Magistrati, proroga delle pensioni. Ma solo per Cassazione e alte Corti di Melania Di Giacomo Corriere della Sera, 31 agosto 2016 I vertici della Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dell’Avvocatura dello Stato andranno in pensione un anno più tardi (il 31 dicembre 2017), derogando alla norma - introdotta dallo stesso governo Renzi - sul collocamento a riposo al settantesimo anno d’età. Il provvedimento è stato adottato dal Consiglio dei ministri nella forma del decreto legge per evitare il rischio di vuoti d’organico in contemporanea nella posizioni apicali della magistratura. A differenza delle due proroghe precedenti, concesse nel 2014 e 2015, esclude e scontenta gli altri magistrati. Ha attirato le critiche preventive dell’Anm, che già alla vigilia del varo ha parlato - sulla base di quanto trapelato - di un provvedimento "improvvisato" che genera "disparità di trattamento". Il decreto, che troverà scarsa applicazione nelle altre alte Corti, ad alcuni sembra infatti tagliato ad hoc per la Cassazione, che a fine anno avrebbe visto andare in pensione il primo presidente, Giovanni Canzio, il presidente aggiunto, Renato Rordorf, il procuratore generale, Pasquale Ciccolo, alcuni avvocati generali e cinque presidenti di sezione nel penale e quattro nel civile. In tutti una ventina di alti magistrati, in un momento in cui sarebbe stato necessario seguire i processi di innovazione e riforma avviati al Palazzaccio. È questa la valutazione fatta a Palazzo Chigi, che per la terza volta - anche se in modo parziale - ha dovuto retrocedere dalla scelta, fatta con la riforma Madia, di abbassare l’età della pensione dai 75 ai 70 anni. È stata quindi utilizzata questa formula di mediazione della "proroga ma non per tutti". Una misura in qualche modo attesa, visto che il Csm prima della pausa estiva non aveva ancora pubblicato il bando per i vertici della Cassazione. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che già in occasione del varo della riforma avrebbe preferito scaglionare il provvedimento, si è più volte pronunciato sulla necessità di valutare l’impatto sugli uffici giudiziari dell’abbassamento dell’età pensionabile. L’Anm da tempo chiede reintroduzione del collocamento a riposo a 72 anni per tutti, ritiene che il brusco abbassamento, senza prevedere periodi transitori, sia stata una scelta errata visto che non ha fatto altro che peggiorare il progressivo vuoto di organico che oggi ha superato le mille unità e sottolinea la necessità di velocizzazione dei tempi di reclutamento dei nuovi magistrati. Il decreto varato ieri, sempre nell’ottica di disingolfare la Cassazione, consente di applicare alle sezioni i magistrati del Massimario; prevede poi anche misure per coprire i vuoti di organico, aumentando sino a un decimo i posti messi a concorso nel biennio 2014-2015, riduce la durata del tirocinio da 18 a 12 mesi, e sveltisce il processo amministrativo telematico. Un anno in più per i giudici "apicali" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 Un anno di servizio in più per i giudici delle magistrature apicali (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato), iniezione temporanea di toghe nelle corti di legittimità, assegnazioni più lunghe di giudici alle sedi territoriali (e a prescindere dal gradimento del magistrato) e infine blocco dei distacchi del personale della Giustizia. Sullo sfondo, il varo senza eccezioni del processo amministrativo telematico a partire dal 1° gennaio prossimo. Il tanto atteso decreto "salva apicali" è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri, confermando tutte le indiscrezioni trapelate (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e aggiungendo la parte sull’efficientamento del sistema civil-penalistico, soprattutto e ancora una volta con proiezione su Piazza Cavour. I magistrati di Cassazione nati nel ‘45 (leva a cui appartiene il presidente Giovanni Canzio) resteranno in servizio fino al 31 dicembre 2017. Proroga anche per gli apicali delle altre giurisdizioni, vale a dire Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato e Corte dei conti. Per tutti loro però l’asticella anagrafica sarà più bassa rispetto ai colleghi di Cassazione, perché il trattenimento in servizio riguarderà solo la classe del 1947. Con questa terza proroga, in sostanza, il Governo rimedia al danno di transizione commesso due anni fa quando abbassò repentinamente l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni, nonostante il parere contrario - all’epoca - della stessa Giustizia che aveva intravisto i problemi di continuità del servizio, puntualmente verificatisi poi. Alle corti della Cassazione arriverà il soccorso dei giudici del Massimario, che - nonostante siano magistrati "di merito" e non "di legittimità" - potranno essere aggregati alle Sezioni, massimo uno per collegio se hanno almeno 2 anni di anzianità nel servizio, per smaltire i processi pendenti (la Cassazione sforna - unicum al mondo - quasi 100mila sentenze all’anno e nessun intervento legislativo è finora riuscito a limitare questo inconcepibile flusso). In Cassazione, inoltre, potranno lavorare dal giorno della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto, anche i magistrati tirocinanti esclusi fino ad oggi, tirocinio che tra l’altro si abbrevia a 12 mesi (dai 18 previsti dalla legge) e al termine del quale salta il divieto - risalente all’epoca ?Berlusconi/Castelli - di occupare subito ruoli da pm, giudice monocratico o addirittura Gip. Cambiano anche le regole per i trasferimenti di sede dei magistrati ordinari, considerato che il periodo di "ferma" minima di tre anni previsto dall’ordinamento giudiziario viene allungato a quattro per evitare la fuga dalle destinazioni poco gradite. Scatta da subito anche il blocco dei distacchi degli uffici di sorveglianza (esecuzione penale), salvo nulla osta del presidente del tribunale di Sorveglianza, ma lo stop ai transiti vale anche per tutto il personale in servizio alla Giustizia. Magistrati - soprattutto - o personale potrà essere chiamato solo da organi costituzionali (per esempio: il Csm). Quanto ai vincitori di concorso, il decreto del ministro Andrea Orlando prevede che, entro 5 giorni dall’ultima seduta delle prove orali di idoneità, il ministro può chiedere al Consiglio superiore della magistratura di aumentare del 10% la platea dei posti disponibili o che si renderanno disponibili nei sei mesi successivi. Il Csm sul punto dovrà rispondere entro un mese dalla richiesta. Per le nuove immissioni in ruolo il decreto stanzia una quarantina di milioni aggiuntivi sul bilancio della Giustizia, da spalmare a partire dall’esercizio 2017 e fino al 2026. Sul decreto, che aveva già incassato i "distinguo" preventivi di Anm - in sostanza contraria alla terza proroga più o meno ad personam - poche le reazioni del mondo politico. Solo Carlo Giovanardi ("siamo stati facili profeti, e il Governo non ha risposto in Parlamento ai senatori") e Renato Brunetta ("Renzi ha qualcosa da farsi perdonare?") hanno commentato l’esito del Cdm. Restano irrisolti i problemi strutturali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 La fine era nota. Ma non per questo del tutto soddisfacente. La proroga del mantenimento in servizio dei vertici degli uffici giudiziari investe alla fine soprattutto la Corte di cassazione, la magistratura amministrativa e quella contabile. Misura di buon senso si dirà ora, alla quale il ministro della Giustizia Andrea Orlando avrebbe preferito non arrivare e che comunque solleva le perplessità anche dell’Anm, pur rimediando al vuoto che si sarebbe venuto a creare in snodi assai delicati nell’esercizio della giurisdizione. E tuttavia, misura che conferma una delle più ricorrenti accuse al nostro legislatore, quella di essere assai poco attento alle conseguenze dei propri interventi di riforma. Magari anche meritevoli. Così, se un abbassamento dell’età pensionabile dei magistrati a 70 anni è misura senza dubbio condivisibile, tra l’altro sta portando a uno svecchiamento ampio e sostanziale dei ruoli apicali, alla prova dei fatti, è emersa l’assenza di gradualità e la mancata previsione dell’impasse cui si sarebbero esposti gli uffici, malgrado l’oggettivo impegno del Csm. Conseguenze improvvide che, a essere sinceri, emersero subito. Costringendo a interventi d’urgenza. Quella deliberata ieri non è infatti la prima proroga: altre due l’hanno preceduta nel 2014 e nel 2015. A mancare nel decreto, inoltre, sono interventi più strutturali che pure in un primo tempo erano stati inseriti. Per fare un esempio, l’emergenza Cassazione non riguarda solo presidenza e procura ma i carichi di lavoro, soprattutto sul versante fiscale, e l’arretrato. Per questo si era pensato a misure procedurali per accelerare il giudizio di legittimità e a un reclutamento straordinario di giudici per smaltire lo stock di controversie tributarie mentre, sul civile, era apparsa, ancora una volta, la tentazione di un’estensione del procedimento sommario di cognizione. Poco è rimasto del piano iniziale. Solo una chance di utilizzo nei collegi dei consiglieri del massimario, un taglio dei tirocini e più garanzie di permanenza in servizio per chi intende concorrere per le funzioni direttive e semidirettive. Forse troppo poco; certo non abbastanza. Congresso del dopo-Pannella: sapranno le 2 anime radicali convivere? Ce lo dirà Rebibbia di Valter Vecellio Il Dubbio, 31 agosto 2016 Quando Marco Pannella è morto (ma anche prima, in verità, quando sta così male che, per dirla con Leonardo Sciascia non è più la speranza ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza), i più consapevoli, i più sensibili, i più "vicini", sanno che si chiude un ciclo, un’epoca: personale e politica. Che sepolto Marco nella sua amata Teramo, nulla sarà più come prima, ripetibile, riproducibile. chi e con chi "fare"; come farlo, cosa; perfino perché? Queste le domande "naturali", scontate perfino. Sei anni fa mi è capitato di scrivere un libro sulla persona e l’opera di Marco; l’editore ha voluto chiamarla "Biografia di un irregolare"; più prosaicamente è un libro divulgativo, cerca di raccontare la figura del leader radicale attraverso alcuni episodi inediti: per aiutare a capire ragioni, percorsi, proposte, politica di un personaggio che, piaccia o no, ha "segnato". Nelle ultime pagine del libro mi chiedo: "Ha degli eredi? La risposta è no. Non ha eredi, non ci sono eredi, lui non li cerca neppure. Forse un giorno ci ha sperato, ha perfino creduto di averne trovati. Ma nel gruppo dirigente radicale non c’è nessuno, neppure Emma Bonino, che possa ambire a raccoglierne scettro ed eredità. Pannella è unico e irripetibile? Il giorno che Marco sarà altrove i radicali probabilmente continueranno a fare una quantità di cose giuste e necessarie; ma il Partito Radicale voluto, sognato prefigurato da Pannella è altra cosa. Un’avventura anch’essa unica e irripetibile". Affermazioni che Marco non mi ha mai contestato, e ne ha avute occasioni per farlo: ha preso parte ad almeno quindici presentazioni del libro, a Firenze, Pescara, Torre Pellice, Torino? Anche nelle conversazioni private, è altro che mi ha confutato, non questo. Le condivideva, oppure non riteneva di doversi sprecare a contraddirmi? Non lo so. Al massimo si è limitato a espormi la teoria di Aldo Capitini circa la compresenza dei vivi con chi non c’è più; sapendo che su questo sono piuttosto scettico: se il vivo smarrisce la memoria di chi non c’è più, addio "compresenza". E il tempo è un qualcosa che fatalmente scolora persone, fatti, avvenimenti, cose. Per quel che mi riguarda, sono ancora convinto della fondatezza di quanto scritto: Pannella era il Partito Radicale, il Partito Radicale era Pannella. Fatta questa non breve premessa, giova ricordare che il Partito Radicale tra qualche giorno si riunisce a congresso: il quarantesimo della sua storia: dal 1 al 3 settembre prossimi, nel carcere romano di Rebibbia. Congresso straordinario per almeno tre ragioni. È il primo congresso radicale dopo la morte di Marco Pannella. Non è cosa di poco conto. È vero che fino all’ultimo Pannella ha avuto cura di indicare, tracciare, ripetere, e ripetendo elaborare e chiarire, possibili percorsi politici, "visioni" che costituiscono un patrimonio di concrete utopie sulle quali lavorare per molti anni a venire; ma è evidente che senza l’apporto del consiglio della sua critica, senza il contributo della sua vis polemica, senza la sua capacità di saper "vedere" e prevedere, mutilati del suo bagaglio di esperienza e capacità di "sogno", tutto è più arduo, difficile, non solo faticoso. Ancora in tema di straordinarietà: il congresso è "straordinario" anche per le modalità di convocazione. È la prima volta che viene convocato direttamente dagli iscritti, come prevede una norma dello Statuto: se un terzo degli iscritti con almeno sei mesi di "anzianità" lo chiede, automaticamente lo si fa, e non c’è modo di aggirare la cosa. È questo che è accaduto. È la prima volta che accade nella storia dei radicali; ma credo sia anche la prima volta che accade per quel che riguarda le altre organizzazioni politiche. Qualcuno è a conoscenza di congressi convocati direttamente dagli iscritti, in Italia e/o altrove? E siamo dunque alla seconda "follia", meriterà un giorno di essere studiata con più agio, come tante altre cose, del resto. Non finisce qui. I promotori, come se già non fosse impegnativo il tema che caratterizzerà il congresso ("Da Ventotene a Rebibbia"), hanno deciso di convocarsi all’interno del carcere romano di Rebibbia. I radicali hanno una discreta consuetudine e frequentazione con le carceri, ma è la prima volta in assoluto che un partito politico fa suo il precetto evangelico del "visitate i carcerati" al punto di riunirsi a congresso in un istituto di pena. Il ministero della Giustizia accoglie la proposta, il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria collabora concretamente per il successo dell’iniziativa. Un fatto straordinario davvero. Credo che neppure i radicali siano ben consapevoli del fatto "rivoluzionario" che la cosa comporta e sottende. Infine, quel "manifesto": "Da Ventotene a Rebibbia": un programma politico: dagli Stati Uniti d’Europa prefigurati da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli mentre sono confinati a Ventotene, e di cui i radicali si sentono legittimi eredi, alla battaglia per il diritto al diritto, alla giustizia; e al diritto umano e civile alla conoscenza. Non è inutile sfogliare carte ingiallite dal tempo, e scoprire attualità che stupiscono per la straordinaria aderenza ai tempi d’oggi. Per esempio: "Per sopravvivere, nessun motivo. Per vivere c’è l’imbarazzo della scelta. Comunque, eccoli. Primo motivo: ciascuno si chieda se questo partito è meglio che ci sia o non ci sia. Ci pensi su una notte e poi agisca di conseguenza. Dipende infatti solo da ciascuno di noi se questo straordinario e inedito progetto politico crescerà, si affermerà o decadrà. Secondo motivo. Tutti gli altri dicono, ?dateci più forza e cambieremo rispetto al passatò. Il Partito Radicale, se avrà più forza, farà meglio quello che, nel nostro tempo e nella nostra società, ha sempre dimostrato di saper fare. Terzo motivo. In questo fine secolo, dove risorgono spaventosi fantasmi di morte e altri se ne aggiungono (politici, economici, sociali ed ecologici), si è forse ancora in tempo per dare vita al partito della nonviolenza, del dialogo, della difesa della vita del diritto e del diritto alla vita?". È Pannella che parla, intervistato dal "Messaggero", il 4 febbraio 1993. I radicali di oggi, coloro almeno che vorranno cercare di continuare a esserlo, hanno un difficilissimo compito: proseguire una politica "nuova" che è quella di sempre; continuare a cercare possibili "percorsi" senza timore di apparire zig-zaganti e contradditori; non stancarsi di coltivare alleanze di "unione", e non di posticcia unità; alleanze e unioni fondate più su valori che su principi; con la consapevolezza che si deve imparare a farlo da soli: Marco, compresente o no che sia, è comunque "altrove". Il congresso straordinario e i loro convocatori si pongono un obiettivo ambiziosissimo: tenere alte le bandiere politiche racchiuse nelle frasi: "Dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli"; "Per il diritto alla vita, per la vita del diritto". Ha impiegato anni, Pannella, per farle comprendere ai radicali, e non è detto ci sia completamente riuscito. Dal congresso straordinario è augurabile esca un preciso impegno politico coerente con quel "non mollare" di salveminiana ed ernesto-rossiana memoria. Un impegno che si richiami e colleghi a quel paolino "Spes contra Spem", che in Vaticano, qualcuno venuto da quasi la fine del mondo, mostra di comprendere assai più e meglio tanti di altri. Provo ad elencare, non in ordine di importanza perché tutti pari sono, i temi su cui i radicali che negli ultimi mesi più si sono stretti attorno a Marco, dovranno cercare di ragionare e "dialogare"; sono cinque: a) diritto al diritto, a partire dal carcere; b) diritto umano e civile alla conoscenza, in tutte le sue innumerevoli declinazioni, a partire dalla necessaria e urgente "codificazione" in sede ONU; c) informazione negata (ma anche quella "concessa"), che avvelena e intossica; d) il milione di euro di debito cumulati: debito che ha consentito al mondo radicale di fare attività politica; il debito in sé, in quanto tale; ma anche quello che lascia trasparire: come finanziare la politica e recuperarne la smarrita "nobiltà"; e) che tipo di organizzazione cominciare a prefigurare, a partire dal fatto, incontrovertibile che - compresenza o no - Marco non c’è più. Nel mondo radicale ci sono, è noto, due "anime", due diversi modi di "sentire"; una che ogni giorno gioca la scommessa dell’antagonismo "dialogico", sull’esempio e la tradizione pannelliana; un’altra che vuole percorrere altre vie, interessata a percorsi "altri", e con altri obiettivi. A ben vedere queste due "anime" hanno sempre convissuto; fino a "ieri", quando Marco riusciva a calmierare la situazione, e sapeva inventare le quadrature del cerchio. Ora? Il congresso di Rebibbia in qualche modo scioglierà anche questo nodo. Arresto europeo, più garanzie alla difesa di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 Tempi rispettati per il recepimento della direttiva 2013/48/UE che rafforza i diritti procedurali di indagati e imputati e fornisce maggiori garanzie ai destinatari del mandato di arresto europeo. Il Consiglio dei ministri di ieri ha dato il via libera all’adozione del decreto legislativo per recepire la direttiva "sul diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo, al diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale e al diritto delle persone private della libertà personale di comunicare con terzi e con le autorità consolari". Rispettati, quindi, i tempi stabiliti da Bruxelles, che ha fissato il termine ultimo per attuare la direttiva al 27 novembre di quest’anno. La delega al Governo per recepire la direttiva, che si inserisce nella cosiddetta tabella di marcia indicata dal Consiglio europeo nel Programma di Stoccolma del 2009, era stata inserita nella legge 114/2015 di delegazione europea 2014, con l’obiettivo di fornire maggiori tutele e diritti procedurali effettivi a indagati e imputati. Va detto che il decreto legislativo si limita a inserire nell’ordinamento solo alcune regole della direttiva, perché la maggior parte delle garanzie sono già presenti nell’ordinamento italiano che, in alcuni casi, assicura una tutela di più ampia portata. In questo senso, ad esempio, non è stata riprodotta la norma che prevede la rinuncia al difensore, inserita nella direttiva ma incompatibile con i princìpi fondamentali dell’ordinamento italiano. Il decreto legislativo mette mano, quindi, a poche disposizioni del Codice di procedura penale e dell’ordinamento interno. Modificato l’articolo 364 del Codice di procedura penale, con l’obbligo di garantire la presenza del difensore anche nella fase dell’individuazione delle persone svolta dal pubblico ministero. Novità per il quadro difensivo del destinatario di un mandato di arresto europeo nel caso di procedura attiva di consegna. L’articolo 4 del Dlgs approvato ieri ha aggiunto un comma, il 5-bis, all’articolo 9 della legge 59/2005 (che recepì la decisione quadro 2002/584 sul mandato di arresto europeo e sulle procedure di consegna tra Stati membri), allargando le garanzie. È così previsto che la persona destinataria del provvedimento di consegna possa nominare un difensore non solo nello Stato di esecuzione ma anche in quello di emissione. Se l’interessato esprime la volontà di avvalersi di un difensore in quello Stato, il presidente della Corte di appello competente comunica immediatamente questa richiesta all’autorità dello Stato membro di emissione. Stalking anche se le abitudini restano di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35778/2016. Il reato di stalking c’è anche quando la vittima non cambia le sue abitudini di vita. Con la sentenza 35778 depositata ieri, la Cassazione chiarisce che gli atti persecutori prevedono eventi alternativi: perché scatti la condanna, non è necessario che allo stato di ansia e di paura indotti nella vittima si associ il mutamento di abitudini. Nel caso esaminato, in cui la persecuzione era stata messa in atto per questioni economiche e non "passionali", basta lo stato d’animo indotto nella vittima e verificato non solo in base alla sua testimonianza, ma anche sulle affermazioni delle persone che erano vicine alla donna perseguitata. Per la Suprema corte, la reazione della vittima può variare, come dimostrato da precedenti sentenze. Con la decisione 15603 del 2016, i giudici hanno confermato lo stalking anche quando il soggetto perseguitato reagisce: la "risposta" violenta non è infatti sufficiente ad escludere il timore per la propria incolumità. E non deve essere considerato indicativo neppure lo stile di vita. Per questo, la Suprema corte afferma la sussistenza del reato anche quando l’oggetto delle pressioni cerca di "svagarsi" in discoteca (sentenza 48332). Sullo stalking, che non di rado è l’anticamera di una violenza dalle conseguenze estreme, la Cassazione ha con il tempo stretto le maglie. Nel reato è rientrato anche il divieto di sguardo (sentenza 5664/2015), perché fissare negli occhi in modo intimidatorio, la persona che si dovrebbe evitare è un modo per minacciarla e intimorirla. In questo contesto, un avvertimento è stato però lanciato anche alle parti lese: non possono essere concilianti con i loro persecutori. Atteggiamenti di "apertura", come ad esempio rispondere al telefono quando lo stalker chiama, può essere una mossa che lo salva dalla condanna (9221/2016). Anche se in genere il volto dello stalker è quello di un ex e - qualche volta - anche di una ex, non sempre gli atti persecutori sono il risultato di una reazione patologica alla fine di un rapporto. La Cassazione ha ormai bollato come stalking anche i continui dispetti e le pressioni esercitate dai vicini di casa. Lo stalking condominiale può portare la vittima a prendere tranquillanti e ad aver paura di uscire, come avvenuto nel caso esaminato con la sentenza 26878/2016. Per la Cassazione, tolleranza zero anche con i corteggiatori troppo pressanti che arrivano ad entrare di prepotenza in casa della donna desiderata. Con la sentenza 35353 del 23 agosto scorso, la Cassazione ha accolto il ricorso del Pg e della vittima contro la decisione del Gip di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del persecutore che aveva messo in atto un "assillante corteggiamento" fatto di telefonate e visite sgradite. Per il Gip, però, lo spasimante non era uno stalker e anche la violazione di domicilio poteva rientrare nel raggio d’azione della particolare tenuità del fatto. I giudici usano la mano pesante anche con il figlio che si accampa nel sottoscala di mamma e papà per chiedere continuamente soldi. Secondo la Suprema corte (sentenza 29705 del 13 luglio), il figlio, classe 1959, con il suo "bivacco" fisso intimoriva gli anziani genitori. Guida in stato di ebbrezza, sì alla doppia sospensione della patente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 Corte d’Appello di Perugia - Sentenza del 19 aprile 2016 n. 92. In caso di guida in stato di ebbrezza la sanzione amministrativa comminata dal prefetto della sospensione della patente non preclude, in sede penale, la possibilità per il giudice di applicare la medesima sanzione, tenendo conto del periodo di tempo già scontato. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Perugia, con la sentenza del 19 aprile 2016 n. 92, bocciando il ricorso di un automobilista e chiarendo che il tribunale può anche variare in aumento il periodo di fermo stabilito dal rappresentante di Governo. Il caso era quello di un uomo fermato, intorno alle quatto del pomeriggio, mentre si trovava alla guida della propria autovettura "in evidente stato di ebbrezza conseguente all’uso di sostanze alcoliche", come accertato dall’esame con etilometro che aveva riscontrato un tasso alcolemico pari a 2,27 g/l alla prima prova, effettuata alle ore 16,57, e 2,34 g/l alla seconda prova, alle ore 17,11. In primo grado il Tribunale di Spoleto lo aveva perciò dichiarato colpevole del reato di cui all’articolo 186 commi 1 e 2 lettera c) del CdS, e lo aveva condannato a 6 mesi di arresto (con pena sospesa), e 2mila euro di ammenda. Oltre alla sospensione della patente di guida per due anni con trasmissione degli atti al Prefetto. Nel ricorso, tra l’altro, il guidatore aveva lamentato il fatto che la sanzione amministrativa accessoria gli era stata irrogata senza verificare se il Prefetto avesse disposto una analoga sanzione. La Corte territoriale nel confermare la condanna "essendo indubbio lo stato di ebbrezza, emerso dall’esame alcolimetrico", con riferimento alla mancata verifica della adozione della sanzione amministrativa accessoria da parte del Prefetto, ha osservato che: "a norma dell’articolo 186 CdS, va sempre disposta la applicazione della sanzione suddetta, che opera autonomamente rispetto a quella disposta dal Prefetto". Non solo, facendo proprio l’insegnamento della Corte di cassazione (18920/2013), la sentenza ha ribadito che "in tema di sospensione della patente di guida quale sanzione amministrativa accessoria connessa alla violazione di norme del codice della strada costituenti reato, (nella specie, guida in stato di ebbrezza), l’avvenuta applicazione in via amministrativa non preclude l’irrogazione della stessa sanzione da parte del giudice penale, salvo la detrazione del presofferto da effettuarsi in via esecutiva, né vi sono ragioni che impediscano al giudice di commisurare la sanzione in termini maggiori rispetto a quelli determinati dal Prefetto". Per cui, conclude il Collegio, la sospensione ordinata dal Tribunale "non può essere revocata e nemmeno ridotta nella sua durata, stante la rilevanza dell’illecito in esame". Naufragio e omicidio colposo per comandante sotto costa in cerca di "campo" per telefono di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2016 Corte di Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 agosto 2016 n. 45837. Concorrente violazione di "plurime norme aventi rilevantissimo scopo cautelare" per "soddisfare la futile ragione di consentire al cellulare privato di avere campo". A quasi dieci anni di distanza la Cassazione, sentenza 35837/2016, conferma in via definitiva la condanna - per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo, lesioni personali colpose ed omessa assistenza in mare - del comandante della nave portacontainer "Eleni", della lunghezza di 300 metri, per aver violentemente speronato la motonave oceanografica Thetis, 32 metri, alla fonda per ricerche marine nelle acque antistanti Mazara del Vallo, provocando la morte di un ricercatore russo e il naufragio di 6 membri d’equipaggio e altri 8 scienziati. Inutile, dunque, il tentativo dell’imputato di riversare la colpa sul 3° ufficiale, che si trovava materialmente ai comandi, sostenendo di avergli impartito correttamente gli ordini e di aver ricevuto in risposta un cenno del capo ma che, essendo impegnato alla radio peraltro proprio con l’autorità portuale, non era stato in condizione di "dirigere la manovra, né di correggere gli errori del sottoposto". Sul comandante, che è "munito di potere assoluto ed incontrastato sul governo della nave", spiegano i giudici di legittimità, grava infatti un "obbligo di vigilanza costante ed intervento immediato". Ma nel ripercorrere la dinamica dell’incidente, la Cassazione lungi dall’individuare una responsabilità oggettiva, mette in fila tutte le imprudenze commesse direttamente dal primo ufficiale, a partire dalla tenuta di una velocità "del tutto incompatibile con le condizioni dello specchio di mare attraversato". La nave infatti viaggiava a 20 nodi: "una velocità che può definirsi folle in relazione al contesto", tenuto conto che navigava a sole 2 miglia dalla costa e per di più nel mese di agosto. Non solo, la decisione di accostare verso riva venne presa "in presenza di nebbia e di numerose medie e piccole imbarcazioni in rada, motivata da futili motivi". Inoltre, il comandante non ha dato peso all’allarme acustico proveniente in tempo reale dal "potente e sofisticato radar di bordo" che segnalava la presenza di altre imbarcazioni. Mentre la "spericolata manovra d’emergenza" messa in atto con l’ulteriore accostamento a dritta, e cioè verso costa, nella speranza che la nave antagonista passasse a poppa, aveva di fatto provocato lo speronamento. A cui deve aggiungersi "l’omessa immediata attivazione della procedura di "crash stop". E, infine, la decisione di "non rallentare anche dopo l’impatto e financo di darsi alla fuga, senza prestare soccorso". Il natante, infatti, dopo essere stato colpito a dritta era rimasto incastrato tra il fendente di prora e il bulbo della motonave investitrice, e trascinato per quasi due minuti era poi colato immediatamente a picco appena sganciatosi. Esclusa definitivamente la responsabilità concorrente del comandante della nave speronata, individuata invece in primo grado nella misura del 30%, che per "plurime ragioni ben evidenziate, non era in condizioni di prontamente mettersi in salvo". Sopravvitto o sovraprezzo? il business nascosto Comunicato Associazione Yairaiha Onlus, 31 agosto 2016 Tra le tante problematiche che affliggono la popolazione detenuta vi è quella dei prezzi esorbitanti dei generi alimentari in vendita presso il cd "sopravvitto" dell’amministrazione penitenziaria e la mancanza di controlli sull’origine del prodotto in vendita. Molto spesso, infatti, questi aspetti vengono sottovalutati perché si ritengono problemi minori tra quelli che investono il pianeta carcere eppure, in molti casi, avere la possibilità di acquistare alcuni prodotti può essere vitale ma, al tempo stesso, diventa una sorta di privilegio, riservato a pochi, a causa dei prezzi quasi duplicati rispetto ai normali prezzi di mercato. La possibilità di acquistare prodotti al sopravvitto dipende dalla capacità economica del singolo detenuto e, magari, erroneamente, i detenuti - nell’immaginario collettivo - sono visti come persone ricche, i cui familiari arrivano ai colloqui con macchine super potenti carichi di soldi e pacchi. Ma non è così. La maggior parte della popolazione detenuta proviene dagli strati sociali più deboli, dove la miseria la fa da padrone e magari è proprio per uscire da quella miseria che una persona arriva a fare scelte "sbagliate", le uniche possibili in alcuni luoghi. Quartieri, città, regioni del sud, programmati per creare "criminali" dove l’alternativa è tra la valigia, il clientelismo, lo sfruttamento e l’illegalità. Basterebbe osservare l’insieme dei familiari che arriva (periodicamente) ai cancelli delle carceri sparse in giro per l’Italia (spesso prevalentemente donne e bambini del sud) per rendersi conto della realtà. Colloqui periodici, quasi mai settimanali, spesso mensili ma in tantissimi casi anche annuali o mai. E questo dipende dalle difficoltà economiche ad affrontare i "viaggi della speranza" che le famiglie sono costrette a sopportare pur di non perdere quel minimo contatto affettivo con i propri cari. Questi familiari si vedono arrivare con pacchi carichi di sacrifici e rinunce, non di ricchezze. Vedere una donna col passeggino raggiungere il carcere dalla stazione a piedi perché il costo "ulteriore" del autobus cittadino, dopo il viaggio dalla Puglia alla Lombardia, è "un lusso che non può permettersi, ma non vuole rinunciare a quella manciata di ore che può trascorrere con il marito" dovrebbe far riflettere su quanto sarebbe giusta la c.d. "territorialità della pena" che, insieme a tanto altro, rimane pura enunciazione di principio perché la realtà e ben distante. Uomini nati al sud e detenuti al nord o "deportati" in Sardegna. I pacchi mensili limitati per peso e generi, spesso da condividere con i fratelli detenuti nati più a sud di loro: i migranti, che per la maggior parte neanche ricevono visite o pacchi. E, a parte l’assurdità dei generi ammessi e quelli non ammessi che variano a seconda dei diversi istituti ci sono i generi che sono ammessi solo se acquistati, a prezzi triplicati, allo spaccio del sopravvitto come ad esempio l’olio d’oliva che non è ammesso tra i generi che i familiari possono portare o inviare nel pacco ma è acquistabile a 8/10 euro presso il "sopravvitto" e non c’è possibilità di cambiare "negozio"! Quello che diventa intollerabile e insostenibile per i detenuti è l’arbitrarietà e l’esosità dei prezzi praticati negli spacci interni. Altro punto che penalizza ulteriormente la qualità della vita delle persone detenute è l’assoluta mancanza di etichettatura dei prodotti in vendita (pure prevista dalle normative europee), quindi si finisce per pagare a peso d’oro gli scarti di mercati non meglio identificati perché… l’illegalità nelle patrie galere è di casa. Esempi tra tanti che la dicono lunga sulla speculazione che si fa sui bisogni primari delle persone detenute. Dal 1 settembre, in alcuni istituti, i detenuti si rifiuteranno di acquistare qualsiasi cosa dal sopravvitto. Ne è stata data comunicazione alle direzioni, ai magistrati di sorveglianza, al garante nazionale e alla Federconsumatori, affinché i prezzi vengano adeguati, in tutti gli istituti, a quelli correnti di mercato e si rispetti l’etichettatura con le caratteristiche principali chiare (peso, provenienza, qualità) ponendo fine a quella che è una vera e propria speculazione. La Crivop Italia anche quest’anno non è andata in ferie… Comunicato Crivop Italia, 31 agosto 2016 Sono state tante le attività di volontariato per stare insieme con i detenuti 31 Agosto 2016: con il primo ingresso nella Casa Circondariale di Ragusa con il progetto "Cineforum Onesimo" terminano le attività della Crivop in molti carceri d’Italia per il mese di agosto 2016, durante il quale i volontari hanno preferito dedicare una parte del loro tempo in compagnia dei detenuti in un mese in cui tutti vanno in ferie. Nel mese di Agosto abbiamo iniziato con i colloqui di sostegno, consegna di abbigliamento ai detenuti indigenti e l’assistenza alle famiglie fuori dagli Istituti penitenziari di Messina, Siracusa, Agrigento, Carinola (Ce), Salerno, Catania, Napoli, Saluzzo (Cn), Augusta (Sr) e Genova Marassi. Il progetto "Cineforum Onesimo" è stato svolto negli Istituti di: Avellino, Saluzzo (Cn), Gela (Cl), Catania, Agrigento e Ragusa. Inoltre nella Casa Circondariale di Messina si è realizzato un torneo di "Calcio Balilla" nei passeggi dell’Istituto. Nel carcere minorile di Bicocca Catania inoltre i volontari hanno organizzato un pranzo con i ragazzi ristretti e trascorso due giorni con un ragazzo scarcerato. Anche quest’anno si è dunque contribuito a dare supporto anche agli agenti di polizia penitenziaria, che a causa delle ferie del personale incontrano difficoltà a gestire problemi complessi come gli stati d’animo dei detenuti i quali, non realizzando attività scolastiche o progettuali, cadono spesso in depressione o sconforto. Le nostre attività hanno permesso di alleviare la solitudine ed evitare certe dinamiche che a volte in passato hanno condotto detenuti al suicidio. Vogliamo esprimere riconoscenza ai Direttori ed ai comandanti dei vari penitenziari che, con il loro contributo, ci hanno permesso di alleggerire il dolore di coloro che si trovano in una cella dando una parola di conforto e di speranza in un momento in cui tutto si ferma per la pausa estiva. Il nostro proponimento per gli anni avvenire è di poter raggiungere sempre più carceri in quei mesi caldi per portare un po’ di refrigerio a quanti vi sono ristretti. Michele Recupero Presidente Federazione Crivop Italia Onlus Presidente Crvg Sicilia Quanto valgono quei soldi versati dai carcerati a favore delle vittime del terremoto? di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 31 agosto 2016 Terremoto. Parola che non vorremo mai sentire. Improvvisamente tutto trema. In pochi secondi ci si accorge di quanto la nostra esistenza sia legata ad un filo. Di come questo filo possa inesorabilmente spezzarsi. Se abbiamo scampato il pericolo, immediatamente apprendiamo notizie della tragedia e ci informiamo su quanto accaduto. I mass media, giustamente, dedicano grande spazio al terribile evento. Dettagli dei crolli, numero di morti, di feriti, le dichiarazioni dei politici, le loro ennesime promesse di un’immediata ricostruzione, da troppo tempo smentite da quanto avvenuto in passato. Un vero e proprio bollettino di guerra che di ora in ora si aggrava, coinvolgendo sempre più persone e più territorio. Case, ospedali, scuole, alberghi sono oggetto di attenzione degli inviati speciali, che giungono sui luoghi del disastro per fornire notizie dettagliate sul dramma ancora in atto. Dall’informazione, salvo rare eccezioni, resta fuori solo una parte di cittadini a conferma dell’assoluta extraterritorialità del luogo in cui vivono. Mi riferisco ai detenuti, agli agenti di polizia penitenziaria, a tutti coloro che, per diverse ragioni, sono costretti a vivere dentro quelle mura che delimitano uno spazio ignoto e dimenticato. Eppure la terra ha tremato anche lì. Quei terribili interminabili minuti hanno stravolto anche la mente di chi, chiuso in pochi metri quadrati, non ha via di fuga, ma può solo gridare la sua disperazione chiedendo di aprire le celle. Richiesta vana. Prigioniera del sisma, anche la polizia penitenziaria tenta di gestire la situazione nel migliore dei modi. La mancanza di un piano di evacuazione, lascia gli stessi agenti privi di tutela, in balìa di quegli attimi di terrore in cui il desiderio di sopravvivenza entra in conflitto con il dovere di continuare a vigilare e tentare di salvare altre vite senza scampo. "Ecco il tavolino trema. Il termosifone sembra una sonagliera. Ma c’è qualcosa di ancora più orribile: la porta della cella, chiusa, sbatte come se qualcuno vi si aggrappasse scuotendola. Il letto, alle mie spalle sbatte al muro. Capisco subito: è il terremoto. Al piano gridano: aprite! aprite! Una guardia dice che non ha disposizioni dal brigadiere. Capito? Ora sono certo di aver vissuto il massimo dell’angoscia: in carcere innocente, durante un terremoto" (Lettere a Francesca - Pacini Editore). Così Enzo Tortora descrive, in una lettera alla sua compagna Francesca Scopelliti, il terremoto in carcere. Le sue parole sono ancora attuali. La paura e l’indignazione di Tortora, sono le stesse che hanno provato i detenuti del Centro-Italia il 23 agosto scorso, rimasti nelle loro celle a guardare terrorizzati le mura e i cancelli tremare. Un’ ulteriore pena suppletiva non prevista da alcuna Legge. Chi conosce il carcere sa che, pur in presenza di un piano di evacuazione, mettere in sicurezza la vita dei detenuti, in caso di calamità naturali è impossibile nella maggior parte degli istituti. La mancanza di grandi spazi all’aperto e di un dispositivo che possa aprire tutte le celle contemporaneamente, rendono praticamente impossibile qualsiasi operazione del genere. Ancora una volta, il condannato è abbandonato dallo Stato che, se legittimamente può togliergli la libertà - in alcuni casi sbagliando - deve poi garantire una detenzione dignitosa e sicura. Nonostante il degrado generale dei nostri istituti di pena, giunge dal carcere la solidarietà per le vittime del terremoto, a riprova della grande generosità che caratterizza sempre coloro che soffrono. In alcuni istituti i detenuti, commossi dalle atroci sofferenze che hanno colpito gli abitanti del centro-Italia, hanno versato piccole somme, sul conto corrente dedicato dalla Croce Rossa al sisma. Un atto che ha un enorme significato simbolico, rimasto privo di riscontro mediatico, come tutto ciò che potrebbe destare una maggiore attenzione e disponibilità dell’opinione pubblica verso il pianeta carcere, che non è un corpo estraneo del cosmo, ma parte della Terra, che la Legge ci chiede di salvare. * Responsabile osservatorio carcere Ucpi Lila: no all’allarmismo sui detenuti con l’Aids "con i morsi non si trasmette l’Hiv" L’Unione Sarda, 31 agosto 2016 Gli attivisti cagliaritani della Lila (la Lega contro l’Aids) non hanno apprezzato il modo con il quale è stata diffusa la notizia dell’aggressione agli agenti del carcere di Uta da parte di un detenuto sieropositivo: "è strumentale utilizzare la positività all’Hiv del detenuto protagonista dell’episodio per avere più attenzione dalla stampa e dalle istituzioni" si legge in una nota diffusa oggi. Cagliari: carcere di Uta, parcheggio dietro le sbarre per i malati psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2016 Momenti di grande paura nel nuovo carcere sardo di Uta. Un detenuto, affetto da Aids e con gravi problemi psichiatrici, ha aggredito improvvisamente gli agenti con pugni, morsi e graffi nel volto di tre agenti mentre si accingevano a perquisire la cella in cui era collocato. Solo con l’intervento della sorveglianza generale e di altri agenti si è riusciti a bloccare l’azione violenta. Il caso di cronaca rischia di non diventare più un eccezione. "Il carcere di Uta - denuncia la segreteria della Uil Pa Polizia Penitenziaria - pare sia stato individuato dai vertici dell’amministrazione regionale come contenitore per i detenuti problematici che arrivano ormai senza tregua dagli altri Istituti della Sardegna e della penisola". Il sindacato denuncia il fatto che stanno concentrando nel nuovo carcere un numero elevato di detenuti che nei precedenti istituti hanno già aggredito il personale o hanno creato gravi problemi alla sicurezza. Il sindacato della Uil chiosa: "Considerando che già sono ristretti numerosi detenuti con problemi psichiatrici, significa creare una miscela esplosiva che il numero esiguo di poliziotti in servizio nelle sezioni non può oggettivamente contrastare". Dall’altro canto, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" con riferimento all’aggressione subita da tre agenti della polizia penitenziaria in servizio, così ha spiegato: "Nell’esprimere solidarietà agli agenti, non si può non rilevare che un ammalato di Aids non può restare dietro le sbarre. È anche vero che la Rems (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) non è sufficiente, occorre predisporre case-famiglia diversificate rispetto ai disturbi psichiatrici e ricordare che il carcere è l’estrema ratio non la prassi per confinare persone le cui condizioni psichiche e fisiche non sono stabili e spesso a rischio di atti estremi di autolesionismo. Disporre di strutture differenziate a seconda delle problematiche psichiatriche individuali significa promuovere prevenzione sociale e creare posti di lavoro per i giovani laureati e specializzati con lo scopo di restituire a ciascun paziente-detenuto possibilmente un equilibrio senza dimenticare che finita di scontare la pena nella maggior parte dei casi le famiglie non sono in grado di gestire situazioni così estreme". La presidente di Sdr sottolinea anche che sia sbagliato trasferire da un carcere all’altro detenute e detenuti che hanno gravi problemi di salute mentale: "La prassi del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, utilizzata anche a livello regionale, di "alleggerire" temporaneamente le strutture mandando da un penitenziario all’altro i malati psichiatrici in assenza di utili alternative rischia di rendere più aggressive le persone ammalate con conseguenze spesso non prevedibili". A proposito dell’Aids, ricordiamo che negli istituti penitenziari è una vera e propria epidemia: in carcere una persona su tre è malata. Spesso senza saperlo. E se la notizia trapela, essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo: l’hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni; se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano la terapia perché vengono trasferiti in altre carceri: cambiare carcere, nella maggior parte dei casi, vuol dire cambiare terapia e di conseguenza la cura risulta inefficace. Ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. Rimane comunque il dato oggettivo - specificato anche dalla relazione del ministero della salute - che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. Varese: detenuto assunto dal Comune per manutenzione del verde, stipendio di 500 euro prealpina.it, 31 agosto 2016 Primo inserimento lavorativo dai Miogni: manutenzione del verde per sei mesi. Prenderà servizio dalla prossima settimana alle dipendenze del Comune e più precisamente dell’Area manutenzione, difesa del suolo e polizia idraulica. Svolgerà le mansioni di operaio, occupandosi del taglio di arbusti e rovi cresciuti lungo i torrenti, rimozione dei detriti, puliti dei sentieri nei rioni a Nord di Varese, quelli con colline e montagne, e infine relazioni in ufficio, anche per iscritto, sull’attività svolta. È il primo detenuto che, in attuazione di un accordo siglato a maggio da Palazzo Estense con la casa circondariale dei Miogni, viene inserito "nel programma lavoro" di giornata a favore della comunità locale. Si tratta di un cinquantenne che possiede, ovviamente, tutti i requisiti richiesti dalla legge per svolgere un’occupazione mentre sta scontando una pena. La durata del contratto è limitata: da settembre a febbraio, senza che questo determini un rapporto di lavoro dipendente. La retribuzione? Il Comune di Varese gli pagherà 500 euro mensili, i contributi previdenziali e l’assicurazione contro gli infortuni. Rovigo: la priorità è quella di evitare che i detenuti diventino terroristi rovigooggi.it, 31 agosto 2016 Tenuto il primo degli incontri per scongiurare la radicalizzazione degli islamici: sforzi per perseguire l’integrazione tra culture differenti. Un incontro importante, il primo di una serie, con uno scopo molto chiaro: evitare la radicalizzazione dell’Islam all’interno del nuovo carcere di Rovigo. In parole povere: evitare che i detenuti, in una situazione pesante e probante come senza dubbio è la carcerazione, possano cedere al richiamo del terrorismo. Il primo incontro si è tenuto nella mattinata di lunedì 29 agosto, nel nuovo carcere di Rovigo. Vi hanno partecipato il comandante del reparto, il garante dei detenuti e tre funzionari con specifiche competenze giuridiche, ma anche pedagogiche. Oltre alla popolazione carceraria, chiamata a partecipare al confronto sul tema "radicalizzazione e integrazione". Un tema di grande attualità, alla luce del rischio terrorismo e del richiamo che le sirene estremiste e dell’intolleranza esercitano sui più deboli, categoria nella quale purtroppo si inseriscono di detenuti che vivono - al di là di colpe e responsabilità che li hanno portati dietro le sbarre - una situazione senza dubbio difficile. "L’iniziativa - spiega la nota del direttore reggente Paolo Malato - ha riscosso grande apprezzamento da parte della popolazione detenuta, che ha manifestato il desiderio di potere partecipare ad altri incontri simili, per potere discutere di fatti di attualità e creare un momento di scambio di opinioni e conoscenze, prezioso ai fini di un arricchimento personale. Con questa iniziativa si è dimostrato che all’interno di un carcere vi può essere spazio per una riflessione su temi importanti che coinvolgono tutta la società". Torino: proteste in carcere, detenuto sale sul tetto del penitenziario torinoggi.it, 31 agosto 2016 Resta alta la tensione nelle carceri del Piemonte. Questa mattina è da registrare la clamorosa protesta di un detenuto rumeno della Casa Circondariale di Torino che è salito per protesta sul tetto dell’Istituto di pena. Ne da notizia il Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "Sono stati momento di grande tensione, gestiti al meglio dal Personale in servizio di Polizia Penitenziaria - denuncia il Segretario Regionale del Piemonte del Sappe Vicente Santilli. Evidentemente, non smette l’azione di protesta da parte di alcuni detenuti ristretti nel carcere di oggi. Oggi, intorno alle ore 13,50, un detenuto di origine rumena, anni 31, ristretto per reati di rapina è riuscito dal cortile dei passeggi a salire sul tetto del padiglione B. La sua intenzione era quella di parlare con un magistrato per problemi di giustizia. Grazie alla professionalità del Personale del Corpo assieme ai vigili del fuoco, attraverso il dialogo, si è riusciti in breve tempo a convincere l’uomo a scendere dal tetto". Il Sappe, attraverso il Segretario Generale Donato Capece, denuncia il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri. "È sintomatico", spiega il leader nazionale dei Baschi Azzurri, "che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni 90 sono passati oggi ad essere oltre 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia. Il dato oggettivo è però un altro: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili". Capece evidenzia infine come la protesta del detenuto salito sul tetto del carcere di Torino è "sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale, a cominciare dall’espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli - e sono sempre di più - che, ristretti in carceri italiani, si rendono protagonisti di eventi critici e di violenza durante la detenzione". Genova: a Marassi detenuto minaccia di farsi esplodere con il gas Il Secolo XIX, 31 agosto 2016 Ieri un detenuto del carcere genovese di Marassi ha minacciato di farsi esplodere con il gas della bombola medicale con cui respirava a causa di un’insufficienza respiratoria: a denunciarlo, il segretario regionale del sindacato Uilpa degli agenti penitenziari liguri, Fabio Pagani, secondo il quale il fatto è successo nella Sesta Sezione, al piano terra. Il recluso, un uomo di circa 60 anni con una lunga pena da scontare, ha aperto la valvola dell’erogatore e ha accesso un accendino; a bloccarlo ed evitare l’esplosione sono stati i poliziotti della Penitenziaria: "Se quella bombola fosse esplosa poteva provocare una strage, perché in quel reparto ci sono 80 reclusi, che diventano 700 se contiamo le altre sezioni". Il sindacalista ha sottolineato che la bombola del gas non doveva essere dentro una cella della Sesta Sezione, auspicando che l’episodio serva per "dare una scossa" per risolvere i problemi di sovraffollamento e carenze strutturali nel penitenziario di Marassi. Messina: tensione a Gazzi, detenuto lancia candeggina ad agente di Alessandra Serio tempostretto.it, 31 agosto 2016 Il poliziotto sta bene ma ha rischiato parecchio. L’Ugl Polizia Penitenziaria chiede misure più severe. Ennesimo episodio di tensione nel carcere di Gazzi, dove ieri sera un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto. L’agente è rimasto soltanto lievemente ferito, ma ha rischiato conseguenze peggiori. Il carcerato era impiegato come lavorante e stava lavando i corridoi del carcere. Al passaggio dell’agente, messinese, gli ha gettato della candeggina negli occhi. Immediati i soccorsi per il poliziotto: è stato medicato e ha riportato soltanto qualche giorno di prognosi ma dovrà sottoporsi a cure specialistiche per valutare ed evitare possibili complicazioni per la vista. L’Ugl Polizia Penitenziaria invoca "sanzioni più rigide per garantire la sicurezza del personale penitenziario". È necessario sanzionare con maggior rigore le aggressioni di ogni tipo, messe in atto dai detenuti nei confronto del personale penitenziario". Questo il commento di Alessandro de Pasquale "Le aggressioni continuano a verificarsi con troppa frequenza - continua il sindacalista - e mentre al detenuto spetta, con ogni probabilità, solo una sanzione disciplinare, sarà l’agente a subire gravi conseguenze sia fisiche che psicologiche. Ci auguriamo che l’Amministrazione penitenziaria assuma una posizione più rigida di fronte a tali fatti, smettendo di considerarli dei semplici rischi del mestiere". Per il segretario provinciale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Antonio Solano, "è auspicabile che anche la direzione del carcere adotti i dovuti provvedimenti, per garantire l’incolumità e la sicurezza ai poliziotti penitenziari del carcere messinese". Roma: Cuffaro torna a Rebibbia per la causa dei Radicali Corriere del Mezzogiorno, 31 agosto 2016 Si è iscritto al partito nel 2014: "Voglio sensibilizzare i detenuti per dare una mano a Rita Bernardini". Sulla politica siciliana dice: vedrei una donna governatore. Aveva detto che non sarebbe tornato a fare politica attiva, ma del tutto lontano dalla sua passione, Totò Cuffaro, è evidente che non riesce a stare. E per dare sostegno al Partito radicale, al quale si è iscritto nel 2014, l’ex governatore siciliano da poco tornato in libertà dopo aver scontato una condanna di sette anni per favoreggiamento alla mafia, in vista del congresso ha deciso di tornare nel carcere di Rebibbia. "Sto dando una mano a Rita Bernardini - dice al quotidiano online ilfogliettone.it - abbiamo sensibilizzato un po’ di detenuti". Sul fronte dei partiti, Cuffaro dice di guardare "con molta attenzione al lavoro che sta facendo Stefano Parisi. Mi auguro che insieme a chi in FI crede al suo progetto, insieme a Cesa e Alfano si possa ricostruire un centro moderato. Se si è subalterni al Pd di Renzi, si finisce con l’essere niente. In Sicilia l’Udc Giampiero D’Alia è totalmente schiacciato a sinistra, più a sinistra di Rosario Crocetta e del Pd. Dal 18% dei miei tempi, l’Udc oggi ha percentuali elitarie". "Una donna alla guida della Sicilia" - Cuffaro si spende per il parlamentare di Ala Saverio Romano: "Se dovesse candidarsi a sindaco di Palermo, gli sarò vicino". E traccia il profilo del candidato a governatore della Sicilia: "Secondo me deve essere una donna, una persona che possa essere competitiva in un panorama politico dove i più accreditati a vincere sono i grillini". Infine, spiega che se fosse stato al posto di Renzi non avrebbe "forzato la riforma costituzionale così come ha fatto lui, andando ora incontro a un referendum difficile. Sarei stato più democristiano". Nuoro: jazz in scena a Badu e Carros, concerto fra i detenuti dell’alta sicurezza di Fabio Ledda L’Unione Sarda, 31 agosto 2016 Per il tredicesimo anno consecutivo le note del seminario Nuoro Jazz, hanno varcato i muri del carcere di alta sicurezza di Badu e Carros. Questa mattina all’interno della casa circondariale nuorese si è ripetuto un evento ormai immancabile, con il concerto del duo formato da Marcella Carboni e Max De Aloe. Entrambi docenti del seminario Jazz, già applauditi mercoledì scorso al Museo del Costume, si sono esibiti davanti ai detenuti della sezione Alta sicurezza. L’arpista sarda e l’armonicista lombardo hanno dato vita ad sodalizio forse unico nel campo del jazz, incentrato su due strumenti non troppo usuali per questa musica. La loro è stata un’ora di grande musica, nel silenzio irreale del carcere nuorese, interrotto dai brividi che le note hanno regalato ai presenti. Un concerto reso possibile grazie alla collaborazione della direzione e dei lavoratori della casa circondariale nuorese che si è chiuso un’originalissima ed emozionate interpretazione di "No potho reposare". Cronache di un mondo messo ai margini dalla storia di Gennaro Avallone Il Manifesto, 31 agosto 2016 "I reietti della città. Ghetto, periferia, stato" di Loïc Wacquant per le edizioni Ets. La razza conta, e conta sempre più come fattore di discriminazione e disuguaglianza sociale e spaziale. È questa una delle tesi del libro I reietti della città. Ghetto, periferia, stato di Loïc Wacquant, tradotto e introdotto da Sonia Paone ed Agostino Petrillo per le edizioni Ets di Pisa. Il testo originario del 2008, che raccoglie gli esiti di ricerche sul campo condotte nel decennio precedente, dalla fine degli anni Ottanta, "dopo la conclusione della era fordista-keynesiana", in alcuni quartieri relegati e marginali di Chicago e Parigi, è stato arricchito da una postfazione dello stesso Wacquant, oltre che dalla ricca introduzione dei curatori, sociologi urbani e del territorio. Nella sezione aggiunta appositamente all’edizione italiana, intitolata "Rivisitando Urban outcast", si evidenzia quanto e come la razza e le appartenenze etnico-nazionali continuino ad essere fondamentali, specialmente nell’intersezione con la classe, lo spazio, le politiche pubbliche ed i processi di stigmatizzazione territoriale, riconoscendo il legame delle "forme mutanti della marginalità urbana con le modalità emergenti di rimodellamento degli stati". È questo il nocciolo duro di un libro duro, nei suoi contributi analitici, ricco di novità concettuali e di rivisitazioni teoriche fondamentali, così come nei suoi contenuti, perché dura è la vita di chi vive nei quartieri oggetto della ricerca presentata. Su questo nesso lo studio di Wacquant è chiarissimo: la vita nei "quartieri dell’esilio" è stata resa molto difficile dal cambiamento delle politiche statali e dall’approfondimento conseguente delle disuguaglianze socio-razziali. Questo doppio processo, che ha confermato l’importanza dello Stato nelle condizioni di vita delle popolazioni, nonostante la sua crisi e la sua riorganizzazione, si è combinato con una profonda ristrutturazione socio-economica, attraverso la flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Vengono così imposte le modalità di accesso e permanenza nel lavoro tese a consolidare la ridefinizione dei rapporti di classe, sempre più polarizzati, con una ristretta parte della forza lavoro nei circuiti ricchi dell’economia e della finanza ed una parte, ampiamente maggioritaria e crescente, collocata nei settori poveri o con basso valore aggiunto, con salari bassi ed intermittenti. Tra Chicago e Parigi - Questo scenario è, però, generale e per comprenderlo bene bisogna guardare ai contesti storici ed istituzionali: non si può essere indifferenti alle specificità delle politiche statali e locali e della storia dei rapporti sociali, razziali ed etnico-nazionali. I cambiamenti delle politiche dello Stato e della struttura socio-economica non si sono verificati in modo uniforme, ma sono dipesi dai modi in cui, in aree diverse, le variabili individuate in precedenza si sono combinate tra loro. La comparazione realizzata tra Chicago e Parigi mostra che le due realtà socio-territoriali hanno molti punti di differenza, per cui il riferimento generale al concetto di ghetto rende errata l’interpretazione tanto sul piano analitico quanto sul piano politico: cercare di comprendere l’eterogeneità con uno sguardo omogenizzante impedisce, infatti, di pensare a politiche adeguate ai diversi contesti socio-spaziali, producendo errori ulteriori. In questo libro, Wacquant dimostra che il caso di Chicago è leggibile con il concetto di iperghetto, che inquadra una realtà radicalmente diversa dal ghetto conosciuto nel Novecento, caratterizzato dalla povertà ma anche da relazioni comunitarie e rapporti di solidarietà, mentre ora prevalgono relazioni molto più violente e scarsamente orientate al mutuo aiuto ed una struttura di classe e razziale semplificata. Invece, nel caso delle banlieues il concetto di ghetto è del tutto inappropriato. A differenza del caso statunitense, la banlieue non mostra chiusure ed omogeneità etniche o di classe, non risulta attraversata da politiche di ritiro totale da parte dello Stato e non presenta livelli alti di violenza quotidiana. Pertanto, il confronto tra le due realtà non implica alcuna possibile sovrapposizione, per cui, come scrivono Paone e Petrillo nell’introduzione, "il senso ultimo dell’impossibile (per ora) paragone transatlantico è quindi quello di mostrare quanta distanza passi tra le Cités e l’iperghetto americano". Dunque, il continuo riferimento al ghetto di tanti giornalisti e ricercatori non ha aiutato a comprendere i contesti spaziali definiti marginali nella loro concreta specificità, accontentandosi di chiavi interpretative generali e a-storiche. La storia, invece, conta. Sia la storia di medio periodo, relativa ai cambiamenti dello Stato e del capitalismo, sia la storia più lunga, come la persistenza della linea del colore e della separazione gerarchica tra bianchi e neri stanno ancora oggi, nel 2016, a dimostrare. Diritto alla sussistenza - La storia conta anche per individuare, in modo coerente, le possibili vie d’uscita e su questo Wacquant è chiaro. Da un lato, vanno cambiate le pratiche sociali, comprese quelle del mondo dell’informazione, che favoriscono la stigmatizzazione socio-territoriale di alcune aree delle città. Dall’altro lato, va cambiata la politica statale, all’altezza del nuovo tipo di capitalismo, fondato su finanza e conoscenza, giungendo ad un reddito di base universale, perché "se vogliono avere un impatto significativo, le politiche pubbliche volte a combattere la marginalità avanzata dovranno spingersi oltre il perimetro ristretto del lavoro salariato e muoversi verso l’istituzionalizzazione di un diritto alla sussistenza che si situi al di fuori della tutela del mercato". Un libro che invita a guardare con occhi nuovi a situazioni nuove, capaci di confrontarsi con le rinnovate forme del capitalismo e della marginalità, ma anche con le nuove possibilità politiche, alla ricerca di una maggiore giustizia spaziale e sociale. Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione di Salonicco tellusfolio.it, 31 agosto 2016 Dopo una prima proficua esperienza realizzata nel Dicembre del 2015, Kethèa Promithèas, il più grande centro di accoglienza e reinserimento sociale per i detenuti in Grecia sotto la vigilanza del Ministero della Sanità e dei Servizi Sociali, organizza Mercoledì 31 Agosto 2016 presso la Casa di Reclusione Maschile di Salonicco (Diavatà), un incontro di laboratorio teatrale rivolto ai detenuti e condotto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, la proiezione in video della mostra fotografica di Andrea Casari e la proiezione del video documentario di Marco Valentini dal progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs Teatro alla casa di Reclusione Femminile di Giudecca Venezia, rivolte ai detenuti, gli operatori penitenziari e gli addetti ai lavori. L’incontro sarà condotto da Michalis Traitsis, responsabile del progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia e ha come obiettivo mostrare il ruolo del teatro durante il periodo di reclusione e il reinserimento sociale dei detenuti prevalentemente quelli con problematiche di tossicodipendenza. Questo incontro segue l’incontro che è stato organizzato da Kethèa Promithèas nel Dicembre del 2015 e quello organizzato da Epànodos, centro di reinserimento sociale per i detenuti dal 10 al 13 Giugno 2015 ad Atene con una serie di laboratori teatrali all’interno del carcere minorile di Atene (Avlòna), un masterclass rivolto agli operatori penitenziari, e un convegno rivolto ad esperti del settore provenienti dalla Grecia e dall’estero, presieduto dal ministro della Giustizia della Grecia e intende costruire una rete di collaborazioni tra Balamòs Teatro e le istituzioni che operano negli Istituti Penitenziari in Grecia. Terremoto. "Non è il sisma che uccide, sono le opere dell’uomo" di Leo Lancari Il Manifesto, 31 agosto 2016 L’accusa del vescovo di Rieti: "I terremoti sono sempre esistiti, a uccidere sono le opere dell’uomo". Più di mille persone ad Amatrice per i funerali delle vittime. Presenti il capo dello Stato Mattarella e il premier Renzi. Il tono è lieve ma le parole sono pesanti come le pietre che riempiono Amatrice. "Non è il terremoto che uccide, sono le opere dell’uomo". Un atto d’accusa preciso, che nella sua omelia il vescovo di Rieti Domenico Pompili indirizza a chi avrebbe dovuto mettere in sicurezza abitazioni e edifici pubblici che sorgono in una zona classificata ad alto rischio sismico e che, invece, non lo ha fatto. Un’accusa che monsignor Pompili pronuncia sotto la grande tensostruttura nella quale, davanti alle più alte cariche dello stato, si tengono i funerali solenni per le vittime provocate dal sisma del 24 agosto nel reatino. 242 su 292, a testimonianza di come Amatrice, Accumuli e tutti gli altri centri colpiti abbiano pagato il prezzo più pesante. Sono stati gli abitanti di Amatrice a volere a tutti i costi che i funerali si tenessero nel paese scontrandosi per questo con il prefetto di Rieti che aveva indicato, invece, l’aeroporto del capoluogo come luogo per le esequie. Scelta dovuta ai problemi di viabilità per raggiungere il paese e alla previsioni che annunciavano pioggia per oggi. La pioggia c’è stata, ma non ha scoraggiato nessuno. L’enorme tensostruttura di mille metri quadrati nella quale si tiene la cerimonia è stata costruita dagli uomini del Genio che hanno lavorato tutta la notte. Per la gente di Amatrice non si è trattato di un’impuntatura ma di un’ulteriore prova di attaccamento a questa terra, anche per chi è morto. Le bare sono allineate davanti all’altare. 28, tra le quali quelle bianche di due dei tanti bambini uccisi dal sisma. Ne mancano dieci rispetto al previsto, per la difficoltà incontrate nel trasportarle ad Amatrice. Un Cristo senza croce pende dall’alto appeso a una corda. Sullo sfondo si vedono le macerie, i tetti crollati rovinosamente sulle abitazioni seminando la morte tra chi le abitava. Sono in tantissimi, più di mille, per l’ultimo saluto a un parente o a un amico che adesso non c’è più. Mischiati tra la folla ci sono il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, il premier Renzi, il sindaco di Roma Virginia Raggi, il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Come già successo ad Ascoli Piceno per le vittime delle Marche, anche qui vengono letti, uno ad uno, tutti i nomi delle vittime, un lungo elenco che si conclude con un applauso. Poi, monsignor Pompili lancia la sua accusa. "I terremoti sono sempre esistiti" ricorda. "Senza terremoti non esisterebbero le montagne e forse neppure l’uomo e le altre forme di vita. Il terremoto non uccide. Uccidono le opere dell’uomo". Le case di sabbia, le finte ristrutturazioni, le speculazioni fatte sulla pelle delle persone. "La domanda ‘Dov’è Dio?’ non va posta dopo, ma prima" avverte il vescovo, mettendo l’accento sul fatto che è inutile cercare responsabilità là dove non ci sono, ma intervenire in tempo per evitare le tragedie. E poi, in piena sintonia con le richieste avanzate fin dal primo giorno dalla gente di Amatrice, l’invito a non abbandonare i luoghi in cui si è vissuto fino a oggi. "Disertare questi luoghi,- dice monsignor Pompili, - sarebbe come ucciderli una seconda volta". Parole che concordano pienamente con quanto affermato nei giorni successivi al terremoto dal sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, quando ha detto "non vogliamo quartieri ghetto, o che il paese sia trasportato altrove. Vogliamo restare qui". "Non vi abbandoneremo, neanche quando le telecamere non ci saranno più", promette Matteo Renzi al termine dei funerali Terremoti e norme, palude di regole e regolette di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 31 agosto 2016 Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica. Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori. I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata", spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli. Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila "5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune". "Confesso però", ammise, "che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita". Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: "Mi sono stufato di contarle". Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro. La "scheda parametrica" varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come "caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure" e garantisce "tempi rapidi di istruttoria". Bene: la sola "Scheda Progetto - Parte Prima" è corredata da un "Manuale istruzioni" con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la "Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4" salgono a 271. Auguri. Un esempio di semplificazione? "Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche "Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.""... Un altro? "Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II". Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: "Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare". Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 "rideva nel letto" o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: "Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mò è da fessi". Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro. Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre "fino a un quintale al giorno di pipì e di popò". Molto più di un elefante adulto. Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 "visto" e "vista", 1 "considerato", 1 "ritenuto", 1 "rilevato", 1 "ravvisata", 1 "atteso", 1 "acquisite"… Nella seconda i "visto" sono saliti a 9 più 1 "ritenuto", 1 "sentito", 1 "acquisite". Vecchi vizi. Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata. Terremoto. Il costo della case da ricostruire. In Europa pagano le assicurazioni di Francesco Grignetti La Stampa, 31 agosto 2016 Il governo studia come correggere un’anomalia italiana: ritorna il progetto di Monti. Si studiano nuove leggi per garantire la ricostruzione in caso di calamità naturale. In Europa siamo rimasti ultimi a credere in uno Stato-papà che paga tutto e sempre, e ti ricostruisce la casa se viene un’alluvione o un terremoto. Il modello dominante nel continente è un altro: un’assicurazione, che sia volontaria (in Germania, Gran Bretagna o Belgio) o semi-obbligatoria (Spagna e Francia), con tariffe regolate dallo Stato o con sovvenzioni o con sgravi fiscali, ma che comunque deve coprire i rischi da calamità. Il cittadino paga, la polizza lo copre. Ad una assicurazione volontaria contro il terremoto aveva pensato già Berlusconi nel 2005 e poi nel 2007. Proposte cacciate indietro con pernacchie. Ci ha riprovato Monti con un decreto nel 2012, che prevedeva sempre l’assicurazione volontaria, ma con la postilla che lo Stato non avrebbe più pagato. Mal gliene incolse perché quattro giorni dopo venne il sisma dell’Emilia e i partiti lestamente fecero decadere il decreto in Parlamento. Ora il governo Renzi ci sta ripensando seriamente. Nel giro di un paio di settimane, la dem Paola De Micheli, sottosegretario all’Economia, convocherà una riunione con le parti sociali e i rappresentanti delle assicurazioni. "Capisco bene - dice la De Micheli - che la politica si sia sempre trovata in difficoltà davanti a questa scelta. Comunque la si metta, un’assicurazione appare come una tassa in più. Ed è una questione che tocca tutti. Solo in Italia ci sono 30 milioni di proprietari di casa. Per non dire di chi, penso ai M5S ma non solo, traduce ogni forma di sovvenzione o di sgravio fiscale in un aiuto indiretto ai grandi gruppi finanziari e vede rosso". Sarà uno dei capitoli principali di Casa Italia, la questione dell’assicurazione sulla casa. Il governo sembra orientato verso la soluzione degli sgravi fiscali per spingere le famiglie a farle, queste assicurazioni. Di contro, e fu il primo scoglio su cui si infranse il decreto di Monti, c’è la questione dei costi. L’Ania, associazione nazionale tra le imprese assicuratrici, ha valutato che il patrimonio immobiliare italiano vale 3900 miliardi di euro, pari a due volte e mezzo il Pil annuo. I suoi tecnici hanno fatto anche delle simulazioni, tenendo conto delle classi di rischio sismico e dei costi di ristrutturazione. Il risultato è una media di 73 euro di premio ogni 100mila euro di valore assicurato (e solo nel caso in cui tutti davvero provvedano). "Ragionevolmente - si legge in un recente studio del Consiglio nazionale degli Ingegneri - possiamo ipotizzare almeno 100 euro per 100mila euro di valore assicurato, considerando la remunerazione delle imprese". Si apre una partita di miliardi di euro, insomma. Ma anche una rivoluzione culturale perché è evidente che ci sarebbero sconti quando una casa è in buone condizioni, e quindi si comincerebbe a guardare la propria abitazione anche sotto questo aspetto. Peraltro ci sono sgravi fiscali anche per effettuare lavori di adeguamento o miglioria sismica. Certo, il governo Renzi si rende conto che può sembrare paradossale, qualche mese dopo avere eliminato l’Imu sulla prima casa, introdurre un esborso per le medesime case. Di qui la propensione per forme di assicurazione volontaria, con conseguente detrazione fiscale. Sarebbe comunque un passaggio complicato. E senza contare che in Italia ci sono 10 milioni di "incapienti", cittadini con un reddito talmente basso da non dovere nemmeno presentare la dichiarazione al fisco e quindi non interessati a possibili detrazioni. "La materia - riconosce ancora Paola De Micheli - è oggettivamente complessa, tant’è vero che le proposte del passato sono regolarmente naufragate". Ora però che è arrivato il nuovo sisma di Lazio e Marche, e sotto l’urto dell’emozione si torna a parlare di rischio sismico, "se si concorda politicamente - sono le conclusioni del sottosegretario - che lo strumento dell’assicurazione può essere utile, vogliamo arrivare pronti all’appuntamento". Terremoto. I "professionisti" della ricostruzione di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 31 agosto 2016 Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano. Il meccanismo che ha portato tanti affari in poche mani ha rallentato il dopo sisma. C’era la fila, davanti alla porta di Pasqualino Fazio. Perché fratello del sindaco, Mariano Fazio? Oppure in quanto fratello di Antonio Fazio, altissimo dirigente della Banca d’Italia? Macché. Semplicemente perché era l’ingegnere di Alvito, paese di tremila abitanti in Ciociaria. I paesani lo conoscevano e si fidavano di lui. Non che l’essere fratello del sindaco e del futuro governatore della banca centrale rappresentasse un handicap, intendiamoci: il cognome Fazio ad Alvito è sempre stato una garanzia. E Pasqualino era gettonatissimo. Suo il progetto delle case popolari, prima del terremoto. Suoi anche i progetti per gli edifici pubblici, dopo il terremoto: il municipio del fratello e il convento di San Nicola. E le abitazioni private di quelli in fila davanti alla sua porta, lesionate dal terremoto. Perché nella dorsale appenninica perennemente martoriata da sisma ci fu una scossa anche ad Alvito, nel 1984. Che si portò via un bel po’ di calcinacci restituendoli poi con gli interessi: 10 miliardi di lire per la ricostruzione. I privati non hanno l’obbligo di fare una gara - Per come hanno sempre funzionato le cose in questo Paese è normale che andasse così. E così è sempre andata anche dopo. È il sistema. Il privato che ha la casa danneggiata con i contributi statali fa quel che vuole. Dà l’incarico a chi preferisce: non ha l’obbligo di fare una gara. C’è chi la considera un’anomalia. Ma di fronte alle obiezioni i governi di turno hanno sempre deciso che quei soldi pubblici vadano considerati come quattrini privati a tutti gli effetti. Fra chi intercettato definisce il disastro "una botta di culo" (L’Aquila), chi ride nel letto di notte mentre una intera città si sbriciola (ancora l’Aquila) e chi spera "in una botta forte" perché "in un minuto ne fa di danni e crea lavoro" (Mantova), capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul "Sole 24 ore" che ad Amatrice "il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma". All’Aquila le pratiche in mano a pochi - Intrecci all’ordine del giorno, nell’Italia dei campanili. Quando c’è di mezzo un terremoto, però, le cose si vedono sotto una luce leggermente diversa. All’Aquila le pratiche per la ricostruzione private erano finite in pochi studi professionali. Il più noto, quello dell’ex autorevole presidente del locale ordine degli architetti, Gianlorenzo Conti, peraltro prematuramente scomparso poco tempo fa. Perché questa concentrazione di incarichi, che allora preoccupo’ non poco il responsabile della struttura di missione Gaetano Fontana? Forse l’idea che affidare l’incarico a uno studio locale conosciuto e ben introdotto con l’amministrazione potesse costituire una sorta di corsia preferenziale per i finanziamenti. Poco importa se l’ingegnere o il geometra è magari il responsabile del disastro. Di sicuro, questo meccanismo che ha portato tanti affari in pochissime mani ha finito per rallentare la ricostruzione. Aumentando i costi: quando all’Aquila si è passati dalle pratiche singole agli aggregati il fabbisogno finanziario si è ridotto di oltre il 20 per cento. Un codice etico per i professionisti - Senza dire che in un Paese così carente di occasioni per i progettisti anche le catastrofi possono scatenare guerre fra poveri. Il 4 settembre 2012, tre mesi dopo il terremoto emiliano, l’ex presidente dell’ordine nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie fece approvare un codice etico per i professionisti volontari iscritti al suo albo, che prevede dure sanzioni per chi sfrutti economicamente questa sua posizione. Era successo che all’Aquila qualche architetto che aveva verificato "volontariamente" le lesioni di un edificio, fosse tornato alla carica con il proprietario proponendosi per pro-gettare la ristrutturazione. Lo scontro interno all’Ance - Il terremoto abruzzese è stato un formidabile banco di prova per i professionisti delle catastrofi: progettisti e imprese. Si andò avanti fin da subito con le procedure straordinarie della Protezione civile, e le scelte erano puramente discrezionali. Venne poi deciso di far lavorare prevalentemente le ditte locali, il che ha ristretto ancor più l’area dei partecipanti. La cosa non mancò di avere pesanti ripercussioni. Ci fu uno scontro interno all’Ance fra la struttura centrale e l’associazione territoriale delle imprese abruzzesi, che avrebbe voluto norme per limitare la partecipazione di concorrenti provenienti da altre Regioni. Per non parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta, registrate anche per i lavori del dopo terremoto nell’Emilia-Romagna. Ma questa è decisamente un’altra storia, rispetto al groviglio di fortissimi interessi locali. Il gioco è destinato a continuare - Certe imprese che hanno lavorato in Abruzzo sono le stesse già comparse nella ricostruzione del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Con significative diramazioni nella provincia di Rieti, perché fin lì è arrivato il cratere del sisma abruzzese: quindi i relativi fondi. E se lo schema resterà questo anche dopo Amatrice, il gioco è destinato a continuare. Nell’ambiente dei costruttori qualcuno ha già cominciato a far girare l’idea che si debbano precostituire liste di imprese pronte a lavorare nel reatino. Dove le ditte iscritte all’associazione dei costruttori non sono che una ventina. Idea, per fortuna, prontamente messa da parte. Almeno per il momento. C’è solo da augurarsi che tutto ciò serva ora d’insegnamento. Terremoto. I fondi per la ricostruzione spartiti in "consulenze d’oro" di paolo festuccia La Stampa, 31 agosto 2016 Così dal 1997 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto. 790 professionisti: ingegneri, geometri, architetti e geologi che hanno avuto consulenze nella ricostruzione. La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente. Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato. I tanti professionisti - Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per "dividersi" consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi "hanno portato a casa cifre interessanti", afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro "sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento". Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni "mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra". Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. "Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi". I tecnici di Amatrice - Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai. Migranti. L’ondata di settembre verso l’Italia: ospitati già 145mila di Vladimiro Polchi La Repubblica, 31 agosto 2016 Il rallentamento degli arrivi nel 2016 è finito: 13mila solo in 4 giorni fanno superare il numero dello scorso anno. Il flusso non diminuisce dopo la chiusura della rotta balcanica. Partono da Libia ed Egitto. E il sistema d’accoglienza rischia il collasso. Merkel ammette errori: "Noi tedeschi abbiamo ignorato il problema per troppo tempo". "È cominciato il grande assalto di settembre. Prima dell’arrivo dell’autunno, i trafficanti sfruttano l’ultima lunga finestra di bel tempo. Temiamo un picco record di sbarchi". Al Viminale si fanno i conti con gli ultimi arrivi: oltre 13mila i migranti soccorsi in quattro giorni. "E la conta è destinata a non fermarsi". L’Italia è da mesi la prima meta delle rotte migratorie, sola e in prima linea nell’emergenza sbarchi. Con un rischio: il collasso del sistema d’accoglienza. A questo proposito, la stessa cancelliera tedesca, Angela Merkel, ammette: "Noi tedeschi, abbiamo ignorato il problema per troppo tempo" Oggi sono oltre 145mila i migranti ospitati. Un record se si pensa che nel 2015 sono stati 103mila. Mentre riprendono anche gli sbarchi sulle isole greche dalla Turchia (ma con numeri ridotti), la chiusura della rotta balcanica ha isolato il nostro Paese sul fronte migranti. Sempre più le partenze dalla Libia, e anche dall’Egitto, verso le coste siciliane. Un tratto di mare molto pericoloso. Sulla rotta del Mediterraneo centrale si registra infatti l’85% di tutte le morti in mare. Spiega Frank Laczko dell’Oim: "Nel Mediterraneo, il numero di decessi è aumentati di oltre un terzo rispetto allo scorso anno. Nel 2016, un migrante ogni 85 è morto nella traversata, rispetto a uno ogni 276 nel 2015". I numeri del Viminale fotografano l’emergenza: al 30 agosto sono 107.089 i migranti arrivati via mare in Italia nel 2016. Nello stesso periodo dello scorso anno erano stati 116.141. Ma il sorpasso è negli sbarchi dell’ultimo giorno. Augusta, Pozzallo, Reggio Calabria, i porti più coinvolti. Ad arrivare sono per lo più nigeriani (25%), eritrei (16%), sudanesi (9%). Record di minori stranieri non accompagnati: ben 11.797 al 15 luglio scorso, quasi come tutti quelli arrivati nel corso del 2015 (12.360). La macchina dell’accoglienza è sotto stress. E rischia di esserlo ancora di più nei prossimi giorni. Già 145.900 i migranti ospitati sul territorio al 30 agosto (in tutto il 2015 erano stati 103.792). La maggioranza (111.061) è alloggiata nelle strutture temporanee presenti nelle varie regioni. A fare di più, Lombardia (oltre 19mila migranti ospitati), Sicilia, Lazio, Veneto. Ultima la Valle d’Aosta con 312 posti messi a disposizione. Merkel ammette errori. La Germania ha reagito troppo tardi alla crescita evidente della crisi dei migranti. Lo ha ammesso la cancelliera tedesca Angela Merkel che, in un’intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha affermato: "Noi tedeschi abbiamo ignorato il problema per troppo tempo." "Nel 2004 e nel 2005, c’erano già molti arrivi di rifugiati, ma abbiamo lasciato che affrontassero il problema la Spagna e gli altri Paesi alle frontiere esterne", ha detto Merkel che oggi vedrà a Maranello in premier italiano Matteo Renzi. "In seguito all’elevato numero di profughi accolti durante le guerre jugoslave, la Germania è molto felice che fossero altri a gestire il problema", ha aggiunto la Cancelliera, ad un anno dalla famosa frase sulla crisi dei rifugiati "ce la possiamo fare". Tuttavia, ha concluso, "la Germania rimane la Germania, con tutto ciò che ci è caro". Migranti. Un museo sottomarino a Lanzarote, per non dimenticare la strage dei migranti di Noemi Penna La Stampa, 31 agosto 2016 A Lanzarote, nelle Canarie, si trova il primo museo sottomarino d’Europa. Lo ha realizzato, a 14 metri di profondità, l’eco-scultore Jason DeCaires Taylor: le opere raccontano i dilemmi del mondo contemporaneo e la principale - la Zattera di Lampedusa - è dedicata proprio alla strage dei migranti. Definire suggestiva l’esposizione del Museo Atlantico è quasi riduttivo. "La Zattera di Lampedusa", ad esempio, è un gommone con a bordo 13 profughi abbandonati al loro destino: s’ispira a un dipinto di Théodore Géricault - "La zattera di Medusa" - materializzato con i calchi di migranti realmente approdati alle Canarie dopo il lungo viaggio della speranza. Insomma, un pugno nello stomaco. "Non è un omaggio o un memoriale a queste vite perdute: questo è un monito alla responsabilità collettiva", ha dichiarato l’artista, che accanto a quest’opera ha posizionato altre allegorie della vita moderna come un gruppo di 35 persone che vagano senza meta e una coppia che affonda durante un selfie, a rappresentare il potenziale devastante della tecnologia nei rapporti umani. Il fondale spettrale è popolato da statue a grandezza reale, tutte realizzate con un materiale che non intacca la vita marina. Sono infatti destinate diventarne parte integrante, dando vita ad un giardino botanico sottomarino che celebra il connubio tra arte e natura, strutturato per proteggere l’ecosistema acquatico dell’area sottomarina di Las Coloradas, nel comune di Yaiza. Il fondale sabbioso e poco profondo, la trasparenza e caratteristiche qualitative dell’acqua sono stati fattori determinanti per la scelta dell’area trasformata in museo, visitabile esclusivamente con le bombole. E Jason DeCaires Taylor non è nuovo a questo tipo di allestimenti, essendo già autore del Parco sottomarino di Grenada e del museo subacqueo Musa dell’Isla de las Mujeres, in Messico. Diritti umani. Allarme-mondo di Francesco Martone Il Manifesto, 31 agosto 2016 Aumentano omicidi, minacce e persecuzioni per migliaia di attivisti. La recentissima liberazione di Malek Adly, avvocato egiziano impegnatosi fin da subito nel caso del sequestro ed assassinio di Giulio Regeni, è una grande notizia. Dimostra che è possibile aprire una crepa nel muro di omertà e impunità dietro il quale si cela l’operato del regime di Al Sisi e che abbiamo occasione di constatare giorno per giorno riguardo la richiesta di verità e giustizia sulla tragica fine di Giulio. Non va però abbassata la guardia, né lasciato cadere il silenzio sull’Egitto. Ce lo ricordano i casi ancora irrisolti di altri attivisti difensori dei diritti umani, quali Alaa Abdel Fattah, o dei lavoratori e sindacalisti dei cantieri navali di Alessandria d’Egitto oggi di fronte ad un tribunale militare per aver rivendicato i propri diritti. Le loro storie sono le storie di migliaia di "difensori dei diritti umani". Quelle di Diana Sacayan, attivista trans argentina, uccisa brutalmente per la sua lotta contro la transfobia e l’omofobia, di Suzette Jordan, indiana uccisa per il suo impegno contro la violenza sessuale, o di Hande Kadere, attivista trans turca uccisa di recente dopo essere stata orribilmente torturata. O di chi si attiva per difendere la propria terra, come Berta Càceres e le centinaia di donne ed uomini, attivisti ed attiviste per i diritti ambientali ed indigeni, che hanno perso la vita nel corso dell’ultimo anno, come denunciato da Global Witness, per il loro impegno a favore dell’ambiente. Nel suo rapporto "On dangerous grounds" pubblicato a giugno l’organizzazione denuncia l’omicidio di almeno 185 attivisti e attiviste in 16 paesi. La maggior parte dei casi è stata registrata in Brasile (50) seguito dalle Filippine (33) e dalla Colombia (26), e la principale causa i conflitti sulle miniere, dighe ed estrazione di legname. Il 40% circa delle vittime apparteneva ad un popolo indigeno. Questa emergenza è al centro del lavoro del Relatore Speciale Onu sui difensori dei diritti umani Michel Frost, che nel suo ultimo rapporto denuncia un aumento allarmante di casi di omicidi, minacce e persecuzioni per migliaia di attivisti in ogni parte del mondo, una tendenza che è aggravata dal pretesto della "lotta al terrorismo". Nei giorni passati, in occasione del suo 39esimo Congresso svoltosi a Johannesburg, la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo (Fidh) ha adottato una risoluzione sui difensori dei diritti umani nella quale sottolinea come la sicurezza dei difensori dei diritti umani sia aggravata dalla mancanza di visibilità del riconoscimento del loro ruolo, dell’impunità dei responsabili delle violazioni, e dell’insufficiente riconoscimento delle categorie di difensori dei diritti umani. Giacché oggi per difensori dei diritti umani, si intendono anche in senso largo giornalisti, avvocati e giuristi, attivisti per l’ambiente e i diritti dei popoli indigeni, chi resiste ai crimini ambientali e sociali delle imprese e chi lotta accanto a rifugiati e migranti. La Fidh denuncia gli assassinii di difensori dei diritti umani compiuti nello scorso anno in Azerbaijan, Bangladesh, Brasile, Birmania, Burundi, Cambogia, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Guatemala, Honduras, Iraq, Kenya, Libia, Pakistan, Sudafrica, Siria, Tailandia e Filippine e gli arresti arbitrari di attivisti cui viene negato il diritto ad un processo equo in molti altri paesi. Per non dimenticare le campagne contro le organizzazioni per i diritti umani come in Palestina o Israele. Per far fronte a questa strage silenziosa l’Unione Europea ha adottato alcuni "orientamenti" in materia di difensori dei diritti umani. Irlanda, Finlandia, Spagna, ed Olanda e Repubblica Ceca sono stati tra i paesi più attivi nello sforzo di dare attuazione a queste linee guida poi recepite anche da Francia ed Inghilterra e da paesi non Ue, quali Svizzera e Norvegia. Molti di questi paesi hanno già programmi di protezione dei difensori dei diritti umani e di "asilo temporaneo" per chi dovesse lasciare il suo paese per un determinato periodo di tempo. La Ue ha a disposizione vari strumenti di pressione e tutela a favore degli attivisti dalle missioni sul campo, alle attività di monitoraggio dei processi, ai contatti e dialogo politico con le autorità locali (i cosiddetti "demarche"). L’Unione ha anche predisposto una Piattaforma di Coordinamento per l’Asilo Temporaneo dei Difensori dei Diritti Umani (European Union Human Rights Defenders Relocation Platform - Eutrp). L’Ong Olandese Justice and Peace - lavora ad un programma di città rifugio sponsorizzato dal Ministero degli affari esteri, il quale segue ora una procedura accelerata per la concessione di visti d’urgenza ai difensori dei diritti umani sotto minaccia. In Irlanda il Ministero degli Esteri ha predisposto un servizio di assistenza e coordinamento delle attività di supporto e di concessione di visti umanitari. Anche la Spagna si è dotata di buone pratiche allo stesso scopo mentre il Ministero degli Esteri finlandese ha proprie linee guida per l’applicazione degli Orientamenti Ue. Non risulta che il governo italiano si sia mai attivato. Eppure potrebbe farlo anzitutto istituendo presso la Farnesina un punto di riferimento per la protezione degli attivisti per i diritti umani ed il rilascio dei visti per l’asilo temporaneo, aderendo alla Piattaforma Europea per l’accoglienza temporanea dei difensori dei diritti umani e elaborando sulla scorta di quanto fatto fa altre Cancellerie europee, una serie di linee guida per le ambasciate ed il corpo diplomatico. Altre azioni potranno poi essere messe in campo dall’Agenzia per la Cooperazione e dagli Enti Locali per creare canali di finanziamento e sostegno a attività di protezione dei difensori dei diritti umani, ad esempio attraverso i corpi civili di pace, e di accoglienza diffusa. È giunto quindi per il Parlamento e il governo il momento di prendere posizione, schierandosi definitivamente e senza esitazioni a fianco di chi spende la propria vita per i diritti umani e la democrazia, al di là della facile retorica o del predominio degli interessi della realpolitik. Se non ora quando? Migranti. Anche l’Onu bacchetta la Francia sul burquini di Victor Castaldi Il Dubbio, 31 agosto 2016 Anche le Nazioni Unite intervengono nella battaglia del burquini lanciata dai sindaci francesi. E lo fanno per bacchettare pesantemente il paese dei lumi il quale sembra in preda a un’isteria anti-musulmana ormai trasversale alle forze politiche, tanto che diversi esponenti di destra e di sinistra annunciano un progetto di legge contro chador e burquini da presentare all’Assemblea Nazionale. Il portavoce per la Commissione dei diritti umani dell’Onu Rupert Colville, non ha in tal senso parlato in politichese: "Le preoccupazioni riguardanti l’ordine pubblico andrebbero affrontate colpendo coloro che incitano all’odio o reagiscono con violenza, non prendendo di mira le donne che semplicemente vogliono passeggiare su una spiaggia o farsi una nuotata indossando un abbigliamento con il quale si sentono a proprio agio". Quindi l’Onu "accoglie con favore" la decisione del Consiglio di Stato in Francia che ha sospeso il divieto di indossare il burquini sulle spiagge in quanto lesivo della libertà di movimento e di coscienza. "Le persone che indossano il burqini non possono essere ritenute responsabili per le reazioni violente od ostili di altri e la parità di genere non si ottiene restringendo le libertà individuali", conclude Colville. Intanto il tribunale amministrativo di Nizza ha annullato l’ordinanza del comune di Cannes che vietava il burquini sulle spiagge municipali, la decisione è la prima conseguenza indiretta della sentenza del Consiglio di Stato. Altri ricorsi sono stati presentati anche a Nizza, Mentone, Roquebrune Cap Martin e Frejus, dove la revoca delle ordinanze sarà attuata nei prossimi giorni. Anche perché, l’estate sta finendo. Terrorismo. Il lascito dell’occupazione Isis, 72 fosse comuni, 15mila cadaveri di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 agosto 2016 Il corridoio di terre tra il Tigri e l’Eufrate, il cuore della Mezzaluna Fertile, oggi è ridotto ad un cimitero. La macabra scoperta di ieri aggiunge morte alla morte: 72 fosse comuni, lascito dell’occupazione dello Stato Islamico, sono state individuate tra Siria e Iraq. Sarebbero 15mila i cadaveri, secondo un primo bilancio dell’Associated Press che si basa sulla visione di mappe, documenti forniti dai funzionari locali e testimonianze dei sopravvissuti. Uno dei marchi di fabbrica dell’Isis che ha governato (e in parte governa) il fascio di terre da Ramadi e Fallujah a est a Palmira e Raqqa a ovest, con punizioni corporali, divieti, tasse in cambio della sopravvivenza. E in molti casi massacri: il primo, noto come la strage di Camp Speicher, risale a due giorni dopo la presa di Mosul, il 12 giugno 2014. Tra 1.500 e 1.700 cadetti sciiti dell’esercito iracheno vennero giustiziati a Tikrit, appena caduta in mano islamista. Due mesi dopo, ad agosto 2014, 700 membri della tribù siriana al-Sheitaat - per lo più civili - vennero brutalmente uccisi nella provincia di Deir Ezzor (ancora oggi in mano all’Isis) per non essersi piegati alla legge del "califfo". Molti di loro furono decapitati, i corpi ritrovati in fosse comuni poco dopo. Il resto della tribù, 70mila membri, fuggì lasciando la terra agli islamisti.Diciassette delle fosse individuate oggi si trovano in Siria e almeno una contiene i resti di alcuni al-Sheitaat. Già ad aprile l’esercito governativo siriano aveva trovato una fossa comune a Palmira, dopo averla liberata: all’interno i corpi di 42 persone, alcune decapitate. Pochi giorni dopo la tentata cancellazione della tribù al-Sheitaat iniziò il calvario del popolo yazidi, mai terminato. Con l’occupazione della zona di Sinjar e della strategica piana di Ninawa, in centinaia di migliaia furono costretti alla fuga e all’assedio. E se molti arrivarono stremati ma vivi nel Kurdistan iracheno, in migliaia furono giustiziati mentre donne e ragazzine venivano trasformate in schiave sessuali vendute al mercato di Mosul. Oggi sono i sopravvissuti a quel genocidio a chiedere la tutela delle fosse comuni yazide ritrovate dopo la liberazione di Sinjar, almeno 25: abbandonate al degrado perché difficili da salvaguardare, rischiano di scomparire insieme alla memoria delle stragi. Droghe. Cannabis, legalizzazione e preconcetti di Marco Perduca Il Manifesto, 31 agosto 2016 In attesa che la camera riprenda l’esame della legalizzazione della marijuana, e che il governo pubblichi la relazione annuale al parlamento, sarebbe opportuno nutrire il dibattito pubblico con quanti più studi scientifici possibili - preferibilmente con analisi indipendenti - per evitare certi inutili spauracchi. Le dichiarazioni del presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione Raffaele Cantone a favore della legalizzazione della cannabis confermano che sulle droghe le opinioni sostituiscono i fatti. Cantone infatti, che in passato si era espresso contro ogni riforma, non solo non ha chiarito il perché del suo benvenuto ravvedimento, ma nel motivarlo ha chiarito che: 1) occorre non far incontrare giovani e organizzazioni criminali, 2) legalizzando si eviterebbe l’adulterazione dei prodotti vera causa della pericolosità delle sostanze. La legge che commentava esclude dalla legalizzazione i minorenni e non afferma che l’aggiunta di sostanze chimiche alla cannabis crei dipendenza. Per tutta risposta, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, fautore dello stato etico per cui andrebbero proibite anche alcol e sigarette, ha tenuto a sottolineare che i proventi illegali delle "droghe leggere" sono quasi insignificanti rispetto al giro d’affari delle mafie. Cantone ha concordato. Nessuno dei due ha però specificato se si tratti del fatturato totale o solo di quello relativo agli stupefacenti. Per chiudere il cerchio in bellezza, i ministri della Salute e degli Affari regionali Lorenzin e Costa hanno affermato che là dove si è scelta la legalizzazione, i consumi sono aumentati nientepopodimeno che del 50%! Si deve tornare ai periodi più bui del proibizionismo reaganian-craxiano, per registrare affermazioni di tale straordinaria superficialità che trova fondamento in un pregiudizio ideologico. Non esiste infatti alcuno studio che dimostri che un rilassamento delle sanzioni per il consumo individuale abbia prodotto un aumento in quelle percentuali - l’esperienza olandese del consumo tollerato semmai suggerisce, documentandolo, il perfetto contrario; né v’è stima che gli introiti attuali della cannabis siano quasi irrisori rispetto allo spropositato giro d’affari delle organizzazioni criminali. Tanto nel primo quanto nel secondo caso però, nessuno degli organismi nazionali, regionali o internazionali che s’interessano del "controllo delle droghe" ha mai sostenuto niente di simile. Anzi. A luglio, la Direzione nazionale anti-Mafia, nel suo parere favorevole inviato al parlamento circa la legalizzazione della cannabis, ha segnalato che le risorse umane e finanziarie impiegate nel controllo del mercato della marijuana sono sproporzionate rispetto al lavoro necessario per il controllo del crimine organizzato, ma non affronta il problema dal punto di vista dei guadagni totali delle mafie. Il "Rapporto mondiale sulle droghe" delle Nazioni dell’Onu del giugno scorso è semmai molto cauto nell’esprimere valutazioni circa l’impatto socio-economico della legalizzazione avvenuta in quattro Stati degli Usa e in Uruguay. Allo stesso tempo, ricordando che la cannabis è la sostanza illecita più diffusa al mondo, la ritiene la prima in quanto a entrate immediate per le narco-mafie. In attesa che la camera riprenda l’esame della legalizzazione della cannabis, e che il governo pubblichi la relazione annuale al parlamento, sarebbe utile e opportuno nutrire il dibattito pubblico con quanti più studi scientifici possibili - preferibilmente con analisi indipendenti e frutto di processi di "revisione tra pari" anche con contributi internazionali - perché certi inutili spauracchi rendono solo ridicolo chi li agita. Infine, non guasterebbe se il ministro della Giustizia Orlando, che ha detto di attendere con interesse il prosieguo dell’iter parlamentare, ribadisse pubblicamente quanto affermato alla sessione speciale dell’Onu sulle droghe e cioè che occorre che le evidenze scientifiche prendano il posto dell’ideologia. Stati Uniti. I detenuti preparano uno sciopero per il 9 settembre pressenza.com, 31 agosto 2016 Detenuti in tutti gli Stati Uniti stanno organizzando uno sciopero in prigione per il 9 settembre, quarantacinquesimo anniversario della rivolta del carcere di Attica. Secondo gli organizzatori la protesta di quest’anno potrebbe diventare il più vasto sciopero di detenuti della storia recente. Venerdì scorso una cinquantina tra ex detenuti e familiari di attuali prigionieri di varie parti dell’Alabama e della Georgia si sono riuniti a Dothan, Alabama, per organizzare il sostegno allo sciopero. Kenneth Glasgow del Free Alabama Movement ha parlato di "ventiquattro stati diversi e tra 40 e 50 prigioni impegnati a porre fine alla schiavitù in carcere. Abbiamo scoperto che in base alla legge chi è in prigione ha comunque il diritto di riunirsi, di scioperare, purché in modo pacifico e di non subire rappresaglie per le sue azioni. Queste sono le cose su sui insisteremo". Pakistan. Asia Bibi, una "speranza" per la libertà di Stefano Vecchia Avvenire, 31 agosto 2016 La pachistana Asia Bibi è in carcere da 2.626 giorni perché cristiana. Resta confermata per la seconda settimana di ottobre l’udienza della Corte suprema del Pakistan per valutare la condanna a morte per blasfemia di Asia Bibi, cattolica e madre di cinque figli, in carcere a Multan da 2.626 giorni. Dopo la sospensione della pena capitale il 22 luglio 2015, la donna è in attesa di conoscere definitivamente la propria sorte, cosciente che, se i giudici supremi dovessero deliberare la sua libertà, la sua esistenza e quella della sua famiglia costretta alla clandestinità resterebbero comunque esposte alla vendetta degli estremisti. Vi è però una tenue speranza, anche all’interno della Chiesa pachistana, che la donna veda la fine di una vicenda unica per durata e complessità. "Speriamo davvero che possa essere liberata", ha segnalato l’arcivescovo di Lahore, monsignor Sebastian Francis Shaw all’agenzia Uca News . Speranza espressa anche dall’avvocato musulmano Saif-ul-Malook, che ha rilevato la difesa dell’imputata dopo la conferma in appello della sentenza di primo grado. Una sentenza che per Malook è stata influenzata da fattori come la fede cristiana e la scarsa notorietà del suo predecessore. "Ora - prosegue Malook - ho forti speranze che possa essere rilasciata. Anch’io sono stato minacciato, ma sapevo a che cosa andavo incontro quando ho accettato l’incarico". Meno ottimista padre Jamil Albert, attivista per i diritti umani, che ha parlato di "fede che dà speranza" ma anche di "riserve sulla legge e sui metodi di amministrare la giustizia". A sua volta, Tahir Chaudhry, presidente dell’Alleanza pachistana per le minoranze, ha confermato che la pressione sui giudici da parte degli estremisti sarà enorme, ma che spera che la Corte suprema ordini il rilascio della donna. Continuano intanto, all’interno e all’estero le pressioni per l’abrogazione o la modifica della "legge anti-blasfemia", in base alla quale è stata arrestata e condannata Asia Bibi. Nel rapporto periodico sul Pakistan pubblicato il 26 agosto e ripreso dall’ agenzia Fides, la Commissione Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto a Islamabad di abrogare la legge deplorando "l’elevato numero di casi di blasfemia basati su false accuse e mancanti di relative indagini e azioni penali", mentre "i magistrati che giudicano i casi si trovano a subire intimidazioni e minacce di morte". Egitto. Fonti stampa: il presidente al Sisi concederà la grazia a 300 detenuti Nova, 31 agosto 2016 Il presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, concederà la grazia a 300 giovani detenuti oggi. Lo riferisce il quotidiano "Al Masry al Youm", citando fonti vicine alla presidenza. La notizia arriva dopo che erano circolate voci riguardo ad un accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per la liberazione di tutti i detenuti politici in cambio del prestito da 12 miliardi di dollari, necessario per coprire il deficit di bilancio del paese. La lista dei detenuti che saranno graziati oggi è stata stilata dall’Autorità per le prigioni e dal Consiglio nazionale per i diritti umani. Intanto è prevista oggi una nuova udienza per la possibile scarcerazione di Ahmed Abdullah, capo della Commissione egiziana per i diritti e le libertà Ecrf, Ong che si occupa di sparizioni forzate in Egitto e che fornisce servizi di consulenza legale alla famiglia di Giulio Regeni. Lo scorso 27 luglio, un tribunale del nord del Cairo aveva respinto il ricorso in appello presentato dagli avvocati di Abdullah contro i 45 giorni di custodia in carcere disposti dai giudici il precedente 20 luglio. Abdullah è stato arrestato all’alba del 25 aprile in vista delle cosiddette "proteste per la Terra" contro l’accordo di demarcazione marittima firmato all’inizio di aprile con l’Arabia Saudita, che prevedeva la cessione delle due isole Tiran e Sanafir sul Mar Rosso a Riad. L’accusa a carico di Abdullah è "di aver diffuso la notizia falsa, secondo cui le isole Tiran e Sanafir appartengono all’Egitto" e di appartenere a un gruppo terroristico. La recente liberazione di giornalisti e attivisti, come l’avvocato Malek Adly e il giornalista Amr Badr, potrebbe essere un preludio alla possibile liberazione di Abdullah. Lo scorso 19 agosto il quotidiano egiziano "Daily News" ha riferito che il capo di Ecrf è stato aggredito da funzionari della sicurezza nazionale egiziana, i quali avrebbero confiscato gli effetti personali dell’attivista. Abdullah aveva anche intrapreso uno sciopero della fame nel mese di giugno, dopo la sentenza di prima grado di una corte egiziana che aveva definito nullo l’accordo sulle isole Tiran e Sanafir, facendo di fatto decadere parte delle accuse a suo carico. Lo sciopero è stato in seguito sospeso per l’aggravarsi delle condizioni di salute dell’attivista. La decisione dei giudici sulla demarcazione dei confini marittimi è stata impugnata dal governo, mentre la scorsa settimana l’Alta corte amministrativa egiziana ha accettato una richiesta di ricusazione del panel incaricato di rivedere il ricorso. Ad aprile il governo del Cairo aveva concordato di cedere la sovranità delle due isole all’Arabia Saudita in occasione di una visita di re Salman nella capitale egiziana. L’annuncio aveva scatenato le proteste dell’opposizione e di diversi attivisti, che hanno accusato il governo di aver "svenduto" il territorio egiziano ai sauditi. Le manifestazioni di piazza erano state represse dalla polizia che aveva arrestato centinaia di persone. Australia. Alì, il detenuto iraniano che ha vinto il premio internazionale di fumetto Redattore Sociale, 31 agosto 2016 In arte Eaten Fish, nei disegni racconta gli abusi, da lui stesso subiti, nel centro di detenzione per migranti irregolari in Papua Nuova Guinea. Un fumettista iraniano ha vinto il Premio 2016 "Courage in editorial cartooning" di Cartoonists Rights Network International, organizzazione internazionale che riunisce 600 illustratori e che con il suo lavoro difende i fumettisti che, nel mondo, sono minacciati, censurati, incarcerati. Il premio sarà consegnato il 24 settembre a Durham, in North Carolina, negli Stati Uniti, ma il vincitore, il 24enne Ali, non potrà essere lì a ritirarlo. Da 3 anni, infatti, Ali che firma i suoi fumetti con il nome di Eaten Fish, è rinchiuso nel Centro di detenzione per migranti irregolari di Manus Island, in Papua Nuova Guinea, centro sostenuto dal governo australiano dove vengono detenuti i migranti arrivati nel Paese via mare e in attesa della risposta della Commissione che valuta la loro richiesta di asilo. Nei suoi fumetti il disegnatore iraniano, che soffre di disturbo ossessivo compulsivo che gli provoca attacchi di panico e convulsioni, documenta gli abusi e gli eccessi commessi dalle guardie e dagli amministratori del centro, lui stesso è stato vittima di pestaggi e altri trattamenti degradanti. "Riteniamo che il lavoro di Eaten Fish sia un importante documento sugli abusi dei diritti umani commessi nel campo di prigionia. Speriamo che questo premio possa accendere i riflettori su quanto avviene all’interno di quel centro", ha scritto Joel Pett di Cartoonists Rights Network International annunciando il vincitore del premio "Courage in editorial cartooning" per il 2016. Il primo a raccontare la storia di Ali è stato Andrew Marlton, in arte First dog on the moon, con un fumetto pubblicato sul Guardian lo scorso luglio, e poi da Ben Doherty ed Helen Davidson sempre sul Guardian. Circa un anno fa Marlton ha ricevuto alcuni dei lavori di Eaten Fish tramite un avvocato che lavora con i richiedenti asilo e da allora è rimasto in contatto con lui. Marlton ha coinvolto più di 30 fumettisti australiani nella campagna per sostenere Eaten Fish. Le illustrazioni che hanno realizzato sono pubblicate su eatenfish.com, sito lanciato insieme alla campagna Save Eaten Fish, per chiedere al governo australiano di trasferire Ali da Manus Island in Australia per assicurargli le cure di cui ha bisogno. Sono già state raccolte oltre 5 mila firme.