) in Siria e in Iraq - riguarda le prigioni dove tenere gli arrestati e i condannati: il rischio è che gli islamisti radicali accusati di terrorismo facciano proselitismo e spingano altri detenuti a "radicalizzarsi". Non sarebbe un fenomeno nuovo: una cosa del genere era già successa nelle prigioni americane in Iraq - da cui sono usciti diversi leader dello Stato Islamico, per esempio - e sta succedendo di nuovo in Europa. I terroristi radicalizzati nelle prigioni francesi e belghe - Partiamo dall’ultimo caso: Adel Kermiche, il 19enne francese che la scorsa settimana ha partecipato all’attacco contro la chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray (Normandia), era stato rilasciato di recente dalla prigione francese di Fleury-Mérogis, un carcere di massima sicurezza a sud di Parigi. Kermiche aveva scritto su Telegram di avere trovato la sua "guida spirituale" nella prigione di Fleury-Mérogis: ne parlava come dello "sceicco" che gli "aveva dato alcune idee". Nello stesso carcere si trova ora Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto tra gli attentatori di Parigi. Quando è entrato per la prima volta a Fleury-Mérogis, Abdeslam è stato accolto da alcuni detenuti come "un messia", ha raccontato una guardia carceraria al Wall Street Journal. Lo stesso Abdeslam si era radicalizzato in carcere: fu arrestato nel 2010 per avere tentato di rubare un’auto e in cella conobbe Abdelhamid Abaaoud, considerato l’uomo che ha progettato gli attentati di Parigi. Ci sono altri precedenti, oltre ai casi di Kermiche e Abdeslam: per esempio c’è quello di Mohamed Merah, il 23enne francese che nel 2012 uccise sette persone a Tolosa, in Francia. Merah era stato arrestato per avere tentato di rubare la borsa a una signora: quando entrò in prigione "era solo un bambino che batteva i pugni contro la porta della sua cella e urlava per la sua PlayStation", ha raccontato una guardia carceraria che lo conosceva; ma ne uscì radicalizzato. La polizia francese sta indagando anche su Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’uomo che il 14 luglio ha investito la folla sul lungomare di Nizza uccidendo 84 persone. Bouhlel non aveva precedenti che lo potessero legare al terrorismo, ma ora gli investigatori credono che possa essersi radicalizzato anche lui in prigione. Un altro caso è quello di Amedy Coulibaly, l’uomo ucciso a Parigi dopo avere preso degli ostaggi in un supermercato kosher (nei giorni dell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo). Coulibaly raccontò a un giornalista francese di essersi interessato all’Islam in prigione: il suo mentore era stato Djamel Beghal, un reclutatore di al Qaida che stava scontando dieci anni di carcere per terrorismo. Nella stessa prigione Coulibaly aveva incontrato i due fratelli Kouachi, gli attentatori di Charlie Hebdo. Come sono cambiate le carceri francesi - Nel 2015 un’agenzia del governo francese è stata incaricata di verificare la situazione delle carceri nazionali: il risultato è stato descritto come "sbalorditivo". All’interno delle carceri, ha detto il rapporto, i radicali islamisti hanno cominciato ad agire come una specie di "aristocrazia": dettano le regole agli altri detenuti, per esempio gli vietano di fare la doccia nudi, di ascoltare musica e in alcune celle di guardare le partite di tennis femminile in televisione. Riescono anche a comunicare con il mondo esterno abbastanza facilmente attraverso dei telefoni cellulari entrati illegalmente in prigione (il rapporto dice che uno sfondo frequente impostato su questi telefoni è la bandiera dello Stato Islamico). Nel rapporto si parla anche di una prigione francese in cui dieci detenuti con accuse legate al terrorismo sono riusciti a reclutare altri venti prigionieri che non avevano alle spalle alcuna storia di radicalizzazione. In altri casi gli islamisti radicali hanno costretto le donne in visita al carcere a cambiare abbigliamento e indossare lo hijab. Le soluzioni trovate finora - Sia in Francia che in Belgio le autorità stanno valutando se separare i detenuti accusati di terrorismo dagli altri, per evitare ulteriori casi di radicalizzazione. Le soluzioni trovate per ora sono due: o tenere in isolamento i detenuti più pericolosi, ma è una decisione facilmente contestabile, se presa per un lungo periodo e non sostenuta da prove gravi e definitive; oppure radunare i radicali islamisti in spazi creati appositamente. In Belgio sono state risistemate due prigioni, all’interno delle quali sono stati creati dei settori di detenzione per persone radicalizzate (finora ciascuna struttura può ospitare solo venti prigionieri di questo tipo). Il governo belga, ha scritto il Wall Street Journal, si sta muovendo con molta cautela per evitare che si crei un "nuovo Guantánamo": la portavoce del ministro della Giustizia belga, Sieghild Lacoere, ha spiegato che gli unici detenuti mandati nelle due strutture sono quelli che vengono scoperti durante l’attività di reclutamento di altri detenuti. Questo approccio si basa molto su terapie di "de-radicalizzazione", ovvero programmi che hanno l’obiettivo di reintegrare i soggetti radicali nella società: includono ad esempio incontri tra i detenuti e imam con posizioni moderate che tentano di far passare un’interpretazione dell’Islam diversa da quella radicale dei gruppi jihadisti e terroristi. Le terapie di "de-radicalizzazione" sono sostenute da molti, ma di recente hanno anche ricevuto delle critiche, soprattutto in Germania, il paese che ne fa più uso. Anche in quattro carceri della Francia sono partiti i programmi di de-radicalizzazione. E anche in Francia è stata criticata la scelta di dividere gli islamisti radicali dal resto dei detenuti; le controindicazioni sono state sintetizzate efficacemente da un agente dell’antiterrorismo francese sentito dal Wall Street Journal: "Stiamo mettendo insieme terroristi che non si conoscono tra loro e appartengono a gruppi diversi, e li stiamo aiutando a creare solidi e impenetrabili legami". Piantiamola davvero... col proibizionismo di Delia Vaccarello L'Unità, 3 agosto 2016 Gli ematomi sempre più evidenti sulle braccia, atroci i dolori alle articolazioni per la fibromialgia che gli lesina il respiro. Chiuso in una cella dall'u giugno, da quando a causa della malattia per lo Stato è diventato "delinquente". E fuori il cosiddetto mondo libero moltiplicava gli appelli. Ieri, finalmente, dopo più di 50 giorni, si sono aperte le porte del carcere di Chieti per Fabrizio Pellegrini, musicista per professione e passione, ma a causa della malattia costretto a ridurre gli impegni e a guadagnare poco. I farmaci per alleviargli le pene costano 500 euro al mese, sono a base di cannabis. Li ha potuti comperare una sola volta. Poi ha deciso di coltivare l'erba in casa. Non una piantagione, cinque vasetti. Per mandar via un po’ di dolore, per dimenticare un attimo. Tanto è bastato per finire in cella. Nonostante la Asl gli avesse certificato la necessità della cura, costosa, a base di cannabinoidi. Il primo agosto le ragioni di giustizia e umanità hanno iniziato a farsi strada, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha disposto l'avvio di accertamenti preliminari e ha chiesto al Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, una relazione sulle condizioni del pianista di 47 anni. Ieri Orlando ha accolto gli appelli e si è deciso per la scarcerazione. L'avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario di "Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi" e difensore di Pellegrini insieme al collega Giuseppe Rossodivita, segretario del Comitato Radicale per la Giustizia "Piero Calamandrei", hanno salutato con soddisfazione l'accoglimento del ricorso. "Un provvedimento che gli salva la vita". Senza cure, avrebbe rischiato tutto. Stop, luce spenta. Dolori atroci, che senso ha vivere. Da ieri, una speranza. Anche quella, in fondo, di sensibilizzare l'opinione pubblica, di guardare per paradosso alla sua malattia come a una risorsa sociale. Gli occhi sono puntati sul ddl di Manconi e Giachetti che prevede la liberalizzazione della cannabis, giunto in aula alla camera il 25 luglio per iniziativa di un intergruppo guidato dal sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, e firmato da 222 deputati e 70 senatori di vari schieramenti. Obiettivo: la liberalizzazione della marijuana. Motivo: togliere il mercato ai trafficanti, farlo gestire dallo Stato con un monopolio, regolare un consumo che esiste senza incentivarlo. In una parola: fare un passo avanti nella lotta alla mafia. Mai contrari non sono pochi, Angelino Alfano in testa, il dibattito divide la maggioranza, e il disegno di legge rischia. Se la politica annuncia di allungare i tempi, ieri la giustizia si è imposta. "Ringraziamo davvero Rita Bernardini, nostra candidata a Garante dei detenuti abruzzesi, e Andrea Trisciuoglio, segretario dell'associazione "LapianTiamo" che ha lanciato la partecipata iniziativa nonviolenta a sostegno di Fabrizio, per averci segnalato tempestivamente un caso che si è rivelato emblematico delle contraddizioni del proibizionismo - hanno commentato ad "Amnistia Giustizia e Libertà - e i magistrati hanno saputo riconoscere la gravità della situazione e intervenire nel modo più adeguato: ma fino a quando sarà la giustizia a dover riparare l'inadeguatezza della politica?". Tira un respiro di sollievo la senatrice del Pd, Stefania Pezzopane, che lunedì aveva lanciato un appello al ministro Andrea Orlando: "Sono commossa e ringrazio tutti coloro che si sono mobilitati e le autorità competenti, in primis il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nella vicenda del musicista Fabrizio Pellegrini ha finalmente prevalso l'umanità, nella ricerca di una soluzione come i domiciliari che almeno alleviano le sofferenze di una persona malata. Resta il nodo della legalizzazione della cannabis, lunga battaglia dei radicali italiani, che speriamo si possa affrontare presto". Fabrizio aveva coltivato cinque vasetti. Quelli che, se diventasse legge il ddl, ognuno di noi potrebbe tenere sul terrazzo. Non di più. I maggiorenni potrebbero detenere quindici grammi in casa, e cinque fuori, e mai consumare in luoghi pubblici. Ogni testa 5 piante. Sarebbe possibile costituire associazioni per la coltivazione della cannabis ma senza fini di lucro per un massimo di 50 associati con il permesso di coltivare fino a 5 piante ciascuno. La vendita sarebbe solo affare di Stato. Fabrizio spinto dalla necessità aveva fatto una scelta di buon senso. Cosa sono cinque piante. Nulla. Spietata fino a ieri l'applicazione della legge. Per cui nella sua cella si sono moltiplicate le visite, Rita Bernardini intesta; c'è stata la interrogazione parlamentare di Civati, Brignone, Maestri, Pastorino, Mattarelli, sono intervenuti intellettuali, e Saviano ha detto: "La sua colpa? Voler vivere". Se da ieri Fabrizio Pellegrini è a casa, da settembre si riparlerà del ddl. L'osservatorio "Openpolis" ha tracciato i possibili scenari, tenuto conto che Alfano e Lorenzin hanno detto di no e che tutto il gruppo parlamentare di Area Popolare fa ostruzionismo attraverso gli emendamenti. La strada è più che stretta. Non rimane, dunque, che ipotizzare un'inedita convergenza tra Pd, Si-Sel e M5s. Però l'adesione dei dem è contenuta. A sottoscrivere la legge è infatti solo il 28 per cento del gruppo Pd alla Camera e i125 per cento al Senato. E invece la possibilità di approvazione stando ai numeri è legata al voto compatto del Pd. Intervista a Rita Bernardini: "coltivo 19 piante di marijuana… e adesso arrestatemi" di Massimo Solani L'Unità, 3 agosto 2016 L'ex segretaria Radicale e la disobbedienza civile per la legalizzazione: "Coltivo in casa diciannove piante, eppure nessuno viene ad arrestarmi". "Ho parlato con Fabrizio appena gli hanno concessogli arresti domiciliari. "È come tornare a vivere", mi ha detto. È molto provato da questi 56 giorni di carcere. Sono andata a fargli visita a Chieti due volte, le sue condizioni erano davvero preoccupanti, era costretto a fare esercizi di yoga per distendere la muscolatura e calmare il dolore. Ho anche litigato con la dirigente sanitaria regionale". Rita Bernardini è visibilmente soddisfatta per la concessione dei domiciliari a Fabrizio Pellegrini. Un successo su cui ovviamente ha pesato l'intervento del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ci accoglie nella sua casa e ci mostra con orgoglio le sue "creature", diciannove piante di marijuana che crescono rigogliose al sole del suo terrazzo. "Conosco Fabrizio dai tempi della nostra prima disobbedienza civile - dice - Era il 2012 e insieme a Marco Pannella avevamo organizzato una festa della semina a Montecitorio interrando semi di cannabis in alcuni vasi per chiedere il riconoscimento del diritto all'uso terapeutico. Scoppiò un putiferio, i commessi ci rincorrevano imbarazzatissimi davanti alle telecamere. Non sapevano cosa fare e quando provarono a portarci via uno di quei vasetti Marco iniziò ad urlare come un pazzo... Fabrizio faceva parte della delegazione di malati che avevamo portato con noi". Rita Bernardini, una vita da Radicale e da attivista antiproibizionista. Per la legge rischia il carcere per le sue azioni di disobbedienza civile. "Ho subito due condanne: una a quattro mesi per la distribuzione di hashish che facemmo come Radicali a Porta Portese nel 1995, quel giorno c'era anche Benedetto Della Vedova che è animatore della legge per la legalizzazione in discussione in Parlamento, e un'altra a due mesi. Ma per il resto ho ricevuto soltanto assoluzioni o archiviazioni. In una occasione, addirittura, il tribunale ha riconosciuto "l'alto valore morale e civile dell'iniziativa". L'ultima volta a febbraio si sono presentati due carabinieri in borghese e si sono portati via le 56 piante che erano qui in terrazzo. Anche in quella occasione, tutto archiviato. La sentenza ce l'ho qua in terrazzo, l'ho fatta plastificare per la prossima che torneranno a trovarmi. Incontrai il procuratore Pignatone nei corridoi degli uffici giudiziari e mi disse: "Bernardini, l'ho archiviata. Dovrà inventarsene un'altra". Perché lei coltiva marijuana in casa e non viene neanche processata mentre Fabrizio Pellegrini finisce in carcere per quasi due mesi? "Perché sono Rita Bernardini, e se mi arrestassero ne verrebbe fuori un bel casino che costringerebbe tutti ad affrontare la questione dell'irragionevolezza del proibizionismo. E a fare i conti, ad esempio, con quanto scritto lo scorso anno dalla Direzione Nazionale Antimafia che ha segnalato "l'oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo" aggiungendo che "spetterà al legislatore valutare se sia opportuna una depenalizzazione della materia". Sono passati 40 anni dalle prime azioni di disobbedienza civile di Marco Pannella, perché gran parte della politica continua a non porsi il problema? Non è solo una questione etico-culturale, dietro al traffico di sostanze ci sono affari mondiali capaci anche di corrompere le istituzioni". Ora però c'è una legge in discussione alla Camera, ed è già un dato storico, e c'è un dibattito che finalmente comincia a trovare spazio nel paese. "C'è una maturità che è cresciuta negli anni. Già nel 1993 con un referendum contro la Iervolino Vassalli per la non punibilità del consumo noi Radicali ottenuto, non senza sorprese. un successo clamoroso. Poi ci furono gli anni devastanti della Fini-Giovanardi. Il pronunciamento della Corte Costituzionale che nel 2014 l'ha praticamente smontata ha aperto gli occhi a tanti e fatto prendere coscienza dei danni che quell'impostazione aveva causato, ad esempio riempiendo le carceri di semplici consumatori. Quella sentenza è stata più importante dei vari "svuota carceri" nel deflazionare la popolazione carceraria". I Radicali si battono da anni per l'uso terapeutico della cannabis. Di casi come quello di Pellegrini ce ne sono centinaia, eppure il tema resta confinato in un angolo. "Il problema è l'assenza di dibattito e di informazione. Una situazione che permette al pregiudizio etico di rafforzarsi e dettare legge fino all'illogicità. Ci sono migliaia di malati che per dolori farmacoresistenti vengono trattati con oppiacei nonostante la cannabis abbia una maggiore efficienza. Dicono "lo stato non può essere spacciatore di droga", ma in quel caso lo stato non fornisce una cura basata su una droga che dà dipendenza e causa effetti collaterali devastanti? Io sono fiduciosa che, come accaduto per l'aborto, alla fine la ragione prevale sempre. Più si diffonde la conoscenza, più le persone sono correttamente informate, più si indeboliscono le paure e cadono le chiusure e le paure. Fabrizio Pellegrini, ad esempio, in Germania non sarebbe stato arrestato. Eppure la Germania è un paese proibizionista che però riconosce l'auto-coltivazione terapeutica". La legge in discussione è un'occasione senza precedenti ma il suo percorso pare già ad ostacoli. Ha fiducia che possa essere approvata? "Se il Parlamento non approverà la legge per la legalizzazione della cannabis si assumerà la responsabilità davanti al popolo italiano di lasciare in mano alla criminalità organizzata la gestione di un fenomeno sociale che riguarda almeno 5 milioni di persone ed è diffuso quanto l'alcool o il tabacco". Fabrizio Pellegrini esce dal carcere, ma senza la cannabis terapeutica di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 agosto 2016 Chieti. Ancora in attesa dei farmaci, l’artista malato. La mobilitazione dei Radicali e l’intervento del ministro Orlando su un caso emblematico di proibizionismo. Oltre cinquanta giorni trascorsi nel carcere di Chieti per un reato a cui è stato costretto da una Regione - l’Abruzzo - inadempiente alle sue stesse leggi. Ristretto in un cella in condizioni quasi disumane: malato gravemente, non curato, mal assistito legalmente per più di un mese. Finalmente ieri mattina è stato scarcerato, Fabrizio Pellegrini, forse anche per via dell’interessamento del ministro di Giustizia Andrea Orlando che ha annunciato un’ispezione. Sicuramente, grazie alla mobilitazione dei Radicali italiani che ha coinvolto in un digiuno a staffetta oltre 150 persone in pochissimi giorni. Anche se Pellegrini dovrà scontare la pena (poco più di due anni, derivante da due condanne definitive per coltivazione domestica di marijuana, a scopo terapeutico e personale) ai domiciliari, e anche se il Ssn non gli ha ancora fornito i farmaci di cui necessita. È una storia emblematica di malagiustizia e di malasanità, quella dell’artista e pianista di 47 anni affetto da fibromialgia, una malattia degenerativa i cui dolorosissimi sintomi possono essere alleviati con farmaci cannabinoidi, nel suo caso gli unici possibili perché il corpo di Pellegrini mal sopporta gli oppiacei ed altri rimedi. "È come tornare alla vita", ha detto ieri mentre lasciava il penitenziario chietino accompagnato da uno dei due legali, l’avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario dell’associazione Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, che lo difende assieme all’avv. Giuseppe Rossodivita da quando la dirigente Radicale Rita Bernardini ha sottoposto loro il caso. Dopo 21 giorni il magistrato di sorveglianza ha accolto la richiesta di differimento della pena per gravi motivi di salute "che abbiamo depositato il 12 luglio scorso - racconta l’avv. Di Nanna - quando Pellegrini era in carcere già da un mese, assistito da un legale d’ufficio che non aveva presentato domanda, malgrado le sue pessime condizioni di salute e l’evidentissima incompatibilità con il regime carcerario". Già nel 2010 il musicista aveva richiesto alla Asl di Chieti di fornirgli gratuitamente i farmaci cannabinoidi, come prevede una legge regionale scritta dal consigliere di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo, varata nel 2014 e ritenuta all’avanguardia in tutto il Paese. La struttura sanitaria si era detta disponibile ad importare dall’Olanda il Bedrocan, il medicinale che l’Italia si prepara a sostituire con una produzione propria di cannabis coltivata nello stabilimento militare di Firenze. Solo che, malgrado la condizione di indigenza, Pellegrini avrebbe dovuto - secondo la Asl di Chieti - pagare di tasca propria il costo di 500 euro circa a scatola del farmaco. C’erano solo due soluzioni per l’artista abruzzese: rivolgersi ad un pusher o coltivare da sé la marijuana di cui ha bisogno. "Con il paradosso che nel primo caso non si incorre in sanzioni penali ma solo amministrative, nel secondo si finisce in galera, al pari di uno spacciatore", fa notare Rita Bernardini che ad ottobre sarà giudicata per aver offerto cannabis ai malati durante il congresso di Radicali italiani del 2014. Ieri sera da Radio Radicale è stato lanciato un appello per trovare una sistemazione più adatta ai domiciliari di Pellegrini, magari in una provincia dove l’accesso alla cannabis terapeutica non è così osteggiato. D’altronde la vicenda dell’artista abruzzese malato di fibromialgia è tanto "significativa" quanto "irragionevole e irrazionale", come la definisce il senatore Pd Luigi Manconi. "Perché dimostra che il pregiudizio proibizionista contro la cannabis - sostiene il presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama - è così profondo e diffuso da rendere inapplicabili perfino le norme sagge adottate. Perciò quando si dice che la legge sulla legalizzazione della cannabis non è la priorità, si dimentica che in quella legge, la cui discussione alla Camera è stata purtroppo rinviata, sono contenute norme che rendono finalmente disponibile i medicinali di cui molti malati necessitano". Renzi replica a Erdogan: "In Italia giudici rispondono alle leggi, non al presidente turco" di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 3 agosto 2016 Il premier risponde al presidente turco che sulla vicenda del figlio sotto inchiesta a Bologna aveva detto: "Giudici italiani si occupino di mafia". Erdogan all'attacco anche contro Mogherini e Ue: "In Turchia c'è stato golpe e nessuno è venuto qui". "In Turchia c’è stato un golpe contro la democrazia che ha fatto 238 martiri e nessuno è venuto qui". Se la prende con l’Unione Europea e in particolare con Federica Mogherini, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in un’intervista a Lucia Goracci di Rai News 24: "Non avrebbe dovuto parlare da fuori: `Mogherini prima di tutto saresti dovuta venire in Turchia´". Il presidente turco ha poi affondato anche sulla questione del figlio, sotto inchiesta per riciclaggio a Bologna: "Indagine su di lui mina i rapporti fra i due Paesi, i giudici italiani si occupino di mafia" ha detto. Dura la replica, in un tweet, del premier Matteo Renzi: "In questo Paese i giudici rispondono alle leggi e alla Costituzione italiana, non al presidente turco, si chiama "stato di diritto". "Occidente è dalla parte della democrazia o del golpe?" - "Se viene bombardato il Parlamento italiano che cosa succede? La Mogherini, che è italiana, come reagisce? Dice che hanno fatto bene, che è preoccupata dai processi che ne deriverebbero? Ora vi chiedo una cosa: l’Occidente è dalla parte della democrazia o del golpe?" ha detto il presidente turco per poi aggiungere: "Finora non è venuto nessuno in visita né l’Europa né il Consiglio d’Europa". Parole a cui ha replicato il portavoce del Servizio Ue per l’azione esterna, che si è detto "sorpreso" dalle dichiarazioni di Erdogan: "L’Alto rappresentante Mogherini ha chiaramente condannato il tentato colpo di stato. Ha espresso il sostegno per le istituzioni democratiche legittime in Turchia, indicando in particolare il Parlamento. È rimasta in contatto con le autorità turche, inclusa la sua conversazione col ministro degli Esteri Cavusoglu" ha precisato. Erdogan nella stessa intervista ha ribadito le accuse a Fetullah Gulen, considerato da Ankara la "mente" del fallito golpe: "Non è ancora definitivamente chiaro quanto ramificata sia la rete di Gulen. Questa struttura assomiglia alla loggia P2, è proprio un’entità criminale, un’organizzazione che si autodefinisce religiosa. Questa settimana o la prossima verrà in visita il presidente del Consiglio d’Europa e gli spiegherò che questa organizzazione è peggio della mafia". "Italia si occupi di mafia" - Il presidente turco ha parlato anche dell’indagine avviata dalla procura di Bologna su suo figlio Bilal, accusato di riciclaggio di denaro a seguito di un esposto presentato da Murat Hakan Huzan, oppositore politico del presidente turco e rifugiato in Francia. "Se mio figlio torna in Italia potrebbe essere arrestato perché c’è un’inchiesta su di lui a Bologna e non si sa perché - ha detto Erdogan - In quella città mi chiamano dittatore e fanno cortei per il Pkk. Perché non intervengono? È questo lo stato di diritto? La sua vicenda potrebbe mettere in difficoltà persino le nostre relazioni con l'Italia. Mio figlio è un uomo brillante e viene accusato di riciclaggio di denaro. L’Italia dovrebbe occuparsi della mafia, non di mio figlio". Renzi: "Giudici rispondono a Costituzione, non a presidente turco" - E a queste affermazioni del presidente turco è arrivata la dura replica del premier Matteo Renzi con un tweet: "In questo Paese i giudici rispondono alle leggi e alla Costituzione italiana, non al presidente turco. Si chiama "stato di diritto". "In Italia - aggiunge il presidente del Consiglio secondo quanto riferiscono fonti di Palazzo Chigi - c'è una magistratura autonoma e indipendente che agisce secondo le leggi e che combatte tutte le forme di illegalità e ne siamo orgogliosi". Parole a cui fanno seguito quelle della Farnesina che in una nota sottolinea come "in Italia sia in vigore lo stato di diritto e il pieno rispetto dell'autonomia della magistratura che, insieme alle forze dell'ordine, è impegnata con successo nel contrasto alla mafia e non ha certo bisogno per farlo dell'incoraggiamento da parte di alcuno". Ma nella nota si ribadisce anche "la ferma condanna del tentativo di colpo di stato del 15 luglio e conferma la preoccupazione comune all'intera Europa per gli accadimenti in corso". "Pronti a reintrodurre la pena di morte" - Erdogan ha poi annunciato la possibile reintroduzione della pena di morte: "Se il Parlamento turco la voterà, siamo pronti a reintrodurre la pena di morte dopo il fallito golpe in Turchia". "Il popolo la chiede, i sondaggi dicono che il 57% dei turchi la vuole, e se il Parlamento la voterà nessuno potrà dire nulla". La pena capitale nel Paese era stata revocata nel 2004 su richiesta di Bruxelles, qualora dovesse essere introdotta nuovamente questo di fatto bloccherebbe qualsiasi possibilità per Ankara di entrare nell’Ue. D’altra parte, sempre parlando a Rai News 24, Erdogan ha ribadito, come già detto dal ministro degli Esteri Cavusoglu che se l’Europa non concederà la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, Ankara non rispetterà l’accordo sui migranti siglato a marzo (che prevede tra l’altro che i migranti sulla rotta balcanica siano rimandati in Turchia se non presentano domanda d’asilo presso le autorità greche). Gli attacchi agli Usa - Dopo l’intervista a Rai News 24, il presidente Erdogan tenuto un discorso ad Ankara. "Paesi che consideriamo amici si stanno schierando dalla parte dei golpisti e dei terroristi" ha ribadito attaccando direttamente gli Usa. "Ci chiediamo come possano essere un partner strategico se ospitano Gulen", che Erdogan considera il vero organizzatore del golpe. "Il fallito golpe non è stato pianificato all’interno della Turchia, ma orchestrato dall’estero" ha aggiunto. Turchia: ordine di arresto per 100 medici e 94 licenziati dalla Federcalcio di Simone Pieranni Il Manifesto, 3 agosto 2016 Si ritorna a parlare di pena di morte. Erdogan dopo il tentato golpe è stato protagonista di una risposta durissima, che pare non avere fine. Ieri è stato richiesto l’arresto per un altro centinaio di persone, compresi i medici che lavorano nel principale ospedale di Ankara, il Gulhane Military Medical Academy. Per l’accusa il personale ospedaliero è accusato di aver favorito l’ingresso dei sostenitori di Fetullah Gulen nell’esercito dando loro referti medici favorevoli. Gulen è accusato dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan di essere la mente del tentato golpe. L’ospedale di Ankara è la prima struttura medica investita dall’indagine sul golpe. Già in precedenza la struttura, come altri ospedali militari, era stata interessata da controlli effettuati dal ministero della Salute. Non solo medici, militari, giudici, professori universitari, giornalisti, perché la mannaia di Erdogan arriva anche dove meno la si aspetta: è di ieri la notizia di 94 licenziamenti anche nelle fila della federazione calcistica turca. La paura di elementi gulenisti non conosce tregua. E chi si è schierato fin da subito con Erdogan prova a ritagliarsi spazi di gloria, mentre il presidente tenta di massimizzare il risultato. Ieri tra le tante dichiarazioni, è tornato sulla questione legata alla eventuale possibilità di introdurre la pena di morte: "Il popolo chiede la pena di morte, i sondaggi dicono che il 75% dei turchi la vuole". Un altro argomento rilevante è quello relativo ai servizi segreti e alla loro riorganizzazione: l’agenzia d’intelligence dedicata alla "sicurezza interna sarà affidata alla polizia e alla gendarmeria": quest’ultima lavorerà "nelle aree rurali" e la polizia "nelle città", secondo quanto emerge dalla stampa turca. Nei giorni scorsi il ministro dell’interno, Efkan Ala, aveva specificato che nell’ambito della riorganizzazione delle forze di sicurezza, la gendarmeria - così come la guardia costiera - passeranno sotto il controllo del ministero dell’interno e non dovranno più rispondere alle autorità militari. Per il coordinamento tra le agenzie, stando alle indiscrezioni pubblicate da Hurriyet, nascerà una nuova unità, "Coordinamento e intelligence". Il Mit e il suo numero uno, Hakan Fidan, sono stati criticati da più fronti dopo il tentativo di colpo di stato per non aver informato tempestivamente le massime autorità del paese su quanto stava avvenendo la notte dello scorso 15 luglio. Anche in questo caso Erdogan procede a un nuovo e rilevante accentramento di potere. Anche in Turchia, infatti, potrebbero nascere due agenzie d’intelligence distinte che risponderanno al presidente e non più all’ufficio del primo ministro. Hurriyet ha rilanciato ieri un intervento di Abdulkadir Selvi, editorialista del giornale, secondo il quale "il Mit verrà scisso in due" agenzie d’intelligence, una dedicata alla sicurezza interna e un’altra alle informazioni e alla sicurezza esterna. L’idea non sarebbe nuova: Selvi ricorda come il "Sultano" avesse già accennato alla necessità di riforma dei servizi a inizio maggio. Ieri il vice premier Numan Kurtulmus ha ribadito che "è sul tavolo la riorganizzazione delle unità di intelligence". "Il Mit dunque - secondo l’intervento di Selvi rilanciato da Hurriyet - verrà diviso in due servizi di intelligence, uno per la sicurezza interna e uno per quella esterna". Libia, ok a spazio aereo e Sigonella. Roma controlla 1.300 luoghi islamici di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 agosto 2016 Dagli Stati Uniti arrivano report giornalieri all’Italia. Aumentata la protezione alle nostre comunità all’estero. La pianificazione operativa è stata comunicata: i raid in Libia dureranno trenta giorni. L’Italia mette a disposizione la base militare di Sigonella e lo spazio aereo. E così risponde alla richiesta formale del Comando statunitense. La missione studiata già durante il vertice di Washington del 21 luglio, ha subito un’accelerazione dopo gli attacchi portati a termine dai fondamentalisti dell’Isis a partire dal 12 giugno scorso. Ben tredici attentati "strutturati" che hanno provocato oltre 500 vittime, seminando il terrore in tutto il mondo. L’obiettivo dichiarato dagli americani è quello di liberare Sirte dall’occupazione dell’Isis, ma quello strategico è di ben altra portata. Perché la riconquista della città deve servire a dare legittimità al governo guidato da Fayez al-Serraj, soprattutto a lanciare un messaggio chiaro alla popolazione. Gli analisti concordano sul fatto che la gioventù libica non sia a rischio radicalizzazione. Ma, come è già accaduto altrove, una "pressione" forte dei leader fondamentalisti può comunque aumentare il numero dei reclutati. Ecco perché - questa è la linea illustrata agli alleati - bisogna agire in fretta, con azioni mirate che annientino le postazioni controllate dai leader del Califfato. Un mese di tempo, intanto cresce la tensione a livello internazionale e dunque si riesamina il livello della minaccia, rimodulando il dispositivo di protezione degli Stati impegnati al fianco degli Usa, anche solo con un ruolo di supporto. I report giornalieri e il rischio di "scudi umani" - La riunione con i vertici degli apparati di intelligence convocata ieri dal sottosegretario delegato alla Sicurezza nazionale Marco Minniti, è servita proprio a individuare eventuali punti "critici" in modo da poter pianificare nuovi interventi. Gli esperti sono concordi nel ritenere che l’operazione militare degli americani in Libia non esponga il nostro Paese a rischi superiori a quelli già esistenti, peraltro già elevatissimi. Ma l’offensiva registrata negli ultimi quaranta giorni dall’Isis con azioni eclatanti, ha mostrato un salto di qualità soprattutto per quanto riguarda l’attività di propaganda. E con questo bisogna adesso rapportarsi. Gli Usa forniscono report giornalieri sui risultati dell’operazione militare. Si procede in maniera "chirurgica" individuando covi e arsenali, ma evitando accuratamente la possibilità di coinvolgere la popolazione. A Sirte sono rimaste circa 7.000 persone rispetto ai quasi 100mila abitanti che c'erano prima della caduta del regime e la successiva invasione dei fondamentalisti dell’Isis. La posta in gioco è altissima, il fallimento della missione sarebbe una catastrofe. Perché per la prima volta si agisce su richiesta del nuovo governo insediato in Libia sotto l’egida dell’Onu, ma con numerose resistenze a livello internazionale e ancor di più in terno. Quindi bisogna sconfiggere l’Isis, ma bisogna prima di tutto evitare di colpire i civili, scongiurare il pericolo di una presa di ostaggi che vengano poi usati dai terroristi come "scudi umani". Lo scambio di informazioni sui canali militari e dell’intelligence è stato potenziato. L’ipotesi più probabile è che i fondamentalisti cerchino una via di fuga e abbandonino la città, come già accaduto in altre aree. Ma non può comunque essere sottovalutato il rischio di una risposta forte. Anche fuori dal territorio libico. Sotto controllo 1.300 luoghi di aggregazione - L’attività dei servizi di intelligence italiana si muove sul "doppio binario" interno ed estero, in un’azione coordinata dal Dis - il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza - diretto dal prefetto Alessandro Pansa. Gli attentati a Parigi, Bruxelles, Istanbul, ma anche a Dacca, Nizza, Ansbach, Monaco e infine a Rouen hanno fatto emergere la determinazione dei "soldati" dell’Isis a mostrare l’orrore compiuto. Foto e video degli attacchi, delle vittime e dei carnefici sono stati girati e poi postati sul web per amplificare l’effetto mediatico e quello emulativo. Per convincere altri giovani al martirio. Puntando soprattutto sulle persone disagiate, maggiormente influenzabili. Consapevoli che l’attività di propaganda fornisce una mobilitazione senza precedenti. La strategia messa a punto dall’Aisi - l’agenzia per la sicurezza interna - punta dunque sulla rimodulazione dei controlli. E così, come ha sottolineato il generale Mario Parente durante la sua audizione di fronte al Copasir (il comitato parlamentare di controllo), bisogna cercare di prevenire l’arruolamento, captare ogni segnale di allarme rispetto alla possibile radicalizzazione. Per farlo sono stati messi sotto controllo ben 1.300 luoghi di aggregazione islamica. "Vedere e ascoltare il potenziale nemico", è questa la linea. Per farlo sono stati individuati posti apparentemente innocui - si va dagli esercizi commerciali alle palestre, dai condomini agli Internet café fino ai money transfer - dove alto è il rischio di reclutamento. Strategica è la scelta di ricorrere alle espulsioni, con un’intensificazione dei provvedimenti firmati dal ministro dell’Interno Angelino Alfano che ormai sono oltre cento. Sono i casi in cui i criteri per procedere all’arresto appaiono "deboli" e dunque per evitare il rischio di una successiva scarcerazione e inevitabile permanenza sul territorio in attesa del giudizio, si sceglie la strada ritenuta più efficace dell’allontanamento forzato. Sotto monitoraggio costante i siti Internet, con un investimento in quell’attività di controinformazione che può fare la differenza per chi non ha una formazione jihadista ma cerca soltanto nuove esperienze all’interno dei gruppi fondamentalisti. La comunità in Africa e la protezione in Sudamerica - Una realtà che si è manifestata in maniera drammatica il 1° luglio scorso con l’assalto nel ristorante di Dacca dove sono stati trucidati nove italiani che si erano riuniti per festeggiare l’arrivo delle vacanze. Occidentali finiti nel mirino di chi aveva deciso di suggellare la propria appartenenza all’Isis con un’azione barbara come la decapitazione degli ostaggi. Altri estremisti - questo dicono i report veicolati dagli 007 dei Paesi collegati - sono pronti a colpire in quelle aree dove il radicalismo ha assunto dimensioni allarmanti. E dove la presenza di comunità italiane convince i vertici dell’Aise - l’agenzia per la sicurezza esterna guidata dal generale Alberto Manenti - a rivedere le aree di intervento e soprattutto prevedere una presenza costante che possa diventare punto di controllo e raccordo con gli altri apparati stranieri. Per questo sono state individuate nuove zone che spaziano dall’Africa con attenzione particolare al Kenya, Mozambico e Sudan e arrivano in Sudamerica lì dove gli islamici si sono insediati in maniera capillare, come del resto è stato confermato con gli arresti di numerosi fondamentalisti alla vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. La missione primaria è quella di proteggere i siti strategici, le postazioni delle industrie italiane che operano all’estero e hanno creato vere e proprie comunità italiane. E per farlo si sta pensando di incrementare quello stanziamento da 650 milioni di euro che garantisce il funzionamento dell’intero sistema di intelligence. Libia: la grande spartizione del dopo-Gheddafi di Manlio Dinucci Il Manifesto, 3 agosto 2016 Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe. "L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del governo di unità nazionale, a sostegno delle forze fedeli al governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia": questo è il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto. Alla "pace e sicurezza in Libia" ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma. Gli stessi paesi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la "missione di assistenza internazionale alla Libia". L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che "occorre finirla con la finzione della Libia", "paese inventato" dal colonialismo italiano. Si deve "favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi", spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto "ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche", presenti in Tripolitania e Cirenaica. È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo. Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche. Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi "autorizza caso per caso" la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che "l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento", assicurando che ciò "non è preludio a un intervento militare" in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi - confermano il Telegraph e Le Monde - operano da tempo segretamente in Libia per sostenere "il governo di unità nazionale del premier Sarraj". Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la "missione di assistenza alla Libia", gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti. Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia - provano le mail di Hillary Clinton - decisero di bloccare "il piano di Gheddafi di creare una moneta africana", in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton - documenta il New York Times - a convincere Obama a rompere gli indugi. "Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli", compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come "legittimo governo della Libia". Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia. Guinea: l’azione di Dream per migliorare la vita nelle carceri africane santegidio.org, 3 agosto 2016 Nell’ambito di un vasto servizio che la Comunità di Sant’Egidio svolge in tante carceri africane pubblichiamo il racconto di Raquel Sancho della Comunità di Sant’Egidio di Barcellona che durante una delle sue missioni in Guinea ha accompagnato le attiviste di Je Dream in una delle loro visite nelle due carceri di Coyah e Dubreka (città che si trovano uscendo dalla capitale Conakry). Una raccolta di fondi fatta in Spagna ha permesso la liberazione di alcuni prigionieri e l’acquisto di alcuni generi di sostegno alla vita dei prigionieri. Nella periferia di Conakry, ogni mese il carcere di Dubreka e di Coyah aprono le loro porte per accogliere un gruppo di attiviste di Dream che arriva per far loro una visita. Il valore dell’amicizia e la fedeltà dell’incontro hanno qui un senso molto speciale dovuto al senso di abbandono e alle dure condizioni di vita dei prigionieri, 86 a Dubreka e 105 a Coyah. Dormono per terra, sopra le nattes, tappetini di plastica intrecciata, tutti insieme, quasi senza cibo e con acqua potabile limitata, senza igiene né pulizia. Manca tutto, perfino l’aria per respirare. In tale condizione è molto facile ammalarsi e molto difficile avere i farmaci per curarsi. Durante la visita sono tanti i prigionieri che si lamentano dei loro mali: paludismo, asma, dolori in tutto il corpo, ferite, stanchezza, febbre, raffreddore, e chiedono di scrivere i loro nomi sui quaderni delle attiviste come a dire: non dimenticarti di me. Pochi giorni prima di essere liberati, Etienne e Alpha Omar sono morti per mancanza di medicine. La maggior parte di loro non conosce neanche il tempo di pena e la data termine: così possono passare mesi e anche anni! Aliou, Naby, Saliou, Idrissa, Diaby sono alcuni dei nomi degli 11 prigionieri che saranno liberati nei prossimi giorni, grazie ad una raccolta di fondi che permetterà loro di pagare la cauzione di uscita. Infatti una volta scontata la pena molti restano in carcere perché non hanno i mezzi per pagare questa tassa che permetterebbe loro la libertà. La cauzione dipende dall’infrazione compiuta. In tale situazione, i più vulnerabili sono sempre i più poveri, o quelli la cui famiglia abita lontano: possono restare per molto tempo senza permessi, né giudizio, né avvocati, né il necessario per sopravvivere. Un gruppetto di sei donne vive insieme in una cella a parte. Una di loro piange per i suoi sei figli che ha lasciato da soli a casa da due mesi e di cui non ha notizie. Dentro il recinto del carcere accanto alle celle, un gruppo di 15 bambini giocano davanti alle loro case. Lì abitano le famiglie dei guardiani che in quel triste ambiente subiscono quasi le stesse restrizioni alla libertà. Le parole, i gesti e l’amicizia gratuita con i prigionieri è una domanda anche per i guardiani che lavorano e vivono lì. Avere amici è sempre una protezione. Dentro le celle la luce quasi non arriva e manca tanto l’aria. Tutti sono seduti per terra con la schiena contro il muro. Ogni prigioniero riceve un saluto e allo stesso tempo una borsa di farina di manioca. Le attiviste di Dream hanno portato anche altre nattes nuove, ciabatte in plastica e sapone. Uno di loro guarda fissamente un pezzo di cartone pieno di numeri che ha tra le mani, indica il numero 487: sono i giorni che ha passato qui. Prima di salutarci ascoltano queste parole: non siete abbandonati, noi amici della comunità vi faremo visita, e ci sono anche altri che pensano, lavorano e pregano ogni giorno per voi, per la liberazione dei prigionieri, per la libertà degli oppressi. Questo segno di speranza è ricevuto con un sentito ringraziamento e un caloroso applauso aspettando e contando anche i giorni che mancano per la prossima visita. Israele: la Croce Rossa taglia le visite ai prigionieri palestinesi, proteste nelle carceri improntalaquila.org, 3 agosto 2016 Il 28 luglio i prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane hanno organizzato uno sciopero della fame di un giorno per protestare contro la decisione del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc) di ridurre ad una, anziché due, il numero di visite mensili finanziate e quindi di fatto concesse ai loro familiari. La Società dei Prigionieri Palestinesi (Pps) ha spiegato che la decisione di indire questo sciopero è scaturita dopo che l’Icrc ha chiesto alle famiglie dei prigionieri di pagarsi da sole una delle due visite per cui la Croce Rossa prevede di svolgere una mera funzione di coordinamento con le autorità carcerarie israeliane. La PPS ha quindi sottolineato come questa forzatura porti all’ulteriore inasprimento delle sofferenze patite dai prigionieri e dai loro familiari, considerando il fatto che i prigionieri sono separati in molti modi dalle loro famiglie, in palese violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra, secondo il quale "le persone accusate di reati devono essere detenute nel Paese occupato, dove in caso di condanna devono poter scontare la pena". I prigionieri palestinesi sono invece imprigionati all’interno del territorio della potenza occupante e i loro familiari devono chiedere permessi speciali per poterli visitare. Permessi spesso negati o concessi in ritardo, che quando vengono approvati richiedono mesi per essere esaminati. Addameer (in arabo "coscienza"), un’associazione che si occupa dei detenuti palestinesi, osserva ad esempio che "ogni membro della famiglia di sesso maschile e di età compresa tra i 16 e i 35 è tipicamente escluso dalle visite." Israele si impegna in pratiche sistematiche volte a scoraggiare le famiglie, che includono, oltre alla negazione dei permessi o, all’ultimo momento, della visita, molteplici posti di blocco e perquisizioni, aree di attesa sporche e scomode, il divieto di portare qualcosa, e, in generale, un processo lungo e difficile, soprattutto per i genitori anziani o i giovani figli dei detenuti. Negando alle famiglie palestinesi la loro seconda visita mensile, l’Icrc partecipa così alla politica israeliana che compromette, riduce al minimo o nega le visite dei familiari. La Croce Rossa dovrebbe in vece far fede alla sua responsabilità di proteggere le persone che vivono sotto l’occupazione, lavorando per rimuovere gli ostacoli che Israele pone alle visite familiari e ponendo fine alle sue violazioni delle Convenzioni di Ginevra, piuttosto che approvare tagli di bilancio per coloro che sono più vulnerabili e non hanno la possibilità di sopportare tali misure. Le famiglie palestinesi non hanno infatti altri mezzi per assicurare le visite ai loro familiari. Filippine: reportage dal carcere di Quezon, la "tomba dei diritti umani" globalist.it, 3 agosto 2016 200 uomini in una cella. Condizioni di vita miserabili. I diritti umani non esistono. Il carcere di Quezon City, nelle Filippine, è uno dei più affollati al mondo e non sa cosa siano i diritti umani. Gli uomini dormono dappertutto: nelle celle, nelle zone comuni, nel sottotetto e sulle scale; lo fanno per terra, addirittura nel campo da basket all’aperto perché dentro non c’è posto. E lo fanno su turni, perché altrimenti non c’è spazio per tutti. Quella di Quazon, a nord-est di Manila, è una delle strutture carcerarie più fatiscenti delle Filippine. Costruita nel 1956 per ospitare 800 persone, conta oggi 3800 detenuti, oltre il 400% in più della capienza consentita. Basti pensare che in una cella che potrebbe ospitarne al massimo 20 ve ne sono invece fino a 200. Il fotografo Afp Noel Celis ha varcato la soglia di questo inferno, documentando la disumanità della condizione in cui versano i carcerati. Se già l’esperienza in prigione è di per sé una condizione difficile da affrontare, sopravvivere nella Quezon City Jail è un’impresa piuttosto ardua. Un luogo dove la detenzione diventa una costante lotta per accaparrarsi qualche millimetro di spazio in più, e non morire letteralmente schiacciati dalla presenza degli altri. Una vera e propria tomba per i diritti umani fondamentali. La prigione di Quezon, ma anche le altre del Paese, come quella di Manila e di Muntilupa, risultano dei posti infernali dove non vi è la minima considerazione dell’essere umano, con condizioni di vita miserabili e umilianti. Urgentissima è dunque la necessità di riformare l’intero sistema carcerario delle Filippine. D’altronde, in un Paese il cui il neopresidente afferma che uccidere un giornalista è giusto, forse non ci si può aspettare molto altro. È così, infatti, che Rodrigo Duterte, ha esordito appena qualche mese. Secondo Duterte "Solo perché sei giornalista, non significa che tu sia esente dall’essere assassinato. Non c’è libertà di espressione che tenga, quando fai un torto a qualcuno". Addirittura "non c’è libertà di espressione che tenga". Secondo l’opinione del neopresidente, in genere i giornalisti vengono uccisi perché sono corrotti. "Se sei un bravo giornalista, però, nessuno ti toccherà", rassicura il presidente, conosciuto da tutti come the punisher (il giustiziere). Oltraggioso il bavaglio nei confronti dei media operato dallo Stato. Le Filippine è infatti uno dei Paesi più pericolosi per la libertà di stampa. Solo lo scorso anno sono stati uccisi 7 giornalisti e quest’anno sono già 2 i reporter scomparsi. La stessa Federazione Internazionale della stampa afferma che il Paese è lo stato asiatico più a rischio per chi racconta la verità, prima delle Filippine solo l’Iraq è più pericoloso.