"Chiusi in cella, terrorizzati come topi in gabbia" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2016 Nelle carceri vicine l’epicentro del terremoto che ha distrutto Amatrice, tutto è andato storto. E dopo giorni di silenzio e di verità ufficiali, i detenuti raccontano quei momenti di terrore: "Le celle, sconvolte dalle onde sismiche, erano diventate vere e proprie trappole per topi. E la gran parte di noi non è riuscita a comunicare con i familiari per 48 ore". Il terremoto del 24 agosto che ha provocato la morte di 290 persone ha scosso ogni abitazione privata ed edifici pubblici principalmente nella zona del Lazio, Umbria e Marche. Tra gli edifici pubblici ci sono anche i penitenziari, una trappola per i detenuti che vi sono ristretti. La notte le celle sono chiuse a chiave e l’ansia di chi vive là dentro è maggiore: nessuna via di fuga. "Un mondo recluso e immobile - ha scritto Maria Brucale su Il Dubbio all’indomani della devastante tragedia - quello dei detenuti nelle carceri. Orvieto, Ascoli Piceno, Terni, Spoleto, Viterbo, Roma, solo per citarne alcune. Ci sono anche con sezioni detentive di 41 bis. Lì il boato interrompe un silenzio sempre assordante. Non c’è fuga da quei luoghi. Non c’è riparo. La sensazione di impotenza del cataclisma afferra le anime prigioniere e le annichilisce. Possono pregare un dio se lo hanno. Confidare nei soccorsi. Attendere. Uno strazio feroce e inerme. Per loro niente corse in strada, abbracci, conforto. Nessuna voce di vicinanza. Gli affetti sono lontani e irraggiungibili. Un batticuore che spegne i sospiri e li soffoca". Non è come i moderni penitenziari americani dove basta un pulsante di emergenza per aprire in automatico tutte le celle. No, la guardia penitenziaria di turno le deve aprire una per una. Esiste un piano di emergenza in questi casi. Il Sappe - il Sindacato di polizia penitenziaria - all’indomani del forte terremoto che ha quasi raso al suolo Amatrice, ha diramato un comunicato annunciando che l’organizzazione di emergenza in caso di terremoto ha funzionato perfettamente. Nel carcere di Orvieto i detenuti erano stati fatti uscire al centro di raccolta individuato dal piano di emergenza e difesa ed erano stati muniti di coperte per la notte. Solo alle 07,00 odierne sono stati fatti rientrare nelle sezioni. Un detenuto per un lieve malore dovuto alla paura per la forte scossa era stato fatto ricoverare. Sempre il Sappe aveva comunicato che anche per il resto di penitenziari colpiti dalla propagazione della scossa sismica tutto si è svolto a dovere. I fatti - Però i fatti sembra che non siano andati esattamente così. L’associazione Antigone delle Marche ha diramato un primo resoconto di come si sono vissuti quei momenti negli istituti di pena della loro regione: le procedure di evacuazione non sono state messe in atto e sono risultate di difficile applicazione. Inoltre non risulta che il giorno seguente sia stato concesso ai detenuti di mettersi in contatto telefonico con le proprie famiglie per rassicurarle sulle proprie personali condizioni ed accertarsi della salute dei propri familiari. Neanche a coloro che hanno parenti nelle Marche meridionali interessate più direttamente dal sisma. Sempre Antigone riporta le testimonianze di alcuni detenuti. "Ho pensato che potevamo fare la fine dei topi in gabbia": queste le parole di un ristretto che hanno riassunto in modo significativo lo stato d’animo di chi si trova in carcere. Un altro detenuto ha denunciato: "Avrei certamente preferito che fossimo usciti nel campo, ho avuto veramente paura". Ancora: "Uno di noi ha avuto una crisi isterica perché le crepe nella sua cella sono aumentate di dimensione". Nel momento in cui si verificava la scossa sismica del 24 agosto scorso - scrive sempre Antigone nel comunicato - i detenuti erano nelle loro celle chiuse e sarebbero rimasti all’interno anche durante le scosse successive. Non risulta che dal Ministero o dalla Protezione Civile sia arrivata disposizione di agire diversamente; per cui anche il personale di custodia è rimasto all’interno della struttura. Trappola per topi - L’inesistenza di piani di fuga in caso di emergenza e delle condizioni di sicurezza in carcere è un problema ancora non risolto. E non riguarda solo il terremoto, ma anche nel caso di incendi o dissesti. Ancora rimane il triste ricordo del rogo scoppiato nel carcere torinese delle Vallette il 3 giugno 1989: provocò 11 vittime. Il problema è che ci sono sezioni e celle chiuse e chi ha le chiavi deve aprirle una dopo l’altra. In Italia solo il nuovo carcere di Trento ha le aperture automatizzate. Il piano di emergenza ed evacuazione per ovvie ragioni non è sempre lo stesso. Nelle situazioni d’emergenza (terremoti, incendi, alluvioni) ogni carcere segue un suo specifico protocollo dettato dalle caratteristiche dell’istituto: tipologia architettonica e requisiti di sicurezza. Ad esempio quando ci fu il terribile terremoto del 2009 che ha squassato l’Aquila e i paesini circostanti, fu messo in atto un complesso piano di evacuazione per il carcere aquilano. Dal Dap - con una nota ufficiale - fecero sapere che si è trattato della "più grande operazione di traduzione di detenuti che si ricordi". Per il trasferimento dei detenuti ristretti nel carcere aquilano erano stati impiegati, secondo le cifre fornite dal ministero della Giustizia, 200 uomini, molti dei quali appartenenti al Gom (il reparto speciale della polizia penitenziaria addetto alla custodia dei reparti di massima sicurezza e per le operazioni speciali) per un totale di 70 mezzi, di cui 40 furgoni blindati e 40 autovetture della polizia penitenziaria. Le due donne rinchiuse nell’area riservata erano state tradotte nel carcere femminile di Rebibbia a Roma; gli 81 ristretti nella sezione 41 bis, nel reparto di massima sicurezza della casa di reclusione di Spoleto, mentre i detenuti assegnati al circuito della media sicurezza erano stati inviati nella casa circondariale di Pescara. Penitenziari in sicurezza? - La domanda è d’obbligo a questo punto: quante strutture penitenziarie ubicate nelle zone considerate altamente sismiche sono costruite con adeguati criteri antisismici? Secondo una nostra ricerca non esiste una mappatura ufficiale sul fabbricato delle carceri e, com’è facile immaginare, le strutture carcerarie sono spesso datate, obsolete e non costruite secondo le più recenti indicazioni antisismiche. Quando ci fu il grande evento sismico del 2012 che colpì duramente l’Emilia Romagna, fu coinvolto anche il carcere di Ferrara dove la polizia penitenziaria si era data da fare per evacuare 500 detenuti. Si presentarono dei danni, tanto che l’allora deputata radicale Rita Bernardini presentò una interrogazione parlamentare chiedendo spiegazioni al riguardo. All’epoca c’era la ministra della giustizia Paola Severino che fece emanare una circolare che obbligava di tenere aperte le celle 24 ore su 24. "In caso di terremoto ? disse la ministra Severino- il detenuto sa di non poter andare da nessuna parte: è una situazione come capite molto angosciante". Quella circolare fu applicata solo nei primi giorni. Dopodiché di nuovo tutte chiuse come sempre. Magari fino alla prossima scossa. Una proposta radicale per la diffusione della sigaretta elettronica nelle carceri di Rita Bernardini sigmagazine.it, 30 agosto 2016 L’onorevole Rita Bernardini si fa promotore presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della diffusione del vaping anche nelle carceri italiane. "Mi auguro che non sia necessario attendere i tempi biblici che sovente occorre attendere in Italia per qualsiasi innovazione". Leggo sbalordita la notizia pubblicata su sigmagazine.it secondo la quale è pienamente riuscito un progetto pilota che ha consentito l’introduzione dell’uso della sigaretta elettronica negli istituti penitenziari del Galles e dell’Inghilterra. Mi chiedo cosa si debba attendere in Italia per fare un’analoga sperimentazione che - da quel che leggo - ha portato molti detenuti britannici a smettere di fumare le sigarette tradizionali per passare a quelle a vapore con il positivo risultato di minori danni per la salute sia dei detenuti ex fumatori che dei loro compagni di cella, costretti fino ad oggi ad intossicarsi respirando il fumo da combustione del tabacco. Proporrò al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la diffusione del vaping anche nelle carceri italiane, augurandomi che non sia necessario attendere i tempi biblici che sovente occorre attendere in Italia per qualsiasi innovazione. Intanto, mi fa piacere preannunciare che il prossimo congresso del Partito Radicale si terrà proprio dentro un carcere, da giovedì 1 a sabato 3 settembre, nel teatro di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma. Per tutte le informazioni necessarie è sufficiente consultare www.radicalparty.org. Proroga di un anno per i giudici di Cassazione di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2016 Proroga del pensionamento solo per i magistrati di Cassazione, della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato. È questa l’ipotesi su cui sta lavorando il Governo per sciogliere il nodo della decadenza, per limiti di età, delle massime cariche giurisdizionali; un’ipotesi vagliata al preconsiglio di ieri sera e che questa mattina approderà al Consiglio dei ministri. Scartata la soluzione di salvare solo gli "apicali" di Piazza Cavour (si veda Il Sole 24 Ore di sabato scorso) - misura "ad personam" che aveva provocato la reazione di varie componenti di Anm - il Governo ha trovato una quadratura ristretta, estendendo il salvataggio a tutte le toghe della Cassazione che, a regole attuali, rischierebbero il collocamento a riposo nel prossimo anno solare. La formula, per la Cassazione e solo per la Cassazione, è pertanto proroga al 31 dicembre 17 per tutti i magistrati che compirebbero i 72 anni dopo il 1° gennaio prossimo. Complessivamente la misura dovrebbe riguardare una trentina di giudici, anche se il decreto viene ancora letto più che altro come salva-Canzio (il primo presidente, entrato in carica il 7 gennaio scorso). Ma a beneficiare di un allungamento del servizio non saranno solo i giudici della Suprema Corte. Nelle concitate trattative del fine settimana, e con un ruolo molto attivo del vicepresidente del Csm Legnini (circostanza che ha provocato malumori nemmeno troppo nascosti), la proroga si è allargata alla magistratura contabile e anche al Consiglio di Stato. Per queste due giurisdizioni si applicheranno però regole a geometria diversa, a quanto si è appreso durante il preconsiglio, rispetto ai colleghi di Piazza Cavour. Nella decretazione emergenziale - visto che di provvedimento di urgenza si tratta - e sotto un certo aspetto in coerenza con la proroga delle pensioni, entrerà poi anche un pacchetto di misure per diminuire il carico pendente in Cassazione. Allo studio, dopo i numerosi e non riusciti tentativi degli anni scorsi, ci sarebbero ipotesi di filtri procedurali e di improcedibilità. Per avere un’idea dell’an0malìa tutta italiana, basta prendere atto che da gennaio a ieri la Cassazione ha già depositato in cancelleria più di 53 mila sentenze: un record difficilmente comprensibile per una Corte a cui è demandato solo il controllo di legittimità del processo. Intanto l’Anm ieri ha preso ufficialmente posizione sull’annunciato decreto di proroga, decreto reso necessario - è bene ricordarlo - dalla legge che nel 2014 aveva repentinamente abbassato da 75 a 70 anni l’età del ritiro, senza scalini (arrivati poi appunto con le due proroghe annuali successive). "L’Anm - recita il testo - ribadisce il proprio parere contrario alla legge di due anni fa, avendo già all’epoca previsto le ricadute negative dell’intervento per il sistema giudiziario, che puntualmente sono arrivate e oggi sono confermate dallo stesso Esecutivo". "Una politica giudiziaria lungimirante - sostiene il sindacato dei giudici - al contrario, richiederebbe in questo momento la velocizzazione dei tempi di reclutamento dei nuovi magistrati, l’adozione di misure finalizzate ad affrontare le difficoltà in cui versano gli uffici giudiziari di merito e di legittimità e la reintroduzione dell’età pensionabile a 72 anni per tutti, con l’esclusivo scopo di garantire ai più giovani un congruo periodo di servizio e dunque una dignitosa fase post lavorativa, oggi fortemente minata dall’attuale sistema". Proroga delle pensioni per i magistrati. L’Anm contro Renzi: "sta improvvisando" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 agosto 2016 Ieri, dopo giorni di acceso dibattito, è arrivato anche l’imprimatur definitivo da parte dell’Associazione nazionale magistrati. Come inizialmente anticipato solo da Area, il cartello che unisce Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia, le anime di sinistra della magistratura, "improvvisazione" è l’unico termine che descrive al meglio il modo con cui il governo sta gestendo la riforma dell’età pensionabile delle toghe. Nessuna altra parola, almeno secondo i pm, sarebbe in grado di rappresentare il caos che si è creato dopo la legge Madia del 2014 che, abbassando di colpo da 75 a 70 anni l’età massima per la pensione dei magistrati, ha causato scoperture diffuse negli uffici giudiziari. Costringendo il governo, l’anno successivo, a correre ai ripari prorogando in servizio oltre 180 magistrati. Anche per l’Anm a guida Piercamillo Davigo, "prorogare il trattenimento in servizio, per un altro anno, dei magistrati che sarebbero dovuti andare in pensione alla data del 31 dicembre 2016, alcuni dei quali già destinatari di un anno di proroga per effetto di un provvedimento del 2015, conferma come la decisione del governo del 2014 sia stata errata visto che non ha fatto altro che peggiorare il progressivo vuoto di organico". L’Anm, prosegue il comunicato, "aveva già all’epoca previsto le ricadute negative dell’intervento per il sistema giudiziario, che puntualmente sono arrivate e oggi sono confermate dallo stesso esecutivo attraverso un provvedimento che, lungi dal migliorare le cose, in quanto frutto di improvvisazione (come dimostra la stessa formula del decreto legge), non favorisce il servizio giustizia ed anzi, oltre a prospettare possibili situazioni di disparità di trattamento, creerà disservizi anche allo stesso Csm il quale ha già pubblicato i bandi per il conferimento di numerosi incarichi che, in tal modo, subirà uno slittamento". "Una politica giudiziaria lungimirante, al contrario - conclude l’Anm - richiederebbe in questo momento la velocizzazione dei tempi di reclutamento dei nuovi magistrati, l’adozione di misure finalizzate ad affrontare le difficoltà in cui versano gli uffici giudiziari e la reintroduzione dell’età pensionabile a 72 anni per tutti". Prima o poi, dunque, tutti i nodi vengono al pettine. Com’era facilmente immaginabile, le conseguenze del blocco del turn over per i dipendenti pubblici cominciano a farsi sentire in ogni comparto. Dal 2009, infatti, con l’entrata in vigore delle misure di spending review, sono consentite nuove assunzioni di personale solamente per il 25% dei risparmi derivati dalle uscite dell’anno precedente. Quindi, un nuovo assunto ogni quattro uscite. Il settore giustizia non è da meno. Al Tribunale di Milano, ad esempio, come scrivono in una relazione gli ispettori del ministero della Giustizia, su 32 posti di presidente di sezione (tra penale e civile) ne sono coperti 25, di 257 ruoli da giudice ne sono assegnati 229. Ma se negli altri settori della Pubblica Amministrazione il blocco del turn over è ormai visto con rassegnazione, nel settore giustizia ha il sapore della beffa. A fronte, infatti, di questa stretta sulle nuove assunzioni, il citato abbassamento dell’età pensionabile per le toghe, oltre al disagio di aver creato centinaia di scoperture nelle piante organiche dei tribunali, sta producendo un danno per finanze pubbliche. Invece di portare un risparmio, visti i tempi, non ha fatto altro che aumentare la spesa pensionistica. Trattandosi di magistrati assunti quando era ancora in vigore il sistema retributivo e non il contributivo, sono andati in pensione con l’80% circa dell’ultima retribuzione. Disagi per le scoperture organiche e costi aggiuntivi per le finanze pubbliche che potevano essere risparmiati se, come scrisse in una delibera il Plenum del Csm, fosse stato previsto un graduale abbassamento dell’età pensionabile, inserendo anche delle norme transitorie ad hoc. A questo punto, visto che la proroga riguarderebbe circa 180 magistrati, e di fatto cambierebbe molto poco in ottica di funzionalità ed efficienza, la voce fra gli "addetti ai lavori" è che si tratterebbe di un provvedimento ad personam. Fatto soprattutto per salvare alti magistrati dalla non gradita pensione. Magistrati che, questa volta, non potranno contare sull’aiuto del loro potente sindacato di categoria. Spetterà a Matteo Renzi mettere l’ultima parola su questo tormentone. Rottamandoli o salvandoli. Orlando e le parole di Greco: il rischio del declino? Lo stiamo contrastando di Melania Di Giacomo Corriere della Sera, 30 agosto 2016 Il procuratore capo di Milano aveva lanciato l’allarme: "Procura a rischio declino, manca personale, siamo al limite". Il Guardasigilli: "Lo sappiamo, ma ci sono indicatori in controtendenza". "Conosciamo bene i dati negativi, ma vi sono indicatori in controtendenza rispetto al rischio di un declino". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando - con una lettera - replica all’allarme lanciato dal procuratore di Milano, Francesco Greco, in un’intervista al Corriere. Mancano i mezzi per tutelare aziende e cittadini in una città che è "il motore economico italiano", aveva detto Greco, segnalando una scopertura di organico del 50% tra i procuratori aggiunti, del 15% tra i sostituti e del 33% nel personale amministrativo. Al suo allarme si unisce anche quello del procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo: "Abbiamo scoperture importanti sul piano degli amministrativi. E la stessa situazione la vive il Tribunale. Con notevoli conseguenze per il funzionamento della macchina, nonostante abbiamo, in vario modo, cercato di ovviare attraverso provvedimenti organizzativi". Lo sconforto dei capi degli uffici giudiziari non è nuovo per il Guardasigilli. Due settimane fa il Ministero aveva annunciato l’inserimento di 359 nuove unità di personale in mobilità obbligatoria dalle Province, che prenderanno servizio negli uffici a partire da dopodomani, e l’assunzione di mille nuovi amministrativi, "che - assicura Orlando - diventeranno tremila nei prossimi mesi". Numeri che però sono ancora lontani dal soddisfare le necessità. Al 30 giugno la scopertura dei posti a livello nazionale è del 21%, nonostante la procedura di mobilità volontaria. Mancano 9 mila unità e il personale invecchia drammaticamente in un settore nel quale da oltre 20 anni non si fanno assunzioni. L’invecchiamento riguarda anche l’organico della magistratura. Sul punto domani il Consiglio dei ministri dovrebbe esaminare il decreto sul pensionamento dei magistrati. L’obiettivo del provvedimento è prorogare di un altro anno il trattenimento in servizio dei magistrati che sarebbero dovuti andare in pensione al 31 dicembre 2016. In tutto, circa 200 toghe, tra cui anche il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e il procuratore generale, Pasquale Ciccolo. Riguarderebbe in particolare i magistrati che compiono 72 anni e che potrebbero andare in pensione non quest’anno ma a fine 2017. Nei giorni corsi l’ipotesi aveva suscitato "forti perplessità" nelle correnti della magistratura. Ed stata stroncata ieri dall’Anm come "frutto di improvvisazione". "Una politica giudiziaria lungimirante, al contrario, richiederebbe in questo momento la velocizzazione dei tempi di reclutamento dei nuovi magistrati", attacca l’associazione guidata da Piercamillo Davigo, che chiede la reintroduzione dell’età pensionabile a 72 anni per tutti. La lettera del ministro della Giustizia Caro direttore, conosciamo bene quei numeri negativi che il procuratore Greco ha elencato nelle sue dichiarazioni al Corriere della Sera, numeri che vengono da lunghi anni di incuria per l’amministrazione della giustizia. Dal momento del mio insediamento a via Arenula mi sono impegnato per ridurre quel saldo negativo. Vorrei però far presente che nel suo insieme vi sono indicatori in controtendenza rispetto al rischio di un declino della amministrazione della giustizia. Potrei, per esempio, citare la riduzione dell’arretrato. I dati del secondo trimestre sui procedimenti pendenti per la giustizia civile rimangono al di sotto dei 4 milioni (3.886.285), così come le pendenze in tema di esecuzioni e fallimenti (577.498). Consapevoli della difficoltà di garantire che non si creino vuoti nelle piante organiche - provocati in gran parte dai trasferimenti al Centro-Sud di personale amministrativo - stiamo lavorando per colmare questi vuoti e la nostra proposta è ora all’esame del Consiglio superiore della Magistratura. Di fronte al deficit di organici anche nel settore amministrativo, abbiamo stabilito l’assunzione dei primi nuovi mille amministrativi, che diventeranno quasi tremila nei prossimi mesi. Il Vasco di pandora dei giustizialisti. Il processo mediatico vale più del penale di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 agosto 2016 Vasco Errani commissario della ricostruzione. "È stato assolto, ma è proprio il caso di nominare un ex governatore che finanziò la coop di suo fratello?". Il Fatto quotidiano, con il consueto stile, commenta la scelta del governo di nominare l’ex presidente dell’Emilia Romagna come commissario per il terremoto nel centro Italia mescolando cose che non c’entrano nulla. La vicenda però permette di riflettere sul senso della giustizia e dello stato di diritto per Marco Travaglio, che è tutto in quel "è stato assolto, ma...". Errani aveva seguito alla lettera il manuale del partito delle manette su come comportarsi in un processo: quando dopo l’assoluzione in primo grado era stato a sorpresa condannato in appello, si dimise da presidente dell’Emilia Romagna. Il Fatto quotidiano in quell’occasione titolò: "Renzi salva un altro condannato: Errani", prendendosela con il premier colpevole di confidare nell’innocenza del presidente emiliano. Pochi mesi fa invece, quando Errani è stato assolto definitivamente, il Fatto non ha titolato nulla. Silenzio. Eppure Errani dovrebbe essere un simbolo per i giustizialisti, quello di un politico che secondo il metodo Travaglio-Di Pietro lascia gli incarichi pubblici, si ritira per anni a vita privata e ritorna solo dopo che sono state chiarite accuse e sospetti. Ma invece di elogiarne il comportamento e la dirittura morale, al Fatto lo trattano come una persona sporca e l’assoluzione anziché una medaglia rappresenta una macchia indelebile. È la dimostrazione che non si può essere al di sopra di ogni sospetto per chi vive e sguazza nella cultura del sospetto - e che il processo mediatico, per il popolo manettaro, a volte vale più del processo penale. Se si dovesse riassumere tutto in un titolo, sarebbe così: "Travaglio condanna un altro innocente: Errani". Taranto, omicidio Sarah Scazzi: depositate le motivazioni per l’ergastolo a zia e cugina di Vittorio Ricapito La Repubblica, 30 agosto 2016 Quasi 1.300 pagine in cui si ricostruisce il delitto della ragazza di 15 anni e si conferma il carcere per la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina. I sei anni di carcerazione preventiva stanno per scadere. A sei anni e tre giorni dall’omicidio di Sarah Scazzi, la Corte d’assise d’Appello ha depositato le motivazioni della sentenza con cui il 24 luglio del 2015 ha confermato la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina della vittima, accusate di sequestro di persona e omicidio volontario. Le motivazioni della sentenza di secondo grado, raccolte in 1.277 pagine (16 paragrafi), vengono depositate subito dopo l’anniversario della morte della studentessa 15enne, il cui corpo fu gettato in un pozzo di campagna dove rimase nascosto per 42 giorni dopo il delitto. Sabrina Misseri, 28 anni, è in carcere dal 15 ottobre del 2010 (la madre è stata arrestata a maggio 2011). I sei anni di tempo massimo della carcerazione preventiva stanno per scadere e Sabrina prossimamente potrebbe lasciare il carcere, ma bisognerà capire se vanno scomputati alcuni periodi di interruzione dei processi di primo e secondo grado. "I sei anni dall’arresto della mia assistita stanno per scadere - dice l’avvocato Nicola Marseglia - ma non c’è alcun automatismo in merito alla scarcerazione". I difensori di Sabrina, professor Franco Coppi e avvocato Nicola Marseglia, dopo la sentenza di secondo grado hanno chiesto in più occasioni ai magistrati la scarcerazione della 28enne, proponendo gli arresti domiciliari in una comunità diocesana del centro Italia specializzata nell’accoglimento di persone disagiate. Per i magistrati, tuttavia, l’unica misura cautelare per Sabrina Misseri è in carcere perché la giovane è pericolosa e potrebbe avere "prevedibili impulsi aggressivi". A luglio 2015 la corte d’assise d’appello dopo una camera di consiglio durata circa 80 ore ha quasi interamente confermato la sentenza di primo grado del 20 aprile 2013: ergastolo per Cosima e Sabrina, 8 anni di reclusione per Michele Misseri, zio di Sarah, condannato per soppressione di cadavere per aver materialmente gettato nel pozzo il cadavere della nipote al fine di farlo sparire per sempre (stessa accusa e condanna a 5 anni e 11 mesi per Carmine Misseri, fratello di Michele). È stato tuttavia lo stesso contadino a portare gli investigatori al pozzo dove aveva gettato il corpo, al termine di un interrogatorio durato 9 ore, la notte del 6 ottobre 2010. Misseri confessò di essere il responsabile del delitto e la notizia rimbalzò in diretta tv a "Chi l’ha visto" proprio mentre la madre di Sarah, Concetta Serrano, era ospite della trasmissione in collegamento dalla villa di sua sorella, in via Deledda 22, teatro dell’omicidio. Misseri ha cercato a più riprese di auto-accusarsi del delitto, modificando la sua versione, ma non è mai stato giudicato credibile dai diversi magistrati che si sono occupati del caso. Le motivazioni d’appello sono raccolte in un volume di 1.277 diviso in 16 paragrafi di cui 11 sono dedicati alla ricostruzione dei fatti (in primo grado la sentenza era composta da oltre 1600 pagine). Il processo, caratterizzato da forti polemiche tra difesa e accusa, ha generato altri procedimenti giudiziari. Una costola del processo principale è in corso al tribunale di Taranto, è accusato di false informazioni al pm Giovanni Buccolieri, il fioraio che raccontò agli investigatori la scena del sequestro di Sarah, nell’assolato primo pomeriggio del 26 agosto ad Avetrana, salvo poi ritrattare dicendo di averla semplicemente sognata. Sotto processo anche un suo amico, Michele Galasso, con cui avrebbe concordato la versione del sogno. Il 28 settembre 2016 proseguirà l’udienza preliminare dell’inchiesta-bis sul delitto di Avetrana. Michele Misseri rischia un altro processo, stavolta per auto-calunnia, per essersi accusato del delitto mentre la procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio per altre 11 persone accusate di aver mentito o nascosto particolari durante le indagini ed il processo di primo grado. Fra i presunti bugiardi c’è anche Ivano Russo, l’amico di Sarah e di sua cugina Sabrina. I magistrati ritengono che la contesa di Ivano fra le due cugine sia uno degli elementi più forti alla base del delitto. Ivano Russo è accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla corte d’assise. Per i pm in aula è stato reticente, ha mentito per coprire Sabrina, ha cercato di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah. C’è poi un altro procedimento giudiziario nei confronti di Michele Misseri, quello per calunnia e diffamazione nei confronti del suo primo difensore, l’avvocato Daniele Galoppa e della sua consulente, la criminologa Roberta Bruzzone. Davanti alla Corte d’Assise prima e alle telecamere poi, Misseri dichiarò di aver accusato la figlia Sabrina dell’omicidio di Sarah perché così gli avevano suggerito il legale e la consulente. Ora i difensori degli imputati hanno 45 giorni per studiare a fondo le 1277 pagine di motivazioni e presentare ricorso in Cassazione dove si celebrerà il terzo e ultimo round giudiziario. Intanto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sollecitato a fine luglio dal professor Coppi, legale di Sabrina, ha inviato i propri ispettori a Taranto per accertare eventuali responsabilità nel ritardo del deposito delle motivazioni, avvenuto un anno e un mese dopo la lettura della sentenza. Rito abbreviato: legittimo impedimento del difensore, udienza rinviata anche in appello di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 29 agosto 2016 n. 35576. Il giudice deve rinviare l’udienza nel rito abbreviato in appello se il difensore ha un legittimo impedimento. La Cassazione (sentenza 35576) accoglie il ricorso contro la sentenza con la quale l’imputato era stato condannato per omesso versamento all’Inps e contro l’ordinanza con la quale era stata respinta l’istanza di rinvio del procedimento per legittimo impedimento del difensore. Secondo la Corte di merito, il legittimo impedimento del legale era del tutto irrilevante perché nel rito abbreviato in appello, contraddistinto da speditezza e concentrazione, la partecipazione del pubblico ministero e del difensore è necessaria. L’eventuale impedimento dell’avvocato dunque, anche se reale e "provato" non costituisce dunque motivo di rinvio, a meno che non si debba procedere a rinnovare il dibattimento. La tesi sostenuta dalla Corte d’appello è supportata dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale al procedimento camerale del giudizio abbreviato in appello non si applica l’articolo 420-ter, comma 5 del codice di rito, che impone lo slittamento in caso di impedimento del difensore, perché la presenza delle parti è facoltativa. Solo per l’imputato è espressamente contemplato il rinvio per legittimo impedimento (articolo 599, comma 2 del Codice di procedura penale) nel caso abbia manifestato la volontà di partecipare all’udienza. Il contraddittorio è assicurato, quanto al difensore, dalla notifica di fissazione dell’udienza: la nullità del procedimento scatta dunque solo per difetto di notifica. La Terza sezione penale della Cassazione prende però le distanze da un principio che aveva trovato anche l’avallo delle Sezioni unite. I giudici ricordano che proprio l’articolo 420, comma 1, del Codice penale, prevede la partecipazione necessaria del difensore all’udienza preliminare, pur avendo questa natura camerale. Una disposizione che va estesa per "identità di ratio" anche al procedimento camerale d’appello. La conclusione non è ostacolata dalla norma secondo la quale il difensore é sentito solo se compare (articolo 127, comma 3 del codice di rito, richiamato dall’articolo 599, comma 1). La diposizione lascia, infatti, al legale la scelta della strategia difensiva: ma se questo opta per la presenza la sua decisione non può essere condizionata da cause di forza maggiore. Né le esigenze di snellezza e celerità del rito camerale possono prevalere su "fondamentali istanze di garanzia dell’imputato" qualunque sia il modulo processuale adottato. Il diritto di difesa non può mai fare un passo indietro e ancora meno può essere sacrificato quando il giudizio si trova in una fase in cui si discute della fondatezza dell’imputazione sia in primo grado sia in appello. Il contraddittorio resta fondamentale e non si può sostenere che questo non sia violato se non si prende in considerazione l’impossibilità del difensore a comparire. La violazione comporta l’annullamento con rinvio della sentenza. Nel caso esaminato non serve, perché il reato è prescritto. No alla sottrazione di minori se il figlio naturale non è convivente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2016 Corte d’Appello di Palermo - Sezione 4 - Sentenza 12 maggio 2016 n. 2362. Se il figlio naturale abita da tempo con uno solo dei genitori l’altro non può fondare l’accusa di sottrazione di minori basandosi unicamente sul mancato rispetto del diritto di visita. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Palermo con la sentenza 12 maggio 2016 n. 2362 dando torto ad un papà. La decisione ricorda che il delitto previsto dall’articolo 574 del codice penale "sussiste quando il genitore sottragga totalmente il figlio minore alla vigilanza dell’altro coniuge affidatario, così da rendergli impossibile l’esercizio della potestà genitoriale". In questo senso, la Corte di Cassazione ha ritenuto insussistente il reato "quando, pur essendo stata una minore trattenuta per più giorni da un genitore in violazione del provvedimento giudiziario di affidamento, non si era impedito all’altro genitore di incontrare quotidianamente la figlia". Nel caso di specie, prosegue la sentenza, la condotta di totale sottrazione della minore "non è stata dimostrata" ed anzi dal compendio probatorio "si desume che l’imputata non aveva mai coabitato con il padre prima della nascita della minore e che solo dopo il parto si era trasferita a casa del predetto". Tuttavia, "a causa di evidenti incomprensioni sfociate, a dire della madre, in condotte aggressive, l’imputata dopo circa dieci giorni si era trasferita con la neonata nella casa della propria madre". Il papà però aveva incontrato la figlia alla presenza della mamma e "aveva sempre saputo dove la stessa si trovava". Dopo circa un mese era seguito un nuovo tentativo di convivenza terminato dopo qualche settimana col ritorno definitivo della donna a casa di sua madre. Così stando le cose, osserva la Corte di appello, "la condotta lamentata dal padre, a prescindere dalla fondatezza della sua prospettazione, non integra il reato di sottrazione di minori, poiché all’epoca della querela la bambina già abitava da tempo con la madre". E il padre, genitore naturale e non legittimo, "non contestava il pregresso allontanamento dal domicilio familiare, ma il mancato rispetto del suo diritto di visita". Nel vigore della normativa precedente alla riforma della filiazione (Dlgs 154/2013, entrato in vigore dal 7 febbraio 2014), argomenta la Corte, "in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria l’affidamento del figlio naturale, spettava al genitore con cui il minore coabitava ex art. 317 c.c. e il genitore naturale non affidatario che non poteva esercitare il diritto di visita, non poteva lamentare la sottrazione del minore dalla potestà genitoriale". Inoltre sul piano fattuale risulta provato che il padre incontrava la figlia in occasione delle visite pediatriche e che, per via dell’alta conflittualità, il tribunale dei Minori ha disposto gli altri incontri in "ambiente protetto". Inoltre, la responsabile dello "Spazio neutro" ha riferito di "una difficoltà del padre di gestire in modo autonomo la relazione con la figlia". Respinta invece l’eccezione preliminare della difesa circa l’inammissibilità dell’appello per assenza di delega da parte del depositante. Infatti, secondo la Cassazione (n. 38722/2010): "È ammissibile l’atto di impugnazione sottoscritto dal difensore con una sigla incomprensibile e presentato da un praticante di studio non munito di delega, in quanto l’inammissibilità di cui all’art. 582 c.p.p. si configura soltanto ove vi sia incertezza sulla legittima provenienza dell’atto e non quando la sua identità appaia desumibile dal complessivo esame del documento". "Né - proseguono i giudici di legittimità -, ai fini della presentazione dell’atto di impugnazione, occorre che il soggetto incaricato sia munito di delega scritta, essendo sufficiente anche un incarico orale desumibile dalla natura del rapporto e dalle relazioni intercorrenti tra presentatore e sottoscrittore dell’atto, quale quello conferito al praticante di studio, legato al dominus da rapporto fiduciario, tale da far presumere ragionevolmente l’esistenza di apposito mandato alla presentazione dell’atto". Nessun limite alla provvisionale immediatamente esecutiva nel processo penale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 29 agosto 2016, n. 35570. Nessun limite e nessuna preclusione alla richiesta di provvisionale immediatamente esecutiva nel processo penale. La parte civile può chiederla in qualsiasi momento, anche nel corso del giudizio di appello per la prima volta, e anche se l’impugnazione è stata solo ad opera dell’imputato. In sostanza, da un punto di vista strettamente procedurale, nella richiesta penale di anticipazione dei danni civilistici non esiste un divieto di reformatio in peius, anche perché si tratta pur sempre di un istituto civilistico che viaggia su un binario separato, e diversamente regolato, rispetto al processo penale. La Terza sezione penale della Cassazione, con la sentenza 35570/16 depositata ieri, torna su un tema che da anni divide la stessa giurisprudenza di legittimità, con una decisione che sposta ancora una volta la bilancia dalla parte a cui è stato riconosciuto il diritto al risarcimento. Il processo da cui prendeva le mosse il ricorso di un sessantenne catanese era relativo a una violenza sessuale su minore, reato per il quale era stata inflitta una condanna a 5 anni e 8 mesi di carcere, oltre alle statuizioni civilistiche: queste ultime però erano state quantificate solo dalla Corte d’appello, davanti a cui erano state formulate per la prima volta dalle parti lese non impugnanti. Da qui scaturiva uno dei motivi di ricorso dell’imputato, secondo cui i 60mila euro di provvisionale poi inflitti - in aggiunta alla conferma del carcere - rappresentavano nella sostanza una riforma peggiorativa del primo grado, non consentita dalle norme codicistiche. La Terza penale, però, ha bocciato senza riserve questa prospettazione, consapevole peraltro che sul tema la stessa Corte presenta da anni due soluzioni alternative (tra le altre, la 13545/09 sposa proprio la tesi del divieto di reformatio in peius nel caso l’appellante sia solo l’imputato). Gli orientamenti più recenti, argomenta tuttavia l’estensore, sono dell’avviso contrario, secondo cui "quando è stata pronunciata in primo grado condanna generica al risarcimento del danno, non costituisce domanda nuova la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale effettuata per la prima volta in appello dalla parte civile, con la conseguenza che il giudice del gravame ha il dovere di pronunciarsi sulla domanda, utilizzando gli stessi criteri di giudizio previsti dall’articolo 539, c. 2 del codice di procedura penale (Condanna generica ai danni e provvisionale, ndr) per il giudice di prime cure" (42684/15). La Cassazione, per ulteriore chiarezza, esclude la questione provvisionale dal perimetro fisso di conoscibilità del giudice d’appello (l’articolo 597 del Codice di procedura penale) in quanto quello "fa riferimento alla pretesa punitiva dello Stato" mentre l’azione civile "ancorché inserita nel processo penale è pur sempre soggetta ai principi del processo civile". Pertanto, in conformità con la sentenza 353/1994 della Consulta, non è consentito privare l’attore civilistico delle facoltà che gli spetterebbero solo perché sta "anticipando" parte delle liquidazione nel processo penale, salve ovviamente le regole peculiari di quest’ultimo. La Terza chiosa pertanto che la domanda di provvisionale non può essere considerata "nuova" e come tale inammissibile essendo evidente la sua connessione rispetto al petitum principale, rispetto al quale ha una semplice funzione cautelare/anticipatoria. Infine, e proprio per questo, la provvisionale ha carattere "discrezionale, meramente deliberativo" e non deve essere necessariamente motivata. Favignana (Tp): allarme legionella in carcere, sospesa l’erogazione dell’acqua grnet.it, 30 agosto 2016 "La preoccupante notizia è stata ufficializzata da pochi giorni: l’acqua erogata in carcere è infetta dal batterio della legionella, ed oggi è previsto per tutta la giornata la chiusura dell’acqua", informa il Segretario Regionale SAPPE della Sicilia Lillo Navarra; "noi sollecitiamo ancora una volta l’Amministrazione Penitenziaria a mettere in sicurezza la Casa di Reclusione, garantendo al Personale di Polizia Penitenziaria e ai detenuti del carcere una adeguata opera di prevenzione e bonifica". Da Roma, è netta la denuncia del Segretario Generale Sappe Donato Capece che assimila le nostre carceri a moderni "lazzaretti": "secondo una recente indagine, almeno una patologia infettiva è presente nel 60-80% dei detenuti presenti nelle carceri italiane. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). E gli ultimi dati sulle epatiti hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere. Questo fa comprendere in quali "polveriere" lavorano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, spesso senza alcuna tutela sanitaria e neppure dei semplici guanti da usare in caso di interventi d’emergenza. Per tali ragioni, auspichiamo che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria adotti con urgenza adeguati provvedimenti per mettere in sicurezza struttura, poliziotti e detenuti del carcere di Favignana". Genova: Uil-Pa "carcere di Marassi infestato dalle zecche dei piccioni" telenord.it, 30 agosto 2016 "Speriamo vivamente che le competenti autorità del Provveditorato e del Dipartimento, nonché le autorità sanitarie locali, si attivino con immediatezza per garantire le necessarie attività disinfestante presso l’istituto penitenziario di Genova Marassi in cui si è accertata una importante presenza di zecche dei piccioni": questo il pressante invito del Segretario Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, Fabio Pagani tramite una nota. Zecche - "Ieri per l’ennesima volta ( a distanza di meno di dieci giorni ) presso il reparto Prima Sezione al Quarto Piano si è accertata in una camera dove sono ristretti sei detenuti la presenza massiccia di zecche di piccioni - ha aggiunto - è del tutto evidente che in una situazione igienico- sanitaria già compromessa dal sovraffollamento ogni ulteriore elemento critico potrebbe far precipitare la situazione. Il problema dei volatili con il conseguente rischio sanitario è piuttosto comune nei penitenziari d’Italia - nel corso delle nostre frequenti visite abbiamo più volte potuto appurare quanto sia devastante dal punto di vista sanitario l’ingombrante presenza di piccioni o volatili che stanziano e nidificano nelle strutture penitenziarie. Gli escrementi i nidi, i residui, le carcasse sono fattori veicolanti non solo di parassiti quant’anche di pericolose patologie infettive (alcune contagiose e persino mortali) tra le quali ricordiamo Salmonellosi, Criptococcosi, Istoplasmosi, Ornitosi, Aspergillosi, Candidosi, Clamidosi, Coccidiosi, Encefalite, Tubercolosi". Ordine pubblico - "È necessario, quindi, non solo procedere a sistematiche disinfestazioni quanto prevedere un piano di contenimento delle presenze dei volatili infestanti. L’installazione di sistemi di allontanamento o l’apposizione di materiale anti- posatoio risulterebbero utili allo scopo e contribuirebbero al contenimento delle spese di disinfestazione. Questo potrebbe apparire - ha concluso il Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari - un problema di second’ordine rispetto alle tante criticità del pianeta carcere. Purtroppo l’esaurimento dei fondi per l’approvvigionamento del materiale di pulizia e gli effetti del sovrappopolamento hanno dirette conseguenze sulla salubrità e l’igiene dei posti detentivi e dei luoghi di lavoro. Pertanto è doveroso monitorare, prevenire ed eliminare tutti i possibili focolai patologici, auspicabilmente attraverso azioni sinergiche tra autorità penitenziarie ed autorità sanitarie". Porto Azzurro (Li): i detenuti ripuliscono Mola, con Legambiente e Diversamente Marinai greenreport.it, 30 agosto 2016 Dopo la denuncia dell’abbattimento di gran parte del canneto di dell’area umida, compresa nella zona B del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e tutelata dalle direttive europee, dopo la fuga (speriamo) delle rare gallinelle d’acqua e degli altri animali, dopo l’incendio che ha colpito la stessa area nei giorni scorsi, i volontari dell’ASD Diversamente Marinai e di Legambiente e alcuni detenuti del carcere di Porto Azzurro si sono nuovamente occupati della pulizia della spiaggia e delle rive dei corsi d’acqua di Mola, nei Comuni di Porto Azzurro e Capoliveri. Uno dei volontari, Daniele Bernabò, sottolinea che "La nostra attività ha attirato l’attenzione di un passante che ha offerto il suo contributo nell’opera di raccolta. Durante la pulizia, oltre ai soliti rifiuti, sono stati rinvenuti una batteria d’auto, diversi copertoni e altri materiali ingombranti, nonché una chiazza di catrame solidificato sul bagnasciuga, quest’ultima impossibile da rimuovere". I volontari hanno purtroppo anche trovato le carcasse di due anatidi, una delle quali presentava una scheggia infissa nella gola. "Si tratta dell’ennesimo intervento dei campi di volontariato velici di Diversamente Marinai e di Legambiente, questa volta con il rinforzo molto fattivo dei detenuti del carcere i Porto Azzurro che ringraziamo insieme alla Direzione del Carcere- dicono Legambiente e Diversamente Marinai - Nella Zona umida di Mola e ogni volta vengo fuori nuovi rifiuti, frutto dell’inciviltà di chi tratta un’area così preziosa e il mare come una discarica". Secondo il Cigno Verde isolano "È chiaro che questa situazione non può essere ulteriormente tollerata e che occorre che Parco e Comuni si diano da fare per avviare una bonifica dell’area e per un progetto di utilizzo e manutenzione sostenibile, basato sull’ecoturismo e l’educazione ambientale, e che non si permetta più di continuare a sottoporre la zona umida ad abusi e violazioni di ogni tipo. Mola conserva, nonostante tutto e tutti, ancora grandi valori ambientale, è una piccola perla dimenticata e offesa che ha bisogno di un progetto che la salvaguardi davvero insieme alla sua meravigliosa fauna e flora che viene ogni giorno messa in pericolo da gesti sconsiderati". Per questo Legambiente Arcipelago Toscano, finita la stagione estiva, presenterà un dossier su Mola e chiederà a tutti gli Enti interessati, a partire dal Parco Nazionale, di avviare un reale recupero e ripristino di questa piccola Zona umida ma importantissima per la fauna stanziale e migratoria e che, senza gli interventi dei nostri volontari avrebbe presentato ai turisti solo l’immagine di una pattumiera e di un posto dove si può radere al suolo la vegetazione mentre l’avifauna sta allevando ancora i piccoli, oppure appiccare il fuoco o circolare liberamente con auto e cani. Intanto la buona notizia è che il Consorzio di Bonifica Toscana Costa ha contattato Legambiente Arcipelago Toscano per organizzare un incontro su Mola, visto anche che i lavori - eseguiti secondo Legambiente in maniera troppo pesante e con un eccessivo disturbo e pericolo per la fauna - sarebbero stati fatti in base a un accordo di "manutenzione" pluriennale approvato in passato dal Parco Nazionale. Ferrara: colletta in carcere per i terremotati, i detenuti offrono 600 euro La Nuova Ferrara, 30 agosto 2016 Una decisione spontanea da parte delle persone rinchiuse all’Arginone. Anche i Buskers si confermano generosi, donati i ricavi del Grande Cappello. Uniti nella musica, uniti nella volontà di aiutare i terremotati. Dopo il concerto in carcere del 15 agosto, i Buskers e i detenuti dell’Arginone si ritrovano accomunati dalla solidarietà nei confronti delle popolazioni del centro Italia. Se ieri la manifestazione dei musicisti di strada ha donato il ricavato del Grande Cappello, i carcerati hanno dato una forte dimostrazione di cuore e generosità, raccogliendo 600 euro da destinare agli aiuti per i terremotati. Quella dei carcerati della Casa circondariale estense è stata una decisione spontanea, diffusa rapidamente di cella e in cella e accolta con grande slancio ed entusiasmo dai detenuti, felici di poter contribuire, pur privati della libertà, alla macchina degli aiuti che in questi giorni ha coinvolto associazioni, istituzioni e privati cittadini. Ogni detenuti ha dunque stabilito di destinare una parte del proprio libretto di risparmio alle popolazioni colpite dal sisma. Attraverso l’ufficio competente della Casa circondariale, la somma è stata dunque prelevata per un ammontare di 600 euro, che poi si provvederà a far arrivare a destinazione. Un segnale di vicinanza e sensibilità che porta con sè un valore aggiunto, la capacità di guardare oltre la propria condizione e saper essere solidali nei confronti di chi sta soffrendo. Attenzione e generosità anche da parte degli organizzatori del Ferrara Buskers Festival e da Ibo Italia che, così come nel 2012 destinarono i fondi del Grande Cappello al restauro del Teatro Comunale danneggiato dal sisma, quest’anno hanno pensato alle comunità di Marche e Lazio. Pisa: aggressione nel carcere Don Bosco, protesta della Polizia penitenziaria pisatoday.it, 30 agosto 2016 La denuncia di Osapp e Uil-Pa Pisa con i propri rappresentanti Vetri e Di Matteo che sottolineano la difficoltà di lavorare nel penitenziario pisano. Si alza la protesta all’interno del carcere Don Bosco di Pisa dopo l’aggressione avvenuta lunedì ai danni di quattro agenti della Polizia Penitenziaria, colpiti con le stampelle da un detenuto. Da oggi, martedì 30 agosto, i rappresentanti delle organizzazioni sindacali Osapp e Uilpa di Pisa faranno sentire la loro voce iniziando con l’astensione dalla mensa. "Una situazione allucinante, tanto più grave se si considera che il detenuto in questione, non nuovo a comportamenti violenti ed aggressivi anche in pregresse carcerazioni - dichiarano i rappresentanti provinciali di Osapp Alessio Vetri e Uil Polizia Penitenziaria Nicola Di Matteo - negli ultimi 20 giorni è stato protagonista di più eventi critici, quali ad esempio le continue minacce al personale di Polizia Penitenziaria; la settimana scorsa è stato trovato con un coltello rudimentale da lui costruito che, come da lui stesso detto, avrebbe piantato nello stomaco a tutti gli agenti che si avvicinavano a lui; durante una notte ha anche messo in atto gesti autolesionistici che gli sono costati 32 punti di sutura". "A nulla è valso - proseguono Vetri e Di Matteo - l’intervento del Provveditore Regionale di qualche mese fa, a nulla è valso nemmeno l’aver scritto al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a cui avevamo fatto presente che mentre il personale lavora in condizioni pressoché indegne, rischiando giornalmente la vita, ultimamente rischia pure di prendere rapporti disciplinari per mere negligenze in servizio. Una situazione insostenibile dove i vertici al Provveditorato ed al Dipartimento sembrano non riuscire a raccapezzarsi". "La situazione a Pisa resta allarmante - affermano ancora i due rappresentanti sindacali - negli ultimi anni il numero dei detenuti sarà pure diminuito, ma i nostri poliziotti continuano ad essere aggrediti senza alcuna ragione. Eventi come quelli odierni sono purtroppo sempre più all’ordine del giorno e chi ne paga le conseguenze è sempre e solo la Polizia Penitenziaria. Augurando ai colleghi feriti una buona guarigione, esprimiamo loro piena solidarietà, ma con fermezza diciamo che queste aggressioni sono intollerabili e inaccettabili e che ad esse si deve dare una risposta decisa, in termini penali e disciplinari. Sicuramente servono strumenti anti aggressione (in primis l’eliminare le lamette, come già sperimentato in altre realtà), serve altresì una urgente rivisitazione dell’organizzazione del lavoro". Trani (Bat): domani presentazione del libro "Il nido dietro le sbarre", di Roberta Schiralli traninews.it, 30 agosto 2016 "Pennelli e Parole", l’interessante rassegna ideata e realizzata dalla pittrice Silvia Tolomeo,giunta alla quarta edizione, inaugurata quest’anno dal critico d’arte Giorgio Grasso, primo collaboratore di Vittorio Sgarbi, mercoledì 31 agosto, chalet della villa comunale ore 19.30, chiuderà i battenti con la sezione dedicata alle "parole". Protagonista sarà l’avvocata Roberta Schiralli che parlerà di un suo lavoro "Il nido dietro le sbarre", uno studio che tratta una realtà molto delicata dal punto di vista sociale, ma che ai più è totalmente sconosciuta per la sua delicatissima problematica. "Se pensiamo alla detenzione delle madri e dei loro figli nelle carceri, - ha scritto Roberta Schiralli nel suo volume - si è portati a ricordare quel bellissimo film di De Sica "ieri, oggi e domani" in cui la bellissima Sofia Loren entra in carcere con i due figli più piccoli attaccati alla sua gonna. Ma se quella era una realtà inventata, oggi invece è un’amara realtà che esiste in molte carceri d’Italia. I bambini, costretti a vivere nelle celle, per la maggior parte di etnia rom, sono gli ultimi fra gli ultimi nella nuova scala sociale della solitudine e della emarginazione". La criminalità femminile è divenuta materia di indagine e di studio solo da poco. Da quando cioè, negli ultimi trent’anni, le donne sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro paese e che si è risolto nella approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità - in termini di diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di retribuzione - che interessa ora l’intera sfera sociale. Questa quarta edizione di "Pennelli e Parole", voluta da Silvia Tolomeo, ha riscosso un notevole successo di pubblico e di consensi, come dimostra l’apprezzamento esternato a più riprese da Giorgio Grasso, nella serata inaugurale, alle pittrici Sophia Silvestri, Sabina Princigalli, Guantario Ricarda, Valentina Vurchio e la stessa Silvia Tolomeo, che hanno esposto le loro opere. Il noto critico ha "interrogato" una per una le espositrici interessandosi ai tanti perché e alle varie sensazioni che hanno poi determinato le rappresentazioni pittoriche di ognuna di esse. Terremoto. Appalti, materiali e collaudi nel mirino degli inquirenti di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 agosto 2016 Le inchieste. La procura di Ascoli Piceno indagherebbe anche sul crollo parziale dell’ospedale di Amandola (Fermo). Due indagini sulle macerie. Le procure di Rieti e Ascoli sono al lavoro già da qualche giorno per capire eventuali responsabilità per i crolli ad Amatrice, Arquata e Accumoli, se cioè la furia del terremoto di mercoledì scorso avrebbe potuto fare meno vittime e meno danni. A Rieti, il pool guidato dal procuratore Giuseppe Saieva indaga per disastro colposo, mentre ad Ascoli ancora non c’è ipotesi di reato. Entrambi i fascicoli comunque, per ora, non riportano indagati. La differenza sostanziale tra queste due inchieste è che mentre nel Lazio a venire giù sono stati anche edifici pubblici, nelle Marche si parla principalmente di abitazioni private. In pratica se nel primo caso potrebbero finire nei guai politici e dirigenti della pubblica amministrazione, nel secondo non si può escludere che a finire indagati saranno gli stessi terremotati. In un paese in cui si dà per scontato che ci sia un abuso edilizio più o meno dietro ogni angolo, la questione appare destinata a far discutere parecchio, anche perché il bilancio di 292 morti è un macigno e il ricordo degli scandali dell’Aquila ancora freschissimo. Ad Amatrice l’interesse degli investigatori riguarda i materiali utilizzati e i collaudi effettuati alla scuola Capranica e all’ospedale Grifoni. Per quello che riguarda la scuola, la ristrutturazione è datata 2012 e già il titolare della ditta che effettuò i lavori, Gianfranco Truffarelli, offre spunti inquietanti sul tema: "Nessuno mi ha mai chiesto di fare lavori di adeguamento sismico, abbiamo fatto un’opera di miglioramento, che è cosa ben diversa". Cioè, questo genere di lavori ha interessato soltanto due ali della scuola (che in effetti non sono crollate), non l’intero edificio. Gli appalti erano divisi: una parte interessava la riqualificazione della struttura, un’altra era quella del miglioramento sismico, che a quanto pare non vuol dire adeguamento. Nel 2015, poi, il Comune si mosse per un’ultima tranche di lavori, quella relativa al "completamento urgente" di "messa in sicurezza e prevenzione del rischio" della Capranica. A febbraio di quell’anno la Regione aveva stanziato 50mila euro e spiccioli in favore di Amatrice, a giugno la Giunta ce ne mette sopra altri 220mila. A vincere la gara, il 21 dicembre del 2015, fu la ditta Carlo Cricchi di Roma (solo omonima di quella finita sotto inchiesta per la ricostruzione di L’Aquila), con un ribasso record del 36.1%. I lavori, però, non hanno fatto in tempo a partire. L’ospedale, invece, è al centro di una complicata battaglia tra il Comune di Amatrice e la Regione Lazio che dura da otto anni. Nel 2008 la giunta guidata da Piero Marrazzo decise di stanziare 12 milioni di euro per dei lavori di manutenzione ordinaria nei piccoli ospedali. Tutto è pronto nel giro di pochi mesi ma (aprile 2009) il terremoto dell’Aquila arriva a sconvolgere i piani, mentre la Regione nel frattempo era passata in mano a Esterino Montino: il Grifoni risulta sì danneggiato (e c’è un verbale che lo confermerebbe), ma l’iter si blocca. A Roma si comincia a dire che non ha senso tenere in piedi un piccolo ospedale come quello di Amatrice se nelle vicinanze c’è già quello di Rieti. Gli anni successivi sono una lotta continua tra il sindaco Sergio Pirozzi e la Regione guidata da Renata Polverini, con il primo che arriva a minacciare una secessione verso le Marche. Ad Accumoli, si indaga sul campanile della chiesa del paese. Lesionato dal sisma del 1997, i lavori di ristrutturazione sono cominciati soltanto nel 2004 e, visti i pochi soldi a disposizione, invece di un intervento strutturale di messa in sicurezza, si fanno soltanto dei ritocchi, delle migliorie, una passata di trucco su una struttura logora. Su questi elementi sta cominciando a muoversi la procura di Rieti, con i soccorritori che sono stati autorizzati ad andare alla ricerca di documenti utili tra le macerie. L’inchiesta è dunque in una fase assolutamente preliminare, mentre il grosso del lavoro partirà soltanto dopo i funerali delle vittime laziali del sisma. Il sostituto procuratore di Ascoli Umberto Monti, dal canto suo, ha aperto un fascicolo in cui raccoglie notizie che, al momento, non costituiscono reato. Ogni valutazione sarà fatta dopo l’arrivo della relazione richiesta dalla procura ai carabinieri, che nei giorni scorsi sono andati a rovistare tra i luoghi del disastro alla ricerca di elementi utili. La procura ascolana avrebbe disposto accertamenti anche sull’ospedale di Amandola (Fermo), una parte del quale è crollata nella notte del sisma, con i pazienti che sono stati evacuati. Terremoto. La rinascita alla prova della giustizia di Marcello Sorgi La Stampa, 30 agosto 2016 Il clima di umana e attiva solidarietà e di civile convergenza politica che s’è stabilito (con qualche inevitabile eccezione) dopo il terremoto ad Amatrice e nel Centro Italia non dovrebbe impedire qualche più approfondita riflessione su questo genere di calamità naturali, che in Italia purtroppo si verificano assai spesso, dando luogo a conseguenze che non sono affatto inevitabili, ed anzi potrebbero essere previste e arginate per tempo. La storia di quasi mezzo secolo, dal Belice (1968) in poi, ma anche di più di un secolo, da Messina (1908), ci ha impartito severe lezioni che vengono sistematicamente dimenticate o contraddette di volta in volta, aggravando le sofferenze delle vittime dirette di crolli e distruzioni. Lasciamo pure stare, se vogliamo, per restare ad esempi più recenti, l’esperienza del Belice, in cui uno Stato assolutamente impreparato, che non conosceva neppure il significato della parola "protezione civile", impiegò alcuni giorni prima di raggiungere i paesi colpiti, e alcuni anni per montare baracche e alloggi prefabbricati in cui almeno un paio di generazioni di superstiti fecero in tempo a nascere e a crescere prima della ricostruzione, rimasta incompleta per oltre trent’anni. E tralasciamo anche, sempre per evitare forzature di ragionamento, l’esempio del Friuli, dove all’opposto una popolazione preventivamente sfiduciata dalla sorte subita dai compagni di sventura siciliani, non indugiò a rimboccarsi le maniche dall’indomani del sisma, e animata da un sentimento che oggi si definirebbe antipolitico, preferì far da sé, coadiuvata da un irregolare democristiano d’altri tempi come il ministro Zamberletti e dalla sua task-force di generali in pensione che agivano di propria iniziativa, a dispetto di qualsiasi direttiva romana, ma riuscendo così a rimettere su case e palazzi distrutti nel tempo sorprendente di un paio d’anni. Quattro anni dopo in Irpinia (1980), nella notte che sollevò l’indignazione del presidente-cittadino Pertini e in cui i soccorritori scoprirono che non esistevano carte geografiche della zona colpita, tanto da dover usare quelle per escursionisti del Touring Club, sulla pelle degli oltre duemila morti, sepolti dalle macerie di paesi-presepio di impianto medioevale, si apriva uno dei più duri scontri tra una classe dirigente politica - il fior fiore dell’allora gruppo dirigente Dc, da De Mita a Gava - decisa a capovolgere gli esempi negativi del passato, riversando un flusso enorme di denaro pubblico nelle zone colpite e magari allargando i confini dell’intervento, e una magistratura che vedeva in tutto ciò una formidabile occasione per le organizzazioni criminali che volevano approfittarne. Tra i magistrati che con maggiore sforzo si impegnarono in quest’opera di bonifica, preventiva e successiva al contempo, c’era l’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, allora giovane giudice istruttore a Sant’Angelo dei Lombardi, uno dei centri rasi al suolo dalle scosse, ed oggi, non a caso in prima fila nell’esprimere timori che anche il terremoto di Amatrice possa fornire tentazioni all’affarismo mafioso. Di qui appunto il suo attuale e formale avvertimento all’altro importante magistrato, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, incaricato dal governo di sorvegliare la distribuzione dei primi aiuti e l’avvio delle iniziative più urgenti, con il conseguente impiego di danaro pubblico e privato. Ora, che un lavoro del genere sia necessario oltre che benemerito, viste le esperienze del passato più recente, basti pensare anche all’Umbria (1997) e a L’Aquila (2009), non ci sono dubbi. Ma è un fatto che l’urgenza dei soccorsi e la necessità di passare subito dalle parole ai fatti imponga procedure semplificate e corsie preferenziali, come del resto è avvenuto in passato con l’approvazione di leggi speciali e iniziative specifiche, che richiedono scadenze abbreviate approcci commisurati ai problemi delle realtà colpite. Attrezzarsi per evitare che da queste congiunture possano generare episodi di malversazione è giustissimo. Ma mettere le mani avanti, prima ancora che si mettano all’opera le persone scelte dal governo per il compito difficile di evitare un autunno e un inverno all’addiaccio ai terremotati d’agosto, potrebbe rivelarsi eccessivo, rallentando un lavoro che richiede necessariamente tempi stretti e creando le premesse per un ennesimo, quanto improvvido, al momento, scontro tra politica e magistratura. Che se invece dovesse verificarsi, renderebbe impossibile da mantenere la promessa di Renzi - già di suo un po’ avventata - di smontare le tende e dare ai senza casa un tetto, ancorché provvisorio, entro un mese. Terremoto. Fine della solidarietà, inizia la caccia alle streghe di Simona Musco Il Dubbio, 30 agosto 2016 I ragazzi scambiati per sciacalli, i sospetti mafiosi, i condannati da subito. Da un paio di giorni i giornali hanno iniziato a parlare di "sciacalli". E così anche ad Amatrice è iniziata la caccia. I giornali e le Tv sono in grado di creare "il clima", in una sitiuazione incontrollabile e tesa come quella di un dopo-terremoto. E spesso succede che optino per il clima del sospetto e magari del linciaggio. E così a due ragazzi di Platì (Calabria), che erano andati ad Amatrice a fare i volontari, ed erano stati messi prima a pulire i cessi e poi a portar via la spazzatura, è capitato di essere indicati come sciacalli, presi dalla polizia, poi identificati e rimandati a casa sebbene a loro carico non ci sia assolutamente niente. Però i loro nomi e le loro foto son finiti su tutti i giornali sotto la scritta "sciacalli". Gli è andata anche bene, stavolta, ma l’impressione è che ora nel mondo dell’informazione si sia conclusa la fase della "compassione" e sia scattata quella della caccia alle streghe. Volevano sostenere i terremotati, li hanno accusati di voler rubare. "Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco". Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di "fare del bene". Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l’accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come "malviventi" - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano "tra le rovine di una casa diroccata" con "fare sospetto". Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. "Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv ? racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l’invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta". Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull’Aspromonte, per tutti simbolo di una ?ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un’occasione. "In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero". I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. "Lontano, dunque, dalle case", sottolineano. I due passano da una divisa all’altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. "Era pur sempre un lavoro da fare", dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. "Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi", spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. "Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti". Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all’ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. "In quel momento ? spiega Trimboli ? è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare". È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell’ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell’auto, domande sul come e il perché si trovano lì. "I carabinieri hanno controllato l’auto ma non c’era nulla", spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. "Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato ? racconta Grillo -. Ce n’erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano". I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: "per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo". I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. "È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c’è stato bisogno", conclude Trimboli. A loro carico, ora, c’è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. "Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare". Terremoto. Cinismo e retorica creano caccia alle streghe di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 agosto 2016 Il riflesso condizionato, si sa, è ingovernabile. Difronte a una tragedia grande come quella di Amatrice, per esempio, giornalisti e Pm (non tutti, ma molti) riescono a mantenere la calma per un paio di giorni, e a far bene il proprio lavoro, e a raccontare - gli uni - e a indagare con serietà e discrezione - gli altri. Poi al terzo giorno si rompono gli argini e la necessità impellente di prendere i colpevoli e linciarli subito subito, prevale su tutto. E così alcuni magistrati non riescono a trattenere la propria pulsione a dichiarare, anche se ovviamente non sono in grado ancora di sapere niente di quello che è successo, e delle cause. E i giornalisti iniziano ad eseguire le sentenze, da loro stessi emesse, e a scrivere tutto ciò che sentono dire in giro, nei vicoli, nei bar. C’è un importante giornale nazionale che l’altro giorno informava - in prima pagina - i suoi lettori, che le pareti della scuola di Amatrice erano di polistirolo. Naturalmente è molto probabile che per il crollo della scuola esistano delle responsabilità soggettive e personali, oltre alle responsabilità politiche delle istituzioni. Ma è altrettanto probabile che ancora nessuno sia in grado di conoscere queste responsabilità. Ed è molto, molto probabile che il polistirolo sia stato usato per motivi di isolamento termico o acustico, e che non c’entri proprio niente col crollo. Però scrivere che le mura erano di polistirolo fa effetto, porta qualche lettore in più. Si fa. Così come fa effetto usare l’espressione: "in odor di mafia". Che non vuol dire assolutamente niente, ma muove molte emozioni. E spesso quello "in odor di mafia" non è nemmeno la persona di cui si sta parlando, ma un suo lontano parente. Ormai "essere parente" - per la stampa italiana - è diventato uno tra i reati più frequenti. Il Fatto, per esempio, l’altro giorno indicava al pubblico sospetto (e al pubblico ludibrio) un tale gravato di due colpe evidenti e certe: essere siciliano e - soprattutto - essere "imparentato" con una parlamentare del Pd. E poi, ovviamente, ci sono gli sciacalli. La storia che raccontiamo nell’articolo di Simona Musco in prima pagina è esemplare. La caccia allo sciacallo è un "cult" dell’informazione, da noi. Come una volta era la caccia all’untore, della quale vi abbiamo parlato molto, in questo agosto, ripubblicando la Colonna Infame di Manzoni. È del tutto evidente, a chiunque, che le conseguenze tragicissime, con trecento morti, del terremoto di Amatrice, sono in gran parte dovute alla mancanza di prevenzione. Lo abbiamo scritto il primo giorno. Il titolo del nostro giornale era: "Si poteva evitare?". Tutti gli esperti rispondono di si. Che esistono ormai le possibilità tecniche non solo per costruire con criteri antisismici tutte le nuove abitazioni, ma anche per mettere, almeno in parte, in sicurezza, le costruzioni più antiche. E tutti gli esperti ci dicono anche che l’Italia è la nazione più a rischio sismico d’Europa, e dunque la necessità di mettere al sicuro i nostri paesi e le nostre città è impellente. E invece, da diversi anni, si fa troppo poco. Esistono le mappe delle zone a rischio e persino i censimenti dei singoli edifici a rischio. Esiste anche una stima su quanto costa una azione di ristrutturazione generale. Però la politica resta immobile e un po’ indifferente. Eppure tutti sanno che sono altissime le probabilità che nei prossimi vent’anni ci siano in Italia almeno tre o quattro terremoti gravi come quello di Amatrice. Perché non concentrare su una gigantesca operazione antisismica tutte le risorse che è possibile stanziare sulle opere pubbliche? Rinunciando, almeno per un decennio, a ogni altra iniziativa. Concentrando una quantità molto grande di risorse su questa impresa, e mettendo in moto anche un meccanismo probabilmente importante di mobilitazione economica e dunque di sviluppo? Questa è la domanda che va rivolta alla politica. Alla magistratura invece va chiesto di accertare con serietà e certezza se ci sono responsabilità precise e personali per i crolli provocati dal terremoto, e, se ci sono, di chi esattamente sono. Ma questo lavoro va svolto con discrezione, serietà, prendendosi i tempi necessari, senza creare mostri e senza lavorare suoi sospetti e basta, e senza - soprattutto - cercare pubblicità e interagire con la stampa e i suoi clamori. Magari anche rinunciando alle iniziative bislacche che qualche anno fa portarono all’incriminazione (e persino alla condanna in primo grado) di un bel gruppetto di valorosi scienziati accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila. Quegli scienziati poi furono assolti pienamente, dal momento che non ci vuole una grande scienza per sapere che i terremoti non sono prevedibili da nessuno e tantomeno è prevedibile la loro intensità. Ma furono assolti quando ormai la loro reputazione e le loro carriere erano state già distrutte. Poi, certo, è inevitabile, esiste dei pezzi del giornalismo e della magistratura italiana che vivono di retorica e cinismo, e non sono molto interessati alle certezze e alla verità: retorica e cinismo molto spesso si alleano e quando si alleano creano disastri. Il meccanismo tradizionale della caccia alle streghe è sempre stato quello: retorica e cinismo che si esaltano a vicenda. Terremoto. L’Europa dei sospetti di Daniele Manca Corriere della Sera, 30 agosto 2016 L’Europa ha assicurato ancora ieri che le spese che saranno necessarie per fare fronte a breve termine alle emergenze dovute al terremoto in Centro Italia, non peseranno ai fini dell’esame del nostro bilancio da parte di Bruxelles. Lo prevedono le regole del Patto di stabilità che ammettono quella flessibilità da utilizzare in caso di calamità naturali come già accaduto per altri Paesi. Questo senza nessuna apertura su piani più a lungo termine. La prudenza con la quale portavoce e commissari europei si esprimono su questa vicenda è sintomatico di cosa è oggi l’Europa. E di come viene percepito il nostro Paese. Entrambi i concetti racchiudibili in un’unica parola: sospetto. Il sospetto che anche una catastrofe dove sono morte centinaia di persone, che ha colpito i cuori degli italiani e non solo, possa essere utilizzato per altri scopi, come quello di evitare una procedura di infrazione. O, anche, per avviare investimenti che non ci possiamo permettere. È vero, il nostro Paese soffre di mali endemici. Si chiamano corruzione, malaffare. Come ancora oggi scrivono Fiorenza Sarzanini e Ilaria Sacchettoni a pagina 2, l’Italia è un luogo dove individui senza scrupoli arrivano a vendere case con falsi certificati di idoneità antisismica. Dove i collaudi sono optional. E dove troppo spesso il dopo catastrofe si tramuta in un fiume di denaro distribuito a pioggia alimentando poco puliti interessi. Ma questa è una parte del Paese. Ce n’è un’altra che non si è mai rassegnata e che combatte quotidianamente per affermare quell’Italia che in questi giorni ha suscitato in ogni angolo del mondo sentimenti di solidarietà e vicinanza. È il Paese più vero dei borghi arrampicati e arroccati tra le montagne come Amatrice, Accumoli, Arquata. Abitati da persone abituate a non subire con sottomessa sopportazione gli avvenimenti. Ma non è una questione solo di singole persone sane, oneste, lavoratrici che si trovano a dover combattere in un sistema malato come a volte si viene descritti. Il doppio volto dell’Italia si manifesta anche sul versante poco consueto dei conti pubblici. Nell’analisi di Federico Fubini sul Corriere del 22 agosto scorso che riportava uno studio del Fmi, veniva sottolineato come in termini di saldo primario l’Italia avesse fatto "tre volte meglio nel confronto con la Germania sugli ultimi 21 anni, come la Germania negli ultimi dieci e di nuovo meglio della Germania dal 2010 a oggi". Il saldo primario (tra entrate e uscite) è di fatto l’unico parametro controllato dai governi, non tiene conto della spesa per interessi dovuti al debito pubblico. Quel debito pubblico che da decenni zavorra il nostro sviluppo. Frutto di scelte che stanno pesando e peseranno su queste generazioni e quelle che verranno. È per questo che il dopo terremoto oggi non può essere solo gestione delle emergenze ma l’occasione per avviare una grande stagione di messa in sicurezza del Paese. Deve guardare al futuro. Tocca al governo italiano imporre all’Europa il superamento dell’ambigua espressione sulle emergenze contenuta nei trattati. Altro che la flessibilità, capitolo sotto il quale con pervicace reazione impiegatizia si accolgono oggi a Bruxelles le istanze che provengono da ogni angolo del nostro Paese. Sta al governo incanalare queste legittime esigenze dei cittadini in un progetto sicurezza pluriennale, articolato, programmatico nelle intenzioni e nelle spese da indicare al millimetro. Un progetto ambizioso che possa fare della sicurezza in caso di catastrofe (che nel nostro caso sono i terremoti, ma che per altri Paesi sono alluvioni e inondazioni) uno degli elementi fondanti dell’Europa. Che sia modello per gli altri Paesi membri. Saranno necessari investimenti pubblici certamente, che però non potranno essere percepiti e esaminati a Bruxelles alla stregua delle spese che alimentano il funzionamento di uno Stato. Si sta parlando di sicurezza. E se l’Europa non scatta in occasioni come queste c’è da pensare davvero che il momento di crisi sia profondo. A Bruxelles il compito di mostrare la faccia utile dell’Unione, al governo italiano quello di mettere la discussione sul giusto binario. Vigilando però sul fatto che in questo dopo terremoto prevalgano una volta per tutte intransigente rigore e aspra sanzione per chi ha sbagliato o sbaglierà. Il terremoto e l’informazione: il coraggio del rigore di Roberto Saviano La Repubblica, 30 agosto 2016 Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità. ORA che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo. I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un’anima sola. Sui social c’è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c’è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C’è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com’è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all’informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell’Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l’informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j’accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti. E nel momento della caccia alle streghe non c’è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L’Aquila (quindi dal 2009) i soldi c’erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c’è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione? Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un’altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l’Italia tutto deve ripartire necessariamente dall’autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle). Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l’informazione e l’intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell’intrattenimento e rigore nell’informazione. Certo, anche nell’intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click. Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità. Migranti. 6.500 soccorsi in mare in un solo giorno di Giovanni Masini Il Giornale, 30 agosto 2016 La Guardia Costiera ha coordinato oltre quaranta diverse operazioni di soccorso, recuperando migliaia e migliaia di disperati partiti dall’Africa. Un’operazione di soccorso da record, che ha fatto segnare il più alto numero di migranti recuperati in mare in un solo giorno. Nel mezzo del Canale di Sicilia varie unità navali civili e militari coordinate dalla Guardia Costiera nell’ambito di più di quaranta differenti operazioni hanno salvato dal mare oltre seimila e cinquecento profughi salpati dalle spiagge dell’Africa settentrionale. Le operazioni di soccorso sono state svolte circa a venti chilometri al largo della città libica di Sabratha, nella parte più occidentale del Paese, quasi al confine con la Tunisia. Come spesso accade, i migranti si trovavano alla deriva su imbarcazioni sovraccaricate, senza carburante a sufficienza e assolutamente non in grado di tenere il mare. Negli ultimi quattro giorni sono addirittura diecimila le persone soccorse in alto mare fra la Libia e l’Italia. Solo domenica diverse unità della Marina Militare italiana e della Guardia Costiera avevano tratto in salvo oltre mille e cento altri profughi. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni riportati dalla BBC, oltre 275.000 altri disperati aspettano di salpare sulle coste libiche. Quest’anno sono già arrivati in Europa oltre 284mila immigrati, di cui circa 106mila in Italia. Fra quelli diretti nel nostro Pese, oltre 2700 persone hanno perso la vita in mare. Cresce la tensione a Calais - Nel frattempo cresce la tensione a Calais, sulla sponda francese della Manica. Nell’accampamento improvvisato della "Giungla" si trovano al momento 6900 persone secondo le stime ufficiali, ma le organizzazioni umanitarie presenti sul territorio ritengono che non possano essere meno di diecimila. Tutti fermamente decisi a passare in Gran Bretagna con ogni mezzo. L’aumentato numero di profughi accalcatisi alla periferia della città francese contribuisce ad esasperare gli animi di residenti e soprattutto degli autotrasportatori, sempre più spesso vittime di veri e propri attacchi da parte dei migranti, che non esitano a fermare i tir lungo l’autostrada pur di intrufolarsi nel cassone. Per questo lunedì prossimo alle sette del mattino è stato convocato un doppio corteo dalle vicine città di Dunkerque e Boulogne-sur-Mer, che dovrebbe culminare in un blocco autostradale. Nel frattempo il candidato repubblicano alle elezioni del 2017 ed ex presidente Nicolas Sarkozy ha rimarcato - in chiave evidentemente propagandistica - la necessità di "spostare" la Giungla di Calais su suolo britannico. La questione, per la verità, è regolata da accordi bilaterali anglo-francesi che stabiliscono come la frontiera sia da collocarsi in suolo transalpino. Al netto di qualche polemica all’indomani del voto sul Brexit, pare che lo status quo non debba subire, almeno per il momento, revisioni. Migranti. La Spd accusa Merkel di Alessandro Merli Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2016 Un occhio alle elezioni regionali del Meclemburgo-Pomerania di domenica prossima, un altro al vertice europeo del 16 settembre, il primo senza la Gran Bretagna. Su entrambi i fronti l’orizzonte è denso di nuvole per il cancelliere tedesco Angela Merkel, sotto pressione in Germania e in Europa. Fino a prima dell’estate, il cancelliere contava che il suo partito, la Cdu, conquistasse il governo del Meclemburgo. Oggi, i democristiani sono lontani dai socialdemocratici della Spd, al potere nel Land nell’ultimo ventennio, e che contano secondo gli ultimi sondaggi su un 28% dei consensi, e addirittura sono minacciati per il secondo posto (22 a 21) dal partito anti-immigrati Alternative fuer Deutschland (AfD), che può ripetere il successo della vicina Sassonia-Anhalt, dove a marzo riportò quasi un quarto del voto totale. L’immigrazione - l’anno scorso è arrivato in Germania oltre un milione di persone, per lo più rifugiati dalla Siria e dall’Afghanistan - è balzata al centro della campagna elettorale, per le elezioni locali e soprattutto per quelle nazionali che si terranno nell’autunno 2017, soprattutto dopo la sequela di episodi di violenza che a luglio ha visto come autori rifugiati o persone di origine mediorientale. E, sorprendentemente, nel fine settimana, è stato il vice di Angela Merkel nel Governo, il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel, a rompere per la prima volta con la linea aperturista del cancelliere, indicando che c’è un limite agli ingressi di rifugiati e questo è fissato dalla capacità della Germania di accoglierli. Un’uscita che è apparsa in sintonia con la richiesta di un tetto sostenuta dai critici più feroci del cancelliere all’interno della maggioranza, i cristiano-sociali bavaresi della Csu. La signora Merkel si trova così presa fra due fuochi, da destra e da sinistra, nella sua stessa coalizione. Se Gabriel è stato probabilmente ispirato dalla motivazione immediata di impedire che l’emorragia di voti a favore di AfD colpisca nel Meclemburgo anche la Spd, è chiaro però che si tratta anche di un modo di posizionarsi in vista del voto politico del 2017 e trovare una chiave per raggiungere l’elettorato su un tema diventato fondamentale, dato che i consensi dei socialdemocratici nei sondaggi nazionali continuano a languire a 13 punti dall’unione Cdu-Csu. Anche se la sconfitta nelle regionali è quasi un’abitudine per il cancelliere (ne ha accumulate 13 prima della riconferma al Governo nel 2013), quello del Meclemburgo non è un voto come un altro per Angela Merkel: anzi tutto perché in questa regione, a Straslund, ha il suo collegio elettorale fin da quando è entrata in politica, ma soprattutto perché un insuccesso, a maggior ragione se alle spalle di AfD, accentuerebbe il montante senso di impopolarità del cancelliere a causa della sua politica sull’immigrazione. La ricorrenza in questi giorni dell’anniversario del discorso in cui la signora Merkel proclamò, a proposito dell’accoglienza ai rifugiati: "Wir schaffen das", "Ce la possiamo fare", non ha aiutato. Un sondaggio pubblicato domenica dal quotidiano popolare "Bild", che finora ha sostenuto la linea del cancelliere, rivela che il 50% degli interpellati è contro un quarto mandato per Angela Merkel, mentre il 42% è a favore. Le percentuali erano 48 a 45 nei mesi scorsi. Sono addirittura emerse indiscrezioni secondo cui il cancelliere non si ripresenterebbe, il che appariva impensabile anche solo pochi mesi fa. In un’intervista televisiva di domenica sera, la signora Merkel ha evitato di rispondere. Secondo "Bild", le attuali difficoltà potrebbero anzi indurla ad accelerare l’annuncio della ricandidatura. Il fatto che si cominci a parlare di tagli alle tasse, con l’avallo del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, dopo l’annuncio che il surplus di bilancio nei primi 6 mesi del 2016 ha toccato 18,5 miliardi di euro, è un indizio importante. Intanto, il capo del Governo tedesco non può permettersi di perdere di vista lo scenario europeo dopo Brexit. Per prepararsi al vertice di Bratislava, il primo senza il Regno Unito, ha incontrato nei giorni scorsi 15 capi di Governo europei. Dagli ex alleati dell’Europa dell’Est ha avuto ancora una volta un risposta durissima sul tema dell’immigrazione. Per questo acquista ancor maggiore importanza l’incontro di domani a Maranello con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, dopo quello della settimana scorsa a Ventotene, cui ha partecipato anche il presidente francese François Hollande. Un’Angela Merkel in difficoltà ha bisogno di trovare un sostegno e una linea comune con gli altri due "grandi" rimasti nell’Unione europea dopo Brexit. Migranti. Il burkini è da disapprovare, ma non dobbiamo vietarlo di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 30 agosto 2016 La confusa diatriba sul burkini, l’abito indossato dalle donne musulmane per andare in spiaggia (vietarlo? permetterlo?) mostra quanto sia complicato fare i conti con la "società multiculturale". Società multiculturale è espressione che "piace alla gente che piace", a coloro che per reddito, stili di vita, quartieri in cui risiedono, non devono stare ogni giorno fianco a fianco, gomito a gomito, con le culture altre. Di tale società essi danno spesso una descrizione idilliaca, non capiscono che le caratteristiche delle società multiculturali dipendono dai rapporti di forza fra i diversi gruppi. Quali comportamenti gli europei dovrebbero pretendere da chi viene da altre culture? Alle prese con i costumi altrui importati in Europa, essi dovrebbero operare una triplice distinzione. Ci sono usi che vanno proibiti e basta. Ci sono poi usi che vanno permessi e anche rispettati. Ci sono, infine, usi che vanno permessi ma pubblicamente censurati. Alla prima categoria appartengono cose come il burka (che comporta la copertura totale del volto della donna) oppure la poligamia. Il burka è quanto di più antitetico si possa concepire rispetto al mondo occidentale contemporaneo. Questo mondo si regge sul principio della responsabilità individuale (è la ragione per cui dobbiamo essere riconoscibili, a volto scoperto). Il burka è espressione di una cultura altra, anzi aliena, nella quale la responsabilità degli atti di alcuni (nel caso specifico, le donne) non appartiene a loro ma alla comunità o al capo famiglia. Come il burka, anche la poligamia (fondata sul principio della disuguaglianza fra uomini e donne) è incompatibile con noi e deve restare illegale. Poi ci sono gli usi, né offensivi né dannosi, che vanno senz’altro permessi, usi che non sono in conflitto con i nostri principi: riti religiosi, tipi di abbigliamento che hanno un legittimo valore identitario, certe abitudini alimentari (anche se non tutte). Vanno accettati con il rispetto che si deve a chi, semplicemente, è stato allevato sotto un diverso cielo culturale. C’è infine una terza categoria di comportamenti, i quali dovrebbero essere consentiti ma anche pubblicamente disapprovati. Mi sembra che questo sia il caso del burkini. Vietarlo non ha senso per società che si dicono liberali. Qui non stiamo parlando del burka che, come si è visto, è un’altra storia. Solo gli stati autoritari pretendono di dettare l’abbigliamento delle persone (lo hanno sempre fatto: ricordate la Cina di Mao?). Gli stati (sedicenti) liberali non possono permetterselo. Dunque, il burkini non va messo fuori legge. Ma ciò non significa che lo si debba anche approvare. Il burkini non è un capo di abbigliamento come un altro. Testimonia di una sudditanza culturale, di una subordinazione alla comunità che, alla luce dei nostri principi, va stigmatizzata. Devo accettare che il burkini sia legale ma non devo solo per questo manifestare un rispetto che non provo per un’usanza che non mi piace. È insensato, in nome di un’acritica difesa della società multiculturale, osservare che il burkini ricorda gli abiti con cui le nostre trisavole andavano in spiaggia. A meno che chi fa la suddetta osservazione non stia anche sottintendendo che dovremmo ritornare a quei tempi. Una donna che si metta a seno nudo in una spiaggia affollata può anche essere considerata volgare ma sta facendo comunque una libera scelta. A differenza della donna in burkini. Vietare no, disapprovare sì. La pubblica riprovazione non sarebbe fine a se stessa. Servirebbe a spronare, a incoraggiare, col tempo, l’emancipazione individuale, l’allentamento del controllo comunitario sull’individuo. Ma c’è un ma. Se governare una società multiculturale in formazione richiederebbe di fare la suddetta triplice distinzione (cose da vietare, cose da permettere e da rispettare, cose da permettere e da disapprovare), attenersi a questa linea di comportamento è difficilissimo. A causa di una forma di degenerazione culturale che ci ha colpito da tempo. Mi riferisco alla diffusa convinzione secondo cui legalità e moralità sarebbero sinonimi: la tendenza a pensare che se qualcosa è legale allora sia anche moralmente rispettabile e che, per converso, se qualcosa è illegale allora sia anche, necessariamente, immorale. Ma moralità e legalità a volte convergono e a volte no. Ci sono comportamenti legali che non meritano alcun rispetto. Ci sono anche talvolta violazioni di leggi stupide (che consideriamo stupide). Sono violazioni che vanno comunque sanzionate, in coerenza con quell’ideale di "certezza del diritto" il cui scopo è dare un minimo di prevedibilità ai rapporti umani. Ma in questi casi non c’è proprio alcun bisogno di pronunciare anche condanne morali. La distinzione fra legalità e moralità è scomparsa dalla mente di tante persone. È un male in sé. Ma è anche un male quando si tratta di gestire la società multiculturale. Perché c’è il rischio che si finisca per considerare moralmente rispettabile un qualsivoglia comportamento solo perché legale. Verrebbe meno quella pressione sociale - la riprovazione collettiva di certe pratiche - che può favorire l’emancipazione individuale di cui si è detto. È l’evoluzione dei rapporti di forza fra i gruppi a decidere quale fisionomia assumerà la società multiculturale. Nei rapporti di forza contano sia la quantità che la qualità. Il gruppo culturale numericamente più forte può anche risultare, alla distanza, politicamente debole. Il che accade, ad esempio, se la maggioranza di tale gruppo è in parte indifferente o distratta e in parte divisa sulle scelte da fare, e se, inoltre, essa deve vedersela con una minoranza culturale sostenuta da una forte identità religiosa. Per evitare che prima o poi (a occhio, più prima che poi) le "società parallele" che a causa della nostra dabbenaggine si sono già costituite in Europa, vengano allo scoperto con tutte le loro pratiche, anche quelle per noi inaccettabili, innescando così conflitti ingovernabili, conviene che gli europei imparino in fretta l’arte della distinzione: questo sì, questo no, questo sì ma senza alcuna approvazione da parte nostra. Stato Islamico: almeno 72 fosse comuni con migliaia di corpi tra Siria e Iraq La Repubblica, 30 agosto 2016 Inchiesta dell’Ap che ha individuato, usando testimonianze, documenti e foto satellitari, i luoghi delle sepolture di massa lasciate dall’Is nella sua ritirata. Fosse comuni con centinaia di corpi, testimonianze della violenza cieca dello Stato Islamico nei territori controllati e lasciate alle proprie spalle nella ritirata verso le roccaforti. L’Associated Press ha documenti che provano l’esistenza di almeno 72 di queste sepolture comuni in Siria e in Iraq, per un totale di corpi che va dai 5.200 fino ad almeno 15.000. E secondo l’Ap, il numero è destinato a crescere man mano che il territorio controllato dal Califfato si riduce. In Siria, i luoghi individuati sono 17, gli altri 55 in Iraq. In una di quelle siriane, ci sono i corpi di centinaia di membri di una singola tribù. Secondo quanto scrive l’Ap, in 16 luoghi in Iraq è così pericoloso provare a scavare che le autorità non provano nemmeno a ipotizzare il numero di vittime. Spesso le stime sono fatte sulla base dei racconti dei sopravvissuti. Uno dei massacri documentati è quello alla prigione di Badoush, nel giugno 2014, con 600 prigionieri uccisi e sepolti. Nel racconto di un sopravvissuto del Sinjar (patria degli yazidi) c’è tutto l’orrore delle esecuzioni. I miliziani dello Stato islamico prima rastrellano uomini dai villagi vicini, li portano in una zona che serve per le esecuzioni e per la sepoltura, dove gli sparano. Poi, usando un bulldozer sempre pronto lì nei pressi, li seppelliscono. In quella specifica fossa del Sinjar, esecuzioni e seppellimenti sono andati avanti per sei giorni. Delle 72 sepolture, continua l’Ap, la più piccola contiene tre corpi. La più grande "probabilmente migliaia, ma nessuno lo sa per certo". Libia: a Sirte, nella prigione delle bandiere nere di Fausto Biloslavo Il Giornale, 30 agosto 2016 Il sibilo, troppo vicino, del proiettile di un cecchino dello Stato islamico fende l’aria. In prima linea è il soffio della morte. Poco dopo una cannonata parte verso le postazioni delle bandiere nere, che ancora non mollano nel quartiere 1 e 3 di Sirte. Un boato pazzesco, che ci fa scappare a tutta velocità per uscire dalla linea di tiro. Lo stradone a due corsie è deserto con i pali dell’illuminazione abbattuti dalle granate, come birilli. Di intatto sono rimaste solo tre gigantesche bandiere nere disegnate come murales, quando Sirte era la roccaforte del Califfato in Libia. Salem Ismir, giovane comandante della katiba "Martiri di Sirte" ci scorta verso la centrale della polizia segreta fin dai tempi del colonnello Gheddafi. Lo Stato islamico continuava ad utilizzarla come luogo di detenzione e di interrogatori. L’avanzata delle forze libiche, che circondano i seguaci del Califfo, ha incenerito l’ingresso, ma la prigione sotterranea è rimasta intatta. Un corridoio spettrale e semi buio ti fa capire che doveva essere un girone infernale. Una decina di celle divise sui due lati, hanno le porte di ferro nere spalancate. Non è chiaro che fine abbiano fatto i prigionieri. Sicuramente, se sono sopravissuti, vivevano in condizioni pietose. Buttati a terra su dei pagliericci con una ciotola per mangiare e probabilmente lavarsi. Nelle celle anguste erano rinchiusi anche due o tre detenuti. L’aria ed un po’ di luce filtrano da una finestrella con le inferriate a livello del terreno. Le pareti bianche delle celle raccontano il dramma dei prigionieri dello Stato islamico attraverso disegni e scritte incisi nell’intonaco. Un detenuto senza nome invocava la mamma. Un libico si professava "musulmano" sostenendo di non sapere "perché mi hanno imprigionato". Tutto in arabo, a parte una strana scritta, "German" in caratteri anglosassoni. La centrale della polizia segreta ai tempi di Gheddafi riutilizzata dalle bandiere nere è stata presa d’assalto e ridotta ad un colabrodo dalla battaglia. I combattenti libici hanno tagliato a fettine con una baionetta il poster verticale all’ingresso, che inneggiava allo Stato islamico con tanto di foto delle colonne vittoriose del Califfo. Appena usciti dalla prigione sotterranea un fruscio nell’aria segnala il colpo di mortaio che passa sopra le nostre teste per andarsi a schiantare sull’ultima ridotta delle bandiere nere. Nessuno sembra farci caso, dopo mesi di dura battaglia per liberare Sirte. Case e negozi sono tutti sventrati ed abbandonati. La parte liberata della città, dove non c’è anima viva, a parte i combattenti anti Isis, è spettrale. Neppure le moschee sono state risparmiate dalla furia dello scontro. Un minareto sta in piedi per miracolo sfondato da una cannonata. Nel quartiere Abu Faraa, conquistato la scorsa settimana, sorge la centrale di polizia ed amministrativa El Hesba bucherellata come un groviera dai combattimenti. All’interno la sontuosa sala d’aspetto con poltroncine in pelle è quasi intatta. Il pavimento è ricoperto di documenti di tutti i generi in arabo. Da una stanza trasborda una massa di burqa neri, ben confezionati. Su una lavagna è rimasto il disegno di un corpo femminile con le precise indicazioni del Califfo sulle parti che vanno assolutamente coperte. In pratica restano liberi solo gli occhi. In un altro ufficio mezzo devastato venivano distribuite medicine secondo draconiane regole islamiche. I combattenti di Misurata hanno trovato grandi contenitori di plastica zeppi di banconote e oro. La polizia del Califfo sequestrava monili, gioielli, bracciali, catenine a 24 carati a chi non rispettava le regole dello Stato islamico. Ad El Hesba pochi notano uno slogan sulla parete, che dimostra ancora una volta come Sirte fosse considerata dai seguaci del Califfo un trampolino di lancio verso l’Italia. "Lo Stato islamico è qui e si espanderà - hanno scritto i volontari della guerra santa - Con l’aiuto di Allah, nonostante gli infedeli, conquisteremo Roma". Turchia: altro che Califfato! La guerra di Erdogan è solo contro i curdi di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 30 agosto 2016 Il cosiddetto Califfato si sta sciogliendo come neve al sole e sulle sue macerie siriane è già cominciato il balletto per la successione. L’esercito turco ha sconfinato nel Nord della Siria per cacciare i jihadisti da Jarablus, uno degli ultimi punti di confine che controllavano. Dopo aver paventato per tre anni il pericolo di avere i "terroristi" alle porte senza muovere un dito, nell’arco di 24 ore Ankara li ha cacciati fra gli applausi di Russia e Stati Uniti. Quest’ultima entrata in scena però sta provocando nuovi sconvolgimenti delle forze in campo. Mentre i turchi stavano cacciando i jihadisti da Jarablus, il vice presidente americano Joe Biden, ben contento di ricondurre la Turchia nella coalizione anti-Isis, non ha esitato a scaricare le Ypg, intimandogli di ritirarsi a Est del fiume Eufrate. I curdi hanno obbedito agli ordini dei loro principali alleati sul campo, ma sono finiti ben presto nel mirino dei turchi: "Combatteremo sia l’Isis che le Ypg curde, perché sono entrambi terroristi" ha tuonato Mevlut Cavusoglu, ministro degli esteri turco. Alle parole sono seguiti i fatti, con attacchi e bombardamenti che hanno lasciato sul campo 45 civili e 25 miliziani curdi. Un’escalation che ha spaventato gli Stati Uniti: "I turchi si fermino ? hanno detto dal Pentagono ? in quella zona non c’è l’Isis ed è inaccetabile disperdere così le nostre energie" come se la coalizione anti-Isis fosse veramente quella cosa unita che Washington va raccontando da tempo. Rischia così di riproporsi un film che nella storia curda è stato visto mille volte. I Paesi stranieri hanno speso usato i guerriglieri curdi, abili sugli scontri casa per casa e profondi conoscitori del territorio, per fare il lavoro sporco. Nel 1914 gli ottomani idearono il genocidio contro gli armeni e gli assiri nel Sud-Est dell’attuale Turchia ma usarono i curdi per la parte più sporca del lavoro. Alla fine della Grande Guerra, le potenze vincitrici smembrarono l’Impero Ottomano e nel trattato di Sèvres del 1920 spuntò per la prima volta la creazione del Kurdistan. Il futuro "padre dei turchi" Ataturk si oppose e le velleità d’indipendenza dei curdi furono soffocate nel sangue. Nel corso della seconda guerra mondiale, furono i russi a far da spalla ai curdi che fondarono in Iran, a Mahabad, la prima e unica repubblica curda indipendente della storia. Peccato però che poco dopo i sovietici si ritirarono dall’Iran e le truppe dello Shah massacrarono i curdi a Mahabad. I peshmerga curdo iracheni furono utilizzati anche da George Bush padre nella prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, ma il raìs iracheno non venne deposto come promesso e si vendicò a guerra finita, uccidendo migliaia di curdi ad Halabja e dintorni con le armi chimiche acquistate proprio dall’esercito americano. In seguito a quel dramma nacque a mo’ di "risarcimento", la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel Nord del Paese. E subito i curdi si divisero. Per quattro anni le famiglie Barzani (da cui proviene l’attuale Presidente Mas’ud Barzani), che controlla Erbil e la parte occidentale della Regione, e Talabani (il cui patriarca Jalal è stato Presidente dell’Iraq fino al 2014), padrona di Sulaymaniyya e dell’Est della Regione, hanno schierato i peshmerga uni contro gli altri in una guerra fratricida che fece migliaia di morti e non spostò di una virgola gli equilibri di potere. Nel frattempo in Turchia il partito dei lavoratori curdi, il Pkk guidato da Abdullah Ocalan, stava combattendo una lotta sanguinosa contro il governo turco per richiedere l’indipendenza del Sud-Est turco. Una guerriglia fatta di attentati e scontri che per tutti gli anni 80 e 90 lasciò per strada vittime e terrore. Il sogno di riunire i 40 milioni di curdi divisi fra Turchia, Siria, Iraq e Iran in un Grande Kurdistan, sembrava quindi lontanissimo. Solo negli ultimi anni l’ipotesi è tornata reale. Prima che la situazione in Siria degenerasse, il governo turco di Erdogan stava cercando di arrivare a un accordo con il Pkk, i curdi siriani controllavano la Jazira e Kobane con il tacito accordo di Damasco e con la copertura militare degli Stati Uniti, la regione autonoma del Kurdistan iracheno resisteva agli attacchi del gruppo Stato Islamico, pur fra mille difficoltà interne. L’ambiguità della Turchia e delle sue alleanze ha ribaltato la situazione. Per Erdogan è prioritario impedire l’unificazione del Kurdistan siriano proprio la Turchia, perché potrebbe invogliare i curdi di Turchia ad alzare la posta. Al Presidente turco fanno più paura le Ypg che l’Isis e così ha sacrificato la più o meno tacita copertura delle operazioni del Califfo per frenare l’avanzata dei curdi, finiti nel frattempo nel mirino anche del Presidente siriano Bachar al Assad. Come detto, i rapporti fra i curdi e Damasco erano neutrali, ma dieci giorni fa l’aviazione siriana ha bombardato Hasakeh, città curda dove il regime mantiene ancora una base. Come risposta, le milizie curde hanno assediato la base militare e intimato i soldati ad andarsene. Osannati da più parti come gli eroi di Kobane, ritenuti l’unica forza di terra capace di sconfiggere l’Isis, esaltati per la politica democratica e per la parità di genere, adesso i curdi rischiano di rimanere isolati. Dopo una parziale ritirata le Ypg sono ritornate nel villaggio di Manbij, strappato all’Isis solo due settimane fa, dove si stanno concentrando pericolosamente tutte le tensioni. Anche il Pkk non ha tardato a manifestare la rabbia per il comportamento dei turchi, con un attentato contro i poliziotti turchi a Cizre, nel sud del Paese, e dei razzi sparati a Dijarbakir. Ankara risponderà bombardando i "terroristi" del Pkk e il suo alleato curdo iracheno Mas’ud Barzani applaudirà come sempre, perché il nemico del suo nemico è suo amico. E i curdi che continuano a lottare per l’autonomia e l’indipendenza sospettano che dovranno rispolverare il loro vecchio detto: "Gli unici nostri amici sono le montagne". Yemen: sulle stragi di civili un silenzio letale di Riccardo Redaelli Avvenire, 30 agosto 2016 Nei pezzi scritti senza troppa fantasia, si dice spesso "neppure più fa notizia l’ultima strage...". Per lo Yemen, Paese massacrato ai margini di un disastrato Medio Oriente, la realtà è ancora peggiore, dato che - con qualche lodevole eccezione - le stragi che avvengono sul suo territorio non hanno mai veramente colpito le opinioni pubbliche internazionali. E tantomeno hanno spinto all’azione le cancellerie. Un po’ per disattenzione: sui tavoli diplomatici vi è sempre qualche questione più urgente o più importante per la sicurezza regionale; molto per colpevole indifferenza - mescolata a più di un calcolo tattico e a qualche corposo interesse - verso quanto avviene in quel povero Paese. Dal marzo dello scorso anno, una coalizione guidata dall’Arabia Saudita bombarda parti dello Yemen per combattere i ribelli sciiiti Houthi, che Riad ritiene manovrati dall’Iran, e per ripristinare militarmente il governo del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, scacciato dalla capitale agli inizi del 2015. Quella che doveva essere una campagna lampo del nuovo re saudita Salman si è trasformata in uno smacco strategico per gli sceicchi arabi e in un incubo per la popolazione, stretta fra bombardamenti indiscriminati, scontri di milizie, attentati terroristici sempre più sanguinosi dei gruppi jihadisti - come quello di ieri che ha fatto strage di reclute nella città di Aden - e il dilagare di malnutrizione e mancanza di cure di base. Lo scandalo dei bombardamenti della coalizione anti-Houthi - che colpiscono indiscriminatamente ospedali, campi profughi e quartieri civili con l’uso di armi vietate come le bombe a grappolo - non ha portato a una vittoria sul campo, ma ha contribuito a estremizzare il conflitto e ha favorito il proliferare delle forze di Aqap (al-Qaeda nella Penisola Arabica) e di gruppi terroristici che si riconoscono nel Daesh. Proprio questi ultimi hanno colpito ieri e sono responsabili di sanguinosi attentati (suicidi e no). Anche se, va detto, la variabile dell’estremismo religioso spesso è solo una maschera per conflitti clanico-tribali e per regolamenti di conti con figure del passato o del presente regime. L’ex presidente Saleh, ad esempio, non sembra scollegato dalla crescita dell’attività terroristica, nonostante sia vicino agli Houthi sciiti e in passato si sia sempre accreditato quale acerrimo avversario dei gruppi jihadisti. In Occidente, i governi sono stati molto (anzi, troppo) prudenti, dato che - avendo sconfessato i sauditi nel caso del compromesso sul nucleare iraniano e in Siria - non hanno voluto umiliarli intervenendo anche sul dossier yemenita, imponendo una sospensione o almeno una limitazione dei bombardamenti. È chiaro, tuttavia, che la politica di Riad, ossessionata dal "nemico Iran" e che punta a dettare condizioni, più che a cercare accordi, non può essere la ricetta per portare a un compromesso politico in Yemen. Compromesso di cui la popolazione ha disperato bisogno. E anche la regione: fermare un conflitto tanto sanguinoso quanto inconcludente non solo aiuterebbe i civili yemeniti e eviterebbe la disgregazione di un altro Paese in un Medio Oriente già troppo sbriciolato, ma sarebbe la migliore politica per indebolire i gruppi jihadisti che si muovono oggi con impunità. Purtroppo, diversi tentativi di accordo sono finora falliti. È evidente quindi come occorra maggior impegno da parte di tutti gli attori coinvolti. E in particolare dalle Nazioni Unite. Quanto infatti stupisce maggiormente nella vicenda è la fragorosa afonia dei vertici Onu. Certo, sarebbe stato forse troppo aspettarsi che l’attuale segretario generale - giunto alla conclusione del suo mandato - mostrasse almeno in questo frangente più determinazione e coraggio. Ma il silenzio con cui si assiste ai continui massacri è davvero intollerabile. Tanto più che vi sono sul campo validissimi funzionari del Palazzo di Vetro; senza però un pieno sostegno da parte dei vertici della diplomazia internazionale ogni iniziativa di pace è condannata a scontrarsi con chi considera lo Yemen solo una casella della grande scacchiera mediorientale. E non vede un popolo sfinito, che ha già pagato un prezzo pesantissimo ai giochi di potere interni e regionali e ai cinici calcoli di venditori di armi e di strateghi senza visione e senza morale.