Esecuzione penale esterna e rispetto della sentenza Torreggiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2016 Gli obiettivi del Piano di performance 2016-2018, approvato a luglio dal ministero della Giustizia. Rispetto della sentenza Torreggiani, più investimenti per l’esecuzione penale esterna, attuazione del "regime aperto" all’interno di tutte le carceri italiane. Sono alcuni dei punti del piano di performance relativo al triennio 2016-2018, approvato a fine luglio dal ministero della Giustizia. Le amministrazioni pubbliche devono adottare, in base a quanto disposto dal Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, metodi e strumenti idonei a misurare, valutare e premiare la performance individuale e quella organizzativa, secondo criteri strettamente connessi al soddisfacimento dell’interesse del destinatario dei servizi e degli interventi. Il Piano della Performance è il documento programmatico triennale che individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi e definisce, con riferimento agli obiettivi finali ed intermedi ed alle risorse, gli indicatori per la misurazione e la valutazione della prestazioni dell’Amministrazione, dei titolari di posizioni organizzative e dei dipendenti. Competenze istituzionali del Dap - Per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il piano rappresenta l’organizzazione e la mappa degli obiettivi del dipartimento cercando di mantenere una continuità con il Piano del 2015. In esso vengono delineate una serie di azioni volte a mantenere e riavvicinare l’esecuzione penale alla previsione della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è deputato all’attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza negli istituti e servizi penitenziari e del trattamento dei detenuti e degli internati, nonché dei condannati e internati ammessi a fruire delle misure alternative alla detenzione; cura il coordinamento tecnico operativo, la direzione ed amministrazione del personale e dei collaboratori esterni dell’amministrazione. In conseguenza dell’emanazione del nuovo regolamento di organizzazione del ministero della Giustizia, è stata ridefinita anche la composizione interna strutturale e funzionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che, attualmente, è costituito da una sede amministrativa centrale, a Roma, e dai Provveditorati regionali, le Scuole di formazione e gli Istituti penitenziari, che compongono le strutture periferiche. La novità più rilevante della riorganizzazione dell’amministrazione penitenziaria riguarda l’assorbimento dell’esecuzione penale esterna nel nuovo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, al fine di consolidare l’integrazione dei sistemi metodologici dell’esecuzione penale degli adulti con quella dei minori. L’intento è quello di creare una nuova linea strategica per rinforzare gli interventi di trattamento del ristretto e consolidare le interlocuzioni tra l’area detentiva e la comunità sociale, nonché di assicurare l’omogeneità degli interventi di esecuzione penale, sebbene attraverso una diversificazione degli strumenti da adottare, al fine di razionalizzare le risorse e ridurre la spesa di gestione, finalità che rappresenta il fulcro della riforma ministeriale in atto. Spesa minima per il settore detentivo - Alla data del 1 gennaio 2016 disponeva di 43.564 unità di personale in forza, a fronte di una presenza detentiva pari a 52.164 unità. Il personale è distribuito nei diversi comparti ed è diviso in due settori, quelli dirigenziali che sono 371 unità e il personale normale che è composto da 43.184 unità. Le risorse assegnate all’intero dipartimento ammontano a 2.732.887.854 euro. Il piano di performance ridefinisce i numeri e stima una spesa leggermente inferiore. Tra dirigenti, personale comparto sicurezza e quello del comparto ministeri la spesa ammonta a un 1.903.600.000 di euro. Poi ci sono le spese a favore dei detenuti. Il "settore detentivo" raccoglie costi diretti (destinati al mantenimento, alla cura, allo studio, alle attività lavorative e quant’altro attinente alla popolazione detenuta) e costi indiretti (provenienti dalla ripartizione delle spese relative ai servizi ed alle utenze come la mensa, i canoni, le manutenzioni, ecc.): il totale ammonta ad una spesa di 388.318.596 euro. Quindi il piano conferma che della spesa totale annuale per l’intera macchina penitenziaria, che raggiunge quasi tre miliardi, solo una piccola percentuale riguarda i detenuti. Gli obiettivi strategici - Il testo esordisce dicendo che il 2016 è innanzitutto permeato da quegli effetti evolutivi sul rispetto della dignità umana in condizioni di restrizione che hanno seguito la nota sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani Torreggiani dell’8 gennaio 2013. Inoltre l’attività del Dipartimento dovrà ispirarsi agli esiti degli Stati generali dell’esecuzione penale 2015, un ampio processo di consultazione pubblico che ha coinvolto nel dibattito penitenziario giuristi, intellettuali, accademici e i maggiori rappresentanti del terzo settore e dunque la cittadinanza attiva. Infine il 2016 - promette sempre il testo approvato - è l’anno in cui sarà pienamente realizzata l’emancipazione operativa dell’esecuzione penale esterna entro il nuovo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità. Con riferimento alla tematica della detenzione e del trattamento proseguirà l’attività di monitoraggio del Dipartimento relativa alla realizzazione presso gli Istituti del "regime aperto" e sulle modalità di realizzazione della "sorveglianza dinamica" sul territorio nazionale secondo le linee guida della circolare del 2013. Il monitoraggio di tali attività non avrà solo uno scopo di verifica, ma consentirà di esaminare le caratteristiche dei sistemi attuati anche al fine di individuare "buone prassi" operative che possano essere condivise e successivamente diffuse come modus operandi a livello nazionale. Il Dipartimento si impegnerà ad incrementare le sinergie con il mondo esterno imprenditoriale e cooperativistico, con il ministero del Lavoro e con il ministero dello Sviluppo economico, con l’Agenzia delle Entrate, con il ministero delle Politiche Agricole; a supportare i provveditorati regionali e le direzioni di istituto nello scambio di conoscenze e di esperienze per elaborare proposte innovative; a porre particolare attenzione all’offerta formativa e lavorativa della popolazione detenuta femminile. Esecuzione penale esterna e risarcimento - Con riguardo ai rimedi risarcitori di cui alla sentenza Torreggiani, il Dap proseguirà l’attività del contenzioso davanti alla magistratura, ma anche l’avvio alla liquidazione delle somme di denaro dovute dall’Amministrazione penitenziaria a seguito di condanna. Relativamente al personale e alla formazione, coerentemente con lo scenario in atto, l’attività formativa seguiterà ad essere ispirata al tema della "detenzione dignitosa, soggettivamente utile e sicura", declinato prioritariamente nell’ambito dei corsi di formazione iniziali o d’accesso e, compatibilmente con le risorse, nei corsi di aggiornamento del personale. Proseguirà la formazione sulla messa alla prova processuale, sulle norme deflattive e i sui ricorsi giurisdizionali che investono l’amministrazione. Rispetto all’esecuzione penale esterna, l’azione per il 2016 sarà collegata alla ridefinizione delle risorse umane, strumentali e finanziarie idonee, per far fronte all’incremento delle misure alternative derivante dalle recenti riforme legislative. Gli obiettivi prioritari si concretizzeranno sinteticamente nel favorire l’accesso alle misure alternative alla detenzione, nonché quello relativo alla messa alla prova ed ai Lavori di pubblica utilità sia attraverso il raggiungimento di elevati standard di qualità dei servizi di inclusione sociale e di riabilitazione dei soggetti in esecuzione penale esterna. Toghe contro le pensioni "ad personam" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2016 La terza proroga al pensionamento dei magistrati, cancellata dal Cdm di giovedì sera ma destinata a riapparire nel prossimo, inizia a muovere il dibattito tra le toghe. Pur in assenza di un testo "ufficiale", i rumors su una legge "ad Cassationem" - che cioè salvi le tre posizioni verticistiche della Suprema Corte dalla falcidie di "fine corsa": oltre 400 stop in un anno - suscita più di qualche perplessità e riapre le critiche sulla mancata progressività dello spoils system per anzianità varato dal Governo nel 2014. Magistratura Indipendente "esprime forti perplessità rispetto alla ipotesi di stampa su un’imminente ulteriore proroga del pensionamento dei magistrati solo per un numero limitato di colleghi. La misura appare espressione, ancora una volta, di una politica legislativa improntata alla improvvisazione e corre il rischio di essere percepita come un provvedimento ad personas, con conseguente appannamento dell’immagine e dell’indipendenza dei magistrati beneficiari". Secondo Mi "la riduzione improvvisa da 75 a 70 anni senza gradualità e senza norme transitorie è stata un errore" che ha costretto "il Csm a procedere in maniera affrettata a coprire oltre 400 posti direttivi e semidirettivi in pochi mesi. Molte nomine peraltro sono già state fatte e ri- sultano già avviate le procedure per i posti direttivi e semidirettivi che andranno a scadere nei prossimi mesi". Infine, "l’età media chi entra in magistratura è elevata, per la trasformazione del concorso in magistratura in un secondo grado". Pertanto, conclude Mi, "è auspicabile un intervento legislativo che valga per tutti, che sia finalmente definitivo e che vada nella direzione di criteri certi e di un giusto equilibrio", cioè 72 anni per tutti previa verifica dell’idoneità dopo il compimento dei 70. Più dura Area - componente di sinistra - secondo cui la nuova proroga ventilata "è la dimostrazione dell’improvvisazione con cui si è proceduto alla repentina riduzione dell’età del pensionamento dei magistrati, senza alcuna gradualità, senza adeguate norme transitorie e senza un’accelerazione dei concorsi dei nuovi magistrati per consentire un naturale ricambio". "Continuare con norme transitorie ed eccezionali - aggiunge Area - vuol dire aggiungere errore ad errore. È emblematico che già si sia operato con una proroga e che si voglia procedere con un’altra. Evidentemente il pensionamento anticipato di centinaia di magistrati ha creato e continua a creare disservizi per la crescente scopertura degli organici, sempre superiore al 10% negli ultimi anni, e per il forte ricambio negli incarichi direttivi, anche se l’impegno del Csm per le nomine di incarichi direttivi e semi direttivi consente di limitarne l’impatto". Autonomia e Indipendenza, componente che esprime il presidente di Anm, Piercamillo Davigo, "ha detto otto mesi fa (inascoltata) le cose che stanno dicendo i vari gruppi Anm solo oggi" sulla proroga al pensionamento, spiega Aldo Morgigni, consigliere togato del Csm ed esponente di A e I. "Sarebbe opportuno - aveva detto Morgigni alla nomina del presidente di Cassazione Giovanni Canzio, a dicembre 2015 - che qualora il legislatore volesse addivenire a un’ulteriore modifica di queste disposizioni lo facesse da subito, lo facesse immediatamente, con una parola finale che desse chiarezza". Storia di giudici che salvano i banchieri e poi diventano anche loro banchieri di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 agosto 2016 È una storia semplice. A Vicenza, nei primi anni di questo secolo, c’è il crack di una banca. I magistrati indagano il presidente Giovanni Zonin, e lo assolvono. Poco tempo dopo gli stessi magistrati lasciano la toga e vengono chiamati ad incarichi dirigenziali in banche e imprese controllate dalla banca di Zonin. La magistratura ordinaria non interviene per indagare sulla vicenda. Il Csm non è autorizzato a farlo perché i protagonisti non sono più giudici ma ex giudici. Vi ricordate quel film di Elio Pieri: "Il cittadino al di sopra di ogni sospetto"? Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati fino al 2012 e attualmente Pm della Procura di Roma nel Pool che indaga su Mafia Capitale, rispondendo questa settimana ad una domanda de Il Dubbio sull’efficacia del disciplinare delle toghe, aveva messo in evidenza alcune anomalie del sistema, troppo spesso condizionato dai risvolti mediatici della condotta incriminata. L’esempio era fra le eventuali responsabilità disciplinari della Pm di Trani, fotografata intenta a farsi baciare il piede da un avvocato, e quelle dei magistrati di Vicenza che (non) avevano negli anni indagato sul crac della locale Banca Popolare. "Quando le indagini sono state trasferite dalla Procura di Vicenza alla Procura di Roma - disse Cascini - si è proceduto con gli arresti e con i sequestri. Scoprendo, nel contempo, che alcuni magistrati che ricoprivano ruoli di vertice negli uffici giudiziari vicentini erano transitati nei ruoli dirigenziali dell’istituto di credito: ecco, io mi preoccuperei maggiormente di individuare meccanismi per sanzionare questi "legami occulti", nei quali spesso le "apparenze" sono salve, ma che "nella sostanza" compromettono gravemente l’imparzialità del magistrato". La vicenda della Banca Popolare di Vicenza è, infatti, emblematica di come alla "forma" non corrisponda la "sostanza". E l’esito dell’inchiesta aperta il mese scorso dal Consiglio superiore della magistratura sui magistrati veneti che, nell’ultimo decennio, hanno sempre puntualmente archiviato ogni indagine sulla Banca Popolare di Vicenza, non accorgendosi che dietro i patinati bilanci dell’istituto bancario guidato dal potentissimo Gianni Zonin si celava, invece, un pauroso buco di bilancio che ha trascinato sul lastrico migliaia di risparmiatori, rischia di essere un buco nell’acqua. La vicenda, per la cronaca, nasce nel 2008, quando Adusbef, Federconsumatori ma anche semplici cittadini iniziarono a segnalare "l’inerzia collusiva della procura della Repubblica di Vicenza" su come venivano gestite le indagini sulla Banca Popolare di Vicenza. Decine di esposti tutti finiti nel cassetto. Nell’ultimo esposto, che ha dato finalmente il via agli accertamenti da parte del Csm sulle toghe venete rimaste inerti davanti al crac della Popolare di Vicenza, è ricostruita la storia delle indagini aperte nei confronti dei vertici della banca, a partire dall’ex presidente Gianni Zonin, e finite in nulla. In particolare, tra i provvedimenti da esaminare si ricorda "l’archiviazione - chiesta dal pm Angela Barbaglio e firmata dal giudice Eloisa Pesenti - della denuncia del 2008 di Adusbef che riteneva eccessivi i 58 euro per azione BpVi". La richiesta non fu comunicata alle associazioni dei consumatori, che si rivolsero alla Cassazione, la quale a sua volta rimandò gli atti a Vicenza. Ma qui si registrò una nuova archiviazione. Il procuratore dell’epoca Antonio Fojadelli trattenne l’inchiesta e chiese l’archiviazione per Gianni Zonin e il consigliere delegato Glauco Zaniolo per truffa, false comunicazioni sociali e conflitto di interesse. Il non luogo a procedere fu firmato dal giudice Stefano Furlani. I sostituti procuratori generali veneziani Pietro Emilio Pisani e Elio Risicato fecero ricorso. Ma la Corte d’Appello, allora composta da Alessandro Apostoli Cappello, Elisa Mariani e Irene Casol, confermò la decisione di Vicenza. Archiviazioni che vanno lette alle luce dei "legami occulti" evidenziati da Cascini. Il procuratore di Vicenza che archiviò le indagini a carico di Zonin, Fojadelli, una volta andato in pensione divenne consigliere di Nord Est Merchant srl, controllata da Banca Popolare di Vicenza. La presidente della Corte di Appello che respinse il ricorso, Manuela Romei Pasetti, lasciata la toga, è diventata consigliere di Banca Nuova, sempre controllata da Banca Popolare di Vicenza. Una nuova vita professionale. Su costoro il Csm - come ha sottolineato il Vice presidente Giovanni Legnini - "ha delle competenze limitate non potendo valutare condotte dei magistrati non più in servizio". Forse, sono altri i comportamenti su cui bisognerebbe scandalizzarsi rispetto a quello del Pm che si fa baciare il piede. Marche: il terremoto in carcere, detenuti e agenti chiusi dentro viverefermo.it, 27 agosto 2016 Antigone Marche: un primo resoconto di come si sono vissuti quei momenti negli istituti di pena della nostra regione. Procedure di evacuazione non messe in atto e di difficile applicazione. Da Ministero e Protezione Civile nessuna comunicazione su come agire Non è chiaro come sia nato questo modo di dire, "Fare la fine del topo". Certo è che, in caso di terremoto, questa è la prospettiva per chi sta chiuso in cella. E in una situazione simile si trova anche chi si occupa della sorveglianza. "Ho pensato che potevamo fare la fine dei topi in gabbia": queste le parole di un detenuto che riassumono in modo significativo lo stato d’animo di chi si trova in carcere. Qui, infatti, bisogna dimenticare i film americani, dove con un pulsante si aprono automaticamente tutte le celle. Nelle carceri nostrane, l’agente di polizia di turno (e di notte il personale è ridotto all’osso...), per garantire un’evacuazione in caso di calamità, dovrebbe aprire una serie di cancelli per entrare in sezione e poi i blindi e le grate. Ovviamente, in sezione non esistono uscite di sicurezza con apertura a spinta. Nel momento in cui si verificava la scossa sismica del 23 agosto scorso i detenuti erano nelle loro celle chiuse e, per quanto ne sappiamo, sono rimasti all’interno anche durante le scosse successive. Non risulta che dal Ministero o dalla Protezione Civile sia arrivata disposizione di agire diversamente. Per cui anche il personale di custodia è rimasto all’interno della struttura. Un altro detenuto dice: "Avrei certamente preferito che fossimo usciti nel campo, ho avuto veramente paura". Ancora: "Uno di noi ha avuto una crisi isterica perché le crepe nella sua cella sono aumentate di dimensione". In alcune strutture, del resto, è anche difficile pensare ad un’evacuazione sicura perché come a Camerino non c’è un campo da calcio, ma solo piccoli cortili tra quattro mura. Inoltre, non risulta che il giorno seguente sia stato concesso ai detenuti di mettersi in contatto telefonico con le proprie famiglie per rassicurarle sulle proprie personali condizioni ed accertarsi della condizione dei propri familiari. Neanche a coloro che hanno parenti nelle Marche meridionali interessate più direttamente dal sisma. Terremoto. Le foto del dolore altrui sono un debito etico di Giorgio Fontana Corriere della Sera, 27 agosto 2016 Guardando e condividendo gli scatti ci sentiamo più vicini a chi ha sofferto, ma a volte ce ne allontaniamo, perché la sofferenza dei corpi così disponibile è astratta: lo strazio ha senso se ci costringe a impegnarci di più nel fare tutto quello che possiamo per la prevenzione. Negli ultimi due giorni ho osservato, come tutti, numerose fotografie del terremoto in centro Italia. Edifici distrutti, centri di accoglienza, soccorritori al lavoro, cumuli di macerie, e soprattutto persone: quelle vive - disperate, tremanti, senza casa - e quelle morte. E come sempre, mi sono chiesto: sono davvero necessarie tutte queste immagini? Ed è davvero necessario ribatterle di continuo sui social media? So che è una domanda banale: la scelta di documentare il dolore è meno problematica che in passato, e spesso si traduce in una moltiplicazione indebita. Questo accade sia per orribili ragioni di cinismo o per un’assuefazione al racconto del male, ma non solo. Forse vi si indulge così tanto anche per una forma di esorcismo. Se lo condivido pubblicamente, posso in qualche modo controllarlo; posso inserirlo in uno schema di denuncia collettiva - lo fanno tutti- benché spesso superficiale. È un rito come un altro, frequentabile in ogni momento con un clic. Allora una domanda migliore potrebbe essere: che cosa ci dicono quelle fotografie? Meglio: in che modo possiamo educare il nostro sguardo affinché ci dicano qualcosa di sostanziale e duraturo? Il modo in cui osserviamo le immagini della catastrofe dovrebbe trasformarsi da un rito collettivo rivolto al passato - una messa digitale che piange la tragedia e poi la rimuove - a un rito collettivo rivolto al futuro, all’impegno, alla prevenzione. Forse non sarà un’osservazione molto originale, ma mentre guardavo una donna ferita e in lacrime accanto alle rovine, pensavo che il nostro diritto di osservare quel dolore doveva essere ripagato con un dovere: quello di evitare che un simile dolore accada di nuovo in futuro. Altrimenti è tutto vano. La fotografia come debito etico: ecco, questo è quanto è accaduto; mai è stato così facile vederlo e farlo vedere ad altri; ora che si fa? Il punto è che guardando o condividendo uno scatto - i due atti sono spesso inseparabili - ci sentiamo più vicini a chi ha sofferto; ma forse invece ce ne allontaniamo. La sofferenza dei corpi è sempre così disponibile da apparire quasi astratta: e la coazione a riprodurla finisce in se stessa. Non crea una comunità attiva ma solo una comunità passiva, fatta di indignazione sommaria, piuttosto breve, spesso autoassolutoria. Quando ciò che dovrebbe stimolare - e che viene documentato più di rado - sono i gesti concreti di solidarietà, gli aiuti sul campo, la tenacia per portare in salvo i sopravvissuti, e soprattutto un serissimo lavoro di prevenzione. Perché i terremoti non sono prevedibili, ma le aree a pericolo sismico possono e devono essere rese più sicure. Nei giorni successivi ai tragici fatti di Nizza, diversi miei conoscenti hanno citato una frase di Susan Sontag, tratta dal saggio Immagini del disastro: "Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile". L’attualità di questa affermazione è evidente, e potrebbe essere applicata senza problemi anche al recente terremoto. Come farsi strada nella complessità del mondo e insieme rendere giustizia alla brutalità improvvisa della violenza che lo percorre? La fotografia sembra una risposta ragionevole: è alla portata di tutti, è condivisibile da chiunque in un istante, e all’apparenza non richiede nemmeno troppi ragionamenti. Ma proprio qui sta il problema. Perché pochi citano quanto Sontag aggiunge, identificando nella fantasia un rimedio popolare alla doppia minaccia cui siamo sottoposti: "Una delle cose che la fantasia può fare è di sollevarci dall’insopportabile monotono e distrarci dalle paure - attuali o future - con una fuga nell’esotismo di situazioni pericolose risolte lietamente nell’ultimo minuto. Un’altra cosa che può fare è di normalizzare ciò che psicologicamente è insopportabile, assuefacendoci a esso. Nel primo caso la fantasia abbellisce il mondo, nel secondo lo neutralizza". La scrittrice americana si riferisce innanzitutto ai film di fantascienza a carattere apocalittico, in cui vede una risposta banalizzante della nostra incapacità di reagire al terrore. E quando il disaster movie va in scena nella realtà che ci sta attorno, reagiamo con un mezzo istintivo ma in fondo altrettanto inefficace della fantascienza di cui parla Sontag: spargendo le immagini della catastrofe. La mettiamo in scena per un po’ e le commentiamo, sperando che questo basti a salvarci. Restiamo inerti di fronte al loro strapotere, ma così rischiamo di privarci dell’unica vera salvezza: sostituire alla cieca riproduzione del dolore una comprensione lucida di quei fatti e un impegno quotidiano a impedire che si ripetano. A rendere il mondo un luogo più abitabile e meno ingiusto per gli altri - per chi vive in una zona a rischio, per chi fugge da una guerra, per chi è più povero o subisce la diseguaglianza della nostra società. In un altro saggio - Nella grotta di Platone - Sontag scriveva: "Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere, alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico". Il passaggio da tale conoscenza superficiale a una più profonda, impegnata e politicamente attiva è senz’altro faticoso; ma è anche indispensabile. Terremoto. Zero educazione alla catastrofe, l’Italia non cambia verso di Emanuele Piccardo Il Manifesto, 27 agosto 2016 Prima, durante e dopo. Territori insicuri, approccio sbagliato all’evento sismico. E dopo la tragedia ancora tende, simbolo di arretratezza culturale. Giappone e California su un altro pianeta. Prevenzione ed educazione sono due parole poco attuate quando si parla di catastrofi ambientali come terremoti e alluvioni, soprattutto in Italia. In queste ore si assiste alla retorica del linguaggio della comunicazione, sia da parte dei giornalisti sia da parte dei politici. I geologi, gli unici esperti in materia, sono la categoria più inascoltata insieme ad architetti, ricercatori e antropologi che hanno trattato il tema della catastrofe negli anni. Le esperienze recenti dell’Aquila e dell’Emilia non hanno insegnato nulla, si continua ad agire nello stesso modo: zero prevenzione, zero educazione alla catastrofe. Molti pensano che conoscere i fenomeni ambientali della propria zona di residenza non sia così importante, in fondo pensiamo sia questione di fortuna. Non abbiamo più memoria del passato come ha ricordato il geologo Tozzi, che ha analizzato le zone terremotate note per quei fenomeni fin dai tempi di Tacito (51 d.C.). Poi quando accade l’evento, non sappiamo cosa fare. La politica, abile nelle parole di circostanza, preferisce discutere per mesi di questioni come il referendum, che incidono marginalmente sulla cittadinanza, piuttosto che mettere in sicurezza il territorio. Quando nel 2013 insieme ad Anna Rita Emili, architetto e ricercatrice ad Ascoli Piceno, realizzammo a Torino per il Festival Architettura in Città, un prototipo di unità abitativa per il post-catastrofe, nessun amministratore e nessun funzionario della Protezione Civile comunale torinese partecipò, nonostante li avessimo invitati. Ciò dimostra un disinteresse da parte degli addetti ai lavori nel cambiare comportamenti consolidati, evidente anche nell’uso delle tende per la prima accoglienza, escludendo a priori altre tipologie e materiali come le micro-unità abitative in cartone che Shigeru Ban realizzò per l’Onu per il terremoto di Kobe (1995). Rivedere ancora i container, le tende e i letti all’interno dei palazzetti sportivi, è sintomo di arretratezza culturale. Ban per il terremoto del 2011 realizza il Paper Partition System da collocare nei palasport formato da un insieme di strutture tubolari in cartone di dimensioni variabili, a seconda del nucleo famigliare, separate le une dalle altre da teli bianchi per preservare la privacy. Dunque "cambiare verso" significa attuare un nuovo approccio alla catastrofe per fasi: prima, durante e dopo. Definire nuove progettualità architettoniche che mettano in condizione gli edifici, a partire da quelli pubblici, di resistere alle scosse; solo così si può riattivare l’economia per il bene delle comunità. Analizzando situazioni analoghe in Giappone, Real Estate Tokyo, un sito di compravendita immobiliare, informa i futuri acquirenti sulle norme antisismiche in vigore nel paese e sui rischi delle tipologie costruttive (legno, cemento, acciaio). In questo report si evidenzia come a seguito del terremoto della prefettura di Miyagi (1978) le nuove costruzioni dal 1981 hanno standard costruttivi così elevati da ridurre il collasso degli edifici causato dal terremoto. Ma il Giappone investe energie e denari per educare i cittadini attivando esercitazioni in cui i pompieri simulano gli interventi, addirittura ricostruendo prefabbricati di legno con all’interno i volontari/vittime da salvare. In America la Fema (Federal Emergency Management Agency) istruisce adulti e bambini partendo dall’elemento base: il kit di sopravvivenza. Il sito ready.gov fornisce istruzioni per tipologia di catastrofe. Per il terremoto dropcoverholdon.org illustra in modo chiaro come comportarsi in casa e fuori durante l’evento sismico. Tra i tools a disposizione il gioco Beat the quake, dove è riprodotta una stanza arredata per sondare i comportamenti corretti. Il sito ufficiale del governo federale della California individua i punti fondamentali per prepararsi alla catastrofe: identifica il rischio, crea un Piano famigliare (in cui si pianifica come muoversi durante e dopo la catastrofe). Inoltre i cittadini sono invitati a partecipare a ShakeOut, esercitazione collettiva che si svolge ogni anno. Questo aspetto relativo all’educazione e alla comunicazione è ancora carente nella Protezione Civile Italiana, alcune campagne come Io non rischio sono un piccolo inizio anche se nei centri minori è inesistente. Come dimostra questo terremoto, non bisogna informare solo gli abitanti delle città ma anche tutti gli abitanti dei medi e piccoli paesi che costituiscono l’ossatura suburbana italiana. Oggi che siamo tecnologicamente avanzati e si può condividere tutto, sembra che non ci si accorga delle potenzialità della rete per monitorare i territori e per rendere i cittadini primi guardiani, e a costo zero. Terremoto. L’accusa del procuratore: "palazzi con più sabbia che cemento" di Dario Del Porto e Fabio Tonacci La Repubblica, 27 agosto 2016 Si indaga sul crollo di 115 edifici. Sopralluoghi e acquisizioni di atti, le prime mosse. "Non può essere stata solo colpa del destino". Verifiche sul ruolo di imprenditori chiacchierati. dai nostri inviati. Una scuola elementare appena ristrutturata che si sbriciola, i pilastri portanti incrinati. Un campanile restaurato tre volte che diventa la tomba di un bambino di pochi mesi. Case che crollano sotto il peso di soffitti in cemento armato poggiati sopra fragili mura di sassi. Palazzine dai tramezzi con più sabbia che malta. "No, quanto accaduto non può essere considerato solo frutto della fatalità", dice il procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva. L’uomo che, in queste ore, deve trovare la risposta più difficile: c’è una responsabilità "altra" per la strage dei 281 morti causata dal terremoto? "L’esperienza e la logica ci dicono che, ad Amatrice, le faglie hanno fatto tragicamente il loro lavoro. E questo si chiama destino. Ma se gli edifici fossero stati costruiti come in Giappone, non sarebbero crollati". Chiuso nel suo ufficio di Rieti, Saieva ricontrolla per l’ennesima volta la lista dei morti accertati sulla sua scrivania. "Sono loro, per ora, la mia priorità". Le salme. Da identificare ufficialmente, da sottoporre ad esame medico- legale una per una. "Tutte le nostre risorse sono impegnate su questo fronte". Ma il procuratore, che ha aperto un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo, sa bene la mole di lavoro che lo aspetta. E di cui già ha intravisto le tracce. Poche ore dopo il terremoto della notte del 24 agosto, infatti, è andato personalmente sui luoghi del disastro. "Per portare la mia solidarietà", spiega. Ma era anche un sopralluogo. Di fatto, il primo atto della sua inchiesta. "All’ingresso del paese ho visto una villa schiacciata sotto un’enorme tettoia di cemento armato", racconta. "Poco lontano c’era anche un palazzo di tre piani che aveva tutti i tramezzi crollati. Devo pensare che sia stato costruito al risparmio, utilizzando più sabbia che cemento". Sono i primi appunti di un fascicolo tutto da scrivere. "Cose che accerteremo a tempo debito. Se emergeranno responsabilità e omissioni, saranno perseguite. E chi ha sbagliato, pagherà". Sotto le macerie ci sono anche le carte su cui si baserà l’indagine della procura di Rieti, affidata a un pool di quattro magistrati. Sono i documenti raccolti dagli uffici tecnici di Amatrice (dove il municipio è devastato) e Accumoli, dove il campanile della chiesa è caduto. Permessi di costruzione, autorizzazioni, adeguamenti antisismici, progetti esecutivi, collaudi, relazioni dei direttori dei lavori. In sintesi, la vita burocratica di ogni edificio, di ogni appartamento, di ogni palazzo di questo territorio inserito dai geologi nella zona rossa, rischio sismico massimo. La polizia giudiziaria non li ha ancora acquisiti. Una volta presi tutti i faldoni, l’indagine si concentrerà sugli immobili che hanno subito i danni maggiori. Iniziando da quelli dove ci sono state delle vittime. Secondo una prima stima, sono 115 gli edifici crollati o gravemente lesionati nei due comuni del reatino. I pm, per prima cosa, verificheranno se ciò che è stato costruito ex novo o modificato negli ultimi 15 anni sia conforme al testo unico del 2001, la norma base con le disposizioni in materia di progettazione antisismica. Ma non basterà risultare in regola sulla carta. Ulteriori accertamenti saranno svolti su come sono stati realizzati i progetti dalle imprese. E neanche allora basterà, perché poi si guarderanno i collaudi: sono stati fatti per tutti? Sono stati fatti correttamente? Questa radiografia la subirà anche la scuola Romeo Capranica di Amatrice. Il simbolo di un fallimento, a suo modo. Torniamo indietro di qualche anno, intorno al 2010. Il comune di Amatrice riceve un primo finanziamento di 500mila euro dal fondo per l’edilizia scolastica. A questi, dopo il sisma dell’Aquila, se ne aggiungono 200mila, stanziati dalla Regione con l’obiettivo specifico del miglioramento antisismico di quell’edificio. Soldi che in realtà il comune di Amatrice anticipa dalle proprie casse, perché ancora oggi non sono stati erogati dalla Provincia. L’istituto viene comunque ristrutturato e inaugurato in tempi record: il 13 settembre 2012, alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico. Ma sull’esecuzione dei lavori, la storia si ingarbuglia. L’appalto lo vince il Consorzio Stabile Valori, controllato dalla Dionigi Srl, di cui è socio l’avvocato amministrativista Francesco Mollica, 39 anni. Un suo zio, l’imprenditore di Patti Pietro Tindaro Mollica, si è ritrovato più volte coinvolto in vicende giudiziarie, senza però aver mai riportato condanne e ottenendo da Tar e Consiglio di stato l’annullamento di alcune interdittive antimafia. Oggi Pietro Tindaro Mollica è ancora imputato per bancarotta a Roma. Attraverso l’avvocato Filippo Dinacci, il Consorzio stabile Valori, rappresentato da Valentino Di Virgilio, spiega: "Eseguiamo i lavori attraverso circa 80 consorziate. Nel caso di Amatrice sono stati assegnati ed eseguiti totalmente dalla Edil Qualità di Roma. Siamo certi della correttezza dell’operato dell’impresa costruttrice". Altro nodo da sciogliere riguarda un ulteriore appalto "per la prevenzione e riduzione del rischio connesso alla vulnerabilità degli elementi anche non strutturali della Capranica". La gara, per un valore di 172.000, si apre il 22 dicembre scorso e se la aggiudica la ditta Cricchi con un ribasso del 36,1 per cento. Solo pochi giorni prima del terremoto, alla preside della scuola viene comunicato che si sarebbe fatto un intervento al tetto. Le prime foto degli interni, scattate dalle squadre dei vigili del fuoco dopo il disastro, sembrano però suggerire problemi strutturali ai pilastri più che al soffitto. E alcune immagini televisive mostrano polistirolo e retine nelle strutture portanti. Ma Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice, non ci sta a finire sulla graticola: "Abbiamo già notificato ai carabinieri la delibera con la quale ci costituiremo parte civile. Evitiamo qualsiasi sciacallaggio. Ho dei figli, sono il primo ad essere sconvolto". Terremoto. La missione per il Paese di Luciano Fontana Corriere della Sera, 27 agosto 2016 I racconti, le storie e le immagini che arrivano dai borghi colpiti dal terremoto ci fanno sperare. C’è un’Italia piena di paura e di dolore che reagisce con orgoglio, forza e compostezza, che non si risparmia tra le macerie, che aiuta gli altri e si sente orgogliosamente parte di una comunità con la sua storia e i suoi valori. È un patrimonio immenso, che emerge in ogni situazione difficile. Non possiamo tradirlo. Dobbiamo darci tutti, subito, una missione per il Paese: mettere in sicurezza il nostro territorio. Case, ospedali, scuole, aziende, monumenti storici e chiese in quella lunghissima terra sismica che va, lungo la linea dell’Appennino, dal Nord al Sud dell’Italia. È una missione per il governo, prima di tutto,ma riguarda anche imprenditori, sindacati, associazioni e ognuno di noi individualmente. Abbiamo pagato nella nostra storia un prezzo enorme, in termini di vite umane e di danni economici, alla fragilità del territorio e all’incapacità come sistema di contenere gli effetti delle catastrofi naturali. Ieri Lorenzo Salvia ha raccontato che sette terremoti, dal Belice all’Emilia, sono costati 121 miliardi per la ricostruzione. E fuori da questi calcoli restano le attività che si sono interrotte, le certezze svanite di progettare con serenità il proprio lavoro, lo spopolamento di centri storici bellissimi. Fino a quel velo impalpabile di dolore e di precarietà che avvolge per sempre le famiglie che sono sopravvissute alle tragedie. Un piano straordinario per rendere finalmente sicuri tutti gli edifici pubblici e utilizzare le tecniche più moderne per far resistere alle scosse le case antiche richiede lo stesso desiderio di riscatto, di fiducia nel futuro che abbiamo avuto nell’Italia del dopoguerra. Perché comporta un impegno senza riserve del governo centrale, delle amministrazioni locali e di tantissimi italiani, ognuno per il proprio condominio, ognuno per la propria casa. Una mobilitazione di risorse pubbliche e private che renderà forse affrontabile la spesa (le ipotesi arrivano fino a 360 miliardi di euro nel lungo periodo) che sarebbe necessaria. Quanti soldi impieghiamo e quanti ne buttiamo in iniziative faraoniche insensate o del tutto inutili? Per non parlare poi del costo enorme della corruzione che ci rende ogni giorno un po’ più poveri come Paese. È un buon segno che la tragedia non sia stata marcata, almeno in questi primi giorni, da polemiche superflue in cui i politici si rinfacciano reciprocamente le responsabilità. È una storia di inefficienze e malgoverno troppo vecchia perché qualsiasi partito possa sentirsi completamente innocente. Quei nonni, quei bambini, quelle famiglie spezzate meritano una risposta diversa. Abbiamo l’occasione di impegnarci in una missione nazionale che guardi al futuro dei nostri figli e a quello di un Paese bello e tormentato. Non sprechiamola. Terremoto. Commissione d’inchiesta indipendente di Alfio Mastropaolo Il Manifesto, 27 agosto 2016 Dopo tutti i disastri, cittadini ed esperti devono collaborare a un’inchiesta autorevole e indipendente per un grande piano di tutela del territorio. Orrore, pietà, ma anche indignazione di fronte alle immagini trasmesse dalla tv. A sette anni dal sisma dell’Aquila, a quattro da quello in Emilia, per non risalire troppo indietro, si è ripetuto il medesimo tragico copione. Con un bilancio non meno grave. Non bisogna cedere all’antipolitica. Ma se volevamo altre prove, quest’ultima sancisce il definitivo fallimento della classe politica che ci governa. Le parole di cordoglio del capo del governo sono di sicuro sincere, ma sono ciò malgrado insopportabili. Sono più o meno le stesse che a suo tempo aveva pronunciato Berlusconi e che sentiamo ripetere ogni volta. Non ci sono scuse. Tutti quei morti si potevano evitare. Li hanno sulla coscienza i governanti, che disastro dopo disastro, funerale dopo funerale, nulla hanno fatto per mettere in sicurezza il territorio. E ce li ha sulla coscienza pure il paese, li abbiamo tutti noi, che non abbiamo la forza di ribellarci, che siamo sprovvisti della sensibilità collettiva di pretendere da chi la governa di prevenire simili disastri. Guardiamo con pietà tutti coloro che piangono, che sono rimasti senza un tetto, pensiamo con ancora a chi è stato ucciso dai crolli. Guardiamo con ammirazione a coloro che si sono precipitati a soccorrere i terremotati, quelli che scavano senza fermarsi, anche a mani nude. Nelle disgrazie gli italiani danno la miglior prova di sé. Smettono di essere quel popolo di incontenibili autori di sms e di tifosi di calcio che incontriamo tutti i giorni. E apprezziamo del pari la professionalità e l’efficienza della macchina dei soccorsi. Ma tanta efficienza non consola neanche un poco. È giunto il momento di dire basta. Di distinguere chi ha fatto qualcosa e chi non ha fatto nulla. Dal governo Berlusconi, che imbastì un’indecorosa speculazione sul terremoto aquilano, si sono susseguiti quattro governi. Dopo di lui sono arrivati il governo tecnico presieduto da Monti e il terremoto in Emilia. Poi altri due governi. Cosa è stato fatto? Certo, ci sono ministri e parlamentari che si sono attivamente adoperati per la ricostruzione. Ma chi ha pensato, dal governo, dall’opposizione, dalle amministrazioni pubbliche, a predisporre una seria politica di messa in sicurezza del territorio? Ci interesserebbe saperlo. La messa in sicurezza sarebbe persino economicamente conveniente. Prevenire è assai meno costoso che soccorrere e ricostruire. Non prevenire è uno spreco mostruoso di soldi degli italiani e anzi la prevenzione darebbe una spinta vigorosa alla nostra asfittica economia. Invece ci si attarda a progettare sgangherate riforme istituzionali, pasticciate leggi elettorali e inutilissime olimpiadi. Svegliamoci. Chissà se questa può essere l’occasione di una presa di coscienza collettiva. Il Palazzo pensa ad altro. Che ci pensino i cittadini. Perché non immaginare una competente, autorevole e indipendente Commissione d’inchiesta che accerti le responsabilità dei politici, che prenda in esame gli atti parlamentari, che indaghi sulle iniziative dei ministeri, e che magari elabori lei la proposta di un grande piano di tutela del territorio da imporre alla politica? Forse in questo caso la rete potrebbe essere utile per indicare e selezionare i candidati. Migranti. I profughi, gli sfollati e i miserabili di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 agosto 2016 Non c’è bisogno di intossicarsi con le schifezze della Rete per incontrare il lato oscuro della generosità nazionale, in queste ore così celebrata. Non c’è bisogno di leggere Libero, che inventa "sciacalli Rom" sconosciuti alle forze dell’ordine o insiste con la scemenza dei profughi in albergo, stipendiati 35 euro al giorno alla faccia dei terremotati in tenda. Anche Libero - il cui editore non era così attento al denaro pubblico quando intascava per anni decine di milioni di contributi ai quali non aveva diritto - a questo punto dovrebbe aver capito che 35 euro è il costo massimo del sistema di protezione per i richiedenti asilo: soldi che in gran parte vanno ai gestori, italiani, delle strutture (spesso al limite della decenza) e non ai migranti. Per loro circa 2,5 euro al giorno che i richiedenti asilo di Gioiosa Ionica hanno deciso di devolvere ai terremotati. È poco? È più dell’italico "sms solidale". Si può anche evitare di leggere il Tempo - stesso editore di Libero - o il Giornale, che richiamano in servizio addirittura Bertolaso per fargli stilare, dall’alto delle sue vergogne, una classifica del diritto all’assistenza: "Sarebbe inaccettabile vedere i migranti in albergo e i nostri terremotati in tenda, la priorità va a loro". Non occorre fare queste fatiche, perché il più brutto episodio di sciacallaggio in queste ore ha un protagonista che non si nasconde dietro l’anonimato della Rete né si aggira furtivo sulle macerie di Amatrice, a rischio di essere scoperto dall’inviato di Libero (e solo da lui). Ha un nome e cognome e fa il presidente della Regione Lombardia. Roberto Maroni vuole destinare il campo base dell’Expo 2015 - quello dove hanno alloggiato gli operai che hanno montato i padiglioni dell’esposizione - ai terremotati del Lazio e delle Marche. Che stanno a seicento chilometri di distanza. Lo vuole, lo dice, perché è meglio darlo a loro che ai profughi. "Mi pare una destinazione idonea invece che farci un campo "profughi"" ha scritto, comprese le virgolette, quando ha lanciato la sua "idea" su Facebook. Non conta che sia un’idea irrealizzabile, anche nella successiva versione di "smontiamo le strutture e inviamole sull’Appennino", perché i sopravvissuti al terremoto non hanno alcuna intenzione di essere deportati dalle loro terre e perché quei prefabbricati milanesi sono alti tre piani e allacciati alla rete idrica ed elettrica. Che si tratti di un’iniziativa del tutto strumentale è evidente da come l’iniziale entusiasmo dell’assessora regionale leghista Bordonali (assessora alla sicurezza, protezione civile e immigrazione, tutto insieme), convinta giovedì che "il primo parere della protezione civile è stato molto positivo", si sia trasformato ieri in un assai più prudente "abbiamo inoltrato la documentazione al Dipartimento di protezione civile per le valutazioni tecniche sia in ordine alla fattibilità che alla reinstallazione delle strutture stesse". Maroni, che pur di evitare i "profughi" è molto attivo, ieri ha sentito i liquidatori di Expo spa, proprietari del campo Base, i quali gli hanno detto che non faranno nulla in attesa di istruzioni da parte della protezione civile. Anche se, garantisce il governatore, hanno "un orientamento favorevole". Un orientamento favorevole a un’operazione assurda, dal momento che il campo Base non è una tenda o un insieme di container, ma una cittadella abitabile lì dove si trova, cioè dall’altra parte della strada rispetto al sito di Expo, ed è sviluppato su oltre 15mila metri quadri, che significa più di due campi da calcio. Maroni però, instancabile - del resto era ministro dell’interno quando regnava Bertolaso - ha chiamato anche il capo del Dipartimento della protezione civile Fabrizio Curcio, il quale avrebbe altro da fare in questo momento. Secondo Maroni, Curcio lo ha "ringraziato per questa iniziativa", il che significa che non c’è traccia di quel "primo parere positivo". Del resto anche quando Maroni ha offerto posti letto per i feriti negli ospedali della Regione gli è stato risposto "grazie tante, ma sono troppo lontani". La versione della Protezione civile, ieri sera impegnata in un vertice a palazzo Chigi con i rappresentanti delle regioni colpite, è che la telefonata tra Maroni e Curcio c’è stata, ma Curcio si è limitato a "prendere atto" dell’offerta di Maroni. "Come tutte le altre offerte che stiamo fortunatamente ricevendo in queste ore, sarà successivamente valutata e vedremo se sarà tecnicamente fattibile". Per la protezione civile, una cosa può considerarsi certa: "Gli abitanti delle zone colpite non saranno spostati dalle loro aree, perché questo è il loro desiderio". Dunque niente traslochi a Rho. Dovrebbe essere la montagna di Expo, per far contento Maroni, a spostarsi sull’Appennino. O almeno qualche suo pezzo, una cucina, una sala riunioni, tanto da rendere inservibile il campo Base per i richiedenti asilo, nel caso la prefettura di Milano dovesse ripensarci. Funziona così la solidarietà dei miserabili. Migranti. I Valdesi: "una politica inclusiva sulle migrazioni" di Luca Kocci Il Manifesto, 27 agosto 2016 Si è chiuso a Torre Pellice il Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi italiane. Con il rilancio del progetto "Corridoi umanitari" e la preoccupazione per le leggi "anti moschee" di Lombardia e Veneto. Verità e giustizia per Giulio Regeni, rilancio del progetto "Corridoi umanitari" e della richiesta all’Italia e all’Europa di una politica inclusiva sulle migrazioni, preoccupazione per le leggi "anti moschee" della Lombardia e del Veneto, rifiuto della retorica della "guerra di religione". Con l’approvazione di una serie di ordini del giorno, che affrontano sia temi religiosi ed ecclesiali sia questioni sociali e politiche, si è chiuso ieri a Torre Pellice il Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi italiane. L’ultimo atto dei sei giorni di confronto e deliberazioni democratiche fra i 180 "deputati" - che hanno rinnovato la fiducia al pastore Eugenio Bernardini come moderatore della Tavola valdese, l’organo esecutivo dell’Unione di metodisti e valdesi - è stato un grido contro il terrorismo, l’islamofobia e la guerra: il Sinodo ha espresso "viva preoccupazione" per "l’escalation del terrorismo di matrice islamista che colpisce in vari Paesi a maggioranza islamica, in Europa e nel resto del mondo", ma anche denunciato "la crescita di un pregiudizio anti-islamico che pretende di associare un’intera comunità di fede al terrorismo e alla violenza jihadista". È "una bestemmia l’associazione del nome di Dio a strategie di terrore, violenza e omicidio", ma non è in corso nessuna "guerra di religione". Oltre ad argomenti importanti per la vita delle Chiese valdesi e metodiste - a cominciare dall’otto per mille, in calo di poco più del 5% dopo anni di crescita, su cui è stata riconfermata la linea del "nemmeno un euro per il culto" ma tutto alla cultura e al sociale, pur ribadendo che "siamo una Chiesa" -, al Sinodo si è parlato anche di migrazioni, libertà religiosa e di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso al Cairo nel febbraio scorso, per cui è stato approvato uno specifico ordine del giorno in cui si chiede all’Italia e all’Egitto "di proseguire nella ricerca della giustizia e della verità". Sul tema della libertà religiosa in Italia, severa critica all’approvazione delle leggi sull’edilizia di culto della Lombardia e del Veneto, che "limitano diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà di coscienza e di religione": leggi contro tutte le confessioni religiose che non hanno ancora firmato un’Intesa con lo Stato italiano, di fatto veri e propri provvedimenti anti-moschee approvate dalle due Regioni a guida leghista. I valdesi rilanciano invece la necessità di una legge quadro sulla libertà religiosa che superi quella del 1929 sui "culti ammessi" e fanno una proposta: il 17 febbraio, data dell’emancipazione dei valdesi grazie alle lettere patenti del 1848 del re Carlo Alberto (ma anche giorno in cui, nel 1600, Giordano Bruno fu messo al rogo dal Tribunale dell’Inquisizione) sia la Giornata nazionale della libertà di coscienza, di religione e di pensiero. Confermato l’impegno sulla questione migrazioni, appunto con i "Corridoi umanitari" ("da progetto pilota potrebbe trasformarsi in un efficace strumento di gestione dei flussi migratori verso l’Europa", ha auspicato il responsabile, Paolo Naso) e l’appello per "una politica europea diversa, che promuova l’accoglienza e affronti le cause dei conflitti", ha ribadito Eugenio Bernardini. Un pensiero e un atto concreto anche sul terremoto che ha colpito l’Italia centrale proprio durante il Sinodo: la Federazione delle Chiese evangeliche ha aperto una raccolta fondi a favore delle popolazioni per interventi di urgenza. Questa estate il muro di Berlino è caduto alla rovescia di Jean-Marie Colombani Corriere della Sera, 27 agosto 2016 Dall’ascesa di Trump alla Brexit tornano di moda le divisioni locali, anche per la crisi diffusa della classe media. La nomina di Donald Trump come candidato del partito repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti; il voto a favore della "Brexit"; il terribile attentato del 14 luglio a Nizza; il fallito colpo di Stato in Turchia sfruttato dal presidente Erdogan per avviare una gigantesca purga: ognuno di questi eventi parla da sé. Sommati tra loro - in un combinato disposto di esplosione del populismo, ascesa dell’autoritarismo e amplificazione della minaccia terroristica - fanno probabilmente di questa estate una sorta di caduta del Muro di Berlino alla rovescia, la manifestazione più evidente di un possibile regresso storico: quello della democrazia liberale. Il contesto è, in ogni caso, quello di una sfiducia profonda e inedita rispetto a quest’ultima, il più delle volte in nome del rifiuto della globalizzazione, che colpisce tanto le sue tradizionali terre d’elezione (gli Stati Uniti, dove secondo i sondaggi solo il 10% della popolazione si fida dei suoi rappresentanti, un dato inaudito; e la vecchia Europa, con la Gran Bretagna che registra il più alto livello di sfiducia di sempre) quanto le realtà conquistate più di recente (gli ex Paesi dell’Est fautori della democrazia "illiberale"). Donald Trump ha ottenuto la sua investitura con una promessa: quella di erigere un muro per bloccare l’immigrazione, di rimandare "a casa loro" qualcosa come undici milioni di immigrati (latinos e musulmani, secondo lui). Un identico rifiuto dell’immigrazione, stavolta intraeuropea, ha alimentato la vittoriosa campagna dell’Ukip di Nigel Farage a favore della "Brexit". Allo stesso modo, l’afflusso di rifugiati è il pretesto scelto da quegli ex Paesi dell’Est (Ungheria, ma anche Slovacchia e Polonia) il cui ostentato "illiberalismo" maschera sempre di meno una tentazione autoritaria. Il ripiegamento e il rifiuto di ogni forma di immigrazione - sempre più spesso assimilata all’islamismo - sono anche il core business dell’estrema destra francese; la quale potrebbe ben avvicinarsi al potere: di fronte agli attentati, l’opinione pubblica è esposta alla tentazione di passare da una richiesta di "maggiore autorità" a un appello al regime autoritario. Dopo tutto, agli occhi di una parte di quella stessa opinione il modello da imitare si incarna nella persona di Vladimir Putin, un leader che fa sempre piazza pulita attorno a sé. La novità non risiede certo nel populismo in quanto tale: la tentazione del ripiegamento e del protezionismo è permanente. Sta piuttosto nella sua ritrovata popolarità, malgrado le lezioni della Storia, ovunque con lo stesso repertorio di argomentazioni: le istituzioni rappresentative, ostaggio delle élite, sarebbero l’ostacolo che si frappone all’applicazione di una volontà popolare che non accetta gli immigrati, né il libero scambio, né l’Europa, e ancor meno le garanzie accordate alle minoranze. Uno dei paradossi di questa situazione è che la sinistra, essendo esposta alla minaccia più immediata, dovrebbe schierarsi in prima fila e combattere con le unghie e coi denti. Ora, in Europa essa batte ovunque in ritirata; quando non è avviata al suicidio, come in Francia e in Gran Bretagna, succube in qualche modo dell’estrema sinistra. Donald Trump dovrebbe perdere la sua scommessa, grazie all’eterogeneità dell’elettorato americano e al senso di responsabilità di una parte dei repubblicani. Tuttavia, per quanto brutale e caricaturale sia stato il suo messaggio, ne è scaturito un potente movimento d’opinione che lascerà tracce durature e ha già fatto presa in Europa. Il successo della democrazia liberale, nella seconda metà del Ventesimo secolo, si è fondato sull’estensione del campo d’azione e della prosperità delle classi medie all’interno di società globalmente omogenee, nella cornice di un ordine mondiale stabile e trasparente. Viviamo in un’epoca in cui, in mancanza di crescita e di meccanismi di correzione delle disuguaglianze, le classi medie sono stagnanti e temono un declassamento, in seno a società sempre più eterogenee, e in uno scenario mondiale instabile e oscuro. Tutto questo mentre la rivoluzione digitale, fattore di accelerazione e dunque d’angoscia, cancella l’idea stessa di rappresentanza. Ora più che mai, dunque, occorre fare di tutto per evitare che la demagogia abbia la meglio sulla democrazia. Ungheria. Orbàn costruirà un secondo muro per bloccare i migranti di Andrea Tarquini La Repubblica, 27 agosto 2016 Il premier ungherese inasprisce le misure volte a bloccare i flussi ai confini, in vista del referendum di ottobre sulle quote previste dalla Ue. La barriera anti-migranti esistente non basta: l’Ungheria costruirà un muro-bis, un secondo sbarramento ancor più robusto e difficile da oltrepassare. Lo ha detto stamane il popolarissimo premier nazional-conservatore magiaro, Viktor Orbàn, parlando alla radio nazionale. Budapest dunque inasprisce le misure contro la grande migrazione. Anche in vista del referendum che si terrà all’inizio di ottobre, in cui gli elettori sono chiamati a dire sì o no all’imposizione di quote di ripartizione di migranti da parte della Ue a ogni Stato membro, e una vittoria del no è scontata. Sarà un nuovo successo annunciato del leader ungherese, e un nuovo problema per l’Unione europea dopo la Brexit. "Stiamo programmando la costruzione di una seconda barriera" lungo il tracciato di quella già esistente e costruita in corsa nel 2015 lungo il confine con la Serbia, ha spiegato Orbàn, aggiungendo: "La misura ci sembra necessaria anche tenendo conto della possibilità che la Turchia cambi la sua politica verso i migranti". Perché "se ciò accadrà, arriveranno a centinaia di migliaia ai nostri confini". La pianificazione della nuova opera è già in corso, ha precisato il premier. L’annuncio di Orbàn precede di poche ore l’incontro a Varsavia dei quattro leader del gruppo di Visegrad (Cèchia, Polonia, Slovacchia, Ungheria) con la cancelliera tedesca Angela Merkel. I quattro Paesi sono uniti nella linea della massima fermezza e chiusura anti-migranti e contestano la politica graduale, moderata, di braccia aperte condotta da Berlino e dalla Ue. "La questione-chiave è se Angela Merkel sarà disposta o no a seguirci sulla nostra richiesta di correzione delle fallimentari politiche d’apertura tedesche e della Ue, se vuole combattere al nostro fianco o no", ha affermato ancora alla radio Orbàn, che si profila sempre più come lo statesman-leader del gruppo di Visegrad e quindi del fronte centroeuropeo di no ai migranti. L’Ungheria, sommersa da 400mila migranti in transito l’anno scorso, si è blindata costruendo grazie ai reparti del Genio delle sue forze armate una barriera di filo spinato e lame di rasoio alta quattro metri lungo i confini con Serbia e poi anche Croazia, e organizzando al confine centri per la procedura d’esame per direttissima delle richieste di asilo. La maggior parte viene respinta, seguono respingimenti-lampo. Orbàn ha deciso anche di rafforzare da 44mila a 47mila il numero di poliziotti e soldati dispiegati alla frontiera per fermare i migranti. Budapest riflette da tempo anche sulla possibilità di estendere la barriera al confine con la Romania. Paese dove nella notte le forze di sicurezza hanno arrestato 28 migranti. Francia. Burkini, il Consiglio di Stato francese sospende il divieto di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 27 agosto 2016 Secondo la corte il provvedimento adottato nella città di Villenevue-Loubet è lesivo delle libertà fondamentali. Il Consiglio di Stato ha sospeso l’ordinanza del comune di Villeneuve-Loubet, vicino a Nizza, che vieta l’accesso alla spiaggia a chi non disponga di una "tenuta corretta, rispettosa del buon costume e del principio di laicità". Conosciuto come "divieto del burkini", nelle ultime settimane il provvedimento è stato preso più o meno negli stessi termini da una trentina di sindaci di tutta la Francia, ma ora viene bocciato dalla più alta autorità amministrativa del Paese, che non ha ravvisato i rischi di "turbamenti all’ordine pubblico" evocati dal sindaco di Villeneuve-Loubet. La decisione del Consiglio di Stato farà giurisprudenza anche per gli altri comuni. La battaglia legale - Dopo l’ordinanza del sindaco Lionnel Luca (Les Républicains, destra), emessa il 5 agosto, alcune associazioni avevano presentato ricorso presso il tribunale amministrativo di Nizza, che il 22 agosto aveva confermato la validità dell’ordinanza. La Lega dei diritti dell’uomo (LDH) e il Comitato contro l’islamofobia in Francia (CCIF) allora hanno presentato un ulteriore appello al Consiglio di Stato di Parigi, che ha accolto la loro richiesta. Le motivazioni - "A Villeneuve-Loubet, nessun elemento permette di affermare che dei turbamenti all’ordine pubblico derivassero dalla tenuta adottata da alcune persone. In assenza di tali rischi, il sindaco non aveva il diritto di prendere un provvedimento per proibire l’accesso alla spiaggia e al mare". Il tribunale di Nizza aveva sottolineato che il burkini e in generale un abbigliamento collegabile al fondamentalismo islamico potevano provocare problemi in una zona colpita dall’attentato della Promenade des Anglais del 14 luglio (86 morti), ma il Consiglio di Stato ha respinto questo argomento. "In assenza di questi rischi, l’emozione e le inquietudini suscitate dagli attentati terroristici, in particolare quello commesso a Nizza il 14 luglio, non bastano a giustificare legalmente il divieto contestato". I giudici sostengono inoltre che l’ordinanza "ha danneggiato in modo grave e manifestamente illegale quelle libertà fondamentali che sono la libertà di andare e venire, la libertà di coscienza e la libertà personale". Il valore di precedente - La presa di posizione del Consiglio di Stato riguarda direttamente solo l’ordinanza di Villeneuve-Loubet ma fa giurisprudenza per tutte le giurisdizioni amministrative francese. Il Consiglio di Stato ricorda a tutti i sindaci che hanno invocato il principio di laicità che per proibire l’accesso alla spiaggia possono fondarsi solo su "l’ordine pubblico, l’accesso alla riva, la sicurezza nel fare il bagno, l’igiene e la decenza". La lotta politica - Chiusa da un punto di vista giuridico, la questione rimane aperta sul piano politico, perché le ordinanze dei sindaci hanno spinto a schierarsi tutti i partiti, con la destra dei Républicains e il Front National favorevoli al "divieto di burkini" e i socialisti divisi al loro interno, anche al governo: il primo ministro Manuel Valls ha detto di "comprendere" le misure dei sindaci, arrivando poi a criticare non solo il burkini ma anche il velo "segnale negativo per le donne", mentre la sua ministra dell’Educazione nazionale, Najat Vallaud Belkacem, ha detto al contrario che "la proliferazione delle ordinanze anti-burkini non è benvenuta". Dopo la decisione del Consiglio di Stato, esponenti della destra (Christian Estrosi, Eric Woerth) e del Front National (Marine Le Pen, Florian Philippot) chiedono che il divieto del burkini in spiaggia venga stabilita da una legge. Nicolas Sarkozy, che ha cominciato la sua campagna per vincere le primarie di novembre ed essere il candidato della destra alle elezioni presidenziali della primavera 2017, si è pronunciato contro il burkini e si batterà per il divieto del velo islamico nelle università (oggi è proibito solo nelle scuole fino alle superiori). Dopo l’estate, la battaglia sul burkini in spiaggia potrebbe diventare un’offensiva contro il velo in città. Francia. Burkini, i saggi giudici francesi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 27 agosto 2016 Il Consiglio di Stato francese ha sospeso le ordinanze del sindaco di Cannes e di un’altra ventina di sindaci che - sostenuti e incitati di partiti politici, anche nazionali - avevano proibito alle donne musulmane di usare, sulle spiagge, il cosiddetto "burquini", e in pratica avevano ordinato loro di spogliarsi. Il presidente francese - socialista e laico - Francoise Hollande, ha applaudito l’iniziativa dei sindaci, in nome della cultura occidentale e dell’identità francese. Noi su questo giornale, con alcuni articoli (tra i quali quelli di Tiziana Maiolo, di Angela Azzaro e di Angiolo Bandinelli) ci eravamo chiesti se il nocciolo duro di questa cultura occidentale e francese alla quale ci si richiama, non sia la tolleranza, che è il contrario esatto del divieto e dell’imposizione. Ci era sembrato che tradurre in divieti la cultura "dei lumi" fosse molto contraddittorio, e forse anche illegale. E questo senza entrare nella discussione su come fronteggiare alcune manifestazioni anti-moderne e maschiliste della cultura islamica, che producono oppressione e sottomissione della donna. Il consiglio di Stato francese ci ha confermato che l’idea che ci eravamo fatti non era sbagliatissima. E soprattutto ha confermato che il diritto è il diritto e non deve adattarsi alle emozioni del momento. La sentenza del Consiglio di Stato è chiarissima, esplicitamente dichiara che non si possono inventare le regole facendosi condizionare dall’emergenza, e ci ha detto che quel divieto è illegale e viola le libertà essenziali garantite dalle leggi e dalla Costituzione. Sapete che questo giornale non è mai tenero coi magistrati. Stavolta dobbiamo dire che la contrapposizione tra magistratura e politica è molto limpida: la magistratura dalla parte del diritto, la politica dalla parte della demagogia. Iraq. Il Califfo al Baghdadi fu detenuto nel carcere di Abu Ghraib di giordano stabile La Stampa, 27 agosto 2016 The Intercept: il leader dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi, prigioniero per dieci mesi in Iraq. Il leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi è stato detenuto ad Abu Ghraib, il famigerato carcere alla periferia Ovest di Baghdad, quello delle pile di prigionieri nudi e umiliati, terrorizzati dai cani, torturati dai secondini iracheni e dai militari americani. Finora era emerso che l’autoproclamato Califfo era stata detenuto dal febbraio al dicembre 2004 in un altro campo di prigionia, Camp Bucca, vicino a Bassora. Una vera "scuola della jihdad", dove ex ufficiali fedeli a Saddam Hussein e islamisti avevano stretto legami e di fatto posto le basi per la nascita dello Stato islamico. Abu Ghraib ha però giocato un ruolo molto più importante nell’alimentare sentimenti anti-occidentali e fornire carburante alla propaganda jihadista. Un clima che ha portato ampi settori della comunità sunnita, specialmente nelle province di Baghdad e dell’Anbar a schierarsi con Al-Qaeda e poi con l’Isis. A scoprire che Al-Baghdadi è stato prigioniero ad Abu Ghraib è stato The Intercept, quotidiano online fondato e diretto da Glenn Greenwald, l’avvocato e collaboratore del Guardian che pubblicò per primo i materiali raccolti da Edward Snowden sull’Nsa. Le prime cifre della matricola US9IZ-157911CI indicano i detenuti del carcere. E fonti militari, secondo "The Intercept", hanno confermato che Al-Baghdadi ha passato lì "la maggior parte" della sua detenzione. Bolivia. Torturato e ucciso il viceministro Illanes di Geraldina Colotti Il Manifesto, 27 agosto 2016 Morales scosso per la morte del collaboratore. Il cadavere ritrovato nella zona di conflitto con le cooperative di minatori in sciopero. Ucciso a calci, pugni e colpi di bastone, morto per emorragia cerebrale e toracica. Il cadavere del viceministro degli Interni boliviano Rodolfo Illanes verrà sottoposto ad autopsia, ma il procuratore generale Hector Arce non ha avuto dubbi nel dichiarare alla stampa: "È stato picchiato e torturato a morte". Ucciso - questa la posizione del governo - dai minatori in sciopero con i quali aveva cercato di negoziare. È invece riuscito a fuggire l’assistente di Illanes, che si trovava con lui nella località di Panduro, a circa 160 km dalla capitale boliviana La Paz, epicentro delle proteste che durano da diversi giorni. A manifestare sono settori delle cooperative minerarie, organizzate nella Federacion Nacional de Cooperativas Mineras de Bolivia (Fencomin). Respingono la nuova legge che, nel quadro del controllo statale delle imprese estrattive, deciso dal governo e sancito dalla Costituzione, impedisce alle imprese private e multinazionali di stipulare contratti diretti con le cooperative. Una pratica in uso prima che Evo Morales andasse al governo e continuata in seguito da alcune cooperative in via informale. La Fencomin rifiuta anche il riconoscimento dei sindacati, altra modifica prevista dalla legge, che consente due anni per mettersi a norma con tutte le disposizioni. La nuova legge prevede anche controlli più severi sul piano ambientale. Alle cooperative minerarie sono iscritti circa 150.000 soci lavoratori. Una minoranza è costituita però da imprenditori che impongono condizioni precarie ai minatori. Il grosso della Fencomin ha sostenuto Morales, le cooperative godono di agevolazioni fiscali e sovvenzioni, e il governo ha sempre cercato il dialogo, ma negli ultimi tempi le tensioni sono aumentate. Illanes si era recato nella zona di Panduro per cercare una trattativa, solo con l’assistente e senza scorta. Noto leader della sinistra andina - prima militante del Mir e poi del Mas - era stato nominato a quell’incarico a marzo. Molto stimato per aver portato in luce diversi episodi di corruzione, era considerato uomo del dialogo, per aver risolto in modo pacifico altri conflitti sociali in precedenza. Questa volta, però, gli animi erano già surriscaldati dopo gli scontri con la polizia in altri luoghi della protesta e la morte di due minatori. Dalle prime ricostruzioni e dalle minacce profferite a una radio da un leader dei manifestanti, pare che il viceministro sia stato sequestrato, e quindi ucciso, anche se i manifestanti lo negano. Illanes era molto vicino al presidente Morales, parso visibilmente scosso. L’omicidio ha messo in ombra anche la visita del ministro degli Esteri iraniano Mohamad Yavad Zarif. Nel corso di una conferenza stampa, Morales ha attribuito l’uccisione del viceministro a "una cospirazione politica per svendere le risorse naturali alle imprese straniere. Le risorse naturali sono del popolo boliviano - ha detto - e per questo dichiaro il fratello Illanes Eroe difensore delle risorse naturali". Poi, il presidente ha negato che il governo abbia ordinato alla polizia di sparare sui manifestanti, e ha aggiunto. "I minatori sono stati ingannati e strumentalizzati da dirigenti alleati con la destra. Alcuni esponenti delle cooperative si fanno passare per lavoratori delle miniere, mentre sono imprenditori minerari". Sono state fermate un centinaio di persone. Nei giorni precedenti, Morales ha presentato l’avvio di una Scuola di mediatori di pace, organizzata dalla Unasur, come un’altra risposta all’imperialismo. Come presidente di un paese associato al Mercosur, ha anche preso posizione a favore del Venezuela, la cui presidenza pro-tempore dell’organismo viene rifiutata da tre paesi neoliberisti, il Brasile di Temer, il Paraguay di Cartes e l’Argentina di Macri: "L’imperialismo cerca di tornare in forze nel nostro continente", ha detto, e ha attaccato Luis Almagro, Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) per il suo sostegno aperto all’opposizione venezuelana: "Fratello Almagro - ha scritto Morales in twitter - non essere portavoce dell’impero nordamericano. Chiedere un intervento esterno è un’attitudine coloniale e antidemocratica", ha aggiunto riferendosi alle sanzioni richieste da Almagro contro Maduro e ancora pendenti.