Il carcere che punisce con cattiveria è pericoloso per la nostra sicurezza Il Mattino di Padova, 29 agosto 2016 Per capire quanto un carcere che sia aperto al confronto sia molto più utile di un carcere che punisce con cattiveria, basta leggere la testimonianza che segue: è di un ragazzo, anzi no, di un "ex ragazzo”, perché Raffaele ha trent’anni, ma dieci ne ha già passati in carcere, e quasi altri venti gliene restano da fare. Dunque, aveva vent’anni quando si è rovinato la vita, ha fatto del male a sé e ad altri, ed è finito in galera. E oggi, avendo finalmente sperimentato una detenzione meno inutilmente cattiva, ci racconta come anche i delinquenti possono ritrovare la loro umanità e "squagliarsi come dei gelati per una domanda spinosa di uno studente”. Pochi giorni fa ho ricevuto una dozzina di lettere di una scuola È un po’ di tempo che mi pongo più di qualche domanda, perdendomi spesso nel vuoto del mio passato. Confrontarmi oggi con la società esterna, che di sicuro in gran parte non ha molta stima di noi detenuti, è qualcosa di paradossale veramente per uno come me, che non si è mai confrontato con nessuno. Eppure l’ho fatto spesso ultimamente, con tanti studenti che entrano in carcere per incontrarci, e c’è da dire che chi visita un carcere e gli inquilini che ci abitano e ha il coraggio di guardare lo scarto della società, vuol dire che per lo meno prima di giudicarci ha voluto ascoltarci. Se dovessi proiettare a queste persone un’immagine per quello che ho vissuto in questi anni, sia fuori che all’interno di queste mura, sicuramente vedrebbero un film in bianco e nero. Grazie invece anche a questa esperienza di incontro con gli studenti, posso conoscere il confronto e dare dei colori a queste giornate di vita detentiva. Di continuo riesco ad intravedere sfumature, colori incandescenti, sentire odori, suoni che non esistevano più nelle mie percezioni vitali, a causa del continuo vivere come su una specie di zattera dispersa nell’oceano.. Anche attraverso delle sbarre oggi vedo il cielo che mi sorride con un tono colorato, riesce quasi ad accecarmi col suo splendore, come un naufrago sto ritrovando la mia terra, sono ritornato quasi al mondo dei vivi. L’estate è in piena forma, la scuola è finita da un po’, i confronti con le scolaresche si sono fermati, ripartiranno a settembre. In questi giorni si sono svolti molti incontri all’interno della redazione, parlare sempre di carcere in un carcere è qualcosa che pesa abbastanza, allo stesso tempo devo ammettere che mi arricchisce emotivamente di speranza. Attraverso gli occhi dei giovani studenti ho cominciato a intravvedere quello che di bello mi sto perdendo in tutti questi anni buttati in un colpo. E non voglio neppure nascondere l’imbarazzo che si prova davanti ai loro primi sguardi, come se gli agnellini fossimo noi, eppure è così strana la vita. A noi bestie, criminali, assassini irrecuperabili, che abbiamo lasciato ogni senso della ragione, stranamente fa paura un loro sguardo, ci squagliamo come dei gelati per una loro domanda spinosa, forse perché in realtà non possiamo mentirgli, non possiamo trovarci delle scorciatoie, davanti a noi non troviamo il magistrato che sta per giudicarci e quindi lo consideriamo un nemico, anzi davanti a noi vediamo una pianta che deve crescere, che deve arricchirsi di esperienze che terranno questi ragazzi ancorati con i piedi sempre a terra. Questi incontri magicamente ci fanno sentire colpevoli dei nostri crimini, per tanti anni verosimilmente ci credevamo noi le vittime, ostaggi di circuiti punitivi non tanto umanitari, che ci lasciavano solo l’odio al primo risveglio e l’odio all’ultimo secondo prima di dormire, senza nemmeno l’illusione poi che la notte avremmo sognato qualcosa di positivo. Sfortunatamente in tanti casi è ancora così, quando mi trovo in un momento della giornata spensierato, tranquillo, sereno, dall’altra parte ricordo i momenti bui che ho attraversato nella mia carcerazione, momenti che non vorrei più ripercorrere, d’altronde però chissà quanti ancora me ne faranno passare. Questo, grazie a chi nella sua idea di pena preferisce abbinare la parola detenzione a punizione, che ormai fanno coppia fissa. Anche se non potrò certo io dire che è sbagliato, sono un detenuto che ha dato il peggio di sé fino a poco tempo fa e quindi le persone qui fuori vedono il detenuto come uno che ha sbagliato e non può avere altre possibilità di riscatto, e invocano la certezza della pena, cioè la galera scontata fino all’ultimo giorno con l’invito a mangiarci amaramente questo piatto che abbiamo preferito, raschiandolo fino al fondo. Capisco che per la maggior parte della società siamo delle persone che hanno sbagliato anche gravemente e tutti se ne fregano di che cosa subiamo, di che trattamenti riceviamo in luoghi che dovrebbero tentare di ricostruirci. Possibile che ancora oggi non si siano accorti che questi mezzi non servono a nulla? Il carcere io l’ho sempre vissuto in una maniera inadeguata, ovviamente per mia scelta, anche perché non ho avuto altri stimoli che mi potessero portare ad un cambiamento. Gli incontri con questi ragazzi, che con coraggio vengono a conoscere il carcere, danno dei risultati che li dovrebbero rendere orgogliosi, perché hanno lo stomaco di guardare in faccia i "mostri”. E pure io che sono tra i più rudi, ho potuto vedere persone provenienti dall’esterno che si commuovevano per le nostre storie e con piacere infine ci stringevano la mano, scippandoci dal volto queste maschere di mostri che non ci appartengono. Questo è quello che forse ci farà sentire colpevoli davvero e potrà darci stimoli di cambiamento. Pochi giorni fa ho ricevuto una dozzina di lettere di una scuola che ha partecipato ad uno di questi incontri, ognuna di esse mi ha lasciato qualcosa che ormai non conoscevo più, la cosa che mi ha stimolato positivamente facendomi rabbrividire è che questi ragazzi mi incitavano a non fermarmi con questo percorso che stavo facendo per la mia crescita interiore, davanti a loro mi sono sentito importante, come se fossi uno di famiglia. Devo dire grazie a queste persone se riesco a stare bene con me stesso e queste persone, lo dirò sempre, non sono l’istituzione che mi ha invece sempre e solo punito e punito ancora, per il mio comportamento ribelle. Non è stata questa parte di istituzione che mi tiene in galera a farmi riflettere e prendere consapevolezza del mio passato. La responsabilità è qualcosa che esce spontaneamente, senza troppi compromessi, quando veramente la persona, senza che nessuno la obblighi, si sente carnefice e non più vittima, solo allora con lei si potrà lavorare coerentemente. Una studentessa universitaria ad un incontro ha chiesto a chiunque di noi se la sentisse di rispondere alla sua domanda: quale è stato il motivo che ci ha allontanato dalla parola rieducazione e cosa invece ci ha avvicinato alla stessa. Quel giorno non so perché non ho parlato, ma avrei voluto risponderle che non c’è stato un motivo vero e proprio che mi abbia allontanato dalla rieducazione, che in realtà non l’ho mai conosciuta precedentemente, conoscevo solo la punizione, la privazione di serenità, spazi, affetti, un modo di agire che mi faceva comprendere un solo sentimento: la guerra che avevo in testa. Domandarmi ora cosa mi ha fatto cambiare idea mi fa pensare che forse è ancora affrettato parlare di cambiare idea. Ora sto conoscendo una parte di me che non avrei mai messo in primo piano, ho ancora tanta rabbia da smaltire, le ferite non si assorbono velocemente soprattutto quando sono profonde. Quello che di sicuro mi ha avvicinato alla "rieducazione” è stata la voglia di riscatto, e anche di cucire le bocche a chi per molti anni mi ha bollato come un irrecuperabile. Quella parte di società che crede nel nostro riscatto ha reso possibile che anche una persona come me possa essere responsabile per le sue scelte e soprattutto che possa togliersi anche qualche soddisfazione morale, mentre prima ero abituato ad agire nella mia vita solo in modo fisico, con il linguaggio della violenza. Grazie a questo modo diverso di espressione, di dialogo, di confronto e di scrittura voglio far vedere anch’io che ce la posso fare. La salita è ancora ripida sì, ma non mi dispiace di alzarmi le maniche e di faticare un po’ per qualcosa che di sicuro mi accompagnerà per quello che resterà della mia vita, una volta uscito da qui. R.D. Giustizia. In Calabria il record delle cause civili di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2016 La corsa al tribunale divide l’Italia. Se (quasi) ovunque i processi civili stanno diminuendo, ci sono però sedi che restano ad alto tasso di litigiosità. A partire da Catanzaro e Reggio Calabria, che nel 2015 hanno registrato il maggior numero di cause contenziose in rapporto agli abitanti - quasi 23 ogni mille abitanti a Catanzaro e 20 a Reggio Calabria - e da Roma, che guida invece la classifica "allargata” anche ai procedimenti non contenziosi (come le separazioni consensuali), con quasi 45 nuovi fascicoli ogni mille abitanti. Più liti al Sud - Sono concentrate nel Sud Italia le aree più litigiose: secondo l’elaborazione del Sole 24 Ore del lunedì sui dati del ministero della Giustizia, dopo Catanzaro e Reggio Calabria sul podio c’è Foggia, seguita da Salerno. E se Roma, con quasi 18 processi avviati ogni mille abitanti, è al quinto posto, per imbattersi in un ufficio giudiziario del Nord occorre scendere fino alla 17esima posizione, occupata da Milano, dove le cause per mille abitanti sono meno di 14. In fondo ci sono le aree dove più raramente si finisce davanti al giudice: a Belluno, Sondrio e Lecco - tra le altre - le nuove cause ogni mille abitanti sono meno di cinque. La classifica è il risultato dell’elaborazione sulle statistiche ministeriali relative ai ricorsi civili avviati nel 2015 nei tribunali italiani. I dati sono stati ricondotti a livello provinciale (o di area metropolitana), accorpando gli uffici giudiziari. Per fotografare il tasso di litigiosità dei territori sono stati considerati solo i procedimenti civili di "contenzioso puro” in tribunale, mentre sono esclusi i fallimenti, le esecuzioni e le cause non contenziose (come le separazioni consensuali e la volontaria giurisdizione, che comprende, ad esempio, le autorizzazioni per gli atti per le persone dichiarate incapaci). Le ragioni dei diversi livelli di litigiosità sono molteplici. Quel che è certo però è che i tribunali più sotto pressione faticano a rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini. Tanto che le aree con più ricorsi sono quasi sempre anche quelle dove i processi durano di più. Secondo i dati del ministero della Giustizia, servono 2 anni e nove mesi per chiudere un contenzioso civile in tribunale: 992 giorni in media al 30 giugno scorso, in calo rispetto ai 1.007 giorni di fine 2015. Ma nei tribunali delle province più litigiose (con l’eccezione di Roma) la durata media è superiore al dato nazionale. La classifica cambia - in parte - se si considerano, oltre alle liti pure, anche i procedimenti civili non contenziosi (ma continuando a tenere fuori esecuzioni e fallimenti, peculiari per rito e finalità). Un’operazione che restituisce la "domanda di giustizia” generale dei territori. In questa classifica salgono le grandi città: in testa c’è l’area metropolitana di Roma (più di 44 nuovi ricorsi ogni mille abitanti) e Milano occupa il quinto posto (con più di 41 cause). Ma per il resto la parte alta della classifica è anche qui tutta delle province del Sud Italia: Messina (oltre 42 cause), Reggio Calabria (42 processi) e Catanzaro (più di 41). Processi in calo - A unire l’Italia è invece il calo delle cause civili. Il trend è generalizzato: se si mettono a confronto i ricorsi (contenziosi e non) presentati l’anno scorso nei tribunali italiani con quelli avviati nel 2013, in quasi tutte le province i numeri hanno segno negativo. Con il picco di Latina, dove le nuove cause sono diminuite del 33% (in termini assoluti, sono 7mila processi in meno). Le eccezioni sono appena sei: i ricorsi sono aumentanti solo a Rovigo, Enna, Caltanissetta, Palermo, Brindisi e Catanzaro. La diminuzione delle nuove cause, peraltro, si riflette sullo stock dei procedimenti in corso, che da anni è in calo. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno scorso, le cause civili pendenti in tutti gli uffici giudiziari italiani (non solo i tribunali, ma anche i giudici di pace, i tribunali per i minorenni, le corti d’appello e la Cassazione) sono quasi 3,9 milioni: meno di due anni fa, a fine 2014, erano oltre 4,3 milioni e nel 2009 (l’anno con le giacenze più elevate) erano 5,7 milioni. Giustizia. Più cause in Sud Italia per colpa dei disservizi di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2016 "Non è una questione caratteriale. Il maggior numero di ricorsi in Sud Italia dipende dal livello qualitativo della società e delle amministrazioni: i disservizi portano contenzioso”. È questa la lettura di Vincenzo Ciraolo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Messina, che, per spiegare la maggiore litigiosità del Meridione rispetto al Nord, fa l’esempio delle buche nelle strade. In tutt’Italia una parte consistente del contenzioso deriva dalle richieste di risarcimento danni per gli incidenti provocati dalle strade sconnesse: "Ma le condizioni delle strade al Sud - rileva - sono molto peggiori rispetto a quelle del Nord”. Se si guarda al totale dei nuovi procedimenti civili in tribunale, a Messina, come quasi ovunque, i ricorsi sono in diminuzione. Un calo provocato soprattutto, secondo Ciraolo, "dall’aumento eccessivo dei costi della giustizia: oggi per iniziare una causa di medio valore di fronte al giudice ordinario bisogna versare circa 2mila euro”. Inoltre, "cresce la sfiducia nella giustizia: sia per i tempi, sia per la qualità dell’esito”. Anche secondo Mauro Vaglio, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, sono il contributo unificato, aumentato più volte negli ultimi anni, e, in generale, le spese elevate, combinate con le difficoltà economiche dovute alla crisi, ad allontanare i cittadini dai tribunali. E i sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, su cui puntano molto le ultime riforme per sgravare gli uffici giudiziari? "Sono strumenti validissimi - ragiona Vaglio - ma poco utilizzati perché bisogna essere in due per arrivare a una transazione. Invece i tempi lunghi e l’uso limitato della condanna alle spese agevolano i debitori che hanno poco interesse ad accordarsi: non pagare i debiti è un modo per avere una disponibilità economica”. Tra le poche aree in cui le nuove cause civili sono aumentate nel 2015 rispetto al 2013 c’é la provincia di Catanzaro. "In realtà - afferma Fabrizio Sigillò, componente del consiglio dell’Ordine degli avvocati del capoluogo - noi percepiamo un calo del contenzioso ordinario, con l’eccezione dei giudizi che beneficiano del patrocinio a spese dello Stato, che sono invece in crescita: molti sono ricorsi dei migranti per ottenere la protezione internazionale”. L’area di Catanzaro è quella dove nel 2015 sono state avviate più liti rispetto agli abitanti: "Qui anche il numero degli avvocati è elevato”, rileva Sigillò. In effetti in provincia i legali sono circa 10 ogni mille abitanti, come a Milano e tre volte i 3,5 avvocati ogni mille abitanti di Torino. "Ma la sproporzione è evidente non tanto rispetto ai cittadini - ragiona Sigillò - ma soprattutto rispetto al povero tessuto imprenditoriale”. La carenza di attività imprenditoriali, "molte spazzate via dalla crisi, senza che ne siano sorte di nuove”, fa sì, secondo Carlo Morace, vicepresidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Calabria, che "la conflittualità sia perlopiù tra privati. Molte cause - continua Morace - riguardano rivendicazioni economiche legate a rapporti di lavoro”. In generale, la domanda di giustizia a Reggio Calabria è diminuita, ma "il calo dei ricorsi - spiega il presidente dell’Ordine degli avvocati, Alberto Panuccio - passa in secondo piano rispetto alla gestione delle pendenze. La giurisdizione è inadeguata, anche perché i giudici del civile vengono destinati al penale, che qui è un’emergenza. Ma così il civile soffre: al momento i rinvii per udienza decisoria al 2018 sono la norma”. Libero Grassi, l’uomo perbene che sfidò la mafia di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi Corriere della Sera, 29 agosto 2016 Venticinque anni fa l’omicidio dell’imprenditore palermitano che ha denunciato i ripetuti tentativi di estorsione rompendo il velo sulla piaga del pizzo mafioso ai danni "Caro estortore” - "Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”. Con queste parole, pubblicate sul "Giornale di Sicilia” il 10 gennaio 1991, l’imprenditore siciliano Libero Grassi denunciava i ripetuti tentativi di estorsione rompendo il velo sulla piaga del pizzo mafioso ai danni di imprenditori e commercianti. Un appello coraggioso e inusuale, che costerà a Grassi un pericoloso isolamento, anche da parte di molti colleghi, tra cui il presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, che dalla radio non si dimostrerà solidale e lo accuserà di soffrire di manie di persecuzione. E dopo il clamore suscitato dalla lettera, dopo l’interesse dei media e l’invio delle forze dell’ordine a protezione dell’azienda tessile Sigma, l’imprenditore palermitano e la sua famiglia si ritrovano a portare avanti la battaglia contro il racket mafioso in solitudine, fino alla mattina di quel tragico 29 agosto di venticinque anni fa, quando quattro colpi di pistola freddano su un marciapiede della città siciliana. Palermo, città difficile - "Da quarant’anni vivo a Palermo: è una città difficile, dove chi vuole emergere deve fare i conti con un’atmosfera di violenza diffusa, palpabile”. Libero Grassi è ben consapevole dei rischi cui si espone sfidando apertamente la mafia, ma non può accettare di vivere sotto il ricatto malavitoso, lui, siciliano orgoglioso, che dopo gli studi universitari e le prime esperienze imprenditoriali al nord sceglie di tornare a Palermo per fondare nella terra natale la Sigma, l’azienda di biancheria e camiceria che negli anni arriverà a dare lavoro a 150 operaie. Cittadino onesto e battagliero, Libero Grassi non è nuovo all’impegno civile per la legalità, fin dai tempi del "Sacco di Palermo”, di Salvo Lima e Vito Ciancimino, quando contesta lo scempio del litorale cittadino, e poi quando da consigliere della municipalizzata per l’energia si batte perché la città venga dotata di una rete di distribuzione del gas. Accanto a lui una compagna altrettanto battagliera, la moglie Pina Maisano, militante dei Radicali, che gestisce lo storico negozio di tessuti di famiglia nel centro della città e che dopo la morte del marito porterà avanti strenuamente il suo messaggio di legalità "Credo nei media” - Dopo la famosa lettera del gennaio 1991, le denunce di Libero Grassi porteranno all’arresto di 8 mafiosi, rendendolo un simbolo della lotta alla criminalità ma al tempo stesso un bersaglio. Grassi, però, confida nei media, è convinto che gli faranno da scudo e continua la sua battaglia dalle pagine dei giornali e persino in televisione, intervistato da Michele Santoro nella trasmissione "Samarcanda”, a cui dice: "Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi. Se duecento imprenditori parlassero, milleseicento mafiosi finirebbero in galera. Non le sembra che avremmo vinto noi?” Un pericoloso isolamento - Nel momento di massima esposizione mediatica, dopo le manifestazioni di solidarietà delle istituzioni, del prefetto e del sindaco di Palermo, dei sindacati e delle Acli locali, a Libero Grassi manca però il sostegno di Assindustria, l’associazione di cui da anni fa parte e da cui si aspettava molto più che "la telefonata di qualche amico”. Ma è il clima generale che avvolge la Sicilia in quei primi mesi del 1991 ad aggravare l’isolamento dell’imprenditore siciliano, con la fine della "primavera di Palermo” e la cacciata del sindaco Leoluca Orlando, la partenza per Roma di Giovanni Falcone e una sentenza clamorosa emessa dal Tribunale di Catania che dichiara che il pizzo non è reato, se pagato per proteggere la propria azienda. A complicare un quadro già abbastanza difficile per Libero Grassi, ci si mettono anche le banche, che nell’estate del 1991 rifiutano alla Sigma dei finanziamenti per uno scoperto di 5 milioni di lire - a fronte di un fatturato di miliardi di lire - e qualcuno avanza il sospetto che sia un modo per prendere le distanze dallo scomodo imprenditore. Un bersaglio senza protezione - Alle 7:30 del 29 agosto, solo e senza scorta, Libero Grassi percorre a piedi la strada che lo porta alla sua azienda, quando viene freddato alle spalle da quattro colpi di pistola esplosi da Salvatore Madonia, figlio di una potente famiglia mafiosa dell’area San Lorenzo Pallavicino, coinvolta negli omicidi del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del Presidente della Regione Piersanti Mattarella e del Commissario della Polizia Ninni Cassarà. Anni dopo, durante il processo per la morte di Libero Grassi, il fratello del killer, Giuseppe Madonia rievocherà con crudezza la condanna a morte dell’imprenditore: "[...] se a questo cornuto non gli si sparava, tutti gli altri avrebbero seguito il suo stesso esempio di ribellarsi” Una morte che fa rumore - Una grande folla prende parte ai funerali di Libero Grassi, tra cui il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, volato a Palermo "per rendere onore a un uomo libero”, con le operaie della sua azienda in prima fila, insieme ai familiari, alla moglie Pina e ai figli Alice e Davide, che sorprende tutti mentre porta la bara del padre e alza le dita in segno di vittoria. Non mancano le polemiche, tra chi ha sostenuto fin dall’inizio la lotta coraggiosa dell’imprenditore, come i Verdi e il Centro Peppino Impastato - altra vittima della mafia - e chi non ha preso le sue difese come l’associazione di categoria. Il sangue di Grassi smuoverà le coscienze di tutti e dalle pagine del Sole 24 Ore, la Confindustria lancerà un appello alle imprese colpite dal racket mafioso perché si ribellino col sostegno dell’organo di categoria nazionale. L’eredità di Libero Grassi - Con la sua morte, la sfida lanciata alla mafia viene dipinta come l’atto eroico di un uomo straordinario, ma la famiglia rifiuta il "santino” che si sta cucendo addosso a Libero Grassi e ne rivendica la normalità, la scelta di essere semplicemente un buon cittadino, rispettoso delle regole. Nel coro si inserisce anche la voce di Marco Pannella, amico di vecchia data dell’imprenditore siciliano, che ricorda così: "Questo strappo alla vita di uno che è stato non solo uno di noi, ma uno di coloro che, spesso in solitudine, hanno cercato di dare un contributo civile, morale e politico estremamente duro, estremamente difficile”. Qualche mese dopo la morte di Grassi, verrà varato il decreto che porterà alla legge anti-racket 172, con l’istituzione di un fondo di solidarietà per le vittime di estorsione. Dire basta al pizzo - Qualche mese dopo, il 20 settembre, con una trasmissione a reti unificate Rai-Fininvest, i giornalisti Michele Santoro e Maurizio Costanzo ricordano la figura di Libero Grassi, mentre nella società civile l’insegnamento dell’imprenditore ribelle alla mafia assume dei risolti concreti grazie all’azione di altri imprenditori, come Tano Grasso, nella convinzione che solo dall’unione della categoria potrà arrivare la forza necessaria a dire basta al pizzo. Mentre la battaglia personale di Libero Grassi verrà portata avanti da sua moglie Pina, eletta senatrice nel 1992 nelle liste dei Verdi e attiva nella promozione di associazioni anti-racket. Il processo e le condanne - Nell’ottobre del 1993 viene arrestato il killer di Grassi Salvino Madonia e il complice alla guida della macchina Marco Favaloro, che poi si pentirà e contribuirà alla ricostruzione dell’agguato. Madonia sarà condannato al 41-bis anche per l’omicidio del poliziotto Natale Mondo, e insieme al fratello indagato anche per il fallito attentato all’Addaura al magistrato Giovanni Falcone. Nel nome di Libero - Nonostante le minacce e intimidazioni, la vedova di Libero Grassi ha proseguito la lotta per la legalità in nome del marito, all’interno delle istituzioni come senatrice e al fianco della società civile come interlocutrice e sostenitrice di tante associazioni anti-racket sorte dal 1991 in Sicilia e nel resto d’Italia, tra cui Libera e Addiopizzo, anche se non si è interrotta la scia di sangue di imprenditori e commercianti uccisi dalla mafia, che avevano deciso di seguire l’esempio di Libero Grassi. La famiglia Grassi e la nuova Sigma - Non mancheranno altre amarezze ai familiari di Grassi, che a dieci anni dall’omicidio replicheranno con rabbia all’uscita infelice del ministro delle Infrastrutture Lunardi, secondo cui "la mafia e la camorra ci sono sempre state e sempre ci saranno. Dovremo convivere con queste realtà”. Solo una lettera dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi alla vedova Grassi porrà fine alle polemiche e renderà giustizia al sacrificio dell’imprenditore siciliano, che ha pagato con la vita proprio la scelta di non "convivere” con la mafia. Quanto all’azienda di Libero Grassi, dopo una fase difficile di crisi e il rifiuto degli eredi di accettare il salvataggio pubblico, rinascerà nel 2004 con il nome Sigma Nuova nei locali sequestrati a un costruttore mafioso, con a capo i figli di Libero Davide e Alice Grassi. Futili motivi: l’aggravante scatta se c’è un "non motivo” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2016 Corte di Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 23 maggio 2016 n. 21394. La circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento. Lo hanno stabilito i giudici della quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 21394 del 2016. Il riconoscimento dell’aggravante dei futili motivi - Pertanto, il riconoscimento dell’aggravante presuppone, da parte del giudice, la necessaria identificazione in concreto della natura e della portata della ragione giustificatrice della condotta delittuosa, quale univoco indice di un istinto criminale più spiccato e di un elevato grado di pericolosità dell’agente. Nella specie, la Corte ha escluso l’aggravante evidenziando come erroneamente la decisione del giudice di merito, che l’aveva riconosciuta, si era basata proprio sull’assenza di una plausibile ragione per dar luogo alla condotta tenuta - lesioni gravissime - e ciò in un contesto non limpido di pregressi rancori e di un non chiarito scontro fisico tra le parti. Gli orientamenti della giurisprudenza - Risulta pacifico che, ai fini della sussistenza dell’aggravante dei futili motivi (articolo 61, numero 1, del Cp) rileva l’antecedente psichico della condotta, ossia l’impulso che ha indotto il soggetto a delinquere, e, a tal fine, il motivo deve qualificarsi futile quando la determinazione delittuosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, per la generalità delle persone, assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un pretesto o una scusa per l’agente di dare sfogo al suo impulso criminale (tra le tante Sezione I, 8 aprile 2009, Proc. gen. App. Milano in proc. Same). In giurisprudenza, si sono posti in rilievo anche le differenze tra detta aggravante e quella dei motivi abietti, pure configurata nella stessa disposizione (articolo 61, numero 1, del Cp). Si è così affermato, di recente, che la prima è soggettiva, mentre l’altra è oggettiva, e comunque ciascuna è ancorata a dati fattuali e antitetici, così che difficilmente esse possono coesistere. Infatti, l’aggravante dei futili motivi sussiste allorché la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento: si tratta, in sostanza, di un "non-motivo”. Motivi abietti - Mentre per motivo abietto deve intendersi quello turpe, ignobile, che rivela nell’agente un grado tale di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello che, secondo il comune modo di sentire, è espressione di un sentimento spregevole o vile, che provoca ripulsione ed è ingiustificabile per l’abnormità di fronte al sentimento umano: si tratta di un motivo non giustificato dal sentire comune (sezione I, 15 luglio 2015, Papalia). Reati contro l’incolumità pubblica, le pronunce sul disastro colposo Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2016 Reati contro l’incolumità pubblica - Delitti colposi - Disastro colposo (nozione). Ai fini della configurabilità del delitto di disastro colposo, previsto dall’articolo 449 cod. pen., è necessario e sufficiente che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente e quindi caratterizzato, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all’incolumità di numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 10 aprile 2015 n. 14859. Reati contro l’incolumità pubblica - Delitti colposi - Crollo di costruzioni - Tutela dell’incolumità pubblica - Configurabilità del delitto di disastro colposo. In tema di delitti contro l’incolumità pubblica, si è in presenza di eventi dotati di forza dirompente e quindi in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile. Rispetto a tali eventi, non è richiesta l’analisi a posteriori di specifici decorsi causali che è invece propria degli illeciti che coinvolgono una o più persone determinate. Al contrario, ciò che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è semplicemente la tipica, qualificata possibilità che le persone si trovino coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte alla sua forza distruttiva. Per la configurabilità del delitto di disastro colposo (articoli 434e 449 cod. pen.) è necessario che l’evento si verifichi, diversamente dall’ipotesi dolosa (articolo 434 cod. pen., comma 1), nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dallo stesso articolo 434, comma 2. Dunque, già la connotazione testuale dell’incriminazione esclude che nell’ambito colposo definito dall’articolo 449 cod. pen., possano indistintamente rilevare condotte meramente prodromiche rispetto all’evento di pericolo. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 30 maggio 2014 n. 2267 Reati contro l’incolumità pubblica - Delitti colposi di comune pericolo - Delitti colposi di danno - Caratteristiche del reato di disastro innominato colposo. Il reato di disastro innominato colposo (articolo 449 in relazione all’articolo 434 c.p.), in quanto reato di pericolo astratto, richiede la verificazione di un evento fortemente connotato sul piano naturalistico, contrassegnato da forza distruttiva di dimensioni assai rilevanti. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 11 ottobre 2012 n. 46475. Reati contro l’incolumità pubblica - delitti colposi - Disastro innominato colposo - Pericolo di crollo - Reato - Esclusione. In tema di delitti contro l’incolumità pubblica, le condotte colpose integranti pericolo di crollo di una costruzione non configurano il delitto di cui all’articolo 449 cod. pen., che richiede il verificarsi di un disastro inteso come disfacimento dell’opera. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 6 maggio 2009 n. 18977. Milano: palazzo di giustizia a rischio paralisi di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 29 agosto 2016 Gli ispettori del ministero: in alcuni uffici del Tribunale c’è un buco del 40 per cento nell’organico. Problemi anche tra i pm. La relazione: "Bisogna intervenire subito, gravi disagi nelle udienze”. Quale azienda ridurrebbe il personale quando produzione e introiti aumentano? Nessuna, la dinamica domanda/offerta è legge sacra. Per la giustizia pare non sia così: i cittadini si rivolgono sempre più ai magistrati? Si risponde con piante organiche inadeguate o con scoperture che in alcuni uffici superano il 40%, come a Milano dove interi settori rischiano la paralisi nonostante Tribunale e Procura siano tra i più efficienti in Italia. A dirlo sono gli ispettori del ministero della Giustizia. Su 730 unità nell’organico del personale amministrativo, al Tribunale ne manca il 32%, con punte del 40,7% tra gli assistenti che causano "gravi disagi nelle udienze”, scrivono gli 007 di via Arenula, la cui ispezione periodica ha riguardato l’arco 2010/2015 in cui l’ufficio è stato guidato da Livia Pomodoro e (da febbraio 2015) da Roberto Bichi. Non migliora tra i togati: dei 32 posti di presidenti di sezioni penali e civili solo 25 sono coperti e dei 257 giudici ce ne sono 229. Più che sul soccorso di Roma, il Tribunale ha contato su se stesso. Spingendo sull’informatizzazione e diventando "uno degli uffici più avanzati”, ma nonostante "tutti gli interventi per ottimizzare l’utilizzo del personale”, che "hanno consentito un miglioramento dei servizi”, ora si rischia di mettere "a repentaglio persino il loro regolare funzionamento”. Drammatica la situazione nel civile (445.509 cause chiuse nei 5 anni) dove "si rischia la paralisi di servizi importanti e delicati”, anche se c’è stata una "forte erosione dell’arretrato”. Nel dibattimento penale (77.387 processi) c’è stato un aumento delle pendenze, come nel monocratico dove non si riesce a "fronteggiare le sopravvenienze malgrado l’aumento della produttività”, ma in altri uffici penali l’arretrato è sceso. A un giudizio nel complesso molto positivo, gli ispettori allegano rilievi per lo più burocratici. "Raschiamo il fondo del barile, ma il problema è strutturale”, conferma Bichi. Si è al paradosso: "Veniamo danneggiati perché, dato che con fatica facciamo fronte all’emergenza, dal ministero ci viene assegnato meno personale di altre sedi che non hanno i nostri risultati”. Speculare la situazione in Procura, che negli anni ha fatto incassare all’erario centinaia di milioni con le indagini economico-finanziarie e sulla criminalità organizzata. Se durante l’ispezione mancava il 7,1% degli 85 magistrati previsti, la scopertura raggiungeva il 31% tra gli amministrativi. Dati poi perfino peggiorati. Una "grave situazione” più volte denunciata dall’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati, al quale gli ispettori non fanno rilievi riconoscendogli una "governance di livello particolarmente elevato” con numerose "buone prassi” innovative che hanno reso "più efficienti i servizi” permettendo di ridurre del 30% le spese di giustizia e del 13% quelle per le intercettazioni. "Non ci siamo adagiati sul piagnisteo, abbiamo lavorato”, commenta Bruti Liberati, in pensione da novembre. "Gli ispettori, le delibere del Csm che hanno approvato i provvedimenti sull’organizzazione interna, i numeri e le motivazioni dei provvedimenti fanno giustizia del chiacchiericcio che aveva presentato la falsa immagine di una Procura in crisi. Il tempo, a volte, è galantuomo e rende ragione a chi persegue un modello di magistrato dirigente che assume responsabilità e non si adagia sul burocratico, corporativo quieto vivere”. Cagliari: detenuto con Aids aggredisce agenti. Caligaris (Sdr): separare detenuti con disturbi castedduonline.it, 29 agosto 2016 Momenti di grande paura: "il carcere cagliaritano scoppia, troppi detenuti e rebus sicurezza". Un detenuto del carcere di Uta si scaglia contro tre agenti mentre si accingevano a perquisire la cella in cui era allocato. La rabbia è sfociata presto in azione violenta, e il detenuto con problemi psichiatrici, affetto da Aids, ha aggredito improvvisamente gli agenti con pugni, morsi e graffi nel volto. Solo con l’intervento della sorveglianza generale e di altri Agenti si è riusciti a bloccare l’azione violenta. Gli aggrediti sono stati trasportati al pronto soccorso di un ospedale esterno cittadino dove sono stati diagnosticati 4 giorni di cure e dovranno sottoporsi alle analisi per verificare eventuale contagio della patologia di cui il detenuto è affetto. A renderlo noto è la segreteria regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria attraverso Stefano Pilleri che aggiunge: "Il carcere di Uta pare sia stato individuato dai vertici dell’Amministrazione regionale come contenitore per i detenuti problematici che arrivano ormai senza tregua dagli altri Istituti della Sardegna e della penisola. Concentrare un numero così elevato di detenuti che nei precedenti Istituti hanno già aggredito il personale o hanno creato gravi problemi alla sicurezza, considerando che già sono ristretti numerosi detenuti con problemi psichiatrici, significa creare una miscela esplosiva che il numero esiguo di poliziotti in servizio nelle sezioni non può oggettivamente contrastare. Le decisioni "discutibili" per usare un eufemismo, dell’Amministrazione regionale e centrale sull’Istituto di Uta stanno creando gravi ripercussioni sui Poliziotti che cercano in ogni modo di garantire il proprio mandato istituzionale in un contesto ormai insostenibile". "Basta aggressioni a Uta, i detenuti con disturbi vanno separati" "Il grave episodio denunciato dalla segreteria regionale della Uil-pa Polizia Penitenziaria nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta è un ulteriore documento della necessità che i detenuti con disturbi psichiatrici, tossicodipendenti, sieropositivi vengano collocati in strutture alternative al carcere. Donne e uomini con gravi patologie hanno reazioni talvolta imprevedibili che non possono ricadere sugli Agenti della Polizia Penitenziaria, diretti interlocutori, o degli Infermieri e dei Medici”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme” con riferimento all’aggressione subita da tre agenti della Polizia Penitenziaria in servizio. "Nell’esprimere solidarietà agli Agenti, non si può non rilevare - sottolinea - che un ammalato di Aids non può restare dietro le sbarre. È anche vero che la Rems (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) non è sufficiente, occorre predisporre case-famiglia diversificate rispetto ai disturbi psichiatrici e ricordare che il carcere è l’estrema ratio non la prassi per confinare persone le cui condizioni psichiche e fisiche non sono stabili e spesso a rischio di atti estremi di autolesionismo. Disporre di strutture differenziate a seconda delle problematiche psichiatriche individuali significa promuovere prevenzione sociale e creare posti di lavoro per i giovani laureati e specializzati con lo scopo di restituire a ciascun paziente-detenuto possibilmente un equilibrio senza dimenticare che finita di scontare la pena nella maggior parte dei casi le famiglie non sono in grado di gestire situazioni così estreme”. "È infine necessario smetterla di trasferire da un carcere all’altro detenute e detenuti che hanno gravi problemi di salute mentale. La prassi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, utilizzata anche a livello regionale, di alleggerire temporaneamente le strutture mandando da un penitenziario all’altro i malati psichiatrici in assenza di utili alternative rischia - conclude la presidente di Sdr - di rendere più aggressive le persone ammalate con conseguenze spesso non prevedibili. I Ministeri della Giustizia e quello della Salute insieme alla Regione devono trovare idonei strumenti per garantire ai cittadini sardi ammalati privati della libertà condizioni di vita per scontare la pena evitando che possano con reazioni inconsulte creare danni agli operatori penitenziari”. Roma: rissa nel carcere minorile di Casal del Marmo per una partita a ping pong di Simone Ricci newsgo.it, 29 agosto 2016 Sono rimasti coinvolti 7 minorenni e ben 24 maggiorenni che hanno usato bastoni, oltre a calci e pugni. Papa Francesco domani andrà nel carcere minorile romano per la lavanda dei piedi. Nel corso della mattinata di ieri, venerdì 26 agosto 2016, sette minorenni e 21 maggiorenni di varie nazionalità hanno dato vita a una maxi rissa all’interno dell’istituto penale minorile di "Casal del Marmo” di via Giuseppe Barellai. Come riferito da Il Messaggero, i detenuti coinvolti hanno un’età compresa tra i 18 e i 24 anni e hanno usato dei bastoni, oltre a sferrare calci e pugni. Il ferito più grave è finito in ospedale e altri hanno ricevuto le cure mediche a causa delle lesioni. Secondo quanto si appreso finora, tutto sarebbe nato a causa del danneggiamento del tavolo da ping pong nell’area ricreativa da parte dei minorenni. I maggiorenni hanno reagito con i bastoni ed è scoppiata la rissa. Non è il primo episodio di violenza di questo tipo e il sindacato Fns Cisl Lazio ha chiesto interventi urgenti. Porto Azzurro (Li): domani la presentazione del libro "detenuti", di Walter Tonietti quinewselba.it, 29 agosto 2016 L’autore di "Detenuti" sarà introdotto da Nunzio Marotti e Licia Baldi. Variazioni per alcuni incontri di Elbadautore. Come succede per ogni calendario creato a inizio stagione, durante il percorso, si possono verificare dei cambi di programma: infatti l’incontro con la Myra edizioni previsto per il 27, si terrà Martedì 30 Agosto alle 21,30 a Porto Azzurro nella Sala Consiliare, inserito nella manifestazione che lo stesso Comune ha organizzato per la raccolta fondi a favore dei terremotati del Reatino. Patricia Mazy introdurrà tre dei suoi autori: Giorgio Barsotti parlerà del libro di Luigi Cignoni "Lo specchio del corpo" e lo stesso Cignoni renderà il favore a Barsotti parlando del libro "Briciole di ricordi", entrambi poi faranno gli onori di casa presentando il libro del giovane scrittore Davide Pelliccioni, "I custodi del vello", sempre edito da Myra. L’incontro, atteso da molti elbani, con Walter Tonietti e il suo libro "Detenuti" si svolgerà Mercoledi 31 Agosto nel nostro consueto "salotto di strada" sulla Banchina IV Novembre: "con una trentina di racconti carcerari, legati ciascuno al nome di un detenuto, ho voluto raccontare la mia storia personale. dice Tonietti - originale per molti aspetti. Credo che l’esperienza nelle sezioni detentive, durata oltre un decennio, mi abbia insegnato molte cose e che mi abbia trasformato nel profondo. È un libro dal carcere, più che sul carcere, e i personaggi sono reali: in alcuni casi ho voluto inserire nomi di fantasia, al fine di tutelare la riservatezza di chi, dopo tanti anni dai fatti raccontati, ha cambiato vita". L’autore sarà introdotto da Nunzio Marotti e Licia Baldi. Reggio Calabria: memorial Ciccio Gatto, raccolti oltre 100 volumi da donare al carcere zmedia.it, 29 agosto 2016 Si è svolto presso il campo dei calcio dell’Aquila di San Brunello la XV Edizione del "Memorial Ciccio Gatto”, l’appuntamento sportivo, organizzato con il patrocinio morale da parte della Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria è stato promosso dall’associazione "Leonardo” e rientra nelle attività sociali promosse dal sodalizio studentesco presieduto da Serena Minniti relativamente alla raccolta di libri e volumi da donare agli istituti penitenziari del Comune di Reggio Calabria. Il torneo sportivo ha visto prevalere la squadra di Archi che ha vinto di misura ai rigori, grazie alle parate strepitose di Paolo Pensabene che ha impedito alla squadra capitanata da Gianfranco Nucera la vittoria nonostante i goal di Giuseppe Lamberti. La squadra di Archi capitanata da Domenico Catalano e grazie anche ai goal di Adriano Manzini ha potuto alzare il trofeo dopo una partita tiratissima ed incerta fino ai rigori. A margine della manifestazione la raccolta dei libri, oltre 100 raccolti dal consigliere comunale Enzo Marra e dal consigliere Metropolitano Antonino Castorina che saranno consegnati direttamente alla direttrice del carcere Maria Carmela Longo. Si è inteso afferma Castorina - rilanciare con forza, dentro importanti appuntamenti sportivi come quelli organizzati dall’Associazione Leonardo, e con la partecipazione del Forum Nazionale dei Giovani presente all’appuntamento con Francesco Laganà - una riflessione importante sul tema dei diritti negati che ci porterà ad essere presenti nelle carceri della nostra regione portando volumi e cultura per arricchire le biblioteche dei nostri istituti per consentire a tutti i detenuti di avere una " finestra sul mondo”. Con l’Associazione Leonardo e di concerto con il Gruppo Carceri del Forum Nazionale dei Giovani afferma la giovane presidentessa "Leonardo” Serena Minniti proseguiremo con la raccolta di libri, testi e volumi per sostenere le biblioteche delle carceri e tenere sempre aperta quella finestra di cultura che deve essere presente in tutti i settori della nostra società, anche quelli spesso dimenticati. Bisceglie (Bat): raccolta libri per i detenuti, partita la raccolta solidale del Rotaract di Serena Ferrara bisceglieindiretta.it, 29 agosto 2016 Decine di libri sono stati già raccolti nella tre giorni di Libri nel Borgo Antico, dove il Rotaract Bisceglie, con i grandi e i piccoli della famiglia rotariana, Rotary ed Interact, si è reso protagonista di un piccolo grande evento nell’evento. Animatrice, curatrice e coordinatrice di tutti gli incontri con l’autore in programma nel Castello Svevo, l’intera compagine dei "cittadini dal locale al globale” - motto dell’anno del governatore distrettuale Luca Gallo - ha lavorato sodo e con passione per far girare la ruota dentata nel verso della social responsability, cifra comune a tutti i club del mondo. Nel segno dello spirito di servizio, il Rotaract club quest’anno condotto dal presidente Gaetano Lopopolo ha dato il via al primo dei suoi service annuali: "Sulla scia…. delle ali della libertà”, progetto distrettuale per la raccolta libri in favore dei detenuti delle carceri italiane. Dopo aver donato nel 2015, sotto la presidenza di Fabrizio Di Terlizzi (oggi Rappresentante Distrettuale di tutti i club di Puglia e Basilicata) tre computer al carcere circondariale di Trani, il club di Bisceglie torna a sensibilizzare i cittadini sull’importanza dell’istruzione, quale mezzo più efficace per la rieducazione e la risocializzazione del reo. "Più istruzione significa più opportunità. Più opportunità significa meno bisogno. Meno bisogno significa meno delinquenza e più legalità” spiegano gli organizzatori. La raccolta di testi tecnici, divulgativi, di narrativa nuovi ed usati è pensata per fornire ai detenuti gli strumenti necessari a non cadere più nell’errore. Sarà possibile contribuire alla raccolta fino a giugno 2017, contattando direttamente il club di Bisceglie all’indirizzo mail rotaractbisceglie@gmail.com o tramite i social facebook.com/rotaract.bisceglie/ e twitter.com/racbisceglie. Terremoto. Il piano del governo: tre miliardi all’anno per la prevenzione di Valentina Conte La Repubblica , 29 agosto 2016 Palazzo Chigi accelera: gli sfollati avranno una sistemazione nelle case di legno entro l’inverno Renzi consulta l’architetto ligure. Un piano per gestire il post terremoto in tre fasi: emergenza, ricostruzione e prevenzione. E 2-3 miliardi all’anno per rimettere in sesto l’Italia. La prima fase è in corso, nelle mani, con i fondi e le procedure d’urgenza della Protezione Civile. Le altre due cominciano e prendere forma e sono sui tavoli del ministero delle Infrastrutture e dell’Economia. Oltre che all’attenzione prioritaria di Palazzo Chigi. Non a caso il premier Renzi ieri è volato a Genova per coinvolgere l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, raccogliendone i suggerimenti e la disponibilità di massima, come fu per il progetto sulle periferie da rammendare, per le quali il governo ha già stanziato 700 milioni in due bandi. La timeline è dunque pronta. Al termine della fase attuale, partirà lo sgombero delle macerie per arrivare a una prima importante stima dei danni, essenziale per gli stanziamenti ulteriori da mettere in conto. Entro un mese le persone abbandoneranno le tende il governo ne è convinto - e saranno alloggiate nei primi edifici su moduli, poi nelle casette in legno. Entro 4-5 mesi, stimano i tecnici del governo, tutti dovrebbero avere una sistemazione stabile. Anche se a quel punto saremo nel pieno dell’inverno e dunque bisognerà correre. Entro 6-8 mesi, nella primavera del 2017, partirà la ricostruzione secondo la filosofia del tutto dov’era e com’era. Centrale in questo senso la figura del super commissario - l’ex governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani - che dovrebbe essere nominato in settimana per decreto. Come ricostruire è il grande punto interrogativo. Che proverà a sciogliere anche l’archistar Renzo Piano (ieri ne ha parlato per quattro ore a pranzo con il premier e la moglie Agnese). L’idea di fondo è "togliere il cemento e rammendare senza distruggere”. Vedremo come i suoi suggerimenti potranno essere tradotti in un territorio così straziato. "Per la prima volta nella storia dei terremoti ricostruiremo le nuove abitazioni accanto a quelle crollate, per non perdere l’identità ", assicura Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice che ne ha parlato ieri con Renzi. "Iniziamo nelle 68 frazioni e poi arriviamo in città. Recuperiamo tutti i simboli, a partire dalla Chiesa di Sant’Agostino, la basilica e la torre civica. E diamo priorità a scuole e abitazioni”. Contestualmente alla fase uno e due, partirà a brevissimo anche Casa Italia, il grande piano del governo per la prevenzione. Si può già dire che l’esecutivo intende mettere almeno 2-3 miliardi l’anno, tra incentivi ai privati sul modello eco-bonus e interventi diretti (alcuni dicono che sarebbero necessari per dieci o anche vent’anni) per "rammendare” (il verbo ritorna anche qui) scuole, periferie e edifici, sottoposti a una vera cura antisismica. "Fare le cose bene e con calma, con i migliori e non gli amici degli amici”, si ripete a Palazzo Chigi. Il ministro delle infrastrutture Delrio ha già stilato le "Linee guida per la classificazione della vulnerabilità sismica degli edifici”, una sorta di vademecum previsto da un decreto del 2013 con la metodologia e lo standard per classificare il rischio sismico di tutte le costruzioni esistenti, compresi edifici pubblici, strutture complesse e dedicate alle attività produttive. Avere un parametro di riferimento, una sorta di bollino del mattone, consentirà al governo di capire le priorità di intervento - dove muoversi subito - e indirizzare meglio le agevolazioni fiscali. Gli eco-bonus dunque non solo saranno confermati, ma potenziati, aperti ai condomìni e rivolti sia all’efficientamento energetico che al rischio antisismico. Ma avranno bisogno di un meccanismo diverso per funzionare davvero. Quello esistente al 65% di fatto è stato un flop: troppo alto l’anticipo da versare, rimborso solo in dieci anni e limiti di capienza Irpef (i redditi bassi non riescono ad avvalersi delle detrazioni). La legge di bilancio dovrà fare chiarezza. E tenere dentro crescita, conti sostenibili e ora anche sicurezza del territorio. Terremoto. Abusi e lavori mai partiti, l’ospedale di Amatrice era già nel mirino dei pm di Fabio Tonacci La Repubblica, 29 agosto 2016 Sette anni fa, dopo il terremoto a L’Aquila, fu deciso un intervento "urgentissimo e indifferibile”. Rimasto sulla carta: ora la struttura è definitivamente inagibile. Le macerie parlano. Le rovine di Amatrice e Accumoli raccontano al mondo di che pasta erano fatti gli edifici pubblici e le case di due comuni italiani in "zona 1”, l’area di massima allerta sismica sulle mappe dei geologi. Sono testimoni involontarie del rischio corso per anni dai bambini della scuola Capranica, dai dipendenti del municipio venuto giù, dai pazienti del "Francesco Grifoni”, l’ospedale alle porte di Amatrice che da sette anni è un pericolo pubblico per i cittadini. Dal 2009 si aspetta l’adeguamento sismico ritenuto, dopo il terremoto dell’Aquila, "urgentissimo e indifferibile”. I soldi c’erano anche, ma l’opera è finita nel pozzo di una vicenda burocratica intrecciata con presunti abusi e favoritismi della Asl di Rieti. Da qui, dall’ospedale mai aggiustato e già sotto inchiesta, partirà il lavoro dei magistrati della procura di Rieti, appena si concluderà la sistemazione di tutte le salme. Il pericolo ignorato - Torniamo molto indietro, al 2008. Quell’anno la Regione Lazio stanzia un bel po’ di milioni, circa 12, per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei piccoli presidi sanitari. La Asl di Rieti sa bene quanto il Grifoni abbia bisogno di una sistemata, e prepara un progetto esecutivo da 1,5 milioni di euro per adeguarlo almeno alle norme antincendio e rifare gli ascensori. È approvato, ma il 6 aprile 2009 il terremoto dell’Aquila cambia le carte in tavola. L’ospedale di Amatrice non è crollato, ma si è danneggiato. Viene subito disposta la verifica di stabilità, che sentenzia: "C’è la necessità e l’urgenza di mettere in sicurezza l’immobile”. Non è soltanto pericoloso per i pazienti e i medici che lo frequentano. Dopo il sisma dell’Aquila per la Protezione civile è diventato strategico, perché c’è bisogno di un posto sul versante reatino dove portare feriti in caso di un’altra violenta scossa. Siamo nel giugno 2009, è bene ripeterlo. Perché da questa data, nonostante l’allarme, nessuno farà più niente per migliorarne la solidità. La minaccia di secessione - Eppure negli uffici istituzionali tra Roma e Rieti le cose si muovono, i progetti vanno avanti. Su spinta della Protezione Civile, la Regione Lazio nel 2010 finanzia l’adeguamento sismico dell’ospedale con 2,1 milioni di euro. La Asl di Rieti decide di accorpare l’intervento "urgente” a quello per le misure antincendio, e ne viene fuori un lavoro di ristrutturazione globale da 7,1 milioni. I soldi ci sono, perché vengono pescati anche da un fondo nazionale. La Regione Lazio fa il bando di gara, e se lo aggiudica un’associazione temporanea di imprese guidata dalla capofila Ccc, Consorzio Cooperative Costruzioni, un colosso del settore dell’edilizia. Ci sono tutte le condizioni per partire, per rendere finalmente quella struttura sanitaria un luogo sicuro. Ma ecco l’intoppo: la Regione Lazio decide di riprendersi i 2,1 milioni necessari. Un definanziamento che potrebbe diventare oggetto di approfondimento dei pm di Rieti. Succede infatti che tra il 2012 e il 2014 il Grifoni è teatro di un braccio di ferro tra il sindaco Sergio Pirozzi e la giunta regionale. A Roma c’è chi ritiene che debba essere declassificato e chiuso, che non serva un mini ospedale di appena 15 posti letto così lontano da Rieti e che, dunque, sia meglio riconvertirlo. Pirozzi non la prende bene, si scalda, minaccia pubblicamente "la secessione dal Lazio”. Il risultato di tutto questo lo riassume Aldo Cella, l’ingegnere della Asl H di Roma che era stato scelto come collaudatore dell’opera post-ristrutturazione antisismica. "Sarebbe dovuto essere un incarico in convenzione, ma non si è mai perfezionato”, spiega Cella a Repubblica. "Il mio direttore generale aveva dato l’ok, ma poi tutto si è fermato. Altro non so”. Il direttore indagato - Qui la storia si complica ancora di più. Perché a gestire tutta la pratica dei lavori per l’ospedale di Amatrice è l’ingegnere Marcello Fiorenza, il direttore dell’ufficio tecnico patrimoniale della Asl reatina. Da un anno è indagato per abuso di ufficio in un’indagine della procura di Rieti condotta dal Nucleo Tributario, con l’accusa di aver favorito tre aziende amiche in alcune commesse pubbliche nel settore della sanità. Una delle ditte sotto inchiesta ha lavorato anche al Grifoni nella manutenzione degli impianti elettrici. Naturalmente i guai giudiziari di Fiorenza non facilitano il ripristino dei 2,1 milioni. L’adeguamento antisismico dell’ospedale, dunque, non si è mai fatto. Però il sindaco Pirozzi vince la sua battaglia e dalla Asl di Rieti - è storia di un anno fa - nella struttura che era urgentissimo mettere in sicurezza si inaugura la nuova unità di "Osservazione breve intensiva” del pronto soccorso. Due posti letto in più per i pazienti che non hanno bisogno di un ricovero immediato. Due posti letto, come gli altri, ora inservibili. La geolocalizzazione - Tutta la documentazione relativa all’ospedale sarà acquisita dal pool di quattro magistrati guidati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva. La sua non è l’unica inchiesta in corso. Anche Ascoli si è messa a lavoro sugli edifici killer e sulla caserma dei carabinieri ad Arquata, semi-crollata. I vigili del fuoco stanno preparando le prime relazioni sullo stato dei paesi del cratere colpiti. Per individuare con certezza la posizione delle salme al momento della scossa della notte del 24 agosto sarà utilizzato per la prima volta in Italia un sistema di geolocalizzazione tramite rilevatore Gps, per sapere con certezza quali solai in cemento e quali fragili mura di sassi e sabbia hanno ucciso. Le macerie parlano. Terremoto. I fondi del campanile crollato usati per lavori nella chiesa di Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 agosto 2016 Il commissario: "Ad Accumoli migliorie invece di interventi strutturali”. La Corte dei conti indaga sul consulente per gli ospedali a rischio delle Marche. Dovevano intervenire con lavori di "adeguamento” per scongiurare il rischio sismico. E invece si sono limitati a far compiere delle semplici "migliorie”. Ristrutturazioni che si sono rivelate inadeguate alla gravità della situazione e potrebbero essere la causa dei crolli di centinaia di edifici pubblici e privati. Su questo indaga adesso la procura di Rieti guidata da Giuseppe Saieva. Si concentra sui responsabili delle procedure che hanno seguito l’iter di ogni pratica e arriva fino ai componenti di quelle commissioni di collaudo che hanno dato il via libera all’occupazione degli stabili. Caso esemplare è quello del campanile della chiesa di Accumoli che è venuto giù provocando la morte della famiglia Tuccio: papà, mamma e due figli piccoli rimasti intrappolati sotto le macerie. Il fascicolo è stato aperto subito dopo il sisma e adesso dovrà ricostruire la catena di omissioni, errori o forse abusi che in moltissimi casi hanno avuto effetti tragici proprio perché i lavori non erano stati eseguiti come si doveva. Un lavoro parallelo a quello svolto dalla Corte dei Conti di Ascoli che sta effettuando verifiche sui soldi elargiti per la valutazione del rischio sismico di otto ospedali delle Marche. Il campanile mai "adeguato” - L’intervento di adeguamento si rende necessario dopo il terremoto dell’Umbria del 1997 che ha provocato evidenti lesioni al campanile della chiesa di Accumoli. La pratica viene avviata nel 2004 ma dopo alcuni controlli si decide di procedere a semplici "migliorie”. Anche perché lo stanziamento è minimo, nonostante le verifiche effettuate abbiano reso evidente la necessità di provvedere in maniera strutturale. Proprio perché si trattava di lavori collegati al sisma, la gestione viene affidata a commissari (i governatori del Lazio) e sub-commissari della Provincia, ossia Luigi Ciaramelletti e Fabio Melilli. Furono loro i committenti, mentre l’esecuzione fu affidata ai costruttori Cricchi, i più gettonati della zona, autori anche del rifacimento della scuola Romolo Capranica di Amatrice. Le autorizzazioni - Nei prossimi giorni tutti i protagonisti potrebbero essere convocati dai pubblici ministeri. Melilli ne è consapevole e afferma: "C’erano 125 mila euro in tutto per la progettazione e la realizzazione. Per i lavori veri e propri rimasero 75 mila euro”. Lui stesso ammette che quel finanziamento, alla fine fu fatto convergere sulla chiesa e non sul campanile. "Il progetto - aggiunge Melilli - fu vagliato e approvato da una commissione di esperti coordinata da Alberto Cherubini, un ingegnere edile dal curriculum importante, che è stato consulente scientifico per la ricostruzione di zone terremotate sia per la Regione Marche che per il Lazio”. Il lavoro dei pubblici ministeri ha adesso tre obiettivi: individuare chi decise di compiere una operazione di semplice facciata senza occuparsi della prevenzione; chi scelse di privilegiare la chiesa senza adeguare anche il campanile; chi effettuò il collaudo finale e stabilì che la ristrutturazione era regolare. "I lavori sono stati fatti quando non ero ancora qui - commenta il vescovo di Rieti, Domenico Pompili - spero di sapere a breve se i lavori sono stati fatti e da chi”. Gli otto ospedali e l’analisi del rischio - È la Corte dei Conti a indagare sui soldi, oltre 100 mila euro, spesi dalla Regione Marche nel 2009 per effettuare la "valutazione del rischio sismico di otto ospedali” e affidati a Stanislao Acciarri, un centralinista dei vigili del fuoco che invece non ha mai svolto alcuna attività nei primi due anni di contratto, e nonostante ciò ha ottenuto il rinnovo per un altro biennio. Per questo motivo l’uomo è sotto processo insieme a tre funzionari della Regione che gli affidarono l’incarico senza alcuna selezione e rispondendo a una chiamata diretta. In realtà si tratta del fratello di una esponente del Pd, segretaria dell’assessore regionale alla Sanità, e proprio questi legami - dice l’accusa - potrebbero averlo favorito. Il progetto era stato finanziato dal ministero della Salute e doveva servire a valutare la stabilità delle strutture ospedaliere indicando tutti gli interventi necessari ad evitare crolli o comunque danni provocati da un terremoto, visto che si tratta di una zona ad alto rischio. Un controllo che non è mai stato effettuato e dunque i giudici contabili - dopo aver ricevuto gli atti del pubblico ministero Umberto Monti che ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio - adesso presenteranno il conto all’uomo e ai funzionari. Terremoto. Ricostruire bene (non come in Molise) di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 29 agosto 2016 Gli esempi sono quasi quanto i terremoti: cattiva gestione e fondi sprecati. Parlano i dati delle spese. All’Aquila decine di milioni spesi per l’affitto dei ponteggi. Impossibile stabilire se la morìa delle seppie avesse a che fare con il terremoto. Sappiamo però con certezza che a metà degli anni Duemila si tentò di ripopolare di cefalopodi lo specchio di mare antistante il Molise grazie alla scala Richter. Per le seppie dell’Adriatico fu un benefico effetto collaterale del sisma che sconvolse nel 2002 San Giuliano di Puglia con i suoi 27 bambini sepolti sotto le macerie della scuola. Governava a Campobasso Michele Iorio, che ebbe un’idea geniale: usare il terremoto per distribuire un bel po’ di quattrini alla sua Regione. Ecco allora spuntare nell’ordinanza commissariale un articoletto, il numero 15: "Programma pluriennale di interventi per la ripresa produttiva del Molise”. E il rubinetto si aprì. Duecentocinquantamila euro per il ripopolamento delle seppie, novantamila per le api, 450 mila per un museo naturalistico, 425 mila per un centro di equitazione: da sommare ovviamente agli 800 mila destinati ai "sentieri di ippovia e ippoterapia”. Briciole su briciole, per iniziative indimenticabili quali il programma televisivo "On the road da inserire nel palinsesto di Italia1 e avente ad oggetto il territorio della Regione Molise”. Stanziamento: 144 mila euro. Briciole a Campobasso. Ma anche briciole a Isernia, provincia fuori dal cratere, però non dal collegio elettorale di Iorio. Briciole ovunque. Ce ne vollero tante di briciole, per arrivare al totale: 454 milioni di fondi pubblici. Bricioline tipo quelle di Pollicino e intere fette di pane. Come gli 8 milioni evaporati in una nave che avrebbe dovuto portare i turisti da Termoli alla Croazia. Oppure i 5 stanziati per la fabbrica di automobili DR Motor Company: fabbricava piccoli suv con motori cinesi. Anna Falchi faceva la réclame in televisione. Ma la crisi dell’auto non l’ha risparmiata e ora gran parte dello stabilimento è occupato dai cinesi: non fanno motori, vendono merce a basso costo. Che evidentemente rende molto di più. I soldi per lo sviluppo del Molise - Una briciolina da quasi 300 mila euro venne impegnata anche per finanziare un piccolo impianto a biomasse. Iniziativa del futuro consigliere regionale Paolo Di Laura Frattura. Cui il destino avrebbe dato in sorte la poltrona di Iorio. I dati parlano chiaro: quei 454 milioni hanno offerto nessun contributo allo sviluppo del Molise. E sono la prova che in questo Paese, quando ci sono di mezzo i soldi pubblici, la storia non insegna mai niente. L’idea balzana che una catastrofe possa rappresentare l’occasione per far decollare un’economia che non ha alcun rapporto con la vocazione di un territorio nacque dal terremoto dell’Irpinia. Dove la follia dilagò, insieme a un fiume di 10 miliardi di euro attuali. Andatele a vedere, quelle aree industriali che hanno rubato terreni fertilissimi all’agricoltura coprendole di cemento con costi che lievitarono, accertò la Corte dei conti, fino a 27 volte il preventivo iniziale. Fabbriche di tutto, perfino un cantiere navale in montagna. Le imprese che avevano intascato tutti quei soldi, quasi tutte del Nord, sono fallite o scomparse. Oggi è il deserto. Sono invece pieni i fascicoli dei magistrati, che hanno appurato come rivoli enormi di quel fiume di denaro finivano nelle tasche di affaristi senza scrupoli. Ben 146 concessioni industriali vennero revocate. Il 48,5 per cento di tutte. Grovigli di tubi (costosi) in Abruzzo - Di quella esperienza si dovrebbe fare tesoro. Mai più un terremoto dev’essere usato come pretesto per far scorrere senza alcun senso quattrini pubblici con l’inganno dello sviluppo che non ci sarà. Per non parlare degli enormi affari che genera di solito l’emergenza. A L’Aquila sono state spese decine di milioni per l’affitto dei ponteggi per puntellare le facciate. Caso vuole che si paghi un tanto a snodo, per l’esattezza 25 euro. E capita ancora oggi di scorgere palazzi pericolanti avvolti da grovigli di tubi innocenti con gli snodi dorati così numerosi che è impossibile contarli. Ci sono situazioni in cui la ricostruzione costa meno del puntellamento. Più il ponteggio dura, però, più soldi corrono: è il vero affare. Eppure poco prima c’erano state alcune esperienze illuminanti in Molise. Dove il commissariato aveva speso 5 milioni e mezzo per puntellare alcune chiese. Più tre milioni dell’affitto dei tubi, durato due anni, in attesa dell’inizio dei lavori. Più 570 mila euro per la rimozione dei tubi. Più 900 mila euro perché le imprese impegnate nella ricostruzione non avevano accettato la proposta di comprare i tubi restanti e la spesa era rimasta sulle spalle del commissario. Totale: dieci milioni meno spicci. L’Irpinia e l’allargamento del cratere - Ma il capolavoro che fa arrivare i denari davvero dovunque è l’allargamento del cratere. Il terremoto dell’Irpinia aveva distrutto 37 paesi colpendone 339? Ben presto il cratere fu esteso a 643 comuni, che poi diventarono 687, compresi 14 in Puglia. Il cratere del sisma molisano interessava 14 territori comunali, ma con un’ordinanza di Iorio venne esteso a 83 municipi: tutti quelli della provincia di Campobasso tranne uno. Si trattava di Guardiaregia: il sindaco, poco furbo, non aveva denunciato danni. Il Comune di Campochiaro, a 70 chilometri dall’epicentro, dichiarò invece leggere lesioni al campanile della chiesa: 11 milioni. Di questo non hanno bisogno Amatrice e gli altri centri duramente colpiti dal terremoto. Serve soltanto una ricostruzione fatta bene e velocemente, senza sprechi che offendano una popolazione dignitosa. Il vero sviluppo non è altro che questo. Droghe. Quel che serve è la "legalizzazione condizionata” delle droghe leggere di Vincenzo Musacchio Il Dubbio, 29 agosto 2016 L’esempio del Portogallo nell’intervento del Direttore scientifico della scuola di legalità "Don Peppe Diana" di Roma e del Molise. Se il termine "legalizzare" significa regolamentare, controllare e vigilare, allora, sono pienamente d’accordo sulla legalizzazione delle droghe leggere. Ad onor del vero, sono stato e sono tuttora favorevole ad un’azione volta a rendere legale, sotto il controllo diretto dello Stato, la vendita e la coltivazione della cannabis e dei suoi derivati per scopi terapeutici. Il concetto di legalizzazione che intendo io, implica una "libertà condizionata" nella produzione e nella vendita delle sostanze leggere e non di certo la nascita di un libero mercato delle sostanze stupefacenti. Onestamente, se si imposta il tema su simili direttrici, non ci vedo nulla di pericoloso nel consentire la produzione e il libero commercio, nel rispetto della legge, delle droghe leggere e dei suoi derivati per scopi sanitari, ludici e ricreativi. Sono convinto che la tenue pericolosità delle droghe leggere giustifichi, all’interno di tale prospettiva, la scelta di legalizzazione che alcuni Stati potrebbero adottare, e ciò assume anche validità scientifica soprattutto se si considera che sostanze come alcol e tabacco, valutate da molti studiosi come più dannose delle droghe leggere, sono da sempre tollerate e regolarmente commerciate. Alcol e tabacco, sono responsabili di migliaia di vittime ogni anno e godono persino dei benefici della pubblicità. Credo che una legalizzazione "condizionata" delle droghe leggere possa evitare il pericolo concreto per i più giovani di entrare in contatto con ambienti delinquenziali e soprattutto possa garantire a chi ne fa uso un controllo sul prodotto e conseguentemente meno rischi sulla salute. Mi domando che male ci sarebbe nel consentire l’uso della cannabis per scopi terapeutici? Voglio solo ricordare che la cannabis per scopi terapeutici è già coltivata negli stabilimenti dell’Esercito italiano. Una volta prodotte con simili meccanismi, le droghe leggere poi dovrebbero essere somministrate attraverso il circuito delle farmacie e sarebbero certamente meno pericolose poiché non conterrebbero quegli additivi chimici e inquinanti che fanno più danni dello stesso principio attivo e che sono stabilmente usati dalle organizzazioni criminali per incrementare gli introiti economici. Non dobbiamo dimenticarci inoltre che la microcriminalità è alimentata soprattutto dai giovani che proprio per procurarsi queste sostanze si rivolgono al mercato nero e commettono delitti come furti, scippi e rapine. A sostegno delle mie argomentazioni porto l’esempio di un Paese europeo molto vicino all’Italia: il Portogallo. Nel 2000 questa Nazione ha deciso la depenalizzazione del possesso di qualunque tipo di droga, dalla marijuana all’eroina. Premesso che noi siamo per la legalizzazione delle sole droghe leggere, oggi, a prescindere dalla nostra opinione, si può affermare che la misura intrapresa dal Parlamento portoghese ha avuto successo. In Portogallo, le autorità di polizia non arrestano più chi viene trovato con una dose pari al consumo medio individuale per massimo dieci giorni (vale a dire, un grammo di eroina, ecstasy o anfetamina, due grammi di cocaina, venticinque grammi di cannabis). Chi commette delitti legati alle sostanze stupefacenti riceve un mandato di comparizione, che lo costringe a presentarsi davanti a dei "comitati di dissuasione" composti da giuristi, psicologi e assistenti sociali. Dopo un certo numero di volte che si viene chiamati a presentarsi davanti ai comitati, possono venire prescritti dei trattamenti che spaziano da colloqui con psicologi motivazionali a terapie a base di oppiacei. Il Portogallo ha fatto passi da gigante anche per quanto riguarda il sistema di sanità pubblica, con vasti programmi di prevenzione, di trattamento e moltissimi effetti deflattivi sulla giustizia penale. In società dove le droghe sono meno stigmatizzate, i consumatori sono più inclini a cercare delle cure. Sono venticinque i Paesi che hanno introdotto qualche forma di depenalizzazione, ma il modello portoghese è unico nel suo genere. Dall’entrata in vigore della legge sulla legalizzazione delle droghe nel 2001, i casi di HIV in Portogallo sono diminuiti drasticamente, passando da 1016 a 56 nel solo 2012, mentre le morti da overdose sono scese da 80 a 16. A scanso di equivoci voglio precisare che le droghe sono ancora illegali in Portogallo e i trafficanti e gli spacciatori continuano a essere spediti in prigione e con pene severe. Di conseguenza la legalizzazione oggi ha un senso e funziona se a monte ci sono: una seria attività di prevenzione, servizi sanitari efficienti, la disintossicazione, le comunità terapeutiche e le possibilità di impiego per le persone che consumano droga. Concludo dicendo che legalizzare ha un senso se si cammina sul binario della prevenzione e dei servizi ausiliari realmente funzionanti. Per affrontare con cognizione di causa questo delicatissimo argomento, allora, occorre ragionare sul fatto che stiamo parlando di dipendenza, di malattia cronica, di un problema di salute. Il fatto che tutto ciò stia al di fuori del sistema penale, a mio giudizio, rappresenta un fattore positivo. Il problema, dunque, va affrontato con molta attenzione ma liberandolo da pregiudizi che spesso frenano possibili e utili riforme. Droghe. Lo Stato deve diventare concorrente delle narcomafie di Antonio Marfella* Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2016 Siamo tutti profondamente preoccupati dalla tenuta economica del nostro servizio sanitario nazionale, il più prezioso regalo che ci hanno fatto i nostri Padri Costituenti e che non sappiamo difendere efficacemente. Nel mondo da alcuni decenni l’industria cosiddetta "della salute” (in realtà più correttamente dovremmo definirla "della malattia”) prospera e risulta la prima e indiscussa area industriale che, nel pieno della crisi finanziaria mondiale iniziata dal 2008, non solo non ha subito alcun contraccolpo ma cresce a doppia cifra l’anno, in Italia e anche nel Sud Italia, Campania inclusa. Too much Medicine, a few care (Troppa medicina, poca cura dei pazienti) tuona da anni sul New England Journal of Medicine, uno dei cui direttori, Marcia Angel, che già dal 2006 scriveva il libro Farma&co. Industria Farmaceutica: storie straordinarie di ordinaria corruzione edito da Il Saggiatore. Siamo oggi in fase di evidente "esplosione” di costi per i farmaci oncologici innovativi, non tutti di certo efficaci. Efficaci ma carissimi sono invece i farmaci contro l’epatite C. Nel mondo abbiamo superato da poco i mille miliardi di dollari di mercato farmaceutico legale. Le sole droghe di abuso, che altro non sono che farmaci generici psicoattivi, grazie al proibizionismo rendono alle narcomafie non meno della metà (Saviano afferma circa 500 miliardi l’anno) di quanto incassa l’intera industria farmaceutica "legale” mondiale. Sul "brevetto infinito”, garantito nel mondo dal proibizionismo, le narcomafie esercitano un ingiustificabile ricarico economico per produzione, spaccio e diffusione sulla base del quale si è costruito e prospera un anti-Stato molto più efficiente e garantista dello Stato ormai in tutto, dalla potenza militare sino alla previdenza sociale e al welfare per i propri affiliati, garantiti più di quanto lo Stato italiano sia in grado di assicurare ai propri "servitori”, magistrati e forze di polizia incluse. Va assolutamente ben chiarito che le droghe sono tossicomanigene tutte, dall’alcool alla marijuana, dalla cocaina alla morfina, fanno malissimo e non vanno utilizzate specie tra i giovani e i cervelli in formazione, ma palesemente ormai, come già dimostrato con l’alcool, il proibizionismo che ancora caratterizza le nostre leggi, consente il mantenimento di profitti infiniti da ripartire ovviamente tra affiliati e corrotti. Dobbiamo iniziare a considerare che, se vogliamo salvare il Ssn pubblico, solidale e universale, dobbiamo cominciare, come Stato, a fare profitti e non solo costi. Esiste concorrenza tra pubblico e privato nell’assistenza, non esiste alcuna forma di concreta concorrenza dello Stato nel settore privatissimo della droga e della farmaceutica: lo scotto lo stiamo pagando salatissimo in questi giorni con i farmaci contro l’epatite C. Nel mondo, numerosi Stati, a cominciare dall’India e dalla Cina, stanno facendo concorrenza spietata a Big Pharma sul piano della brevettazione, considerando (giustamente) farmaco innovativo solo quello dinamicamente (cioè strutturalmente) innovativo e non innovativo (e quindi fuori brevetto) quelli con innovazioni solo cinetiche. I principi attivi dei nostri farmaci generici oggi provengono al 90% da questi Paesi. In pochi anni l’industria farmaceutica israeliana Teva (il cui nome in ebraico significa "Arca” cioè che "salva” tutti i farmaci generici beni comuni nel mondo) è diventata una delle prime industrie farmaceutiche del mondo soltanto producendo farmaci a brevetto scaduto in alta qualità. Noi, in outbranding su internet, cioè senza garanzia di qualità e di sicurezza, abbiamo un mercato farmaceutico che per il solo farmaco generico sildenafil (ex Viagra) pesa per centinaia di milioni di euro che i cittadini italiani pagano rischiando la salute propria ed altrui. Immaginate se in Campania ci mettessimo, come Stato italiano, a produrre direttamente (maggiorandolo di pochissimo da destinare magari alla assistenza ai disabili), un sildenafil "pillola azzurra” e quindi facilmente sponsorizzabile anche, per esempio, dal SS Calcio Napoli. Basterebbe un semplice slogan: "Mai più Pipita! Solo Maradona!” per stra-vendere (almeno a Napoli) guadagnando cifre esorbitanti necessarie per non tagliare anzi migliorare tutte le spese sociali destinate al welfare dei nostri disabili, oggi vergognosamente "tagliate” rispetto alla spesa farmaceutica ospedaliera in esplosione per la politica sbagliata dei brevetti oggi vigente. Mi fa una rabbia infinita che nessun medico o farmacologo dipendente del Ssn si decida a fare intravedere a tutti i cittadini quello che nel mondo è già in atto: la partecipazione pubblica dello Stato nell’industria farmaceutica e la revisione drastica dei principi (sacrosanti) di brevettazione limitandola alle innovazioni farmacodinamiche e non più anche farmacocinetiche. Big Pharma e le narcomafie di certo non vogliono perdere il potere eccezionale garantito loro da queste politiche volutamente (?) cieche come il "proibizionismo” secco. Loro governano realmente il mondo e la sanità. Noi ce la prendiamo con Saviano che lo racconta. Da stolti guardiamo il "dito” di Gomorra e non comprendiamo la potente "luna” del messaggio antiproibizionista sulle droghe concesse "a brevetto infinito” alla camorra. *Tossicologo oncologo, Componente Osservatorio Ambientale indipendente di Acerra Terrorismo. Non si sconfigge con la guerra, ma con l’arma diplomatica e politica di Loretta Napoleoni Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2016 La politica è l’arte del compromesso e il potere si mantiene cambiando bandiera prima che giri il vento. Una serie di eventi, in gran parte concretizzatisi questa settimana, sembrano confermare questa massima che molti definirebbero politically incorrect. Il primo è la creazione dell’asse Ankara, Mosca, Damasco, l’embrione di una nuova alleanza che presto si allargherà anche a Teheran. La nuova amicizia tra Putin ed Erdogan, considerati dall’opinione pubblica mondiale due bulli che aspirano alla corona di dittatori dell’era moderna, ha preso molti in contropiede. Fino a poche settimane fa, infatti, tra i due correva cattivo sangue. Ma è anche vero che prima dell’incidente aereo avvenuto lungo il confine Turco Siriano tra i caccia russi e le forse turche, Putin ed Erdogan erano grandi amici, al punto che il secondo è stato l’unico leader non asiatico a partecipare a Mosca alle celebrazioni per l’anniversario della fine della seconda guerra mondiale. La Merkel è andata il giorno dopo per rispettare il boicottaggio dei colleghi europei nei confronti di Putin. Ma c’è dell’altro. Dopo il "tentato” colpo di stato in Turchia tra Erdogan e Obama corre cattivo sangue. I rapporti tra le due nazioni della Nato sono ai minimi storici degli ultimi trent’anni. Ecco un secondo motivo che giustifica il ravvicinamento di Ankara a Mosca. Infine e soprattutto c’è la questione kurda, una spina nel fianco della Turchia che Erdogan ha intenzione si estrarre una volta per tutte. Sulla questione kurda è bene aprire una parentesi: negli ultimi due anni gli americani hanno potenziato militarmente e anche finanziariamente il gruppo kurdo siriano legato al Pkk - organizzazione armata ancora nelle liste terroriste del dipartimento di Stato. Si tratta del Pyd, il partito dell’unione democratica, che mira a emulare la strategia politica dell’Isis, e cioè pretendere di combattere una guerra per procura per chi lo finanzia, i.e. la coalizione di Obama, mentre in realtà conduce una guerra di conquista territoriale di una regione abbastanza grande ed autosufficiente per poter dichiarare l’indipendenza politica. La zona in questione è il nord della Siria confinante con la Turchia dove la maggior parte della popolazione è di origine kurda. Una volta creato il primo stato kurdo questo diventerebbe il trampolino di lancio per una espansione territoriale in Turchia, Iraq, Iran, ovunque si trovi la popolazione kurda. Fino a qualche mese fa questa strategia non era chiara. Il Pyd, si pensava, faceva parte della nebula di gruppi armati disposti a combattere contro il regime di Assad, contro l’Isis o contro entrambi per una paga discreta. I primi ad accorgersi che i piani a lungo periodo erano diversi sono stati i russi, con i quali il Pyd aveva mantenuto ottimi rapporti impegnandosi a non attaccare le truppe di Assad. Alcune testimonianze da me raccolte tra i rifugiati del nord della Siria confermano che gruppi di militanti nel Pyd cooperavano con i servizi segreti di Assad vessando la popolazione. È sullo sfondo di questo complesso scenario geopolitico che nasce l’asse Ankara-Mosca-Damasco ed è sempre questo scenario che giustifica l’ipotesi dell’adesione di Teheran in un futuro molto prossimo. Quali le gravissime conseguenze? Per visualizzarle bisogna spostarsi nel centro Italia e rivisitare la distruzione del terremoto. Più di 270 morti a 48 ore dalla tragedia. Ebbene in Siria e in Iraq questo tipo di catastrofe è all’ordine del giorno. La distruzione dei bombardamenti e della guerra è identica a quella del terremoto, case che crollano, civili che rimangono intrappolati sotto le macerie, cadaveri che si decompongono tra i detriti, e la corsa folle dei soccorritori mentre arrivano altre scosse o altre bombe. Come nel terremoto, chi perde la casa in Siria ed Iraq sotto le bombe e sopravvive deve trovare un posto dove poter vivere. I profughi finiscono nelle tendopoli, poi nei campi profughi e chi ha soldi parte per l’Europa nella speranza di trovare non solo una casa ma un lavoro e ricostruirsi una vita futura. Il destino delle vittime del terremoto non è poi così diverso: dalle tendopoli si finisce nei prefabbricati e da li parte l’emigrazione perché le città non vengono ricostruite e la vita dove ci sono le macerie non ricomincia più. L’Italia ne sa qualcosa dal terremoto dell’Irpinia fino a quello dell’Aquila. Solo nel Friuli, al nord, si è ricostruita un’intera regione. Come evitare che il medio oriente continui a essere teatro di queste catastrofi? Che il nuovo asse che dal medio oriente arriva fino al centro Asia diventi il nuovo motore del conflitto in Siria e in Iraq, che si formi un nuovo fronte non più contro l’Isis ma contro le forze kurde e che questo conflitto trascini gli Stati Uniti e le forze della grande coalizione di Obama in un confronto diretto con l’asse? Si badi bene, se ciò avvenisse la Siria e l’Iraq sarebbero vittime del terremoto della guerra giornalmente e l’Europa sarebbe costretta a gestire un flusso di profughi sempre più disperati. La risposta ce la fornisce un altro evento storico: la firma del trattato di pace tra l’organizzazione armata colombiana Farc e il governo di Bogotà. Dopo decenni di lotte sanguinose dove sono perite centinaia di migliaia di persone, le Farc e il governo colombiano sono arrivati a un accordo che vede le prime entrare gradualmente nell’arena politica abbandonando il fucile. Un percorso già sperimentato dall’Ira nell’Irlanda del Nord. Se qualcuno dieci anni fa avesse suggerito questo scenario in Colombia sarebbe stato attaccato violentemente da tutti, se invece fosse stato ascoltato quante vite si sarebbero risparmiate? La storia ci insegna che il terrorismo si sconfigge soltanto con l’arma diplomatica e politica, assoldare bande armate per combatterne altre non ha mai funzionato. In Siria e in Iraq gli Stati Uniti e i loro alleati stanno creando un nuovo mostro, che ha il potere di destabilizzare altre nazioni per crearne una nuova usando la guerra, proprio come ha fatto l’Isis. Meglio porre fine al conflitto e negoziare un cessate il fuoco con le forze presenti ed evitare la destabilizzazione del sud della Turchia e dell’est dell’Iran, senza parlare delle conseguenze per l’area mediterranea del potenziamento della presenza militare russa in Siria. Washington e Bruxelles farebbero bene a gettare un’occhiata alle loro bandire, se lo facessero si accorgerebbero che il vento è già girato a loro sfavore. Stati Uniti. Carceri private: stop al rinnovo dei contratti, fine di un business da 1,8 miliardi di Felice Meoli Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2016 Il Dipartimento di Giustizia metterà fine all’utilizzo delle prigioni gestite da due grandi gruppi quotati, Corrections Corporation of America e The Geo Group. Secondo inchieste della stampa locale hanno finanziato entrambi i candidati alla Casa Bianca. Ricevono in media 70 dollari al giorno per ognuno dei 195mila detenuti ospitati nelle loro strutture, ma ne spendono solo 12 per la loro cura. Damon Hininger, amministratore delegato di uno dei due più grandi gruppi carcerari privati degli Stati Uniti, due mesi fa sosteneva che chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, per il suo business farà poca differenza. "Penso che il prossimo presidente, chiunque sia, avrà da fare così tante cose nella sua amministrazione che il nostro settore sarà in fondo alla lista delle priorità”, era la previsione del numero uno di Corrections Corporation of America (Cca). In effetti lo sarà, ma in un senso ben diverso da quello immaginato da Hininger: il Dipartimento di Giustizia ha infatti annunciato l’intenzione di mettere fine all’utilizzo delle carceri private per i detenuti federali. Il viceprocuratore generale Sally Yates ha presentato un memo che chiede ai funzionari responsabili di non rinnovare i contratti con i gestori delle carceri private nel momento in cui scadranno, o venga "ridotto sostanzialmente l’ambito del contratto”. Yates cita un rapporto molto severo del Department’s Office of Inspector General. Intanto Shane Bauer ha raccontato in un crudo reportage sulla rivista Mother Jones la sua esperienza di quattro mesi come guardia carceraria presso una struttura della Cca, rendendo consapevole anche l’opinione pubblica del fatto che le carceri private registrano un tasso più elevato di casi di violenza e di infrazione delle regole rispetto agli istituti gestiti dallo Stato e non portano risparmi sostanziali alle casse pubbliche. L’ex candidato democratico Bernie Sanders, che già un anno fa aveva promosso una proposta di legge per superare questa esperienza ormai trentennale, nata sotto i governi repubblicani di Ronald Reagan e George Bush senior, ma definitivamente esplosa negli anni ‘90 sotto la presidenza democratica di Bill Clinton, con l’avvento del Violent crime control and law enforcement act del 1994, il cosiddetto "crime bill”. Una dura stretta sui reati e le detenzioni (con l’introduzione della regola per cui chi si macchia di tre reati viene condannato a pene più dure), accompagnata da un budget di 30 miliardi di dollari, che ha visto più che raddoppiare la popolazione carceraria degli Stati Uniti, in particolare quella di origine afro-americana, favorendo accuse di incarcerazioni di massa e naturalmente il business degli istituti privati. Dal 2013 a oggi la popolazione delle carceri private, invece, si è ridotta da 220mila persone a 195.000, grazie a provvedimenti come lo Smart on Crime Initiative che hanno rivisto la portata di alcuni reati minori. E adesso il governo ha deciso di eliminare dal dibattito elettorale un tema che imbarazza entrambi gli schieramenti, anche se Trump si dichiara a favore dell’attuale sistema e la Clinton contro. Inchieste della stampa Usa collegano donazioni per oltre 288mila dollari arrivate lo scorso anno da parte di società di lobbying ai repubblicani Marco Rubio e Jeb Bush e alla stessa a Hillary Clinton a Corrections Corporation of America e a The Geo Group, l’altro colosso del business della detenzione. Mentre poco più di un mese fa la commissione elettorale federale ha confermato un versamento di 45.000 dollari da parte di The Geo Group sui conti del Trump Victory Fund, veicolo elettorale del candidato repubblicano. Cca e Geo sono quotate a Wall Street e dopo le dichiarazioni di Sally Yates hanno visto crollare i propri titoli del 40 per cento. Oltre il 90% delle azioni è detenuto da investitori istituzionali. Il primo è Vanguard Group, società di gestione da 3.600 miliardi di dollari. Blackrock, Bank of America, Bank of New York Mellon, State Street, Lazard, Wells Fargo sono solo alcuni dei circa 300 investitori istituzionali che hanno quote in una o entrambe le società, che lo scorso anno hanno chiuso entrambe con un fatturato di circa 1,8 miliardi registrando utili per centinaia di milioni. Secondo il bilancio dello scorso anno, Corrections Corporation of America riceve in media per ogni detenuto circa 70 dollari al giorno, spendendone 47 di cui solo 12 dedicati alla cura del detenuto. Un margine operativo del 33% che ne fa un business evidentemente profittevole, che per mantenere tali ritorni ha dovuto negli anni progressivamente ridurre il numero degli operatori carcerari, sempre meno addestrati e con paghe ai minimi salariali per un lavoro che, secondo alcune ricerche, registra un tasso di disturbi post-traumatici da stress più alto di quello dei soldati che rientrano dall’Iraq o dall’Afghanistan. Corrections Corporation of America detiene oggi oltre 60 strutture, con una popolazione carceraria di 66.000 persone. The Geo Group ha invece una popolazione di 70.000 persone: insieme raccolgono il 75% della popolazione delle carceri private, che complessivamente rappresenta circa l’8% del totale degli incarcerati negli Usa. Con circa 2,2 milioni di detenuti, la percentuale di incarcerazione degli Stati Uniti è seconda nel mondo solo alle Seychelles: gli Usa, che rappresentano circa il 4,5% della popolazione del pianeta, hanno oltre il 25% dei prigionieri, circa un milione di origine afro-americana. Negli ultimi anni la detenzione degli immigrati irregolari ha conosciuto un vero e proprio boom, con crescite a doppia cifra per le carceri private. Secondo l’ong Grassroots Leadership questo è avvenuto grazie a un emendamento del Congresso del 2010, che ha disposto che gli stanziamenti a favore dell’Immigration and Customs Enforcement, agenzia federale del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti e responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, debbano essere sufficienti a mantenere un livello di almeno 33.400 (poi portati a 34.000) "posti letto” per i detenuti. Tale norma ha creato una vera e propria quota di detenzione di immigrati, favorendo una politica di incarcerazione sempre più aggressiva. Nessun’altra agenzia di sicurezza opera attraverso una quota determinata dal Congresso. Emirati Arabi. "iPhone violati dai servizi segreti", Apple decide di blindare i telefoni di Jaime D’alessandro La Repubblica, 29 agosto 2016 "Non era la prima volta, per questo non ci sono cascato. Ma è stato uno degli attacchi informatici più pericolosi che abbia mai subito”. Ahmed Mansoor, la persona che ha portato la Apple ad aggiornare in fretta e furia il suo sistema operativo per iPhone, lo racconta in collegamento da Dubai. Attivista di 46 anni, lo scorso anno è stato premiato con il Martin Ennals Award, il cosiddetto Nobel per i diritti umani. Da quando lo hanno imprigionato per otto mesi nel 2011 per aver chiesto riforme politiche negli Emirati Arabi Uniti, era l’epoca della Primavera Araba, Mansoor ha perso il lavoro, gli è stato ritirato il passaporto ed è stato oggetto di una lunga serie di attacchi. Non solo digitali. "I peggiori? Due pestaggi e due tentativi riusciti di rubarmi l’accesso alla mia casella di posta di Google e Microsoft oltre al profilo Twitter”, spiega lui. In uno di questi casi, nel 2012, hanno usato un software dell’italiana Hacking Team. "Stavolta però il livello era diverso. Come poi sono venuto a sapere Trident è uno spyware che non ha eguali”. Il 10 e l’11 agosto l’attivista ha ricevuto due sms con dei link. I messaggi parlavano di informazioni su torture avvenute nelle carceri degli Emirati. "Mi sono ben guardato dall’aprirli - continua - e li ho girati al Citizen Lab con il quale collaboro da tempo”. Il network di Toronto, fondato dal professore Ronald J. Deibert, si muove da sempre fra diritti umani, Web e sorveglianza digitale. Ha coinvolto la Lookout di San Francisco, specializzata in sicurezza informatica su mobile, che si è messa a lavoro per capire di cosa si trattava. "Sono servite due settimane, giorno e notte”, rivela al telefono da Haarlem, Olanda, Gert-Jan Schenk, vicepresidente europeo della Lookout. "Da quando è nata la nostra azienda, otto anni fa, non avevamo mai visto nulla di simile. Siamo in 400 e due terzi di noi sono ingegneri informatici e ricercatori. Trident, a differenza di altri programmi, può fare praticamente tutto con un iPhone. Molto più di quanto possa fare lo stesso proprietario del telefono. Può attivare il microfono, entrambe le fotocamere, trasmettere a chi lo ha installato ogni sms, messaggio di chat, aggiornamento su social network, mail. Opera con diversi sistemi di crittografia e a più livelli”. Una volta aperto il link inviato via sms, lo spyware individua i punti di accesso al telefono attraverso il browser Safari che si adopera per navigare sul Web. Trovato il kernel, il nucleo del sistema operativo, e lo sostituisce con una sua versione. Lo spyware a quel punto è integrato al sistema operativo e da remoto si può sapere tutto del telefono e scaricare o avviare a piacimento qualsiasi tipo di programma. La Apple, informata da Lookout e da Citizen Lab, ha risposto immediatamente e cominciato a correggere le falle, poi tappate con l’aggiornamento di due giorni fa. "Chi c’è dietro? Non ho prove, ma sono certo che siano i mandanti dei due pestaggi e gli stessi che da anni tentano di sapere ogni mia mossa. Sono un attivista pacifico, difendo i diritti umani. Ma Stati che combattono valori del genere usano ogni mezzo per attaccare figure come la mia. E non badano a spese per farlo”. Trident è stato sviluppato dall’israeliana Nso Group. In un comunicato ufficiale, fatto arrivare alla testata Motherboard, ha fatto sapere che non usa i suoi software ma si limita a venderli a "governi ufficiali e agenzie governative ". E questa pare una conferma alla tesi di Mansoor. Impiega circa duecento persone, ha ricevuto finanziamenti da fondi americani pari a 120 milioni di dollari e lo scorso anno ha raggiunto un giro di affari di 67 milioni. Stando a quanto riportato a luglio del 2015 da La Prensa, quotidiano di Panama, avrebbe ad esempio ottenuto 8 milioni di dollari dal governo di Ricardo Martinelli. In quel caso si trattava di licenze per poter impiegare un software di nome Pegasus, capace di infiltrarsi negli smartphone Blackberry e Android di sindacalisti e oppositori, "usato per la raccolta di informazioni su dispositivi mobili dal Governo di Panama ". Lo stesso software sarebbe stato sfruttato anche dall’intelligence israeliana, a fronte di un versamento nelle casse della Nso Group di 13 milioni di dollari. "Quello degli spyware è un business enorme a livello globale”, commenta Schenk. "Cifre esatte è difficile darle. Ma basta fare un conto: a Panama pagarono 8 milioni per 300 licenze di Pegasus. Sono poco meno di 27mila dollari per spiare un solo smartphone”. Con il nuovo aggiornamento rilasciato dalla Apple ora non si corrono più rischi, a meno che l’iPhone non sia stato infettato in precedenza. La maggior parte degli utenti ha poco da temere. A rischio sono tutti coloro che maneggiano dati sensibili, dagli amministratori delegati a chi lavora con segreti industriali. Senza dimenticare politici di rilievo o attivisti come Ahmed Mansoor. "Aver aiutato a correggere delle falle che mettevano a rischio altri come me in giro per il mondo è una bella soddisfazione”, conclude lui. "Da quando sono stato arrestato e ho perso il mio impiego come ingegnere alla Thuraya, mi hanno tolto la liquidazione e non ho alcuna possibilità di esser assunto altrove né di lasciare il Paese. Paradossalmente non mi hanno lasciato altra scelta che continuare a battermi per i diritti umani. Gli spyware non mi spaventano”. Colombia. Due mesi in carcere a Cartagena, ora fa causa al governo colombiano di Luca Rinaldi Corriere della Sera, 29 agosto 2016 L’imprenditore Giorgio Brichetti fu attirato in una trappola da due ragazzine minorenni che gli chiesero ospitalità e poi lo accusarono di averle sequestrate. Fu accusato di tratta di esseri umani. "Devolverò tutto in beneficenza”. L’arresto con le accuse mai formalizzate di sequestro di persona, due mesi di carcere in Colombia, la scarcerazione e infine l’assoluzione. Così Giorgio Brichetti, 71 anni, originario di Salice Terme ed ex imprenditore della movida pavese, ha deciso di chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti dello stato colombiano. Lo aveva annunciato al Corriere in novembre e lo ha fatto. "Il ricavato - dice Brichetti raggiunto in Colombia - andrà in beneficienza, anche se per arrivare alla fine del procedimento ci vorranno almeno due anni”. Il caso nasce l’8 settembre del 2015 quando Brichetti, da anni residente a Cartagena nell’esclusivo quartiere di Bocagrande, viene arrestato con le accuse di tratta di esseri umani. L’uomo, titolare in passato di alcune attività economiche anche in Colombia, aveva dato ospitalità a due ragazze di 13 e 14 anni che sostavano non distante dalla sua residenza sostenendo di essere in fuga dai genitori e senza soldi. "Le ho fatte salire in casa - racconta Brichetti davanti ai giudici colombiani - e ho chiesto alla mia compagna di preparare qualcosa da mangiare. Nel frattempo ho fatto fare loro una telefonata alla madre e poi sono uscito”. Al ritorno a casa ad attenderlo c’è però la polizia: le due ragazze hanno chiamato un amico sostenendo di essere lì per un tentativo di sequestro e che l’imprenditore volesse mandarle in Italia. Da qui le accuse di traffico di esseri umani, poi derubricate in sequestro di persona, che tuttavia non reggeranno. Brichetti finisce in carcere e ci resta per due mesi. A novembre la scarcerazione e a dicembre il caso si chiude. "Inocente”, si legge nel dispositivo che stabilisce di non mandare a processo l’imprenditore oltrepadano. Così l’avvocato Maria Josefina Osorio Rico, legale dell’uomo, trascorsi i sei mesi previsti dalla legge, sta preparando la documentazione per il ricorso. Il pubblico ministero che ha chiuso il caso, ha detto l’avvocato "ha scoperto che non vi erano prove contro il mio assistito e che il caso non era stato nemmeno studiato dal primo magistrato che aveva comunque disposto la carcerazione preventiva. Cosa ancora più grave, dunque - sottolinea il legale - è che non erano state rispettate le garanzie per la detenzione”. "Rimane solo da quantificare il danno - spiega Brichetti, che annuncia di voler tornare in Italia per Natale - e la sentenza farà sicuramente rumore qui in Colombia. I responsabili - conclude l’uomo - dovranno risponderne direttamente. La nostra non sarà una denuncia generica”. Il caso non sarebbe il primo in Colombia, dove è in corso una campagna per la prevenzione e il contrasto alla prostituzione minorile e alla tratta di ragazze minorenni. Campagna che viene però utilizzata anche da associazioni fittizie che creano situazioni ad arte per la richiesta di risarcimento danni alle vittime. Egitto. L’attivista per i diritti umani Malek Adly libero dopo 114 giorni in isolamento di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 agosto 2016 Dopo tre mesi e mezzo l’avvocato e attivista per i diritti umani sarà rilasciato. Era stato il primo a seguire il caso di Giulio Regeni, cercandolo nelle stazioni di polizia il 25 gennaio, quando scomparve. Dopo 114 giorni di detenzione l’avvocato egiziano Malek Adly sarà scarcerato. Attivista per i diritti umani e responsabile della Rete degli avvocati dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights, era stato arrestato il 5 maggio scorso, uno degli oltre 1.300 detenuti prima e dopo le manifestazioni del 15 e 25 aprile contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita da parte del Cairo. Tre mesi e mezzo in isolamento che hanno gravato sulle sue condizioni di salute, come denunciato più volte dalla moglie Asmaa, senza un letto dove dormire né cure mediche, senza la possibilità di uscire nemmeno per l’ora d’aria. E senza mai arrivare di fronte ad un giudice: una pratica molto comune quella delle detenzione preventiva, che interesserebbe 10mila degli attuali 60mila prigionieri politici egiziani. Ieri, dopo campagne locali e internazionali che ne chiedevano il rilascio, la corte penale di South Benha ha rigettato l’appello mosso dalla procura all’ordine di scarcerazione di giovedì: Adly sarà liberato. Secondo fonti interne al tribunale, le procedure di rilascio richiederanno qualche giorno. Non si ferma però l’inchiesta che pesa su di lui e altre centinaia di attivisti e semplici cittadini: è accusato del tentativo di rovesciare il governo, di incitamento alle violenze e di diffusione di notizie false in merito all’accordo di cessione. Malek Adly è stato tra i primi in Egitto a denunciare pubblicamente la scomparsa e l’uccisione di Giulio Regeni, esponendosi come Ahmed Abdallah, consulente legale della famiglia del ricercatore e in carcere dal 25 aprile. Già poche ore dopo la sparizione di Giulio, il 25 gennaio, Adly è stato contattato dagli amici del giovane e ha fatto il giro delle stazioni di polizia del Cairo per avere sue notizie. Quando il corpo di Giulio è stato ritrovato, il 3 febbraio, si è offerto di seguire come legale le indagini, smentendo fin da subito le prime dichiarazioni dei vertici egiziani secondo cui i responsabili erano semplici criminali. Adly era anche nel team di avvocati che ha preparato il ricorso contro la decisione del presidente al-Sisi di cedere Tiran e Sanafir durante la visita di re Salman al Cairo. Una cessione che ha creato non pochi problemi al regime egiziano: oltre alle proteste di massa (le prime dal luglio 2013 quando con un golpe al-Sisi depose il presidente eletto Morsi), il 21 giugno il Consiglio di Stato ha annullato l’accordo per violazione della sovranità nazionale. Ovviamente il governo ha subito fatto appello (la corte si riunirà il 30 agosto), mentre le centinaia di persone detenute per aver protestato contro quella decisione restano dietro le sbarre. Nel frattempo prosegue spedita la macchina della propaganda: il Ministero della Cultura ha annunciato la pubblicazione di un libro, corredato di mappe e documenti storici, per dimostrare che le due isolette sul mar Rosso si trovano in acque saudite. Bangladesh. Ucciso Tamin, "stragista di Dhaka” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 29 agosto 2016 Per il governo è stato l’ideatore dell’attacco del primo luglio al ristorante per expat. La polizia del Bangladesh ne è certa. Anzi, certissima: quel corpo riversato a terra accanto ad altri due distesi in un lago di sangue nella palazzina a due piani della cittadina di Narayanganj, 25 chilometri a Sud della capitale Dhaka, è quello di Tamim Chowdhury. Con la sua morte, e quella di due suoi sodali, il Bangladesh chiude almeno in parte lo spinoso capitolo della strage che agli inizi di luglio ha visto uccidere un gruppo di 22 ostaggi - tra cui nove italiani - in un bar esclusivo della capitale frequentato da "expat”. L’azione era stata rivendicata da Daesh e Tamin ne sarebbe stato l’ideatore. Tamin è però anche leader di una fazione del gruppo Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh (Jmb), gruppo jihadista del Paese asiatico, che il governo aveva indicato subito come l’autore dell’attentato negando fosse opera di Daesh. La morte di Tamin non potrà smentirlo o confermarlo. Stando alle fonti di polizia, l’azione è iniziata al mattino presto, all’alba, quando la palazzina coi tre sospetti è stata circondata. Per un quarto d’ora (!), dice sempre la polizia, si intima la resa ma non arrivano risposte: i militanti invece avrebbero dato fuoco a una stanza con l’intento forse di distruggere prove, documenti, laptop. Alle 8 e 45 scatta l’operativo e benché ora la polizia dica che avrebbe voluto Tamin vivo, i tre vengono falciati. Del resto sono armati di mitra e machete e forse non si vogliono arrendere ma la resistenza comunque dev’essere durata poco. Passa qualche ora e giornali e rete vengono inondati di fotografie dei tre cadaveri il cui capo sarebbe stato l’uomo che progettò la strage del 1 luglio al Holey Artisan Bakery a Gulshan, quartiere residenziale di alto bordo a Dhaka. Su Tamin, un bangla canadese tornato a Dhaka nel 2013 e presto indicato tra i sospetti, vien messa una taglia di 22mila euro e per gli inquirenti il colpevole è lui. Non sono chiari i rapporti tra Daesh e Jmb ma Tamin sarebbe stato a capo di una fazione pro califfato. Il quadro resta confuso, almeno nelle attribuzioni delle sigle. Daesh o no? Certo, ai famigliari delle vittime non deve comprensibilmente importare un granché, ma c’è un aspetto rilevante che non ha solo a che vedere con i diritti che vanno riconosciuti anche agli assassini e che è difficile riconoscere loro una volta morti. Il governo reagisce sempre come se Daesh non esistesse anche se ha rivendicato l’attentato a diversi stranieri, come nel caso degli italiani Cesare Tavella e Piero Parolari, quest’ultimo salvatosi per miracolo. Per il governo laico della premier Sheikh Hasina, la responsabilità è sempre di gruppi locali e non di una branca in Bangladesh del progetto dell’Uomo nero in turbante. Del resto coi gruppi islamisti (alcuni dei quali - come Jmb - fuorilegge) il governo ha scelto il pugno di ferro da tempo e molto spesso i militanti finiscono giustiziati senza che possano poi essere interrogati. Diversi attivisti di Jmb sono stati uccisi in scontri a fuoco con le forze dell’ordine e sei dei suoi leader sono stati impiccati nel 2007 dopo che l’organizzazione aveva messo a punto, nel 2005, l’esplosione in un solo giorno di 500 ordigni (da allora è stata messa fuori legge). In questo Paese violento, anche sul piano del riconoscimento dei diritti, si alterna il pugno di ferro alla tolleranza necessaria a far convivere oltre 150 milioni di persone che sopravvivono su un Paese grande la metà dell’Italia e che sono in larghissima maggioranza di fede musulmana (e poveri). È una storia difficile, complicata dal retaggio coloniale (e dalla guerra che divise l’allora Pakistan orientale - oggi Bangladesh - dal Pakistan) e di cui si fa fatica a venire a capo. A cominciare dall’attentato al bar: messo in atto da ragazzi che venivano da buone famiglie o, come Tamin, dalla diaspora ricca in Occidente. È che a volte, studiare apre il cervello e gli occhi anche sulle ingiustizie del proprio Paese e questo può portare a scelte radicali, specie se il retroterra culturale è un patrimonio di violenze. Ma Tamin non potrà raccontarcelo. Né dirci di Daesh o se davvero era stato lui a progettare l’attentato. Il governo e la polizia registrano una vittoria. Noi forse ne sappiamo meno di prima. Filippine. Attacco di islamisti a un carcere, evadono 28 detenuti La Repubblica, 29 agosto 2016 Tra le persone in fuga, 8 militanti dello Stato islamico. Erano stati arrestati il 22 agosto a un posto di blocco. Attacco a una prigione nelle Filippine. Un carcere, nel sud del paese - a Lanao del Sur, 800 chilometri da Manila - è stato assaltato da militanti che mostravano le insegne dello Stato islamico. L’azione ha portato all’evasione di 8 militanti e di altri 20 detenuti. Lo ha annunciato la polizia locale, specificando che il blitz è avvenuto contro la prigione di Marawi da parte di una cinquantina di terroristi armati del gruppo Maute, uno dei numerosi movimenti islamici dell’isola di Mindanao. Gli estremisti erano armati con armi d’assalto come fucili Ak-47 e M-16. Tra i fuggitivi anche il leader del gruppo Maute, Hassim Balawag e tre donne che erano state arrestate la scorsa settimana dopo che nella loro auto erano state trovate bombe artigianali e pistole. Gli otto combattenti liberati erano stati arrestati lo scorso 22 agosto dai militari a un posto di blocco, la scoperta di armi ed esplosivi dentro una camionetta. Gli assalitori, secondo quanto riferito dalla polizia, brandivano le bandiere nere dell’Is. Il gruppo Maute è un’organizzazione armata che ha giurato fedeltà all’Is. È responsabile di attentati esplosivi, rapimenti e uccisioni nella provincia di Lanao del Sur.