Addio Margara, ma il carcere non ti dimenticherà mai di Mario Iannucci Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2016 Il Presidente Alessandro Margara ha lasciato questa vita terrena. Poche ore prima della sua morte dicevo l’altro ieri a un amico che ad Alessandro Margara, nonostante il legame di amicizia che c’era fra di noi, non ero mai riuscito a dare del tu. Ci davamo del tu con Nora Beretta, la moglie di Margara che se ne è andata pochi anni or sono: per la malattia e la morte di Nora il Presidente Margara aveva enormemente sofferto e forse quella perdita, nella mente e nel corpo, non l’aveva sopportata. Non riuscivo a dare del tu ad Alessandro Margara, nonostante i suoi inviti, non solo perché per me egli è sempre rimasto, in modo forte e precipuo, "Il Presidente". L’ho conosciuto, fino dal 1981, come Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Poi, per i suoi indubbi meriti, fu chiamato a rivestire il ruolo prestigioso di Direttore Generale delle carceri italiane. Allorché qualcuno, con suo e nostro grande stupore e disappunto, decise di rimuoverlo da quel posto, con il profondo spirito di servizio che lo contraddistingueva Alessandro Margara decise di tornare al "suo" Tribunale di Sorveglianza, a quei compiti nei quali era e, almeno per lungo tempo rimarrà, insuperabile. Mi chiesi subito, anni addietro, perché non riuscissi a dare del tu all’amico Margara. La risposta è sempre stata la stessa: non era il suo ruolo di Presidente ad impedirmelo, non quello di Direttore Generale, ma era piuttosto la sua funzione di Maîtrise. Già: Alessandro Margara, per me come per molti altri, è stato un Maestro. Lo ha fatto sottovoce, con quel pudore naturale e cristiano che gli impediva di comparire da protagonista sulla scena, con quella competenza smisurata che nasceva dalla diuturna e appassionata pratica "clinica". Non amava mostrarsi Alessandro Margara. Eppure è stato uno dei principali artefici di quelle illuminate riforme che, nell’arco di un trentennio, hanno radicalmente mutato in meglio il panorama della detenzione in Italia. A partire dalla Legge Gozzini, che ha restituito alle persone detenute una parte fondamentale della responsabilità del trattamento "rieducativo". Ma ad Alessandro Margara non piaceva che le riforme avessero il suo eponimo. Così non volle che si chiamasse "Progetto Margara" quel progetto di legge (che poi, presentato in Parlamento nel 1997, si è detto "delle Regioni") per la riforma delle norme relative ai folli autori di reato. Un Progetto che, travasato ampiamente nelle recenti norme per il "superamento degli OPG", ne ha costituito la traccia. Non ha nemmeno voluto mettere il suo eponimo sul DL 230/1999, quell’insieme fondamentale di norme attraverso il quale le funzioni sanitarie, all’interno di queste carceri stracolme di malattie, sono state assunte dai Sistemi Sanitari Regionali, allo stesso modo di ciò che accade all’esterno. Tantomeno ha voluto usare il suo nome per il DPR 230/2000, quel Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario che diede un ulteriore respiro alle operazioni riabilitative nelle carceri. Potremmo citare mille altre iniziative di Alessandro Margara in favore della civilizzazione del trattamento penitenziario. A partire dalla collaborazione strettissima con Giovanni Michelucci per la promozione di una architettura penitenziaria a misura d’uomo. Continuando con l’impegno indefesso per garantire ai detenuti adeguate relazioni affettive. Non tutte le possiamo citare le iniziative di Margara. Ma oggi mi preme rammentare il Maestro e l’uomo Margara per altre caratteristiche. La prima era la sua capacità di ascolto. Alessandro Margara aveva ferme idee (pochi anni addietro, quando lo rimproverammo benevolmente per i suoi "pregiudizi", con l’abituale ironia ribatté: "Non credo di avere grandi vizi, ma almeno qualche pregiudizio lasciatemelo!"), ma non mi è mai capitato di non vederlo ascoltare con attenzione qualcuno che esprimeva idee diverse. Estremamente competente nel suo settore, rispettava le altrui competenze, specie quando, da buon Magistrato, se ne valeva per confortare i suoi giudizi. Uomo di grande ironia, da buon cristiano non l’ho mai sentito esprimere malignità su alcuna persona, nemmeno sui nemici. Piccole note a margine, relative all’operato di qualcuno, stigmatizzavano l’inopportunità di quell’operato assai meglio di una critica aperta e feroce. L’uso delle parole, per lui che era un vero toscano, è sempre rimasto fondamentale. Poco tempo dopo la perdita dell’amata Nora, quando gli chiesi come considerasse la badante dell’est Europa che mi era parsa trattarlo con una confidenza eccessiva, Margara, sorridente e come al solito tollerante per queste cose, a bassa voce mi disse: "In effetti è un po’ disinvolta". Ma c’è un’ultima cosa per la quale tutti coloro che abitano il carcere sono grati ad Alessandro Margara. Questa cosa è il grandissimo rispetto che ha sempre avuto per tutti gli uomini detenuti. Il "Presidente" non si è mai negato a qualche detenuto che gli chiedeva di parlare e nemmeno ai familiari dei detenuti. Ecco perché poteva giudicare con rettitudine e giustizia: conosceva bene coloro che giudicava e lo faceva sempre spinto da una vera partecipazione umana. Amava il suo mestiere ed è a partire da questo amore che tutto il carcere piange la sua scomparsa. Perché per tutti è scomparso un Presidente e un Maestro, ma anche un Fratello. L’eredità di Alessandro Margara, la sua battaglia contro il carcere inumano di Adriano Sofri Il Foglio, 2 agosto 2016 Si è celebrato ieri il funerale di Alessandro Margara a Firenze. Aveva 86 anni, è stato un uomo giusto, da giudice, da magistrato di sorveglianza, da titolare dell’amministrazione penitenziaria al ministero, da garante dei detenuti per la Toscana, e insomma in ogni cosa in cui si sia impegnato. Io l’ho conosciuto da detenuto e poi da libero. Leggo di lui che "trattava i detenuti come persone", e non so che cosa pensare di una società in cui si possa elogiare qualcuno per essersi comportato normalmente. In cui evidentemente si considera normale che si trattino i detenuti come non-persone. Margara è stato un cattolico di quella buona lana che un paio di generazioni fa hanno fatto grande la Toscana. Essendo cattolico, lo chiamava "il carcere dopo Cristo": non dopo la nascita, dopo la scomparsa. Si deve a lui un regolamento carcerario che non è mai stato applicato. Prevedeva cambiamenti eversivi come l’installazione di un interruttore per accendere e spegnere la luce nelle celle. Gli si deve una tenace battaglia per riconoscere agli animali umani chiusi il diritto ai "rapporti affettivi", dunque ai rapporti sessuali, che lo Stato e i suoi responsabili ritengono un lusso superfluo da cui escludere i dannati. Io che dalla più facile situazione di detenuto potevo concedermi un tono scanzonato nei confronti delle autorità, sono sempre stato stupito dalla spontanea assenza di qualunque soggezione nei confronti dell’autorità da parte di Margara, in proporzione inversa al rango e alla pompa di quelle autorità. Mi ricordo la naturalezza con cui dichiarò che a proposito della carenza di organici della polizia penitenziaria valesse la pena di verificare quanti fossero in malattia o in permesso sindacale. Si aprì il cielo, e lui fu buttato di sotto. Si accomiatò dal cielo ministeriale con una lettera aperta memorabile. La ripubblicai in una mia pagina, archivio.panorama.it, "Cedo la parola al dott. Margara". Cominciava così: "Lei, signor ministro, mi ha offerto la presidenza di una commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Mi chiedo chi le abbia dato questa stravagante idea. L’ordinamento penitenziario ha da rivedere solo alcuni articoli, ma su questi funziona già da alcuni mesi la commissione presieduta dal prof. Fiandaca e ai cui lavori ho partecipato. Per il resto, l’ordinamento penitenziario non è tanto da modificare, quanto da attuare, perché è in gran parte inattuato. Era questo che faticosamente cercavo di fare…". Due anni fa morì sua moglie, e fu il dolore più grande. Margara era di quelli per i quali il matrimonio non finisce, e di quelli che detestano l’ergastolo, l’idea di una pena che non finisca mai. Una volta stabilito che cosa fosse giusto (infatti non era un fanatico) non gli passava per la testa di trovare modi edulcorati per dirlo. Immagino come la notizia della sua morte sia stata accolta nelle galere, perché mi ricordo ancora come fu accolta quella della sua defenestrazione. Un’antologia di suoi scritti, "La giustizia e il senso dell’umanità", a cura di Franco Corleone, è uscita nel 2015 per la Fondazione Michelucci. Il magistrato che cambiò il carcere: rieducazione Vs punizione, battaglia ancora aperta di Massimo Bordin Il Foglio, 2 agosto 2016 La figura di Alessandro Margara, magistrato scomparso pochi giorni fa, che per gran parte della sua carriera fu giudice di sorveglianza, merita sicuramente una riflessione. Più che di indagini e giudizi si occupò di carcere, spinto dalla sua carità cristiana e dalle sue idee di sinistra. Fu il regista giuridico di quella grande riforma firmata dal senatore Gozzini che cambiò il concetto di detenzione cercando di applicare il principio costituzionale che mira alla rieducazione del detenuto e vieta trattamenti contrari al senso di umanità. Quella riforma urtò una concezione emergenziale che vi si oppose, salvo poi arrendersi ai suoi effetti che migliorarono nelle carceri anche la sicurezza. Nel 1997 Margara fu chiamato dal ministro Giovanni Maria Flick a dirigere il dipartimento carceri del ministero di Giustizia. Durò poco, perché il ministro del successivo governo di centro sinistra, il comunista Oliviero Diliberto, nel 1999 non lo confermò nell’incarico. Fu un episodio di quello scontro sempre presente nella amministrazione a proposito del carcere e della esecuzione pena. Una battaglia politica che in realtà è ancora aperta e che non è sfuggita a insidiosi tentativi di criminalizzazione ai danni di chi, da giurista e uomo di governo, si è battuto per una pena equa ma umana. Valga l’esempio di Giovanni Conso indagato fino alla fine dei suoi giorni per aver revocato alcuni 41 bis. La vicenda è nota. Meno noto che all’epoca della entrata in vigore del 41 bis anche Alessandro Margara avesse espresso forti perplessità su come quel provvedimento era stato concepito. Aumenta platea soggetti destinati alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza Ansa, 2 agosto 2016 Via libera in commissione Giustizia alla richiesta di allargare la platea di soggetti destinati alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, qualora le sezioni psichiatriche degli istituti penitenziari non siano idonee, tra gli altri, anche a coloro la cui malattia mentale sia sopravvenuta durante la detenzione o per i quali occorra ancora accertare le relative condizioni psichiche. "Sono soddisfatta dello spazio che hanno avuto i temi che ho sollevato: le difficoltà concrete nella piena realizzazione del superamento degli Opg e la necessità di maggiori attenzioni alla salute mentale nelle carceri. Grazie a un mio emendamento è stata evitata la destinazione automatica alle Rems di una parte soltanto dei soggetti bisognosi di cure psichiatriche. Nella modifica ho ribadito, infatti, non solo la centralità della cura, ma anche la richiesta che le carceri si attrezzino realmente per l’assistenza terapeutica", commenta Maria Mussini, vicepresidente del gruppo Misto. Secondo Mussini, infatti, "sussiste una grave carenza di sezioni psichiatriche negli istituti di pena. È importante che sia stata approvata anche l’integrazione, da me proposta, che delega il governo al potenziamento dell’assistenza psichiatrica ai detenuti. Una questione - sottolinea - che si è persino aggravata con l’entrata in vigore della legge Marino: paradossalmente la chiusura formale degli Opg ha accreditato l’idea che la salute mentale in carcere non fosse più un problema". Su questo la senatrice è tranchant: "Un riadattamento delle celle non realizza un reparto adeguato all’osservazione e al trattamento. L’attuazione della legge - conclude - coinvolge molti e diversi attori (tra cui Regioni, Asl, magistratura di sorveglianza e servizi territoriali), con cui deve essere portata avanti una battaglia per garantire anche a queste persone il diritto alla cura e alla riabilitazione". Corte europea dei diritti dell’uomo, boom di indennizzi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Oltre 77 milioni di euro. È la cifra che l’Italia ha dovuto versare nel 2015 per gli indennizzi dovuti a violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’importo più alto in assoluto liquidato dal Governo per risarcire le vittime di violazioni accertate o attraverso una sentenza di condanna della Corte europea o a seguito di regolamenti amichevoli e dichiarazioni unilaterali. Segno evidente che, anche se diminuiscono le sentenze di condanna a Strasburgo, non diminuiscono le violazioni dei diritti dell’uomo, che pesano per di più come un macigno sulle casse dello Stato. La cifra monstre è messa nero su bianco nella relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia. presentata dal dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (ufficio del contenzioso) con riferimento al 2015. Il costo degli indennizzi segna un balzo in avanti imponente rispetto al 2014, anno nel quale l’Italia aveva dovuto versare poco più di 5 milioni di euro. Un aggravio enorme che - si legge nella relazione che viene presentata ogni anno in base alla legge 12/2006 - "è il risultato dell’attuazione delle politiche di riduzione del contenzioso seriale poste in essere attraverso i piani d’azione". In questo modo, da un lato il Governo è arrivato alla chiusura del contenzioso in via transattiva, ma dall’altro lato ha dovuto riconoscere il versamento di indennizzi. Va detto che sull’importo liquidato ha inciso anche l’esecuzione di due sentenze "pesanti": quella del 2012 (Immobiliare Podere Trieste) con la quale la Corte europea ha condannato l’Italia a versare 47 milioni di euro e quella del 2014 (Società Pratolungo Immobiliare) chiusa con un regolamento amichevole in cui l’Italia si è impegnata a corrispondere 20 milioni. In ogni caso, anche al netto di queste pronunce, la cifra, rispetto all’anno passato, resta molto alta. Per le sentenze emesse nel 2015 sono state contabilizzate 12 pronunce per un totale di 1.269.493 euro e otto decisioni pari a 2.195.910 euro. Per quanto riguarda la legge Pinto, l’Italia ha versato 131.319 euro per chiudere 14 decisioni e ottenere la cancellazione dei ricorsi dal ruolo. Come dato positivo, invece, è da segnalare l’uscita dell’Italia nel 2015 dal gruppo di testa dei dieci Stati che hanno accumulato il maggior numero di condanne nell’anno, arrivando a 24 sentenze. Diminuito anche il peso dell’Italia rispetto agli affari pendenti,con un meno 25% rispetto al 2014 che porta Roma al quarto posto dopo Ucraina, Federazione russa e Turchia. Sul piano interno, non funziona l’azione di rivalsa introdotta con l’articolo 43 della legge 234/2012. Nel 2015 il ministero dell’Economia ha avviato un’azione contro l’Anas per recuperare i 50mila euro versati a seguito della sentenza Pecar del 2009. Sono pronti anche 17 decreti di ingiunzione di pagamento che saranno notificati agli enti interessati. Resta da vedere, però, se il sistema di rivalsa reggerà alla prova della Corte costituzionale. Il Tribunale di Bari, infatti, con ordinanza n. 74/2016 ha sollevato una questione di legittimità dell’articolo 43 anche perché la norma non permette di effettuare una gradazione di responsabilità tra Stato e enti locali (la camera di consiglio è prevista per il 21 settembre). Per quanto riguarda le modifiche legislative seguite a sentenze di condanna all’Italia, grazie alla pronuncia Oliari, il Parlamento ha approvato la legge 76/2016, colmando la lacuna relativa al riconoscimento giuridico di coppie dello stesso sesso. Resta, invece, ancora ferma l’introduzione del reato di tortura. Non è bastata la condanna all’Italia nel caso Cestaro per spingere il Parlamento ad approvare una legge. Con il rischio di nuove condanne dalla Corte europea. Ddl intercettazioni: semaforo verde al Senato, più potere ai pm di Liana Milella La Repubblica, 2 agosto 2016 Via libera sulle intercettazioni al Senato. Il governo si avvicina ai magistrati sulla gestione dello strumento più invasivo del processo. La delega che riscriverà la materia degli ascolti è molto più dettagliata rispetto a quella generica della Camera e soprattutto il pm resta il dominus nel decidere quali telefonate conservare e quali eliminare. Novità anche sui Trojan, le registrazioni effettuate a distanza attraverso un virus. Saranno possibili per i reati gravi di mafia e terrorismo, ma non per la più generica associazione a delinquere, il 416 del codice penale. Quando la commissione Giustizia è riunita in seduta notturna, il testo ottiene il via libera dopo una giornata di trattative. Oggi l’intero ddl sul processo penale, che contiene la riforma della prescrizione, già potrebbe debuttare in aula, anche solo per essere incardinato. Appuntamento l’8 settembre per i futuri emendamenti e la maratona sui quasi 40 articoli. Ma il Guardasigilli Andrea Orlando è comunque soddisfatto: "Questo era un passaggio molto importante. Le modifiche sono state discusse anche con esponenti della Camera e quindi lì il cammino sarà più facile". Da registrare ieri sera tre voti di rilievo: sulla delega, sui Trojan e sulla cosiddetta "norma D’Addario", le registrazioni fai da te. Forza Italia ha tentato di mettere un bavaglio alla stampa eliminando il "diritto di cronaca" come licenza di pubblicazione, però stata fermata. Ma il passo avanti è quello sulla riforma delle intercettazioni. Orlando approva la proposta dei relatori Felice Casson e Giuseppe Cucca di riscrivere la delega al governo. Il testo originario di una dozzina di righe si raddoppia. Emerge con nettezza il ruolo del pm nella gestione delle intercettazioni, sia quelle che dimostrano appieno il compimento di un reato, sia quelle ininfluenti che devono restare riservate e finire in un archivio riservato. È scritto nella delega: "Il pm assicuri la riservatezza delle registrazioni inutilizzabili perché non pertinenti all’accertamento delle responsabilità per cui si procede o di quelle irrilevanti ai fini delle indagini in quanto riguardanti fatti ad essa estranei". Queste ultime, al contrario di quanto avviene adesso con i brogliacci della polizia, "non saranno oggetto di trascrizione sommaria, ma ne sarà indicata solo data, ora e apparato cui è avvenuta la registrazione, previa informazione al pm". Indiscutibilmente ne soffriranno le cronache dei processi, anche se Orlando non vuol sentir parlare di "bavagli". È un fatto però che adesso il testo della delega assomiglia molto alle circolari dei procuratori di Roma, Torino, Napoli, Firenze e di un’altra buona dozzina di città, e alla risoluzione appena approvata dal Csm che ne fa la sintesi e per cui il vice presidente Giovanni Legnini si è molto battuto. Compromesso invece tra Pd e Ncd - battagliero fino all’ultimo col ministro Enrico Costa e il presidente della commissione Nico D’Ascola - sui Trojan. Anche qui passa la formula dei relatori Casson e Cucca, "il microfono si attiva con comando inviato da remoto e non con il solo virus". Nessun ostacolo in presenza di reati gravi, ma viene cancellato il 416, l’associazione a delinquere semplice su cui Ncd ha minacciato di non votare il testo. Ddl intercettazioni, ora si accelera. Sì ai "trojan" contro terrorismo e mafia di Mario Stanganelli Il Messaggero, 2 agosto 2016 Riforma delle intercettazioni, la svolta è a un passo. Nella notte la commissione Giustizia del Senato ha accelerato in vista del via libera ad horas della riforma del processo penale che prevede anche la delicatissima questione degli ascolti. In arrivo novità anche sull’uso del "trojan" che sarà consentito nelle indagini per terrorismo. Si tratta di un software (appartenente alla categoria dei "malicious software") che può sottrarre informazioni sensibili o accedere a sistemi informatici privati, senza che l’utente di un programma possa venire a conoscenza della presenza del Trojan. Insomma, si tratta di una sorta di virus informatico meno individuabile rispetto a quelli di cui normalmente si parla nel corso della "ripulitura" dei computer, non essendo rilevabile dai normali antivirus. L’uso del Trojan - il cui nome deriva dal celebre Cavallo di Troia - nelle indagini giudiziarie presenta quindi aspetti particolarmente delicati, dal momento che questo software è stato spesso usato a fini criminali e di danneggiamento dei sistemi colpiti, potendo contenere qualsiasi tipo di istruzione maligna. La commissione di palazzo Madama è orientata a consentirne l’utilizzazione solo in indagini riguardanti terrorismo e mafia. Un uso praticamente "eccezionale" considerata la rilevanza di questi due territori criminali. Per le altre indagini comprendenti tutti gli altri tipi di reati, ci si dovrebbe attenere ai strumenti di rilevazione e di registrazione utilizzati nelle operazioni di intercettazione giudiziaria. L’intera normativa delle intercettazioni è in discussione in questi giorni al Senato nell’ambito del ddl riguardante la riforma del processo penale. Il Csm la settimana scorsa ha deliberato, nel corso del suo ultimo plenum, una sorta di decalogo che pur - secondo le parole del vicepresidente Legnini - "non intendendo né anticipare né condizionare il legislatore" mira a essere utile a superare, in tema di intercettazioni, quella sorta di "stallo politico" venutosi a creare per le divergenze tra magistratura e politica. Le "linee guida" individuate in materia a Palazzo dei Marescialli dovrebbero garantire una maggiore tutela della privacy nell’uso, soprattutto mediatico, delle intercettazioni. Il primo passo del Csm è stato quello di mettere a disposizione di tutte le procure italiane un insieme di "buone prassi" già adottate in materia da alcune delle maggiori procure, tra cui quelle di Roma, Napoli, Torino e Firenze. I principi della delibera - a cui secondo il Csm "sarebbe cosa saggia se il legislatore si ispirasse" - individuano la centralità del ruolo del pm che nel trattamento di dati sensibili è chiamato a "operare una prima selezione delle conversazioni", valutando se omettere "i riferimenti a cose e persone se non strettamente necessari". Raccomandata, in specie, una "sobrietà contenutistica" nei provvedimenti giudiziari riportanti stralci di intercettazioni e, soprattutto, "l’uso mirato e razionale dell’udienza filtro che consente di predisporre adeguate misure di garanzia e salvaguardia dei dati sensibili". Caporalato: il Senato approva il ddl, che ora passa alla Camera La Repubblica, 2 agosto 2016 Con 190 voti a favore, 32 contrari e nessun astenuto l’assemblea ha approvato il testo che vuole contrastare la diffusione del fenomeno criminale dello sfruttamento dei lavoratori. L’Aula del Senato ha approvato il disegno di legge contro il fenomeno del "caporalato" con 190 si, nessun voto contrario, 32 astenuti. Il provvedimento passa ora alla Camera. Soddisfatto il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali., Maurizio Martina, per il quale "la nuova legge rafforza gli strumenti di contrasto civili e penali, colpendo i patrimoni con la confisca e rendendo più forte la rete del lavoro agricolo di qualità. È una battaglia che ci riguarda tutti, a partire dal mondo agricolo che si mette alla guida del cambiamento". "Il Senato approva ddl caporalato, contro lo sfruttamento del lavoro: una misura di civiltà. Ora l’esame passa a Montecitorio", ha commentato su Twitter il presidente del Senato, Pietro Grasso. Di misura di civiltà parla anche in ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "È un provvedimento importante che introduce elementi di civiltà nel nostro Paese. Non solo colpisce in modo più preciso chi sfrutta il lavoro, ma soprattutto sprona le filiere agricole su questo tema evitando che l’ignoranza dell’esistenza del fenomeno risulti una scusa per chi collabora con chi sfrutta il lavoro. È importante che la disciplina sanzionatoria imbocchi la strada della pena pecuniaria cosicché si vadano a toccare gli indebiti profitti del caporalato". Ma c’è anche un altro aspetto importante, cioè "che ci sia stata un’ampia convergenza delle forze politiche. Si è riconosciuto così che l’iniziativa del governo è stata un’iniziativa giusta". Le novità. La relatrice, Maria Grazia Gatti (Pd), nella relazione con la quale è stata avviata giovedì scorso la discussione dell’assemblea, ha evidenziato che il caporalato in agricoltura è un fenomeno "complesso e multiforme che, secondo le stime coinvolge "circa 400mila lavoratori in Italia, sia italiani che stranieri"; "è diffuso in tutte le aree del paese e in settori dell’agricoltura molto diversi dal punto di vista della redditività". Il disegno di legge interviene sul piano repressivo (articoli da 1 a 7), riscrivendo il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, e su quello della prevenzione e delle politiche di contrasto (articoli 8 e 9), dettando disposizioni sulla rete del lavoro agricolo di qualità e prevedendo un piano di interventi a supporto dei lavoratori che svolgono attività stagionale di raccolta dei prodotti agricoli. In particolare, l’articolo 1 modifica l’articolo 603-bis del codice penale prevedendo la pena della reclusione da uno a sei anni per l’intermediario e per il datore di lavoro che sfrutti i lavoratori approfittando del loro stato di bisogno; se i fatti sono commessi mediante violenza e minaccia la pena aumenta da cinque a otto anni ed è previsto l’arresto in flagranza. Soddisfazione Pd. La vice-presidente del Senato, Valeria Fedeli, parla di "passo fondamentale per contrastare un fenomeno vergognoso come quello del caporalato" e spiega: "Introduciamo novità fondamentali, come la modifica del codice penale per introdurre il principio della piena corresponsabilità tra il caporale e l’imprenditore, una descrizione dettagliata e aggiornata delle condizioni che sono identificabili come sfruttamento, la previsione del controllo giudiziario dell’azienda responsabile del reato per evitarne la chiusura e le conseguenze negative sui lavoratori. Sono cambiamenti fondamentali per fare in modo che nessuno debba più scegliere tra lavoro e dignità". Per Camilla Fabbri, Pd, presidente della Commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro, il provvedimento era "atteso, un passo avanti per la tutela del lavoro, della dignità umana e per la civiltà giuridica del nostro paese. Il provvedimento amplia e punisce maggiormente l’odioso reato di caporalato i cui effetti ci riportano a livelli di sfruttamento ottocenteschi. L’auspicio è che venga presto approvato alla Camera". Boldrini riceve donne braccianti. Sempre oggi, la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha ricevuto a Montecitorio una delegazione di donne braccianti nell’ambito della consegna del rapporto Flai-Cgil su agromafie e caporalato. Stipendi da fame, orari inaccettabili, alloggi fatiscenti, ricatti e violenze. Sono tra le vessazioni che le braccianti agricole spesso sono costrette a subire. Anche dalla criminalità organizzata. Perché la mafia non uccide solo quando spara, ha denunciato Boldrini in un post su Facebook. "Ho detto loro che lo stato c’è. Qui in Parlamento c’è un provvedimento importante che vuole per la prima volta anche punire chi commissiona ai caporali lo sfruttamento: cioè le aziende, quelle che non rispettano la legge. Le mafie uccidono anche senza sparare", ha detto Boldrini. Doppia stretta sul caporalato, puniti i caporali e anche le imprese che se ne servono di Giovanni Galli Italia Oggi, 2 agosto 2016 Pugno duro contro il caporalato. Non solo contro i caporali, ma anche contro le imprese. Sarà infatti punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori o utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Non solo. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Lo prevede il ddl recante "Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura", approvato ieri in prima lettura dal Senato nella versione licenziata dalla commissione agricoltura. Il testo, che ha ricevuto il via libera con 190 sì, 32 gli astenuti e nessun contrario, e che passa ora all’esame della Camera, individua i "segnali" che costituiscono indice di sfruttamento. Tra questi, la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà, in base al testo dell’articolo 1 approvato dalla commissione, il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre, il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa, l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo. Il ddl introduce anche il controllo giudiziario, al posto del sequestro, per l’azienda che si sia avvalsa di intermediazione illecita di manodopera. Un amministratore affiancherà dunque l’imprenditore, per cui siano state accertate le condizioni previste dall’art. 603-bis del codice penale, nell’esercizio della gestione dell’azienda e regolarizzerà i lavoratori rimuovendo le condizioni di sfruttamento. Nello specifico, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico dell’impresa, il giudice potrà disporre con decreto il controllo giudiziario dell’azienda in cui sia stato accertato il reato di caporalato, nominando uno o più amministratori, scelti tra gli esperti in gestione aziendale iscritti all’Albo degli amministratori giudiziari. Questi riferirà al giudice, ogni tre mesi, sull’andamento dell’attività e, comunque, ogniqualvolta emergano irregolarità. Non solo. Per impedire ulteriori situazioni di grave sfruttamento lavorativo, l’amministratore provvederà a regolarizzare i lavoratori che al momento dell’avvio del procedimento prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto, adottando misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore. Si stabiliscono nuovi strumenti penali per la lotta al caporalato come la confisca dei beni come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, l’arresto in flagranza, l’estensione della responsabilità degli enti. In Senato è stato introdotto l’allargamento del reato anche attraverso l’eliminazione della violenza come elemento necessario. La nuova legge prevede anche di estendere le finalità del Fondo anti-tratta anche alle vittime del delitto di caporalato, considerata la omogeneità dell’offesa e la frequenza dei casi registrati in cui la vittima di tratta è anche vittima di sfruttamento del lavoro. La commissione ha completato il lavoro sulla Rete del lavoro agricolo di qualità prevedendo la sua articolazione in sezioni territoriali, l’organizzazione del collocamento agricolo e il trasporto dei lavoratori fi no al luogo di lavoro. Un emendamento, infine, prevede l’uso del libro unico aziendale che entrerà in funzione con l’inizio del 2017. Le reazioni - "È una legge cruciale", afferma il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, "per sradicare una piaga inaccettabile come il caporalato. Con l’approvazione in Senato del disegno di legge avanziamo in questa battaglia che non è solo di civiltà, ma di giustizia. Ora mi auguro che la Camera faccia presto e renda definitivo il provvedimento". "Dotiamo di nuovi ed efficaci strumenti il contrasto allo sfruttamento della manodopera e del lavoro nero in agricoltura. Innanzitutto, con la riscrittura dell’articolo 603-bis del codice penale: non si punisce più solo il caporale", spiega la senatrice Maria Teresa Bertuzzi, capogruppo Pd in commissione agricoltura a Palazzo Madama, "che recluta i lavoratori, ma si attribuisce una responsabilità anche alle imprese che impiegano mano d’opera in condizioni di sfruttamento. Poi, con il rafforzamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, introdotta con il decreto Competitività, che mira al riconoscimento e alla valorizzazione pubblica dell’eticità dell’impresa regolare. La rete sarà articolata in sezioni territoriali volte a garantire una modulazione a livello locale dei servizi per l’impiego". "Forza Italia vuole combattere il caporalato in tutte le sue manifestazioni. Crediamo però che questa legge non risolva il problema. Le aziende agricole e tutte le altre forme di impresa interessate dal fenomeno del caporalato, che vivono una crisi ormai cronica, hanno bisogno di sostegno, evitando che siano vittime di una semplicistica criminalizzazione anche per fatti oggettivamente meno gravi", ribatte il senatore di Forza Italia Bartolomeo Amidei. La vicepresidente del Senato Valeria Fedeli (Pd) parla di "passo fondamentale per contrastare un fenomeno vergognoso come quello del caporalato" e spiega: "Introduciamo novità fondamentali, come la descrizione dettagliata e aggiornata delle condizioni che sono identificabili come sfruttamento, la previsione del controllo giudiziario dell’azienda responsabile del reato per evitarne la chiusura e le conseguenze negative sui lavoratori. Sono cambiamenti fondamentali per fare in modo che nessuno debba più scegliere tra lavoro e dignità". 2 Agosto, a Bologna si rinnova la memoria. 36esimo anniversario della strage di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 2 agosto 2016 In rappresentanza del Governo arriverà il sottosegretario De Vincenti. Per la prima volta islamici alla messa con monsignor Zuppi. Gli antifascisti: "Lasceremo la piazza, quando inizierà a parlare il sindaco Merola". Sarà un trentaseiesimo anniversario della strage di Bologna, quello di martedì 2 agosto, di celebrazioni istituzionali, contestazioni e partecipazioni inedite, come quella della comunità islamica alla messa in suffragio delle vittime. Ma in questo 2 agosto ci sarà un altro traguardo importante: l’entrata in vigore della legge sul reato di depistaggio, dopo anni di battaglie da parte dei familiari delle vittime di tutte le stragi. In rappresentanza del Governo arriverà a Bologna il sottosegretario Claudio De Vincenti. La giornata prenderà il via molto presto con l’arrivo, dalle 6.30, delle staffette podistiche al parco della Montagnola. Alle 8.15, come di consueto, il sindaco Virginio Merola incontrerà i familiari delle vittime in Sala Rossa a Palazzo d’Accursio e alle 8.30 nella sala del consiglio Merola terrà il suo intervento davanti ai rappresentanti dell’associazione dei familiari delle vittime della strage, alle autorità e a tutti gli enti e associazioni aderenti. Alle 9.15 partirà il corteo commemorativo da piazza del Nettuno, durante il quale saranno distribuite più di 8.000 cartoline fatte stampare dall’assemblea legislativa della Regione, per ricordare nomi e storie delle vittime. All’arrivo nel piazzale della stazione, alle 10.10 il presidente dell’associazione dei familiari Paolo Bolognesi terrà il suo discorso e subito dopo ci sarà il minuto di silenzio, seguito dal discorso del sindaco Merola. Ma il Nodo sociale antifascista, che parteciperà alla manifestazione, ha annunciato che subito dopo il minuto di silenzio abbandonerà la piazza in segno di protesta perché "anno dopo anno - si legge in una nota -, lo Stato ha sempre promesso di far luce sulle 14 stragi in cui è coinvolto, ma abbiamo solo avuto una lunga serie di depistaggi". Collettivi, centri sociali e Usb abbandoneranno quindi la piazza quando inizierà a parlare il sindaco. Le commemorazioni istituzionali, invece, proseguiranno con la deposizione, alle 10.50 al primo binario, della corona in ricordo del ferroviere Silver Sirotti, morto nella strage dell’Italicus. Poi alle 11.15 dal piazzale Est della stazione partirà il treno straordinario per San Benedetto Val di Sambro, dove ci sarà la tradizionale deposizione di corone alle lapidi che ricordano le vittime degli attentati ai treni Italicus e 904 Napoli-Milano, con gli interventi del Sindaco di San Benedetto Val di Sambro Alessandro Santoni, della presidente dell’associazione dei familiari. Parteciperà l’assessore al bilancio del comune di Bologna Davide Conte. A Bologna, intanto, nella chiesa di San Benedetto in via dell’Indipendenza 64, alle 11.30 l’arcivescovo Matteo Maria Zuppi celebrerà la messa in suffragio delle vittime, a cui parteciperà anche la comunità islamica di Bologna. La giornata proseguirà con la deposizione di corone nel piazzale Cotabo in via Stalingrado in ricordo dei tassisti deceduti il 2 agosto e, alle 16.30, con il triangolare di calcio tra le squadre del consiglio comunale, RFI Bologna e Cotabo. Alla Velostazione di Dynamo, invece, alle 18 l’assessore alla Cultura Bruna Gambarelli inaugurerà l’installazione artistica "Confonderti" di Antonello Ghezzi, visibile per tutta la giornata. Infine alle 21.15 in piazza Maggiore, ci sarà la XXII edizione del concorso internazionale di composizione 2 Agosto, dedicato a partiture per illustrare una scena di balletto eseguite dall’Orchestra del Teatro Comunale e dalla compagnia di danza Körper. Al termine del concerto sarà proiettato il documentario di Vanessa Roghi prodotto da Rai Tre "La Grande Storia : Bologna, 2 agosto 1980. La Strage". Scrive articolo sui furti dei nidi di falco: giornalista rischia cinque anni di carcere La Stampa, 2 agosto 2016 Elisabetta Rossi, cronista del Resto del Carlino, è stata accusata di istigazione alla rivelazione di segreti d’ufficio: aveva scritto dell’esistenza di un’inchiesta in corso da 7 mesi. Scrivere che c’è un’inchiesta giudiziaria sui furti di nidi di falchetti per il mercato clandestino può comportare una condanna penale fino a cinque anni di carcere. È quello che è successo a Elisabetta Rossi, cronista di giudiziaria per le pagine del Resto del Carlino di Pesaro, che il 23 giugno scorso aveva firmato un articolo sulla vicenda dei ladri di nidi di falchetto, oggetto di un’inchiesta che procede da circa 7 mesi. La giornalista si ritrova ora accusata di violazione del divieto di pubblicazione di atti coperti da segreto, istigazione alla rivelazione di segreti d’ufficio per un ingiusto vantaggio patrimoniale. Ovvero i 9 euro lordi con cui è stata ricompensata per l’articolo. A pochi giorni dalla pubblicazione, gli agenti della Forestale avevano perquisito la casa e le avevano sequestrato il cellulare. Sequestro che, nonostante l’annullamento disposto dal Tribunale del Riesame il 23 luglio, risulta ancora in effetto, visto che il cellulare non è stato riconsegnato. Il 30 luglio poi è stato convocato in Procura anche il caposervizio della redazione di Pesaro, come "persona informata dei fatti". La Rossi è stata anche interrogata perché rivelasse la sua fonte: la giornalista si è avvalsa del segreto professionale che però, essendo iscritta all’albo dei pubblicisti e non dei professionisti, non le è stato riconosciuto dagli inquirenti. Le accuse potrebbero valerle dai 2 ai 5 anni di carcere. "L’Ordine dei Giornalisti - si legge in un comunicato - ricorda che il giornalista non può venire meno al proprio dovere, che è quello di informare correttamente il pubblico: la collega Rossi ha pubblicato notizie di cui era venuta a conoscenza e da lei ritenute interessanti per i lettori". Incidenti stradali. Ora con lesioni e omicidio si può andare in carcere di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Risarcimenti lunghi da ottenere e responsabilità penali non semplici da provare. Le norme in materia di omicidio e lesioni personali stradali hanno certamente costituito una significativa novità per il nostro sistema penale e l’esigenza sociale di contrastare con fermezza il fenomeno delle morti su strada, è giustamente meritevole di tutela: tuttavia, anche dalle prime esperienze applicative, si ha la netta impressione che il nuovo apparato normativo abbia ecceduto, soprattutto in alcuni passaggi, nel rendere omaggio all’emotività e al diritto penale "simbolico", a discapito dei principi fondamentali su cui si basa la responsabilità penale nel nostro ordinamento. Non sembrano, paradossalmente, adeguatamente tutelate anche le aspettative risarcitorie delle vittime, dato che i sensibili aumenti di pena previsti dalle recenti disposizioni - che dipendono da accertamenti tecnici e biologici da effettuare con rigore, e rispetto del diritto di difesa, per verificare le condizioni fisiologiche dell’autore dell’incidente, oppure eventuali concause dello stesso - non incoraggiano certo gli imputati a optare per riti alternativi deflattivi - quali il patteggiamento o il giudizio abbreviato - favorendo invece epiloghi dibattimentali destinati ad aumentare fisiologicamente i tempi necessari per avere una sentenza definitiva: che costituisce l’antecedente necessario - logico e processuale - all’effettivo indennizzo del danneggiato o, in caso di morte, degli eredi. I nuovi articoli 589 bis (omicidio stradale) e 590 bis (lesioni personali stradali gravi o gravissime) del codice penale disegnano fattispecie delittuose identiche, caratterizzate da una serie di eterogenee ipotesi aggravate: che - al di là dei sensibili innalzamenti di pena ivi articolatamente previsti in relazione alle condizioni fisiologiche del conducente, oppure della sua condotta di guida - non configurano distinti reati, ma circostanze aggravanti autonome ad effetto speciale. La conseguenza di tale scelta legislativa è piuttosto rilevante, dato che, ex articolo 590 quater del Codice penale, il giudice subisce una rigida deroga alla sua discrezionalità nella determinazione della pena in virtù del divieto di concessione delle attenuanti (al di fuori di quelle della minore età del reo, o del suo contributo minimo alla verificazione dell’incidente) in regime di prevalenza o equivalenza. L’elemento soggettivo dei nuovi reati è la colpa, la cui intensità è graduata dal legislatore su base presuntiva e predeterminata - con l’evidente obiettivo di ridurre ai minimi la discrezionalità del giudice, in urto con le fondamenta del nostro sistema penale - in relazione ad alcune caratteristiche della sua condotta di guida. L’ipotesi base è quella contenuta nel I comma degli articoli 589 bis e 590 bis, che ricalca le vecchie disposizioni - anche in termini di pene - sanzionando chiunque cagiona con violazione "generica" delle norme sulla circolazione stradale la morte o lesioni personali stradali gravi e gravissime di una persona. Lo scenario sanzionatorio cambia radicalmente nei casi di omicidio e lesioni personali stradali commesse da conducente con tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro, oppure in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (da 8 a 12 per l’omicidio, da 3 a 5 a anni per le lesioni gravi, da 4 a 7 anni per le gravissime). Identiche sanzioni si applicano ai conducenti "professionali" - di cui all’articolo 186 bis, comma I, lettera b), c) e d) del Codice della strada - nei casi di tasso alcolemico oscillante tra 0,8 l/g e 1,5 l/g. Scendono di poco le sanzioni per chi cagiona la morte di una persona - oppure lesioni gravi o gravissime - ponendosi al volante con un tasso alcolemico oscillante tra 0,8 l/g e 1,5 l/g: da 5 a 10 anni per l’omicidio, da 1 anno e 6 mesi a 3 anni per le lesioni gravi, e da 2 a 4 anni per le gravissime. Le stessa pene si applicano al conducente di un veicolo a motore che causi la morte di una persona, o sue lesioni gravi o gravissime: procedendo in un centro urbano a una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h, o su strade extraurbane ad una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita; attraversando un’intersezione con il semaforo rosso o circolando contromano; effettuando una manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua. Per entrambe le fattispecie, la pena è aumentata se il fatto è commesso da persona non munita di patente di guida o con patente sospesa o revocata, o nel caso in cui il veicolo sia di proprietà dell’autore del fatto e sia sprovvisto di assicurazione obbligatoria. I termini di prescrizione sono in ogni caso raddoppiati. Il penultimo comma di entrambe le disposizioni in esame prevede una diminuzione della pena "fino alla metà" qualora "l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole". Appare di tutta evidenza la fondamentale importanza che questa attenuante avrà per l’applicazione pratica delle nuove norme sulla libertà personale degli imputati, dato che la concessione della stessa potrà cambiare radicalmente il trattamento sanzionatorio. Ne consegue che la regola base - sin dalle prime battute di un’inchiesta per omicidio o lesioni stradali - dovrà diventare la ricostruzione esaustiva e rigorosa della dinamica dell’incidente, riservando particolare attenzione anche allo stato dei luoghi dove lo stesso si è verificato. Incidenti stradali. Solo il concorso di colpa può "tagliare" la sanzione di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 A fronte di pene estremamente severe, e del divieto di concessione delle circostanze attenuanti - diverse dalla minore età del reo (articolo 98 cp) e dal minimo contributo al verificarsi dell’incidente (articolo 114 cp) - assume particolare rilevanza l’attenuante prevista dal penultimo comma degli articoli 589 bis e 590 bis, dato che comporta una diminuzione di pena fino alla metà se l’evento non è "esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del reo". I massimari della giurisprudenza sono colmi di casi in cui, accanto alla responsabilità del conducente di un veicolo per un incidente con morti o feriti, vi è stata anche quella di altri soggetti: il proprietario di una strada per l’omesso collocamento di segnali, l’amministrazione di un ente locale per la manutenzione della strada, oppure il direttore e/o il gestore di una tratta autostradale per le condizioni pericolose della stessa, il datore di lavoro per la fornitura al dipendente di un veicolo aziendale potenzialmente pericoloso, il genitore per l’omesso agganciamento del figlio piccolo all’apposito seggiolino, il conducente di un altro veicolo coinvolto nell’incidente per il mancato rispetto della distanza di sicurezza - o comunque per la sua condotta di guida non adeguata alle condizioni contingenti - il personale di soccorso e/o sanitario che commetta un errore nelle cure ad un ferito, dopo un incidente stradale, aggravandone le condizioni o addirittura cagionandone la morte. Di qui la rilevante esigenza che, appena entrate in campo, le forze dell’ordine agiscano con estrema accuratezza per garantire alla magistratura di poter ricostruire i fatti nel modo più esaustivo possibile, evitando che sfumi la possibilità di conoscere l’esistenza di concause rilevanti nella determinazione dell’evento morte e/o lesioni: errori od omissioni commessi nella prima fase di un’indagine possono infatti notoriamente inficiare il suo esito, e/o pregiudicare irrimediabilmente la possibilità per l’imputato di approntare un’adeguata difesa sin dalla fase cautelare. L’auspicio è che le forze dell’ordine, sin dal primo accesso ai luoghi dell’incidente, si tengano in stretto contatto con il pubblico ministero, condividendo con lui l’eventuale decisione di procedere all’arresto in flagranza e trasmettendogli tutte le informazioni rilevanti - sulle persone, le cose e i luoghi - per decidere come cristallizzare esaustivamente la scena del delitto, mediante l’istituto del sequestro probatorio. Si tratta di attività preziosa per il successivo compimento dei rilievi tecnici che possono riguardare le testimonianze di chi ha assistito a un drammatico incidente, in cui magari ha perso la vita una persona cara - sulle responsabilità di tutti i soggetti che possono aver avuto un ruolo nella verificazione dell’evento morte e/o lesioni. Incidenti stradali. Alcol e droghe, possibili prelievi ed esami "obbligati" di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Anche dalla lettura più frettolosa delle nuove norme balza all’occhio l’importanza della prova delle condizioni fisiologiche del conducente di fronte ad un incidente con morti o feriti. Lo stato di alterazione conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope - come la presenza di alcool - possono infatti comportare pene fino a 12 anni di carcere. La conseguenza di tale scelta di diritto sostanziale si è necessariamente riverberata sulle norme di diritto processuale che disciplinano le modalità con cui la magistratura può procedere al prelievo di sostanze biologiche nei confronti dell’indagato. Il legislatore è infatti intervenuto sugli articoli 224 e 359 bis del codice di procedura penale introducendo la possibilità per gli inquirenti, quando si procede per i delitti di cui agli articoli 589 bis e 590 bis del codice penale, di compiere - anche coattivamente, se l’interessato si rifiuta di sottoporsi ad accertamenti sullo stato di ebbrezza alcoolica ovvero di alterazione correlata all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope - "atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale". Gli accertamenti coattivi possono essere disposti anche oralmente dal pubblico ministero, purché poi li confermi per iscritto ed entro le 48 ore successive ne richieda la convalida al giudice per le indagini preliminari. Deve essere dato avviso al difensore - nominato d’ufficio, in assenza di difensore di fiducia o in caso di indagato incosciente - che ha il diritto di assistere con l’ausilio di un proprio consulente tecnico. Sul tema ci sono però tesi discordanti. Alcuni, come il procuratore della Repubblica di Trento, che nel mese di marzo ha emanato una circolare interpretativa, non ritengono applicabile al prelievo del sangue - che è un rilievo fondamentale per accertare lo stato di ebbrezza alcoolica - gli articoli 224 e 359 bis cpp: ciò in quanto tali norme non lo richiamano espressamente tra gli accertamenti che si possono effettuare coattivamente, e di conseguenza si rischia di commettere a una lesione al principio di tipicità. La maggior parte degli altri procuratori della Repubblica che hanno emanato analoghe circolari interpretative ritengono invece pienamente applicabili anche al prelievo ematico le nuove norme: sia in quanto la formulazione legislativa è meramente esemplificativa e non esaustiva, sia in quanto il prelievo ematico è un accertamento che comporta sofferenze "lievi". La differenza appare più formale che sostanziale dato che il fulcro da rispettare - per garantire i diritti dell’indagato - è l’avviso al difensore di poter assistere alle operazioni di prelievo, anche nominando un consulente; avviso che, secondo le sezioni unite della Cassazione (sentenza 5396/2015) deve essere in ogni caso dato, a pena di nullità, prima che si proceda a un esame alcolimetrico. Incidenti stradali. Pena aumentata per chi fugge ma provare il dolo è difficile di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 I nuovi articoli 589 ter e 590 ter del Codice penale hanno introdotto due circostanze aggravanti che possono comportare aumenti di pena che riguardano tutti i conducenti, e non solo quelli di veicoli a motore che, dopo avere causato un incidente con morti o feriti, si siano dati alla fuga. Di conseguenza, l’aggravante può scattare anche per un ciclista. Gli aggravi di pena subiscono un ulteriore irrigidimento in virtù dell’automatismo, introdotto dall’articolo 590 quater, nel meccanismo di bilanciamento delle circostanze, che impone il divieto di concessione delle attenuanti anche in relazione alle ipotesi di omicidio stradale e lesioni personali stradali di cui al comma 1 degli articoli 589 bis e 590 bis - cioè nei casi di violazione "generica" delle norme sulla circolazione stradale - se il conducente si è dato alla fuga. La conseguenza è un severo mutamento del panorama sanzionatorio, che incide particolarmente sulle ipotesi non altrimenti aggravate: per l’omicidio stradale caratterizzato dalla "sola" violazione "generica" delle norme del Codice della strada (articolo 589 bis, comma 1), ma aggravato dalla fuga, la pena base non potrà infatti mai scendere sotto i 5 anni, mentre, negli stessi casi, per le lesioni personali stradali (articolo 590 bis, comma 1) non potrà essere inferiore a 3 anni. Il che non è certo poco se si pensa che: il minimo di pena per l’omicidio stradale di cui all’articolo 589 bis comma 1 è di 2 anni, e l’aggravante della fuga del conducente la fa di colpo aumentare di oltre il doppio; il minimo della pena per il reato di cui all’articolo 590 bis, comma 1, è di 3 mesi per le lesioni gravi, e di 1 anno per le gravissime, e perciò il conducente che fugge rischia - per ciò solo - di subire una pena più che triplicata. Senza considerare che i reati di cui agli articoli 589 bis, comma 1, e 590 bis, comma 1, possono essere commessi "da chiunque", e non solo da "conducenti di veicoli a motore", mentre le nuove aggravanti, pur richiamando gli articoli 589 bis e 590 bis senza distinzioni di sorta, sanzionano unicamente la fuga del "conducente". Tutto ciò sembra confliggere con i principi di proporzione e ragionevolezza che dovrebbero sempre guidare la mano del legislatore - soprattutto quando incide sulla libertà personale - e espone le nuove norme a un alto rischio di (condivisibile) censura di costituzionalità. E non è tutto. La circostanza aggravante in questione (che riguarda reati di natura colposa, e perciò involontaria, quali espressamente sono l’omicidio e le lesioni stradali) è caratterizzata dalla volontarietà, e dunque dal dolo: il che, e ben vedere, è un indice significativo di irrazionalità della scelta di politica criminale e di asistematicità della tecnica legislativa. Senza contare che, alla luce dei draconiani aumenti di pena, si potrà verificare con frequenza una sorta di "processo nel processo" dedicato ad accertare se, effettivamente, l’autore di un incidente si sia reso conto di avere cagionato un incidente e sia poi volontariamente scappato. L’assenza di volontarietà della fuga non è certo un’ipotesi peregrina, soprattutto nei casi di lesioni personali stradali caratterizzate dalla violazione "generica" delle norme sulla circolazione stradale: dove non si può aprioristicamente escludere l’inconsapevolezza, da parte del conducente, di avere cagionato un urto. Nell’immediatezza, peraltro, le lesioni possono apparire assenti, oppure lievi, e solo con il passare del tempo possono superare la prognosi dei 40 giorni che la fa diventare gravi. Ma le considerazioni critiche non si esauriscono qui. Le nuove norme, infatti, non incoraggiano certo l’autore di un incidente a fermarsi per prestare soccorso alle vittime, soprattutto se oltre ai feriti ci sono anche dei morti. Il che, a ben vedere, è decisamente paradossale. Si pensi, al proposito, che il riformato comma 8 dell’articolo 189 del Codice della strada - che non a caso ha avuto un travagliato iter parlamentare - esclude l’arresto in flagranza solo nei confronti dell’autore di lesioni personali stradali che si sia fermato dopo l’incidente. Tale norma di favore (e di buon senso) non vale però nei casi di omicidio, nei quali il conducente - anche se si è fermato e ha prestato assistenza ad altri feriti coinvolti nell’incidente - va dritto in carcere in attesa del processo. Incidenti stradali. Dal giudice o dal prefetto: pro e contro dei due ricorsi di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Le modalità per contestare un verbale di infrazione al Codice della strada sono due: il ricorso al giudice di pace e al Prefetto. In entrambi i casi non è obbligatoria l’assistenza del difensore, ma le regole sono diverse. Davanti al giudice di pace il termine per impugnare la multa è di trenta giorni dalla data di notifica o dalla consegna del verbale in caso di contestazione immediata; davanti al Prefetto i giorni salgono a sessanta ma non scatta la sospensione estiva. Soltanto per il ricorso giurisdizionale, infatti, non si contano i giorni dal primo al 31 agosto. Nel caso in cui il verbale preveda anche la decurtazione dei punti della patente, può presentare ricorso non solo il proprietario del veicolo, ma anche il conducente nel caso in cui abbia comunicato i propri dati all’amministrazione procedente, anche se il verbale non gli è ancora stato notificato (Tribunale di Perugia, sentenza n. 1946 del 30/06/2014). Per i giudici, il proprietario del mezzo è sempre obbligato ad annotare il nominativo delle persone alle quali presta il veicolo. In caso contrario, scatterà la sanzione prevista dall’articolo 126 bis del Codice della strada per non aver comunicato i dati del conducente. A nulla vale sostenere di avere molti collaboratori e di non ricordarsi a chi si è prestato il veicolo. L’obbligo di collaborazione che si richiede al proprietario, reale custode del bene mobile attraverso cui è stata commessa la violazione al Codice della strada, è talmente incisivo da imporgli di vigilare costantemente sull’affidamento del mezzo in modo tale da essere sempre in grado di adempiere al dovere di comunicare l’identità del conducente e, in caso contrario, di non consentirne affatto la circolazione. (Tribunale di Monza, sentenza 2206 del 22/09/2015). Se si vuole impugnare il verbale, in ogni caso non si dovrà pagare la multa, nemmeno entro i 5 giorni dalla notifica beneficiando dello sconto del 30%. Il pagamento, anche in forma ridotta, preclude infatti entrambi i ricorsi. Il ricorso al giudice di pace non è gratuito: è necessario infatti anticipare un contributo unificato di 43 euro da versare contestualmente al deposito del ricorso per i verbali che non superano il valore di 1.033 euro, occorrerà aggiungere la marca da bollo da euro 27 per i verbali di importo compreso tra 1033 a 1100 euro, mentre per valori superiori il contributo sale a 98 euro. In caso di accoglimento del ricorso, il giudice dovrà però disporre il rimborso delle spese sostenute. Il ricorso davanti al Prefetto è invece gratuito, salvo le spese di invio della raccomandata se si presenta a mezzo posta, che però si annullano nel caso di inoltro a mezzo pec. Occorre però mettere in conto un eventuale rigetto della domanda che comporterebbe almeno il raddoppio della sanzione pecuniaria, così come previsto dall’articolo 204 del Codice. Non raddoppia, invece, la sanzione amministrativa accessoria (decurtazione dei punti della patente) perché non espressamente previsto dalla legge. Il Prefetto ha inoltre tempi tassativi per comunicare al ricorrente la propria decisione, decorsi i quali il ricorso si intende automaticamente accolto. Questo termine è di 180 giorni se il ricorso è stato presentato presso l’organo accertatore e di 210 giorni se invece è stato presentato direttamente al Prefetto. Se il ricorrente ha chiesto di essere convocato per essere sentito, il termine è sospeso dal momento della convocazione, fino al momento della effettiva audizione. Contro l’ordinanza-ingiunzione del Prefetto è comunque sempre ammesso il ricorso davanti al giudice di pace, entro 30 giorni dalla notifica. I verbali devono essere notificati al proprietario del mezzo entro 90 giorni dalla data dell’infrazione e non dell’accertamento, come precisato dalla nota del ministero dell’Interno del 7 novembre 2014. Il ritardo comporta la nullità del verbale e la possibilità di annullamento anche in autotutela rivolgendosi all’autorità che lo ha emesso senza dover fare ricorso. Il diritto alla riscossione delle multe, invece, si prescrive in cinque anni. Pertanto se non sono intervenuti atti interruttivi, la cartella di pagamento notificata in ritardo sarà nulla (di recente Tribunale Catania, sez. V, sentenza del 13/07/2016). Inoltre, la legge 164/2014 ha introdotto la possibilità di pagare anche le sanzioni relative alle violazioni del codice della strada con prestazioni di pubblica utilità (c.d. baratto amministrativo). Le modalità di accesso al beneficio sono dettate dai singoli Comuni con regolamenti appositi che possono consentire di estinguere il debito con la partecipazione a progetti di pulizia o manutenzione delle aree pubbliche. La depenalizzazione salva gli effetti civili di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 1° agosto 2016 n. 33544. La depenalizzazione del reato trasformato in illecito civile non cancella gli effetti civilistici della condanna nel frattempo impugnata (e cassata). La Seconda penale della Cassazione (sentenza 33544/16, depositata ieri) torna sugli effetti di una delle depenalizzazioni approvate lo scorso gennaio (quella cosiddetta "civilistica", Dlgs 7/2016) per riaffermare la sopravvivenza delle disposizioni patrimoniali contenute nei verdetti cancellati dalla nuova disposizione penale. Il caso risolto dalla Cassazione riguardava un processo per falsità aggravata in scrittura privata, deciso in primo grado dal Tribunale di Vallo della Lucania. La sentenza era stata impugnata nel 2014 dalla sola parte civile, e quindi in contrasto con il limite dell’articolo 576 del codice di procedura, ma la Corte d’appello aveva ugualmente deciso il non doversi procedere per intervenuta prescrizione. La Seconda sezione, a cui si era rivolta l’imputata anche per veder riformata la remissione al giudice civile per la liquidazione del danno, ha cassato senza rinvio la decisione dell’appello sulla declaratoria di prescrizione, in quanto la depenalizzazione del gennaio scorso è prevalente rispetto alla formula applicata dal giudice di merito. La Cassazione però, nel solco di una giurisprudenza recente e univoca, ha salvato le statuizioni civilistiche, con un corollario interessante. Secondo i giudici di piazza Cavour, la trasformazione in illecito civile del reato contestato (articolo 485 del Codice penale, falsità in scrittura privata) "costituisce comunque il presupposto delle statuizioni civili disposte nei precedenti gradi di giudizio" poiché la depenalizzazione "non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto" che continua ad essere fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata. In sostanza, argomenta la Seconda penale, quando un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso "su di esso non influiscono le successive vicende riguardanti la punibilità del reato ovvero la rilevanza penale di quel fatto"; pertanto i capi civili della sentenza cancellata dalla depenalizzazione restano "indifferenti rispetto alla sorte della reigiudicanda penale". Dal punto di vista della norma applicabile, quindi, in questi casi si privilegia l’articolo 11 delle preleggi del codice civile ("La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.") rispetto a quello di successione della legge penale (articolo 2 del codice). Questo anche per un principio di economia processuale, visto che l’alternativa consisterebbe nel ricominciare un processo civile di accertamento su una questione già decisa incidentalmente dal giudice penale, e con un riverbero inaccettabile anche sul principio costituzionale (ed europeo) della ragionevole durata del procedimento. Amministratore di condominio: c’è reato se investe i fondi comuni sul proprio conto di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 1° agosto n. 33547. Appropriazione indebita per l’amministratore di condominio che abbia trasferito sul proprio conto corrente le somme depositate dagli inquilini per ottenere un tasso d’interesse migliore. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 33547/2016. La Corte si è trovata alle prese con un amministratore che aveva pensato - dopo 30 anni di gestione - di trasferire i risparmi depositati sul conto condominiale su un conto corrente suo. Appello dell’amministratore - Il ricorrente ha eccepito che era stato proprio lui a segnalare l’ammanco al nuovo amministratore. Inizialmente la cifra era prossima ai 22 mila euro per poi essere quantificata in circa 39mila. La somma, a dire dell’amministratore, pur non essendo destinata a fare fronte a spese condominiali era stata depositata su altro conto a titolo di investimento nell’interesse esclusivo del condominio amministrato senza, quindi, che ci fosse stata un’appropriazione. Ma sul punto la Corte è stata molto chiara ricordando che l’interversione del possesso non può avvenire quando l’autore del reato, già appropriatosi del bene, non provveda alla sua restituzione. La consumazione del reato di appropriazione indebita non richiede, infatti, la costituzione in mora dell’autore né un vero e proprio inadempimento dell’obbligo restitutorio in sé considerato (e quindi nel caso concreto all’indebito prelievo di somme dalle casse del condominio). L’ingiusto profitto - Quanto poi all’aspetto dell’ingiusto profitto si legge nella sentenza la circostanza che le somme fossero state investite nell’interesse del condominio anziché utilizzate a fini privati dall’imputato, era un elemento sprovvisto di qualsiasi riscontro fattuale. Altro, quindi, che investimento fatto nei confronti e nell’interesse del condominio per fare avere un tasso di interesse maggiore. Di fatto rileva la Corte si tratta di un’operazione fatta a vantaggio strettamente personale, integrando la condotta quanto previsto dall’articolo 646 del codice penale. Infondato, infine, risulta anche il secondo motivo di ricorso, relativo al diniego della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. In caso contrario la sanzione sarebbe rimasta priva di qualsiasi efficacia deterrente. Cari razzisti siete più stupidi che cattivi di Francesco Redig de Campos Il Dubbio, 2 agosto 2016 L’ossessione dei "cattivisti" per la diversità tra ruspe, deportazioni e soluzioni finali. Ormai è da tempo che seguendo il dibattito sui social, mi trovo quasi sempre, per le mie opinioni, assimilato alla definizione di "buonista" o anche "finto buonista". Che a rigor di semantica fà di me un buonista finto, quindi un non-buonista, ma lasciamo perdere visto che la logica non è la loro caratteristica. Chi sono loro? Sono i cattivisti. I destinatari degli ineffabili editoriali di Libero e della propaganda xenofoba del segretario della Lega. Una pletora di persone si erge a baluardo della civiltà occidentale scagliandosi contro l’immigrazione, l’islam, la diversità, la povertà (non intesa come problema da combattere, ma come fastidio verso chi suo malgrado ne ha a che fare) e i loro complici un po’ minchioni e inconcludenti: i buonisti. Loro i cattivisti invece, da buoni analfabeti funzionali, hanno una soluzione, per ogni male che affligge la nostra società: il carcere, la pena di morte, la ruspa, le deportaz... ehm i rimpatri, fare la guerra agli islamici giacché "non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani", che poi è un po’ come dire che "non tutti quelli che si masturbano sono stupratori, ma tutti gli stupratori si masturbano". Non comprenderanno mai che il 98% delle vittime dell’Isis e del terrorismo islamico sono persone di fede islamica, che se abbiamo la vicissitudine di vivere in un epoca in cui c’è una porzione di territorio tra i confini della Siria e dell’Iraq governato da un sedicente Califfo forse non è esente da colpe la singolare idea di esportare un po’ di sana democrazia, bombardando a dritta e a manca. Subito ti incalzeranno con un: "E allora l’undici settembre?". A nulla varrà ricordare che nessuno degli attentatori era di nazionalità irachena. E poi: "Quindi era meglio lasciare Saddam?" questo punto li esalta, poi però sono sempre i primi a magnificare l’accordo di Berlusconi con Gheddafi che "aveva fermato gli sbarchi di immigrati". A loro non interessa sapere che in Europa, secondo stime Onu, è presente solo il 10% dei sessanta milioni di rifugiati, protagonisti di quella che è la più grande emergenza in tal senso della storia dell’umanità. Contro ogni evidenza si tratterà sempre di "un’invasione capitanata dalla Boldrini alla testa degli squadroni buonisti". Non vacilleranno neanche se gli fai notare che probabilmente i loro figli a scuola hanno compagni, o figli di genitori, che non sono nati in Italia e che non hanno nessuna simpatia per i terroristi, giacché ora hanno imparato su qualche sito che riporta aforismi (pochi di loro hanno la capacità di concentrazione che superi le quattro righe) una nuova parola: la taquiyya, ovvero la possibilità nella tradizione islamica di venire meno ali obblighi religiosi, o addirittura di rinnegare esteriormente la fede. Sono troppo intelligenti per credere che la taquiyya, che per altro è una tradizione valida soprattutto tra gli sciiti che nella comunità islamica in Italia sono una sparuta minoranza, è autorizzata solo quando si trovino in pericolo o per sfuggire ad una persecuzione (cosa per altro prevista anche dapiù evoluti ordinamenti giuridici). Loro risponderanno che è in corso un’invasione con l’avallo del Vaticano di Papa Francesco e dei poteri forti, perché si sa: i poteri forti sono responsabili di ogni malefatta. E gli zingari? Beh, è semplicissimo: basta usare la ruspa e cacciarli al loro paese. Il fatto che molti siano Italiani? Lo risolvono facilmente: "Non esistono zingari Italiani, sono tutti delinquenti". Non avranno il minimo tentennamento neanche una volta edotti che sono, o erano, "zingari": Antonio Banderas (origini kalé), Yul Brinner (rom da parte del nonno paterno, acquistò il titolo di presidente onorario dei rom), Michael Caine (rom romanichael), Charlie Chaplin (romanichael da parte di madre), Joaquin Cortes (kalé Spagnolo), Rita Hayworth (kalé), Elvis Presley (di padre sinto e di madre romanichael), lo scienziato e premio Nobel per la medicina August Krogh (rom). In fondo è un popolo dedito solamente all’accattonaggio, ai furti ed allo spaccio. E di certo non saranno così ingenui da credere che nel corso della storia i popoli si sono mossi, che probabilmente neanche i sanniti o i volsci saranno stati entusiasti quando furono (loro sì) invasi dai romani. Che comunque i primi a muoversi, siamo stati noi verso i loro paesi. Che i trentacinque Euro spesi al giorno per mantenere ogni migrante, loro dicono in alberghi a quattro stelle (che poi ce li vorrei vedere questi cattivisti a vivere in uno di questi "alberghi"), rappresenta un esborso infinitesimale rispetto all’evasione fiscale di questo paese. Alla fine del 2014, Il Giornale ha valutato in 55 milioni al mese il costo della "invasione degli immigrati", definizione che la dice lunga sul fatto che anche questa testata non sia buonista. Anzi, per andare sul sicuro, diciamo pure che il costo ora sia di 60 milioni al mese, con un aumento del 10% rispetto a quanto ipotizzato dallo stesso quotidiano. Un osservatore esterno come Richard Murphy, fondatore del Tax Justice Network, ha calcolato il valore dell’evasione fiscale in 145 Paesi. Per l’Italia, anno 2011, siamo a 183 miliardi di euro che, divisi in rate mensili come quelle del Giornale, fanno 15 miliardi e 250 milioni al mese. Loro sono troppo scaltri per cadere in questo ragionamento. Ricordo quando ero giovane che l’odio sociale era del tutto riservato al mondo della droga nella sue varie declinazioni. C’era chi voleva la pena di morte, ma solo per i grandi spacciatori, chi voleva invece arrestare tutti i drogati e via dicendo. Prima ancora, io non posso ricordarlo ma è comunque un dato storico, la causa di tutti i mali erano i meridionali. Ora le statistiche tendono a confermare che l’uso di droga sia rimasto più o meno stabile negli anni, e pare anche che i meridionali siano addirittura aumentati, ma loro se ne sono dimenticati perché è diminuita "l’emergenza sociale" (la visibilità), soppiantata dalle "trame delinquenziali" di tutte queste persone generalmente con la pelle colorata. Ora, cari cattivisti, lasciate che vi dica una cosa senza rancore e spinto dalla possibilità che possiate migliorarvi attraverso un sano spirito di ricerca: il mondo è più complicato di quanto crediate. Non siamo noi ad essere buonisti ed inconcludenti, siete voi ad essere ignoranti e stupidi. Più stupidi che cattivi. Ivrea (To): detenuto suicida in carcere, il pm ha disposto l’autopsia La Sentinella del Canavese, 2 agosto 2016 Il sostituto procuratore della Repubblica Alessandro Gallo ha disposto l’autopsia sulla morte di Antonio Arnaldo Locane, 50 anni, trovato morto sabato 23 luglio nel bagno della cella della casa circondariale di Ivrea. Locane, che avrebbe dovuto uscire nell’aprile 2017, stava scontando un residuo di pena. Aveva presentato una richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali. L’autopsia sul corpo di Locane è stata eseguita nella giornata di lunedì dal medico legale Olga Veglia. Locane, mentre i compagni erano in cortile per l’ora d’aria, è andato in bagno, ha infilato la testa in un sacchetto dell’immondizia e ha inalato il gas della bomboletta in dotazione per accendere il fornellino. Ha perso conoscenza ed è morto in pochi minuti. In tasca, aveva due fotografie della madre. Quello di Locane è il terzo suicidio nel giro di degli ultimi tre anni nel carcere di Ivrea. A togliersi la vita nel marzo 2013 e nel gennaio del 2014 erano stati altri due detenuti. Pisa: "Minority report" in salsa toscana… non lo scarcerate, è pericoloso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2016 La vicenda di Jalal El Hanaoui, accusato di istigazione alla Jihad attraverso Facebook. "Non scarceratelo, è un soggetto pericoloso. Se non volete vedere la sua foto sul giornale per qualche attentato, tenetelo in carcere". Queste sono state le parole della pm Angela Pietroiusti pronunciate davanti ai giudici del Riesame per motivare il suo ricorso contro gli arresti domiciliari con l’obbligo di braccialetto elettronico che sono stati concessi a Jalal El Hanaoui, il marocchino di 26 anni, da decenni residente a Ponsacco, accusato di istigazione alla Jihad attraverso Facebook. Secondo la pm il ragazzo è pericoloso perché nella sua cella è stata trovata una lama. Gli avvocati difensori dell’imputato sono rimasti increduli alle parole della magistrata: secondo i difensori la lama era ossidata e dimostra il fatto che l’oggetto stava lì da molto tempo, prima ancora dell’arrivo di Jalal El Hanaoui. Lo straniero, che ha sempre dichiarato la sua estraneità alle accuse, ha reso anche dichiarazioni spontanee riferendo di "vivere una condizione psicologica estrema" perché "da innocente divido la cella con persone che hanno compiuto reati gravissimi". La vicenda è complessa ed è legata dalla facilità con la quale si può finire accusati di terrorismo solamente con la condivisione di alcuni post su fb, soprattutto se si è musulmani. Jalal passava tutto il suo tempo su internet e gli capitava di accedere ai siti "incriminati", ma nessuna attività di pubblicazione o condivisione di quei contenuti gli può essere addebitata. Gli avvocati difensori hanno spiegato che le conversazioni "intercettate" non avrebbero connotati estremisti ma riguarderebbero "le sue convinzioni religiose assolutamente lecite e non pericolose". Secondo le accuse, però, era ossessionato dal martirio e dalla guerra santa. Lui invece, durante le udienze, si è presentato ai giudici come un ragazzo come tanti, in cerca di lavoro. E ha cercato di giustificare anche le nuove immagini che la polizia ha trovato nella memoria del suo Iphone e che il pm antiterrorismo Angela Pietroiusti ha depositato durante una udienza. Ci sono alcune foto con amici italiani dove impugna una pistola e poi c’è un video terribile, ricevuto tramite Whatsapp, che mostra una decapitazione ad opera di terroristi dell’Isis e alle spalle del condannato un mucchio di cadaveri. Secondo Jalal, la pistola era giocattolo e la foto risale al 2014; quanto al video dell’esecuzione, ha ammesso di averlo visto ma nega di averlo condiviso con altri. Ma ci sono altri elementi che fanno pensare a tutto, tranne che sia un potenziale terrorista. Era stata intercettata una telefonata di 34 minuti, tra l’imputato e un italiano di 47 anni di Reggio Emilia convertito all’Islam e suo seguace sul social network, nella quale i due criticano l’Isis che getta fango sui musulmani; "È dura far capire che non è colpa nostra" parlano, tra altre cose, di fede e omosessualità. Questa telefonata era stata portata in aula dai difensori il 15 giugno scorso quando si doveva decidere sulla possibilità - poi concessa - degli arresti domiciliari. Ma sempre per la pm antiterrorismo, Angela Pietroiusti, invece "la telefonata ha confermato la pericolosità sociale in quanto l’interlocutore dell’imputato lo ritiene un sapiente dell’Islam e quindi ne è influenzato, così come l’intera istruttoria dibattimentale ha confermato tuttora la persistenza dell’elevata pericolosità sociale del detenuto". Una storia degna di Minority Report, il romanzo fantascientifico di Philip K. Dick dove si arrestavano le persone prima che compissero il reato. Per la pm, il ragazzo non deve andare ai domiciliari perché ce lo potremmo ritrovare in prima pagina come autore di una strage terroristica. E per difendere la sua tesi, la pm porta ad esempio la storia del giovane che martedì 26 luglio a Saint Etienne de Rouvray ha tagliato la gola a padre Jacques Hamel nella chiesa di Santo Stefano. L’attentatore aveva assicurato ai giudici di essersi pentito della decisione di unirsi all’Isis in Siria per combattere e per questo era stato rimandato a casa con il braccialetto elettronico. Ma era soltanto dissimulazione. Un esempio non proprio calzante perché l’assassino in questione non si limitava a scrivere su Facebook, ma svolgeva una parte attiva come il voler entrare in Siria per arruolarsi tra le fila dello stato islamico. Comunque sia, la pm ha utilizzato queste argomentazioni per opporsi alla decisione di scarcerazione. Alla fine non cambia nulla: Jalal El Hanaoui rimane in carcere perché mancano i braccialetti elettronici. Avellino: dentro Bellizzi, sono le persone a fare il carcere di Fioretta Tomasetti orticalab.it, 2 agosto 2016 Viaggio tra i volti e i paradossi di quelle mura dove è comparso il mare. Siamo state una giornata nella Casa Circondariale "Antimo Graziano" accompagnate dal commissario capo Attilio Napolitano. Nel nostro percorso di immersione in questa realtà troppo estranea ai cosiddetti cittadini liberi, ci siamo affiancati ad agenti, educatori e detenuti, tutti fondamentali e impegnati nella gestione di un sistema molto complesso, dagli equilibri fragili, che raccoglie al suo interno persone protagoniste di narrazioni e reati differenti. Nella storia di ogni essere umano si trovano errori, esistono momenti di confusione e mezze verità. Capita di sbagliare e restare impuniti. Succede anche di commettere un reato e perdere la libertà. E noi oggi abbiamo attraversato quel limbo nel quale la vita, come la conosciamo, per un po’ si sospende. Siamo state una giornata nella Casa Circondariale "Antimo Graziano" di Bellizzi, traghettate dal commissario capo Attilio Napolitano, comandante della Polizia Penitenziaria, tra queste quindici sezioni da cinque anni. Nel nostro percorso di immersione in una realtà spesso troppo estranea ai cosiddetti cittadini liberi, siamo stati accompagnati da molte guide, tutte fondamentali e profondamente impegnate nella gestione di un sistema molto complesso, dagli equilibri estremamente fragili, che raccoglie al suo interno persone protagoniste di narrazioni differenti, costrette a convivere. È il quarto carcere della Campania, ha una struttura a palo telegrafico, definito di alta sicurezza, come circuito che indica la pericolosità dei reati ospitati all’interno dell’istituto. Da quelli associativi, di stampo mafioso e camorristico, ai detenuti protetti, che attraversano la fase anticipatoria dello stato di collaboratore di giustizia, o che si sono macchiati di colpe gravi, dalla pedofilia alla violenza sessuale, e poi ci sono i detenuti comuni per reati come rapina, furto, truffa. Nella palazzina penale, zona vecchia della casa circondariale, sono concentrati gli ergastolani o i condannati al fine pena mai. Qui si inizia a sentire un po’ di claustrofobia, è tutto grigio, si vedono le porte pesanti, ci sono ancora le docce comuni anche se non si usano più, sono ambienti umidi e asfissianti, ora ogni cella è dotata di un bagno. Le sbarre sembrano davvero un limite, anche se le porte sono aperte otto ore al giorno, per consentire ai detenuti di camminare e muoversi all’interno della sezione. Ovunque è così, tranne nel reparto destro del pianoterra, la sezione protetta, in cui ci sono detenuti definitivi poco adatti al regime aperto, eppure anche qui si sta lavorando tanto per arrivare ad una maggiore autonomia, perché, come sottolinea Rita Beato, dell’Unità Operativa 1: "Ormai è dimostrato che usando la chiusura totale e la costrizione fisica non si arriva a niente". Lei lo sa bene, infatti si è attivata su molti progetti, tra cui quello della raccolta differenziata dei rifiuti e del compostaggio fatto dai detenuti, mentre sta per realizzarsi anche la proposta di un percorso di riciclo della plastica. Le stanze, non le celle, sono di ventuno metri. Ci sono anche quelle per i disabili, costruite in modo da abbattere le barriere architettoniche. Gli agenti sono 220, negli spazi comuni, nella aule di socialità, nel passeggio, nei corridoi e nelle sale per i colloqui, sono presenti telecamere per consentire una sicurezza costante da garantire ad operatori interni e detenuti. Ci sono più o meno 520 detenuti in condizioni di normalità, circa trenta sono le donne ospitate all’interno della sezione femminile. Tre di loro sono mamme, i bambini, che hanno meno d tre anni, vivono in cella con loro. È stato creato un asilo nido, uno dei pochi istituti ad esserne dotato, proprio per assicurare ai piccoli un ambiente normale, di gioco ed apprendimento. Affaccia su un giardino di erba sintetica ricavato da uno spazio inutilizzato: ci sono i tavolini, le seggioline, i palloni, i pupazzi, le cullette e i passeggini e si vede il cielo. In più sono seguiti nella crescita anche da due operatrici specializzate. Il legame che si crea tra il personale interno e questi bambini è così bello e sano da superare anche le sbarre. Probabilmente a breve questo ambiente non esisterà più, visto che al carcere di Lauro è in corso una riconversione degli spazi, per cui le detenute madri saranno trasferite. Camminando tra i corridoi, abbiamo incontrato anche l’infermeria e l’ambulatorio specializzato, oltre ai punti dedicati alla parrucchiera, all’estetista e alla sartoria, dove le donne possono dedicarsi a piccoli lavori creativi o di riparazione. Abbiamo attraversato il vociare fitto di dialetti misti durante i colloqui con le famiglie e i figli. Tutto quello che immaginavamo di sapere è stato in qualche modo ribaltato. Il carcere che ci aspettavamo di trovare, quello probabilmente viziato da troppi film e serie televisive, oggi non esiste. Lo abbiamo ritrovato forse, per brevi attimi, attraversando il cortile passeggi della palazzina penale. Quadrati di cemento circondati da inferriate, più simili alle gabbie per polli che ad ambienti per esseri umani. Ma anche qui è stato fatto un grande lavoro di adattamento: il tetto che copriva le aree è stato rimosso per far entrare l’aria e la luce. Le aiuole sistemate, le mura dipinte di bianco e blu, sono state installate delle panchine e c’è anche un orto coltivato con zucchine, patate e pomodori, a completa cura e consumo dei detenuti. Si sta facendo uno sforzo enorme per renderlo un luogo dignitoso, ma non è facile. I finanziamenti mancano, la burocrazia è lunga e complessa, superabile attraverso l’autorganizzazione, il riuso di materiali di scarto e la buona volontà, sia del personale che dei detenuti, impiegati per migliorare l’ambiente: dalle vernici per le pareti con cui si sperimentano nuovi colori, alle brande smantellate e utilizzate per creare delle ringhiere. Come ci spiega il funzionario giuridico pedagogico, la Dott.ssa Livia Bonfrisco: "Nel caso della parte vecchia di questo carcere, che risale comunque agli anni ‘80, possiamo parlare di struttura che limita le persone. Anche se ci stiamo muovendo per creare nuove aule scolastiche, riadattare un po’ gli ambienti e avere così maggiore possibilità di mettere in piedi delle attività concrete in sicurezza". Mentre continuiamo a camminare, in una passeggiata che è stata lunga chilometri, il Comandante Napolitano ci confessa che vorrebbe un carcere completamente teso alla rieducazione, sul modello americano, del tutto simile negli ambienti al nuovo padiglione in cui ci sta accompagnando, che oggi ospita circa 140 detenuti. È intitolato al collega Salvatore De Vivo, colto da un malore mentre svolgeva il servizio di sentinella lungo la cinta muraria. È una sezione a sorveglianza dinamica, che consente una maggiore apertura sulle attività trattamentali. Ci accoglie una riproduzione di Kandinskij, frutto del corso di diploma attivato grazie alla collaborazione con il Liceo Artistico De Luca: il progetto della scuola in carcere comprende una formazione fino alla quinta superiore, un altro corso che è possibile seguire è quello attivato con l’Istituto Agrario e con il Geometra. In generale gli incidenti e gli eventi critici si verificano in una percentuale molto bassa, quando accadono rientrano nella normale quotidianità di una casa circondariale così grande ed eterogenea. Al regime di custodia attenuata del nuovo padiglione si può accedere dopo un periodo di osservazione, effettuato da una equipe che funge da filtro e opera una selezione per merito. Chi arriva qui di solito si porta dietro un percorso che negli anni ha fatto riscontrare dei miglioramenti, sia nella persona che nella gestione dei rapporti. Le attività a cui i detenuti hanno accesso, vanno dalla biblioteca ai laboratori di falegnameria e di sartoria, passando per un corso di teatro avviato proprio da un detenuto diplomato in regia, che attualmente gode dell’articolo 21 che gli consente di collaborare anche con il Teatro 99 Posti. Ed è questo forse l’esempio più alto di quella rieducazione che funziona concretamente ed ha permesso a questo detenuto, arrivato dalla Sicilia, di passare dal regime restrittivo del 14 bis, compreso qualche mese di isolamento, al modello aperto del nuovo padiglione. Una scommessa vinta, come ci racconta l’Ispettore Francesco Giannattasio, responsabile di questa sezione: "È un vero e proprio esempio di trattamento riuscito, di come funzioni l’ascolto e l’attenzione verso i bisogni dei detenuti. Abbiamo tenuto insieme a lui anche dei corsi di yoga, sperimentiamo dei laboratori di lavorazione del cuoio, della cartapesta, della ceramica, il laboratorio presepiale. La sartoria, invece, è seguita da due detenuti cinesi che lavoravano in una fabbrica, bravissimi e molto veloci, che adesso insegnano agli altri come produrre oggetti utili alla vita del carcere, o i costumi per gli spettacoli teatrali ma anche cuori di stoffa da regalare alle mogli. In carcere si diventa molto romantici". È vero, noi abbiamo avuto in dono una rosa rossa da un detenuto, il più bravo a realizzare fiori in carta di riso. Non profumerà, perché la vita in carcere non profuma come qualcosa di vero, cresciuto al sole e all’aria aperta, ma pur essendo inanimata è umana come le mani e la mente che l’hanno assemblata. Mani di cui non conosciamo la carriera criminale, per noi mani gentili. Si è rovesciata ancora una volta la percezione. Abbiamo sentito la frustrazione che si vive nel non poter garantire queste possibilità a tutte le sezioni del carcere, ce lo ha detto con chiarezza le Dottoressa Bonfrisco: "Sono le persone a fare il carcere, le attività sono una leva per la rinascita, un modo per tenersi impegnati, così come la possibilità di studiare si rivela importantissima per il cambiamento di chi fuori non è arrivato neanche a conseguire la terza media. Il regime aperto serve a questo, ma insieme servirebbe una vera alternativa quando si esce e si torna nella società. Bisognerebbe lavorare sulla certificazione delle competenze in carcere, aumentare i posti per detenuti lavoranti che ora sono soltanto trenta, fare corsi professionalizzanti con una maggiore frequenza, o comunque almeno rivedere la legge sulla contabilità che risale al 1931 e rende molto difficile la commercializzazione di quello che si produce in carcere, a meno che non si crei una cooperativa in appoggio". Qui c’è tutto il paradosso delle misure alternative, perché una vera alternativa fuori dalle mura del carcere non c’è. E non si riesce neanche ad essere autosufficienti. Mancano le opportunità, il lavoro non si dà ai delinquenti, ai criminali, che finiscono per tornare nello stesso ambiente da cui sono venuti, col rischio reale di reiterare il reato. Eppure cambiare non è impossibile, il nuovo padiglione lo dimostra e, come sottolinea il comandante Napolitano, nell’attesa che il modello possa estendersi, questo è uno stimolo per cui impegnarsi, un traguardo da raggiungere per riscattarsi, a cui i detenuti possono guardare. Abbiamo visto il mare, non ci crederete, ma c’era uno squarcio di scogliera. Atrani vista dal carcere di Bellizzi. Un volo sperato, un sogno, l’immagine perfetta di una libertà che sarà riconquistata a fatica, dolorosamente. È un murale realizzato dai detenuti, sembra un’evasione, tutto intorno alle case assolate e alle onde che si infrangono, ci sono le crepe di un muro spaccato con il martello. Un posto tranquillo in cui starebbero bene gli enormi velieri costruiti minuziosamente con gli scarti del legno. Una fuga mentale dai pensieri che affollano il cervello, da un passato di cui si ha paura. In mezzo ai volti sacri, alla riproduzione della Porta Santa, c’è una fede in più a cui appigliarsi, è un dipinto sul futuro, per riappropriarsi di un diritto giusto e necessario, quello ad esistere, come persone, lontane dalle violenze e dalla distruzione, fisica e morale. Chieti: ispezione di Orlando sul caso del musicista arrestato per le cure con la cannabis Il Dubbio, 2 agosto 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha disposto l’avvio di "accertamenti preliminari" sulla vicenda del pianista di Chieti Fabrizio Pellegrini, malato di fibromialgia, in carcere da due mesi per aver coltivato piante di marijuana a scopo terapeutico, e cioè per alleviare i dolori che gli derivano dalla malattia. Il guardasigilli ha chiesto inoltre una relazione al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un’iniziativa che per i Radicali italiani rappresenta "un segnale da salutare positivamente, anche come primo risultato dell’iniziativa nonviolenta lanciata da Andrea Triscuoglio e dagli altri compagni radicali di Foggia alla quale stiamo dando seguito con l’appello ?Una firma e un digiuno per Fabrizio Pellegrini e per tutte le vittime del proibizionismo’", come spiega il segretario di Radicali italiani Riccardo Magi. "Sono già oltre 150 da tutta Italia le adesioni al digiuno a staffetta, che proseguirà fino a quando le condizioni di Fabrizio, che nei due mesi di detenzione si sono ulteriormente aggravate, non saranno dichiarate incompatibili con il carcere come prevede la legge. Ricordiamo inoltre che il nostro appello è rivolto anche al presidente della Regione Abruzzo affinché intervenga per garantire l’effettiva applicazione della legge regionale in materia di cannabis terapeutica, secondo cui i farmaci sono a carico del servizio sanitario. In questo modo", nota Magi, "non potranno esserci nuovi casi Pellegrini". A lanciare un appello a Orlando era stata anche la senatrice abruzzese del Pd Stefania Pezzopane, che aveva chiesto "un intervento urgente" del ministro: "La vicenda di Pellegrini smaschera un’ingiustizia palese: il musicista ha tentato di coltivare la cannabis in casa per non ricorrere allo spaccio illegale, ora è nel carcere di Madonna del freddo in preda al dolore: non può assumere oppiacei, né altri antidolorifici a causa di allergie e intolleranze". Trieste: cimici in cella, qualcosa si muove Il Dubbio, 2 agosto 2016 La vicenda delle cimici da letto nel carcere di Trieste, segnalata a Il Dubbio dall’avvocata Maria Pia Maier, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trieste continua. Infatti, dopo la nota alla nota del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, del 29 luglio 2016, c’è da registrare la risposta di Silvia Della Branca, direttore della Casa Circondariale di Trieste. Nella sua nota la direttrice chiarisce che "da almeno un mese presso l’istituto di Trieste è stata lamentata la presenza di insetti, in un primo momento non meglio identificati, per i quali sono stati richiesti ed effettuati, da parte dell’Azienda per i Servizi Sanitari, ripetuti interventi di disinfestazione, che evidentemente non hanno sortito alcun effetto". La dottoressa Della Branca nella sua lettera, indirizzata al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e all’avvocata Maier, informa che "persistendo il problema, ed ipotizzando (a seguito di diligente ricerca sul web del Comandante del Reparto) potesse trattarsi di cimici da letto, questa direzione ha richiesto il sopralluogo di una ditta specializzata, che, intervenuta nella settimana corrente, ha confermato la natura degli insetti, proponendo una disinfestazione generale dell’istituto, il cui costo potrebbe aggirarsi tra i15.000 e i 20.000 euro". La direttrice precisa inoltre che "occorre chiarire, senza ombra di dubbio, che la situazione è sotto controllo e che il Provveditorato, solo oggi, attraverso la comunicazione dell’evento critico classificato come "medio", è stato informato. Al termine della procedura di quantificazione della spesa, in osservanza alle vigenti procedure contabili si chiederà allo stesso Provveditorato la risorsa necessaria per la completa sanificazione dell’istituto". Per tamponare la dirigente fa sapere che "al momento, pur in assenza di fondi, ho disposto un primo intervento urgente, finalizzato a sanificare i soli ambienti ove il fenomeno si è presentato recentemente. L’intervento è stato assicurato dalla ditta per il prossimo lunedì 1 agosto (ieri ndr) con probabile prosecuzione nella giornata di martedì 2 agosto". La dottoressa Branca conclude la sua nota con la speranza di "non essere costretti a chiedere l’evacuazione della popolazione detenuta e la valutazione di considerare necessario porre delle reti antigetto alle finestre, al fine di impedire che continui la deprecabile abitudine di lanciare cibo dalle stesse, avvicinando piccioni, gabbiani ed altri volatili che, in una località come Trieste, possono risultare portatori di tali cimici, oltre che di altri parassiti e insetti pericolosi quali, ad esempio, le zecche". Il Dubbio continuerà a tenere sotto controllo la situazione della Casa Circondariale di Trieste, nella speranza che le condizioni dei detenuti nelle nostre carceri sia la migliore possibile. Sondrio: partite in carcere, vince la solidarietà La Provincia di Sondrio, 2 agosto 2016 La sfida tra alcuni detenuti e i ragazzi degli oratori Un’esperienza positiva per tutti i partecipanti. Interessante iniziativa voluta dalla direttrice della casa circondariale di Sondrio Stefania Mussio e dal cappellano della struttura don Ferruccio Citterio: in questi pomeriggi d’estate i detenuti hanno potuto sfidare nel piccolo cortile in cemento all’interno del carcere alcuni ragazzi del capoluogo. Sono andate in scena due sfide, nella prima i ragazzi di alcuni oratori cittadini sono riusciti a sconfiggere i detenuti, mentre nella seconda è arrivato il pronto riscatto. Ovviamente, però, gli obiettivi dell’iniziativa, resa possibile anche dall’impegno dell’educatrice Maria Antonietta Tevere Maellaro e da tutto il personale in servizio nella casa circondariale del capoluogo, andava molto al di là dell’aspetto più puramente agonistico. I detenuti hanno infatti avuto l’opportunità di divertirsi dedicandosi a uno sport e una attività che li appassiona confrontandosi con i ragazzi. E anche chi non è sceso in campo per giocare non è rimasto nel la sua cella, ma si è accomodato a "bordo campo" per tifare e incitare i gioca tori. L’esperienza è stata molto positiva anche per i ragazzi che hanno varcato la soglia del carcere per sfidare i detenuti. Dopo la partita, peraltro, le chiacchiere sono proseguite sempre nel cortile dove i giocatori si sono rifocillati con pizza e bibite prima di salutarsi con l’impegno e la speranza che altre partite possano essere giocate presto. Sorveglianza, ecco le aziende più potenti del mondo di Stefania Maurizi L’Espresso, 2 agosto 2016 Una Ong britannica ha realizzato il primo "censimento" delle società che offrono tecnologie per intercettare telefoni e computer, sistemi biometrici, telecamere. In assoluta discrezione e talvolta facendo affari con governi che violano i diritti umani. Alcune sono italiane. Operano nell’ombra. Perché se è vero che tutti gli affari prosperano nella discrezione, è ancora più vero per questo tipo di affari spesso controversi. Ormai, la domanda esplode e il business è florido: in una società sempre più terrorizzata e che chiede sicurezza, a fare la parte del leone sono proprio le aziende della sorveglianza. Offrono tecnologie per intercettare telefoni e computer, sistemi biometrici di identificazione, telecamere di ogni tipo, soluzioni per sorvegliare i social network. Fanno affari con governi, forze dell’ordine e servizi segreti. Ed è vero che spesso hanno siti web accessibili a tutti, come ogni impresa che deve avere un minimo di visibilità per stare sul mercato, ma mantengono comunque un basso profilo. Ora, però, a esporli è un database accessibile a tutti e ricercabile per parole chiave in cui sono mappate 528 società della sorveglianza, che operano in paesi che vanno dall’Italia agli Stati Uniti, dalla Francia all’Inghilterra. Ogni impresa viene "schedata" registrandone il nome, l’indirizzo, il tipo di tecnologie che offre e, quando disponibili, anche informazioni sulle esportazioni all’estero che ha effettuato. A crearlo è stata Privacy International, una Ong con sede a Londra, che da anni denuncia gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate attraverso queste tecnologie, e l’organizzazione Transparency Toolkit, specializzata nell’uso del software libero per assemblare e analizzare dati. Entrambe hanno individuato e mappato le 528 aziende partecipando a eventi blindati come le fiere specialistiche per le imprese della sorveglianza e degli armamenti - tipo Iss World e Milipol - e utilizzando fonti aperte come gli articoli della stampa e le informazioni dalle camere di commercio. Poiché le fiere di settore si rivolgono soprattutto a chi fa intercettazioni delle comunicazioni, questa tipologia di aziende è la più rappresentata nel database, a scapito di chi vende videosorveglianza o sistemi biometrici e di informatica forense. Diciotto sono i nomi delle aziende italiane che si trovano nel database, costruito in parte anche grazie alle rivelazioni di WikiLeaks sugli "Spy Files", che nel 2011 misero per la prima volta questa industria, che tanto ama la discrezione, sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Da tempo i detective delle Nazioni Unite indagano sulla vendita di tecnologie e armamenti al regime sudanese. Tra le aziende finite nel mirino c’è la Hacking Team. Ma il documento, che doveva essere reso pubblico, non ha mai visto la luce Per l’Italia si va da giganti come Finmeccanica a società arcinote come la Hacking Team e Area Spa, finite nei media internazionali per i loro affari con regimi tipo il Sudan (la Hacking) e la Siria (Area Spa), a società meno famose, come la Endoacustica di Santeramo in Colle, Bari, che commercializza di tutto: dai sistemi per vedere attraverso i muri alle tecnologie per le intercettazioni, ma anche telefoni che promettono di essere "stealth", ovvero invisibili e capaci di sfuggire alle intercettazioni. "Innova" di Trieste offre sofisticati sistemi di sorveglianza e analisi dei dati a supporto delle forze dell’ordine e dell’intelligence, ma è molto meno generosa di Endoacustica nel presentare la propria mercanzia e spiegarne i meriti, Gr Sistemi di Milano non offre solo tecnologie per penetrare nei computer, ma anche soluzioni biometriche per il riconoscimento facciale di chi si presenta ai gate di controllo e di chi ha accesso a banche dati molto delicate, nonché tecnologie per il monitoraggio acustico degli ambienti esterni e interni, in modo da "riconoscere, classificare e localizzare suoni associati a situazioni di pericolo". Midland, con sede a Reggio Emilia, realizza dei sofisticati ricetrasmettitori ai popolari baracchini, ma anche sistemi per il tracciamento video e audio utilizzabili nelle operazioni di intelligence e controspionaggio. " Spei 2000 " di Milano, tra le varie soluzioni per le intercettazioni, offre apparecchi sia digitali che analogici, capaci di sfruttare "tecnologie di modulazione criptata non convenzionali che riducono al minimo le possibilità di individuazione in caso di bonifica ambientale". Le diciotto aziende italiane non esauriscono tutta la lista degli operatori del settore, ma costituiscono un punto di partenza per iniziare a monitorare imprese che è vero che permettono di intercettare e sorvegliare mafiosi, criminali e terroristi, ma sono anche all’origine di truci violazioni dei diritti umani di dissidenti politici, attivisti, giornalisti. Il lavoro di ricerca di Privacy International e Transparency Toolkit ricostruisce la lunga catena di abusi che ha caratterizzato questa industria a partire dal 1979, quanto l’Uganda era sotto il tallone del dittatore Idi Amin: nelle sue camere della tortura finirono sterminati centinaia di migliaia di cittadini, attivisti, oppositori politici, individuati e spiati attraverso la tecnologia per la sorveglianza venduta al regime ugandese dall’azienda inglese "Security Systems International Ltd". Mentre la proposta di nomina di Marco Carrai a consulente del premier per la sicurezza fa discutere destra e sinistra, una proposta di legge della piddina Maria Gaetana Greco punta di nuovo a far passare l’utilizzo del software spia, cancellato dal decreto antiterrorismo un anno fa dopo la mobilitazione popolare. Ma senza tornare così indietro nel tempo, la pubblicazione delle email della Hacking Team da parte di WikiLeaks ha fatto emergere un quadro a dir poco preoccupante: protetta dai nostri servizi segreti e dai burocrati del Ministero dello Sviluppo economico, che, stando alla corrispondenza interna filtrata, si preoccupavano perfino di dare una mano all’azienda a depotenziare giornalisti e media scomodi, come il nostro giornale, Hacking Team ha potuto vendere le sue tecnologie per la sorveglianza a paesi che hanno standard a dir poco tetri in materia di diritti umani: dall’Etiopia al Bahrein, dall’Egitto al Sudan. Gli Stati Uniti risultano essere il paese con il maggior numero di aziende presenti nel database: 122 sono le imprese americane della sorveglianza schedate, una cifra che dà una misura degli investimenti del Pentagono nel settore, considerando che la ricerca e lo sviluppo di questo tipo di tecnologie è spesso finanziata dal Dipartimento della Difesa americano, che poi ricorre in modo massiccio ai contractor privati. Senza i supercomputer di aziende come la Narus, inizialmente di proprietà della Boeing e poi dell’azienda di cyber security Symantec, la National Security Agency (Nsa) non avrebbe potuto intercettare le comunicazioni del gigante della telefonia americana AT&T, e Narus è una delle aziende che ha permesso all’Egitto del regime di Mubarak di sorvegliare la popolazione nei giorni più truci della repressione. Anche il Regno Unito è un paradiso per le aziende della sorveglianza, con 104 imprese schedate, che vendono le loro soluzioni in tutto il mondo, ma perlomeno il Regno Unito ha introdotto strumenti di minima trasparenza di cui in Italia non c’è traccia, neppure dopo scandali come quello della Hacking Team. Il governo inglese ha iniziato infatti a rendere note informazioni notoriamente delicate, come il numero di esportazioni effettuate e i paesi a cui sono vendute queste tecnologie: nel 2015, secondo quanto riporta Privacy International, l’Inghilterra avrebbe bloccato la vendita di soluzioni per le intercettazioni a paesi come l’Etiopia e il Pakistan per il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Israele e Germania, infine, sono paesi fortemente presenti nel database, con 27 e 41 aziende rispettivamente, ma se si considera che Israele è un paese di appena 8 milioni di abitanti, la proporzione è piuttosto impressionante: risulta avere 0,33 aziende per la sorveglianza ogni 100mila abitanti, contro le 0.04 degli Stati Uniti. E purtroppo, come ha documentato Privacy International, anche Israele ha esportato queste tecnologie verso paesi caratterizzati da gravi violazioni dei diritti umani, come l’Uzbekistan o il Kazakistan. Privacy International e Transparency Toolkit analizzano che di 528 aziende presenti nel database, il 75 percento si trova in paesi Nato e quattro dei cinque paesi in cui queste imprese hanno sede sono al top della classifica degli esportatori di armi, secondo le statistiche del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla Pace di Stoccolma. Edin Omanovic, ricercatore di Privacy International, nel presentare questo database spiega che "la sorveglianza operata dallo Stato è uno dei temi più importanti e che più polarizza l’opinione pubblica, eppure la segretezza che la circonda fa sì che il dibattito su questo tema non sia fondato su fatti solidi. Capire il ruolo dell’industria della sorveglianza, e come queste tecnologie sono commercializzate e usate nel mondo, è cruciale non solo per avere un dibattito informato, ma anche per far sì che questa industria renda conto a qualcuno e per creare sistemi di controllo e regolazione efficaci". M.C. McGrath di Transparency Toolkit, che ha realizzato il database, aggiunge che raccogliere dati e documenti in un unico archivio permette di "avere uno dei più completi quadri della tecnologia della sorveglianza venduta nel mondo". E conclude: "speriamo che semplificare la ricerca su questo tipo di industria, schermata dal segreto, aiuterà i giornalisti, gli attivisti, i ricercatori, i legislatori e chiunque sia preoccupato per la sorveglianza a rispondere in modo mirato a questo problema". Sbarcano in Italia 93 profughi su 100, è l’unica "strada" rimasta nel Mediterraneo di Leonard Berberi Corriere della Sera, 2 agosto 2016 I dati dell’Alto commissariato Onu. Bloccata la rotta spagnola, ridotti drasticamente i flussi nel corridoio balcanico, a luglio quasi tutti i migranti sono arrivati nella Penisola. Sempre più destinazione Italia. Anzi: ormai quasi soltanto il Belpaese. Azzerata la rotta spagnola (nelle sue due porzioni nordafricane di Ceuta e Melilla), ridotto al lumicino il corridoio ellenico-balcanico, l’unica "strada" percorribile resta il nostro Sud. I numeri - Lo confermano le elaborazioni sui dati forniti dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati: preso il totale dei migranti sbarcati in Europa nel mese di luglio novantatré su cento sono stati registrati in Sicilia e Calabria, in Puglia, Sardegna e Campania. In Italia, appunto. Il resto in Grecia. Mentre la Spagna ha toccato la quota record di zero. Numeri che però si inseriscono, calcola il dossier del nostro ministero dell’Interno, in un trend costante rispetto allo stesso periodo del 2015: nei primi sette mesi di quest’anno è arrivato soltanto lo 0,02 per cento in più (che diventa +6,9% se si torna indietro allo stesso arco temporale del 2014). Lo spartiacque - Insomma: poche decine. Ma con proporzioni stravolte - a livello continentale - per l’accordo tra Unione Europea e Turchia sulla gestione dei migranti. E infatti a seguire le curve storiche sugli sbarchi in Italia e in Grecia queste s’intrecciano in un momento preciso che rappresenta anche il momento del sorpasso sui vicini ellenici: 20 marzo 2016, la data spartiacque per decidere chi ha il diritto di restare e chi invece deve essere riconsegnato alle autorità di Ankara. Il crollo della Grecia - Dal 1° gennaio al 31 luglio 2016 sono arrivati via mare in Europa 256.319 migranti: di questi 253.843 - cioè il 99 per cento - ha messo piede sulle coste elleniche e italiane. Se in assoluto la Grecia mantiene per quest’anno il primato con poco più di 160 mila arrivi, a spulciare tra le tabelle fornite dagli organismi internazionali si scopre che di questi oltre 151 mila sono stati registrati nei primi tre mesi dell’anno, cioè prima dell’entrata in funzione dell’accordo con i turchi. Da allora i nuovi ingressi sono crollati fino a novemila in quattro mesi. In parallelo in Italia è successo l’esatto opposto: dopo un avvio di 2016 "modesto" con meno di 19 mila migranti registrati nei centri nel periodo gennaio-marzo, altri 75 mila sono sbarcati nei successivi quattro mesi, stando sempre sopra le ventimila unità mensili da giugno. Il sorpasso - A questi, come ricorda il documento del Viminale, bisogna aggiungere altre 672 persone che hanno "inaugurato" le statistiche di agosto. Se le dinamiche dei flussi procedono in questo modo e con queste proporzioni, a novembre l’Italia potrebbe arrivare a superare - anche in termini assoluti - la Grecia. L’accoglienza - L’altro capitolo dell’emergenza sbarchi è l’accoglienza. Che, come nota il ministero dell’Interno, al 1° agosto (cioè ieri) registra 140 mila migranti ospitati dei quali la maggior parte (circa 105 mila) nelle strutture temporanee. La Lombardia - con 18.336 unità - è la regione che in questo momento ne accoglie di più (pari al 13 per cento del totale nazionale), seguita dalla Sicilia (10 per cento), quindi Campania e Veneto (circa l’8 per cento). Record anche per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati sbarcati nel nostro Paese: se nel 2014 sono stati 13 mila e nel 2015 12.360, dal 1° gennaio al 14 luglio 2016 - quando mancano ancora cinque mesi e mezzo per fare i confronti effettivi anno su anno - ce n’erano già 11.520. Gran Bretagna: "io, arrestato per sbaglio, picchiato e rinchiuso due giorni senza cibo" di Giusy Andreoli Il Mattino di Padova, 2 agosto 2016 Abano Terme: tornato casa dopo 4 mesi, il prof dell’Alberghiero di Abano scambiato per un criminale racconta l’incubo vissuto a Londra. Prime ore a casa dopo quattro mesi di incredibile odissea per Adnan Al Moussa, docente di Diritto ed Economia all’istituto alberghiero Pietro d’Abano di Abano Terme e incarcerato in Inghilterra con quattro capi d’accusa: detenzione di tre passaporti falsi, che comportano un capo d’accusa ciascuno, e facilitazione all’immigrazione clandestina. Ieri alle 13 finalmente Al Moussa ha potuto riabbracciare la moglie e i tre figli, due ragazze e un bambino. Posate le valigie in casa, il professore ha cominciato di getto a raccontare com’è finito suo malgrado fra gli ingranaggi di una complicata vicenda internazionale, focalizzando nella narrazione liberatoria i mesi d’inferno trascorsi in terra inglese senza la possibilità di poter comunicare con alcuno. "In marzo, dopo che una bomba in Siria aveva distrutto la sede della sua attività, una mia nipote ha deciso di venire in Italia con la propria figlioletta di 7 anni. Erano gli unici due parenti che ancora erano rimasti in Siria dopo che mia sorella e tutti gli altri si erano stabiliti in Inghilterra", dichiara Al Moussa, "le due volevano ricongiungersi alla famiglia, ma in Siria non c’è l’ambasciata inglese e dunque era impossibile ottenere il visto necessario all’immigrazione. Era stato loro detto che se avessero ottenuto il visto per l’Italia, da qui non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a raggiungere l’Inghilterra". Nipote e figlioletta hanno così fatto richiesta del visto per il nostro paese, ottenendolo dopo otto mesi. Una volta in Italia la nipote e la sua bambina sono state ospitate in casa dello zio Adnan a Ponte di Brenta. Luogo dove pochi giorni dopo, volendo riabbracciare subito la figlia che non vedeva da anni, arriva da Londra anche la madre, sorella del professore. Un breve periodo tutti assieme a Ponte di Brenta e poi la decisione di raggiungere l’Inghilterra. Parte anche Al Moussa, che da sette anni non vedeva i parenti inglesi. "Il 23 marzo io, mia nipote e la figlioletta ci imbarchiamo al Marco Polo di Venezia", continua Al Moussa, "mia sorella si è invece voluta trattenere ancora qualche giorno a casa mia". Al check in Al Moussa e le nipoti si dividono per poi ritrovarsi sul medesimo volo. "In aereo mia nipote mi dà una busta e il cellulare e mi dice: consegnala ai miei quando saremo in Inghilterra. Pensando che fosse qualcosa di personale infilo il tutto nel borsello" prosegue Al Moussa. Cosa contenesse quella busta Al Moussa afferma di averlo scoperto solo all’arrivo, quando è stato bloccato dalle guardie di frontiera mentre la nipote con la bambina si dichiaravano rifugiate politiche e venivano avviate all’area di accoglienza dedicata. "Nella busta c’erano due passaporti, quelli di un’altra mia nipote e della figlia di quest’ultima, che hanno la stessa età delle due espatriate dalla Siria e si somigliano pure molto", spiega Al Moussa, "ma io non potevo saperlo". Fatto sta che all’aeroporto di Gatwick il professore viene arrestato senza spiegazione alcuna e portato in carcere a Brighton. "In aeroporto un’agente donna con una ginocchiata mi ha scaraventato sulla panchina e mi ha rotto l’orologio. Chiedo di contattare le autorità italiane, mi rispondono che l’Italia è un paese inaffidabile e pieno di mafiosi" racconta il professore "Allucinante, non avrei mai creduto che in paese europeo avrebbero trattato così un cittadino europeo. Mi hanno tenuto per due giorni senza mangiare né bere, trattato come il peggior delinquente e per 40 giorni non ho potuto comunicare con nessuno, mentre ho subìto l’invasione della mia privacy. Hanno visionato tutto ciò che era contenuto nel mio telefonino e nel mio pc, vedendo le foto di mia figlia mi hanno persino chiesto se ero pedofilo". Vane tutte le richieste di avvisare la famiglia, preso dalla disperazione, Al Moussa ha scritto una lettera alla Regina supplicandola di intervenire, almeno per i suoi figli per i quali lui è l’unica fonte di sostentamento. "Nel frattempo a chi chiedeva di me è stato risposto evasivamente che non stavo bene, così tutti mi hanno creduto in ospedale" afferma ancora "Solo dopo 53 giorni ho potuto avere una password per telefonare e così i miei sono venuti a conoscenza che ero stato arrestato". Al professore è stata assegnato una legale, che ha cercato di confutare le pesanti accuse formulate, pare, dalle guardie di frontiera, dal Ministero dell’Interno e dal Pm. Il procedimento è andato però molto a rilento. "A loro non importava nulla di me e della mia famiglia" accusa Al Moussa "per loro potevamo morire tutti. Per tre volte hanno tentato di riformulare le accuse che sono sempre state respinte dalla mia avvocatessa. In tre udienze non ho visto mai lo stesso Pm, e da parte dell’ambasciata italiana non ho avuto alcun aiuto. Mia figlia dall’Italia li ha interessati, ma senza esito. Più volte il mio legale mi ha detto che non avevano niente contro di me, ma che stavano cercando un qualsiasi appiglio per condannarmi". In carcere sono stati giorni duri per Al Moussa, rinchiuso assieme a un cittadino turco in una cella di tre metri con una finestrella, con pasti immangiabili ma con possibilità di acquisto di alimenti extra una volta alla settimana, pagando cifre molto alte. Nel ripensare a quei momenti al professore vengono le lacrime agli occhi. "Per passare le ore leggevo la Bibbia, e devo ammettere che i compagni di carcere e alcune guardie sono stati gentili e comprensivi". Nella seconda settimana di luglio Al Moussa ha avuto un crollo ed è stato portato d’urgenza in ospedale e curato. Il processo con la giuria intanto era stato fissato per il 18 luglio. "Ma non so per quale motivo lo rinviavano giorno dopo giorno", dice Al Moussa, "finalmente il 26 mi hanno portato in Tribunale e con mia grande sorpresa ho trovato solo una giudice che si è dimostrata comprensiva. L’avvocato poi mi ha dato la notizia: "Ti liberano subito attribuendoti una condanna che non è una vera condanna, 6 mesi con la sospensiva. Se non commetti reati per 6 mesi il reato si estingue. Credo che si siano voluti tutelare per evitare una possibile richiesta di risarcimento. Ho accettato subito, non ne potevo più, volevo tornare a casa". Adesso però Al Moussa si trova ad affrontare - un’altra grossa grana: il licenziamento. "Sono disperato", conclude, "l’Istituto è stato avvisato della mia assenza da mia moglie e da mia figlia con la richiesta che mi venisse concesso un periodo senza stipendio e invece mi ritrovo licenziato per assenteismo". Turchia: Ankara alza la voce con l’Ue, ma i profughi aiutano l’economia del paese di Carlo Lania Il Manifesto, 2 agosto 2016 Il presidente minaccia di far saltare l’accordo sui migranti, ma nel paese cresce il numero di imprese siriane. "In nessun caso la Germania o l’Europa devono farsi ricattare dalla Turchia". Usa toni forti il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel per rispendere all’ultimatum del ministro degli esteri turco Mevluet Cavusoglu, che domenica ha minacciato di far saltare l’accordo sui migranti se l’Unione europea non approverà entro ottobre la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. "Se ci sarà o meno, dipenderò solo dalla Turchia" ha replicato ieri Gabriel, ricordando come Ankara non abbia ancora soddisfatto tutti e 72 criteri richiesti per procedere alla liberalizzazione. La tensione tra l’Europa e la Turchia torna a crescere. Seppure impegnato in una durissima repressione interna a seguito del mancato colpo di stato, Recep Tayyip Erdogan non manca di ricordare a Bruxelles gli impegni assunti con l’accordo del 18 marzo scorso e minaccia, pur senza dirlo esplicitamente, una nuova crisi dei migranti. Tanto che, parlando con un giornale austriaco, il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker ammette che l’intesa raggiunta a suo tempo con Ankara "è fragile", di più: "a rischio". L’Europa come al solito, è divisa. Ai toni duri della Germania (ai quali ieri ha fatto eco l’Austria) si contrappongono i fatti di Bruxelles che, in risposta a un’altra richiesta di Ankara, meno di una settimana fa si è affrettata ad aprire i cordoni della borsa impegnando 1,415 miliardi di euro a sostegno dei rifugiati siriani in Turchia, parte dei 3 miliardi promessi a Erdogan con l’accordo di marzo. La partita che si sta giocando è delicatissima. L’Ue è in imbarazzo perché la liberalizzazione dei visti sarebbe un importante riconoscimento politico concesso a Erdogan in un momento in cui il presidente turco sta applicando a man bassa la legge antiterrorismo che più volte, e inutilmente, l’Europa gli ha chiesto di modificare e come se non bastasse mentre propone di reintrodurre la pena di morte. Dall’altra parte Erdogan minaccia di rifarsi sui siriani, sapendo bene però che almeno una parte dei 2,7 milioni di rifugiati presenti nel paese (solo il 10% dei quali vive nei campi) rappresenta una ricchezza della quale non può più fare a meno. Dopo cinque anni trascorsi lontani dalle loro case a causa del conflitto e durante i quali hanno vissuto come profughi, molti siriani hanno infatti cominciato a integrarsi in maniera stabile nella società e nell’economia turca, contribuendo in maniera sostanziale alla crescita del paese. Basti pensare che nei primi tre mesi di quest’anno i soldi che hanno depositato nella banche ammontano a 1,2 miliardi di lire turche, l’equivalente di 360 milioni di euro. Una cifra pari al totale dei depositi del 2015 (nel 2012 ammontavano a 106 milioni di euro). Non solo. Secondo i dati forniti a giugno dal’Unione delle camere di commercio turche, delle 2.556 nuove imprese con partner stranieri avviate nei primi sei mesi di quest’anno, ben 1.007 hanno soci siriani (157 hanno partner iracheni e 159 tedeschi). 134 solo nel mese di giugno. Se a queste si aggiungono quelle aperte in maniera autonoma, si arriva a un totale che supera le 4.000 aziende, la maggior parte delle quali a Istanbul, città nella quale vivono più di 400 mila siriani. Nella provincia di Gazientep, invece, si è passati dalle tre aziende del 2010 alle attuali 600. E si parla, ovviamente, solo di quelle dichiarate. I settori in cui gli ex profughi investono maggiormente vanno dall’immobiliare alla ristorazione, senza trascurare il tessile, i trasporti e i viaggi. L’importanza di questa presenza l’ha recentemente riportata il Financial Times ricordando come la società elettrica CLK Bogazici Elektric stia inserendo nei suoi call center personale arabofono in grado di rispondere alle numerose richieste dei nuovi clienti. Clienti preziosi, "forza lavoro qualificata" per usare le parole di Erdogan che nei primi sei mesi di quest’anno ha concesso 5.502 permessi di lavoro ad altrettanti siriani, alla quale il presidente non intende rinunciare. Per questo nei giorni scorsi Erdogan è tornato a parlare della possibilità di concedere la cittadinanza turca a una parte dei rifugiati. "Non c’è motivo di esitare", ha detto. "In questo paese vivono 79 milioni di persone in 780 mila km quadrati. La Germania, con la metà della grandezza, ne ha attualmente 85 milioni". Il ministero dell’Interno sta già lavorando a una regolamentazione che consenta ad almeno 350 mila siriani di diventare cittadini turchi, decisione vista dall’opposizione come una manovra utile a Erdogan per costruirsi un bacino elettorale favorevole in vista di un possibile referendum sul presidenzialismo. Ma anche un provvedimento necessario alla Turchia per invogliare la borghesia siriana a continuare a investire nel paese, evitando in questo modo che emigri di nuovo. E lasciando così all’Europa tutti gli altri rifugiati. Turchia: "Si va verso un regime oppressivo che mette fuorilegge l’opposizione" di Simone Pieranni Il Manifesto, 2 agosto 2016 È il primo viaggio di politici europei dopo il tentato golpe. "Seguiremo le vicende giudiziarie dell’Hdp". Nei giorni scorsi una delegazione di Sinistra italiana si è recata a Istanbul: si è trattato del "primo viaggio in Turchia di una delegazione europea, a qualche giorno dal colpo di stato e dal successivo contro golpe del regime di Erdogan". I delegati italiani hanno anche incontrato Selahattin Demirtas, il leader della formazione politica di sinistra e filo kurda dell’Hdp. Il capogruppo alla Camera di Sinistra italiana Arturo Scotto ha raccontato al manifesto le impressioni e le prime valutazioni del viaggio, alla luce dell’attuale situazione politica turca. "La cosa che ci sembra evidente in queste ore - racconta Scotto - è che la stretta non si è fermata. Questa impressione è stata confermata da tutti quelli che abbiamo incontrato: sindacati, organizzazioni che ci occupano di diritti umani, e soprattutto i kurdi. Con l’Hdp in particolare, che oggi rappresenta forse l’unica opposizione all’Akp di Erdogan, faremo un gemellaggio, i 31 deputati di Si-Sel faranno una sponsorship rispetto a ciascun deputato Hdp: ciascuno seguirà un singolo dossier rispetto alla vicenda politica e giudiziaria di questi deputati. Loro hanno delle vicende giudiziarie aperte". E del resto Erdogan già prima del fallito colpo di stato aveva spinto per togliere l’immunità parlamentare ai deputati con un chiaro riferimento proprio all’opposizione di sinistra. "Demirtas - prosegue Scotto - ha raccontato che per quello che riguarda il suo caso, nel corso dell’ultima settimana, da quando c’è stato il golpe, sono aumentate le notifiche dalla magistratura, rispetto a casi in cui era coinvolto e oggi Erdogan conferma che mentre farà una remissione delle querele per le forze dell’opposizione, questa decisione non vale per l’Hdp. Per questo abbiamo costruito questa sponsorship e seguiremo le vicende giudiziarie politiche dei deputati dell’Hdp". Di ritorno dalla Turchia non si può non chiedere quale sia l’atmosfera respirata a Istanbul in questi giorni, poco tempo dopo il tentato golpe e la durissima reazione di Erdogan. "La scena del paese è impressionante, davanti a tutte le caserme militari ci sono autocompattatori, piloni di cemento costruiti in modo artigianale per blindare l’esercito dentro le caserme. Ogni sera perfino all’aeroporto ci sono manifestazioni dei pro Erdogan, fino a qualche giorno fa a piazza Taksim tutte le sere ci sono manifestazioni che durano fino a tarda notte con bandiere turche e canti patriottici, e discorsi alternati tra politici imam che parlano a difesa della democrazia turca. C’è un consenso autenticamente popolare nei confronti di Erdogan, da parte dei ceti più deboli, più esposti e di quelli che beneficiano del welfare dell’Akp che è un welfare che ha caratteristiche clientelari, a partire dalla distribuzione delle green card, card per accedere a servizi fondamentali. La città è blindata, ferma, e si nota l’assenza totale di turisti". Infine, c’è il tempo per una riflessione e una presa di posizione politica: "La Turchia sta scivolando verso un regime oppressivo e autoritario che mette fuorilegge ogni forma di opposizione. Abbiamo incontrato i sindacati, che vivono una forte difficoltà. È importante da questo punto di vista mantenere le relazioni con i lavoratori a cominciare dal prossimo primo maggio. Abbiamo incontrato gli avvocati di Amnesty e Human Rights Watch e hanno denunciato la condizione di vita in carcere e sparizioni simili a quanto accade in Egitto. Inoltre hanno specificato che non si hanno più notizie - dal 7 giugno - di Ocalan che da quel giorno non scrive più ai suoi avvocati. Chiediamo una presa di posizione netta rispetto all’accordo sui rifugiati, nei confronti di un paese che non rispetta i diritti umani neanche del proprio popolo". Raid aerei in Libia, da Washington un segnale anche politico di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2016 I raid americani in Libia contro l’Isis, i primi dei caccia Usa dal 2011, hanno un valore politico oltre che militare. Sono un deciso appoggio al governo di unità nazionale di Fayez al Serraj, compattano almeno una parte delle fazioni libiche. E forse mandano un messaggio obliquo alla Turchia di Erdogan, in aperta frizione con la Nato. Il quadro è assai complicato, più di quanto non dicano i bollettini di guerra. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina diceva Andreotti, grande amico di Gheddafi, che negli anni ‘70 salvò da un golpe inglese, ma questa operazione militare americana, sia pure giustificata dalla lotta al terrorismo dell’Isis, appare a prima vista come uno scacco al governo di Tobruk, che non ha mai accettato finora quello di unità nazionale a Tripoli. Non è neppure un buon segnale per il generale Khalifa Haftar, che voleva diventare il liberatore dal Califfato per proporsi come l’unico pretendente al potere. Non lo è nemmeno per i suoi alleati, il generale egiziano Al Sisi e la Francia, che qualche giorno fa ha dovuto ammettere la perdita di alcuni uomini delle forze speciali caduti al fianco delle truppe di Haftar. L’Egitto non ha mai rinunciato alle mire in Cirenaica e ad avere il controllo della frontiera orientale, la Francia vede nella Libia una cassaforte energetica e un Paese chiave per estendere la sua influenza sotto il Sahel. I bombardamenti coincidono con una fase di imbarazzo per le operazioni della Francia in Libia. Il sostegno al controverso generale Haftar, nemico numero uno di Tripoli, ha reso evidente la politica del "doppio binario" intrapresa da Parigi nell’ex colonia italiana: una guerra neppure troppo sotterranea condotta con un nemico dei jihadisti ma anche fiero avversario del governo della Tripolitania, in netto contrasto con il riconoscimento di Parigi dell’autorità del governo di unità nazionale. Ecco perché la lotta al Califfato in Libia, come del resto in Siria, risponde a logiche di guerre per procura - oltre che di aggrovigliati conflitti interni - lanciate in base alle promesse di accordi economici petroliferi. L’Occidente rischia di ricreare in Libia lo stesso scenario che si era delineato nella Somalia del 1991 dopo la caduta del dittatore Siad Barre. I Paesi occidentali hanno scelto di appoggiare militarmente vari signori della guerra libici secondo le convenienze politiche e le promesse economiche ricevute dalle diverse fazioni, in primo luogo riguardo le immense risorse petrolifere e di gas. Una tattica che potrebbe rendere eterno il conflitto nel Paese nord africano, la stessa utilizzata in Somalia dal 1991 al 1993 e che vanificò ogni tentativo di pacificazione. I raid Usa sono stati accompagnati da un’altra notizia significativa. La National Oil Corporation libica (Noc) ha accolto con favore l’annuncio da parte del Consiglio di presidenza di Tripoli della "riapertura senza condizioni" dei porti orientali sotto il controllo delle guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran. Di fatto le milizie del comandante avevano in pugno tre terminal ( Ras Lanuf, Sidra e Zueitin) rimasti chiusi per quasi quasi due anni. Insieme ai fondi stanziati da Tripoli, questo significa che la Noc potrebbe riportare entro fine anno la produzione a 900mila barili di petrolio. Il crollo della produzione ha avuto per la Libia un costo evidente: decine di miliardi di dollari di mancati introiti e la disintegrazione del tessuto sociale sostenuto dai sussidi distribuiti con i proventi dell’oro nero. La ripresa dell’export potrebbe avere un effetto stabilizzante quanto e forse più dei raid americani. Secondo i dati forniti da Eunavfor Med tra il 30 e il 50% per cento del Pil della Tripolitania è generato dai traffici di immigrati verso l’Italia, un traffico che sostiene indirettamente lo stesso governo di Al Sarraj. La possibile fine dell’Isis e il ritorno del petrolio libico sui mercati potrebbero diventare due ottime notizie anche per l’Italia. Libia: l’Italia si prepara alla campagna aerea, fornirà basi, velivoli e uomini di Carlo Bonini La Repubblica, 2 agosto 2016 Le bombe di ieri "sono solo l’inizio". L’offensiva potrebbe durare settimane. E i partner della coalizione sono chiamati a fornire sostegno. Cinque mesi dopo l’ultimo colpo sferrato in quel di Sabrata, i caccia statunitensi tornano dunque nei cieli libici per colpire obiettivi nella città che fu la tomba di Gheddafi ed è ora la testa di ponte di Daesh nel cuore del Mediterraneo. È un’apertura di "gioco" sollecitata da Tripoli, condotta per mano americana e che prelude al pieno e progressivo coinvolgimento militare dell’intera coalizione di cui il nostro paese fa parte. A bombe sganciate, le notizie, del resto, sono due. La prima. Che lo strike, per dirla con le parole di Peter Cook, portavoce del Pentagono, confermate ieri sera da fonti della nostra Difesa, "è solo l’inizio" di una campagna aerea "dagli obiettivi selezionati " che potrebbe durare giorni o settimane. Che il numero e l’intensità delle prossime incursioni avranno quale loro unica variabile il significativo "prosciugamento" della sacca di resistenza che le milizie di Daesh ("Intorno ai mille effettivi. Diciamo diverse centinaia di uomini", secondo le stime del Dipartimento della Difesa Usa) oppongono da settimane all’esercito regolare libico che stringe d’assedio la città. E che, dal maggio scorso, hanno imposto un significativo prezzo di sangue (350 morti e 2.000 feriti). La seconda. Che se è vero che ieri il nostro paese non è stato coinvolto né logisticamente, né militarmente nel raid, dal momento che gli aerei americani non si sono alzati da basi sul nostro territorio, né è stato chiesto un appoggio aereo della nostra aviazione, questa, di qui in avanti non sarà la regola. Ma l’eccezione. Perché, come spiegano fonti del nostro Governo, "la prossima volta la richiesta di Tripoli potrebbe essere fatta direttamente all’Italia ovvero l’Italia potrebbe essere chiamata a svolgere un ruolo". La prossima volta, insomma, i caccia potrebbero levarsi in volo non dal ponte di una portaerei della Us Navy, come accaduto ieri, ma dalle piste di Sigonella o di Aviano. Se necessario anche con il coinvolgimento operativo dei nostri aerei. Perché questo prevedono gli accordi che il nostro paese ha stretto in sede internazionale e perché quello del "sostegno militare" su richiesta del Governo del premier Serraj è il format di legittimità internazionale per il quale il nostro paese si è speso nei mesi infernali che hanno preceduto la formazione del Governo di unità nazionale libico e in base al quale sono stati faticosamente definiti il perimetro e le modalità di "ingaggio" militare della coalizione che ha deciso di sostenerlo. Quella del nostro possibile e imminente coinvolgimento militare in operazioni aeree nei cieli libici - sia questo sul piano logistico, ovvero strettamente operativo - è una verità elementare su cui, come dimostra anche il testo "composto" della nota diffusa ieri sera dalla Farnesina, Palazzo Chigi non ha evidentemente alcun interesse a porre alcuna enfasi. E questo per ovvie ragioni. Che hanno a che vedere con una responsabile decisione di non sovraesporre il nostro paese in un momento complicatissimo come quello che si è aperto in Europa con il Ramadan di sangue cui Daesh ha chiamato gli islamisti radicali in Europa. Tuttavia, questo non cambia i termini della questione politica e militare che l’Italia ha e avrà di fronte nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. E rispetto alle quali non esiste evidentemente un piano B. Non fosse altro perché - al netto delle contingenti decisioni militari assunte dal Governo libico e del rispetto letterale delle procedure con cui Tripoli ha contestualmente informato Washington e Roma della sua richiesta di intervento su Sirte - c’è un dato che arriva dal terreno che spiega la ragione dell’avvio dei raid su Sirte e la decisione del governo di Serraj di chiedere formalmente l’intervento militare della coalizione. Che una fonte qualificata della nostra intelligence spiega così: "I bombardamenti cominciati ieri servono innanzitutto a togliere un po’ di vapore dalla pentola a pressione libica. Perché hanno un immediato e indiscutibile valore tattico nelle operazioni di teatro. Tuttavia, la scommessa è che ne abbiano presto uno anche sul piano strategico, perché mai come in questo momento abbiamo segnali di una crescente difficoltà militare di Daesh anche in Libia". Circostanza questa che, non a caso, ha convinto Parigi negli ultimi due mesi (apparentemente fuori da ogni protocollo di intesa con Tripoli) a disporre l’impiego nel deserto libico di unità speciali per operazioni clandestine contro Daesh. Come dimostrato, il 17 luglio scorso, non lontano da Bengasi, dalla morte di tre commando nell’abbattimento dell’elicottero su cui erano in volo. Più di ogni altro paese della coalizione, la Francia di Hollande e la sua attuale dottrina antiterrorismo muove infatti dalla convinzione che la "minaccia" mossa da Daesh sia innanzitutto "esterna" e vada dunque neutralizzata lì dove si manifesta in modo "simmetrico". Dunque, nel teatro di operazioni siriano e iracheno e, a maggior ragione, in Libia. Non fosse altro per la vicinanza geografica alle coste meridionali dell’Europa e per la potenziale forza di contagio del Califfato nell’area del Maghreb. Una convinzione che i bombardamenti di Sirte in qualche modo ora confortano e che, da ieri, rendono la Francia meno sola nelle sue operazioni sull’altra sponda del Mediterraneo. Giappone: la strage silenziosa del "karoshi", migliaia i decessi per "sfinimento" di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 2 agosto 2016 Anche in Giappone esiste l’espressione "ammazzarsi di lavoro", solo che nella nazione del Sol levante non si tratta di una colorita iperbole ma della crudele realtà. La cultura atavica del sacrificio, l’ossessione di compiacere il proprio padrone, la competizione sfrenata, la mancanza di tempo libero (15 giorni di ferie in 12 mesi), tutti elementi che una società compressa come quella giapponese possono trasformare l’esperienza del lavoro in un vero e proprio incubo. Che a volte si conclude con una prematura morte. Un’inchiesta pubblicata dal Washington Post illumina il fenomeno del cosiddetto karochi che riguarda quelle migliaia di persone che ogni anno muoiono letteralmente di "sfinimento", arresti cardiaci, ictus, ma anche suicidi per aver consacrato troppo tempo e concentrazione al proprio impiego. Una piaga sociale in espansione tanto che oggi il karoshi è ufficialmente riconosciuto come causa di decesso. Il quotidiano statunitense mette a fuoco il caso del 34enne Kiyotaka Serizawa, deceduto lo scorso anno: lavorava 90 ore a settimana come supervisore per un’impresa che si occupa di manutenzione di condomini a Tokyo. La sua giornata lavorativa era pazzesca, dicono i suoi genitori, raccontando che nel passaggio da un ufficio all’altro Kiyotaka ogni tanto li passava a trovare e si addormentava sul divano, anche per pochi minuti: "Cadeva in un sonno così profondo che alcune volte controllavamo se il suo cuore batteva ancora prima di svegliarlo". Kiyotaka è stato ritrovato senza vita all’interno della sua auto parcheggiata nella provincia di Nagano, poco lontano dalla località dove era andato in campeggio con la famiglia. Dall’inizio degli anni 70 in Giappone si è generalizzato l’utilizzo degli straordinari, il sistema più diretto per aumentare il proprio salario in un Paese che ha un costo della vita molto elevato. Gli stessi sindacati hanno sempre lottato per rafforzare il reddito, ma non si sono mai occupati troppo della riduzione dell’orario. "Oggi la media lavorativa giornaliera è di 12 ore, non è stabilito dalla legge ma i salariati vivono questi ritmi come qualcosa di obbligatorio", spiega al Post Koji Morioka, professore all’Università di Kansai. Circa il 10% degli impiegati nipponici lavora 60 ore alla settimana, lo Stato sta provando in tal senso ad abbassare questa percentuale al 5%, ma non sarà facile estirpare questo persistente tratto culturale nella società: la gran parte dei lavoratori accumula ferie pregresse di cui non godrà mai. Secondo il giurista Hiroshi Kawahito, è necessario sanzionare quelle imprese che incitano i loro dipendenti a lavorare oltre l’orario. Il governo di Shinzo Abe ha creato un fondo di solidarietà per risarcire i familiari delle vittime di karochi, ma sulle 2310 denunce presentate nel 2015 solo un terzo ha avuto seguito effettivo. "Se le persone fossero consapevoli dei loro diritti, allora si può dimostrare che non c’è niente di sbagliato nell’approfittare del proprio tempo libero", ha recentemente dichiarato Yasukazu Kurio del Ministero della Salute e l’ufficio del lavoro per la prevenzione del karoshi. Australia: violenze su detenuti aborigeni, si dimette presidente commissione d’inchiesta euronews.com, 2 agosto 2016 L’opinione pubblica australiana è scesa in piazza nello scorso fine settimana, in diverse città del continente, per contestare la gestione dello scandalo delle violenze su giovani aborigeni detenuti in un carcere giovanile. Le proteste, unitamente a quelle dei leader aborigeni, hanno avuto un primo importante effetto stamane con l’annuncio delle dimissioni del capo della commissione d’inchiesta, nominato solo quattro giorni fa. Al suo posto due altri membri, di cui uno di origine aborigena. "Non sono la sola persone in grado di dirigere la Commisione - ha detto il dimissionario Brian Martin - È importante avere la fiducia di coloro che sono toccati da questa vicenda". La scorsa settimana la tv australiana ha trasmesso un video in cui si vedevano guardie carcerarie protagoniste di violenti. abusi su giovani detenuti aborigeni (che rappresentano il 94% della popolazione carceraria giovanile). L’agenzia Onu per i diritti dell’uomo ha chiesto al governo australiano di indennizzare le vittime.