Governo e magistratura. Tutti i rischi della proroga sulle pensioni delle toghe di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 26 agosto 2016 Quando nel giugno 2014 Matteo Renzi annunciò l’abbassamento dell’età di pensionamento dei magistrati da 75 anni (dove Berlusconi l’aveva alzata dai 72) a 70 anni, tutti gli fecero osservare che l’idea, giusta, era sensata soltanto però se scaglionata con gradualità, pena seri problemi organizzativi dovuti all’improvvisa mancanza di capi e vicecapi in aggiunta ai vuoti in organico: ma il presidente del Consiglio, che ancor più di oggi indossava la postura ultradecisionista del premier che snobba "i professoroni" e a passo di carica "cambia verso" anche quando non si capisce bene cosa significhi, tirò dritto per la sua strada. Il risultato è che, con mille posti vacanti, ogni estate dal 2014 è stata stessa (ultima) spiaggia, stesso mare di incertezze, stesso caos, e in extremis stessa proroga parziale dell’età di pensione dei magistrati quasi 70enni: accrescendo di volta in volta disparità di trattamento secondo le date del calendario, il governo ha decretato già due proroghe di un anno nel 2014 e 2015, e la terza, ora per il 2017, ieri solo all’ultimo momento é uscita dal "fuori sacco" del Consiglio dei ministri, monopolizzato da terremoto e legge Madia, ma ricomparirà nel prossimo Cambiare idea non é peccato per un politico, lo è invece cambiarla senza assumersi quel minimo di responsabilità di ammettere l’errore e spiegare in base a quali considerazioni si stia mutando decisione. Ma sul tema colpisce anche il quieto attendismo della magistratura pure in questa terza estate di incipiente proroga, tanto più a dispetto di una invece spiccata propensione a non risparmiare vibranti interventi sul valore dell’indipendenza e autonomia. Eppure è palese che, al di là delle volontà dei singoli, e per quante garanzie di impermeabilità assicurino i profili personali delle toghe presumibilmente beneficiabili dalla proroga (a cominciare dai vertici di tutta la Cassazione con il Presidente, il Presidente aggiunto, il Procuratore generale e l’Avvocato generale), oggettivamente la magistratura sta vivendo la terza estate consecutiva esposta al rischio di apparire "con il cappello in mano" di fronte alla politica: come una categoria che per i propri assetti di vertice, ormai quasi ogni fine agosto in vista del 31 dicembre, resti appesa a una proroga e dipenda da dove la politica tirerà infine la riga delle regole della pensione valide dal successivo primo gennaio. Tra spinte e controspinte, sovviene quasi il cattivo pensiero che questi due anni di pastrocchio pensionistico in fondo non siano dispiaciuti né al premier né al "corpaccione" della magistratura. Renzi sinora ha visto cambiare totalmente i capi e vicecapi di quasi 500 uffici giudiziari che resteranno in carica 4 anni più altri 4, un avvicendamento senza precedenti per estensione e concentrazione. E se gridare allo "spoil system" governativo sarebbe improprio perché le nomine sono fatte non certo da Palazzo Chigi ma dal Consiglio Superiore della Magistratura (due terzi di "togati" eletti dai magistrati, e un terzo di "laici" eletti dal Parlamento), ipocrita però sarebbe anche ignorare che al Csm queste nomine siano per lo più avvenute con maggioranze nelle quali i membri "laici" espressi dalla politica, lungi dal dividersi (come accadeva in passato) lungo le prevedibili faglie delle rispettive sensibilità ideologiche, hanno curiosamente quasi sempre cementato un inedito blocco comune. Di volta in volta calamitando le ambizioni contingenti (e i voti) di questa o quella tra le varie correnti togate, impegnate a blandire le aspirazioni di carriera di una "base" generazionale miracolata dall’apertura di sconfinate praterie di nomine alle quali, in condizioni normali, mai avrebbe potuto aspirare. Le toghe di Area contro Renzi "sulla proroga delle pensioni c’è improvvisazione" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 agosto 2016 I magistrati contestano la scelta di "ringiovanire" d’emblée la magistratura. "Improvvisazione". Non usa mezzi termini il Coordinamento nazionale di Area, il cartello che unisce Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia, le due anime di sinistra della magistratura, per descrivere, in un comunicato, il modo con cui il governo sta gestendo, ormai dal 2014, la riduzione dell’età del pensionamento delle toghe. Da 75 a 70 anni d’età. Toni molto duri che non si erano visti neppure quando, l’anno scorso, l’esecutivo decise di tagliare le ferie e modificare le norme sulla responsabilità civile dei magistrati. Una reazione che dovrebbe, quindi, far riflettere il premier Matteo Renzi sul fatto che con la magistratura c’è il rischio di ritornare al clima di "tensione" che contraddistinse l’epoca dei governi berlusconiani. Soprattutto in vista della prossima scadenza referendaria. "Si è proceduto alla repentina riduzione dell’età del pensionamento dei magistrati, senza alcuna gradualità, senza adeguate norme transitorie e senza un’accelerazione dei concorsi dei nuovi magistrati per consentire un naturale ricambio". Come si ricorderà, infatti, dall’oggi al domani, in ossequio ai dettami della riforma Madia, centinaia di uffici giudiziari nel 2015 si trovarono di colpo senza una guida. "Emblematica" dell’improvvisazione con la quale si è deciso di "ringiovanire" d’emblée la magistratura è la soluzione proposta per evitare le scoperture di organico che si sono venute a creare: la proroga della proroga, "visto che analogo provvedimento tampone era già stato messo in piedi dal governo l’anno scorso". Infatti, "continuare con norme transitorie ed eccezionali vuol dire aggiungere errore ad errore: crea inaccettabili disparità di trattamento per classi di età, non dà alcuna certezza per il futuro, si presta a malevole interpretazioni di norme che potrebbero apparire ritagliate su casi concreti, solo per alcuni". In estrema sintesi, quello che tutti i magistrati stanno pensando in queste ore: che si tratti di una proroga ad personam, fatta apposta per salvare dalla pensione alcuni capi di alti uffici giudiziari. Un "privilegio" per pochi. Visto che, in concreto, si tratterebbe di trattenere in servizio per un altro anno solamente 180, magistrati sui circa 9000 attualmente in organico. Per uscire da questo caos, Area propone "un intervento strutturale e definitivo, che torni all’originario limite, dei 72 anni (70 anni più 2 anni, a richiesta), soluzione equilibrata, che consentirebbe il turnover, garantirebbe una graduale sostituzione, allontanerebbe ipotesi di ulteriori moratorie". La proposta, poi, di ridurre da 18 mesi a 12 il tirocinio per i giovani magistrati in modo da immetterli subito in ruolo è bollata come "inaccettabile". In effetti, neppure negli anni di piombo, con l’emergenza terrorismo, si pensò ad una soluzione simile per far fronte ai vuoti d’organico. Terremoto. Il Dap offre pasti preparati nelle carceri Rieti e Sulmona Askanews, 26 agosto 2016 Oltre a strutture, mezzi e uomini. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, di concerto con il Gabinetto del Ministro della Giustizia, ha messo a disposizione della Protezione Civile strutture, mezzi e uomini, per fronteggiare l’emergenza terremoto. Oggi l’Unità di crisi del Dap ha infatti provveduto, tra l’altro, a quantificare i primi aiuti che, nell’immediato, saranno offerti alla Protezione civile: 1.200 posti letto per alloggiare le persone sfollate; 190 unità di personale; 20 automezzi, con relativo personale autista, per il trasporto di persone; disponibilità degli istituti penitenziari di Rieti e Sulmona, nonché della Scuola di formazione di Sulmona, a fornire, presso la locale mensa del personale, i pasti in favore dei famigliari delle persone ricoverate presso gli ospedali cittadini. Il caso giudiziario di Ragusa e gli sviluppi del dibattito: terza e ultima puntata di Massimo Bordin Il Foglio, 26 agosto 2016 Pone un problema vero il comunicato dell’Unione camere penali già dal suo titolo "E se il cittadino indiano Ram fosse innocente?". Tutto il bailamme in fondo è nato per una generale propensione a ritenere Ram meritevole della galera. Generale, anche da parte di penaliste di grido che, se non come avvocate, in quanto mamme si stupivano della mancata incarcerazione, così come associazioni denominate "Fino a prova contraria", principio che evidentemente non viene ritenuto valido per gli indiani. In pochissimi hanno preso in considerazione il fatto che la vicenda fosse come minimo controversa, nessuno ha considerato l’ipotesi che il cittadino indiano potesse attendere un eventuale giudizio da libero. I penalisti lo ricordano e fanno benissimo. C’è poi la questione della PM che effettivamente non ha proceduto all’arresto. Di fronte alla canea scatenatasi il procuratore ha ribattuto che non si poteva fare altro perché la legge lo impediva. Di fatto, come usa dire, buttandola in politica. Ma la loro interpretazione della legge è stata, secondo diversi avvocati, assai opinabile. Questo non vuol dire che la PM avrebbe dovuto chiedere l’arresto ma solo che, se fosse stata convinta delle accuse, avrebbe potuto. Questo dovrebbe appurare l’inchiesta ministeriale, opportunamente disposta dal ministro, una volta considerati gli atti dell’inchiesta e i reati ipotizzati. Fermo restando che se la PM non avesse trovato del tutto convincenti le testimonianze degli accusatori, non sarebbe scelta sindacabile dagli ispettori. Ma la procura avrebbe fatto meglio a rivendicarla apertamente. Presidente, conceda la grazia alla bambina di 18 mesi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 agosto 2016 Tra una decina di giorni nel carcere di Sollicciano, a Firenze, sarà celebrato il battesimo di una bambina di 18 mesi. Rom. La mamma è stata condannata per un furto e deve scontare ancora un anno in cella. E la bambina con lei. La legge è legge, e se hai commesso un reato così grave come un furto, giustamente, non ti perdona. Non perdona neanche la tua bambina. O forse può anche perdonarti e mandarti ai domiciliari se non hai aggravanti. Ma in questo caso l’aggravante c’è: essere Rom. È la peggiore delle aggravanti. Perché se sei Rom desti non molta pietà. La notizia di una bambina di 18 mesi in carcere infatti non ha suscitato quasi nessuna protesta. Ed è stata offerta ai lettori solo dai giornali locali e ? per fortuna - dal Corriere della Sera (oltre che, naturalmente, dal Dubbio). L’unica persona che ha protestato con veemenza è stato il parroco di Sollicciano, quello che celebrerà il battesimo. Ha detto che tenere una bambina di un anno e mezzo in carcere è illegale e configura il reato di sequestro di persona. Dubito però che qualcuno interverrà, in seguito alla notizia di reato fornita dal sacerdote. E temo che molto difficilmente l’autorità giudiziaria prenderà qualche iniziativa per porre fine a questo reato, e per dare la possibilità alla mamma di uscire dal carcere. Ho una sola speranza: che la notizia giunga alle orecchie del Presidente Mattarella, e del ministro della Giustizia Orlando, e che il ministro e il Presidente si attivino per concedere in tempi rapidissimi la grazia alla mamma della bambina. Non vedo nessun’altra soluzione. Difficile sperare nella sollevazione dell’opinione pubblica, in questi casi: meglio sperare nella magnanimità del "sovrano". Mi ha colpito la vicenda della bambina "sequestrata" specialmente in questi giorni. Si parla moltissimo dei bambini, e dei loro diritti, e del nostro dovere di difenderli. I bambini creano emozione popolare, sollevano ottimi sentimenti. Il bambino che è arrivato dall’Egitto con la cartella clinica del fratello. La foto del bambino sbigottito, scampato ad Aleppo. Viceversa, le immagini atroci del ragazzino con la maglia di Messi e la cintura esplosiva bloccato dai poliziotti curdi tre secondi prima che si facesse esplodere. E poi le immagini strazianti e le storie tremende dei bambini del terremoto. La pietà è un sentimento magnifico, è il pilastro della civiltà. Possibile che anche la pietà sia a "due corsie"? Possibile che a nessuno freghi niente che ci sono ancora 46 bambini sotto i tre anni che vivono in cella, nelle carceri italiane, e che non si trovi il modo per farli uscire? La legge della Valsusa di Livio Pepino Il Manifesto, 26 agosto 2016 Mille e cinquecento indagati in sei anni e mezzo, al ritmo di uno ogni due giorni. Le misure cautelari trasformate da alternativa in anticamera al carcere. Un’incredibile sequenza di diritti e garanzie violate, di prescrizioni vessatorie e imputazioni fantasiose. Ma gli "indiani" No Tav resistono. Il trionfalismo dell’establishment non riesce a nascondere la realtà: la nuova linea ferroviaria Torino-Lione, come hanno spiegato domenica scorsa su queste pagine Pagliassotti e Vittone, è ancora di là da venire. Intanto, dopo ventisette anni, i No Tav, gli "indiani di Valle" non demordono e anzi rilanciano, contrapponendo all’alta velocità l’alta felicità (per riprendere il titolo della grande festa di Venaus del luglio scorso che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone e di artisti di prim’ordine). ù A sostegno dell’opera resta una repressione crescente e sempre più scoperta. Non bastavano l’evocazione di una valle di black bloc, i 1.500 indagati negli ultimi sei anni e mezzo (con una punta di 327 nel 2011 e di 183 dal luglio 2015 al giugno 2016: più di un indagato ogni due giorni), un centinaio di misure cautelari, una gamma di reati che vanno dalle violazioni della zona rossa a fantasiosi attentati con finalità di terrorismo (dichiarati infine insussistenti, dopo lunghe carcerazioni in isolamento, dai giudici di merito e dalla Cassazione). Non bastavano e, puntuali, sono arrivati nuovi dispositivi repressivi. Un caso per tutti, tra i molti quest’estate. Chiunque è stato in Valsusa sulle tracce del movimento No Tav conosce l’osteria "La Credenza" di Bussoleno (luogo di incontro e di confronto di persone provenienti da ogni dove) e la sua animatrice, Nicoletta Dosio, per tutti semplicemente Nicoletta, già professoressa nel locale liceo, esponente politica della sinistra non omologata, personaggio di primo piano nell’opposizione al Tav. Ebbene, con ordinanza 26 maggio 2016 del gip di Torino, a Nicoletta è stata imposta la misura cautelare dell’obbligo di presentazione quotidiana all’autorità di polizia per fatti commessi un anno prima di fronte al cantiere di Chiomonte, integranti, nell’ipotesi accusatoria, il delitto di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (consistente nel lancio di oggetti contundenti e di artifici pirotecnici). Nicoletta non ha lanciato pietre o alcunché ed era, come sempre, a viso scoperto. Ciò che le viene contestato è altro: aver "contribuito a consegnare una fune munita di arpione ad altra persona che, arrampicata sulla griglia di un betafence, agganciato l’arpione alla griglia, ne determinava il successivo abbattimento". La battitura e l’abbattimento delle reti e delle strutture connesse è, come tutti sanno, uno degli obiettivi di sempre del movimento per dimostrare che il cantiere può essere violato e che la determinazione della valle è più forte della militarizzazione. Ma per pubblici ministeri e giudici della cautela tutto ciò scompare e quella condotta non ha finalità dirette ma è strumentale "a disturbare le forze di polizia ed a consentire ad altri di compiere i lanci di pietre e ordigni direttamente sulle forze dell’ordine senza necessità che il lancio dovesse, con una parabola, superare il betafence". Di più, "l’avvicinarsi non travisati, impugnanti palloncini rosa, striscioni e bandiere", lungi dall’essere una modalità di protesta responsabile e civile è un subdolo inganno "per far credere alle forze dell’ordine che l’intenzione fosse di manifestare pacificamente con grida e al più compiere la c.d. battitura delle reti". Così il cerchio si chiude e Nicoletta diventa concorrente nel reato di resistenza perché, contribuendo ad abbattere il betafence, ha fatto sì che altri potessero lanciare degli oggetti contro la polizia con una traiettoria rettilinea anziché con la parabola necessaria a superare un ostacolo dell’altezza di poco più di due metri. Non è la prima imputazione singolare elevata dalla procura torinese ma prudenza avrebbe almeno voluto che la verifica di una costruzione fattuale e giuridica tanto opinabile venisse sottoposta al giudice del dibattimento con l’imputata (reperibilissima e prossima ai 70 anni) in stato di libertà. E invece no: il pubblico ministero chiede addirittura l’obbligo di dimora e il gip dispone la presentazione quotidiana all’autorità di polizia! Ma le torsioni della legge della Valsusa non finiscono qui. I valsusini, come noto, vivono la militarizzazione del territorio e la valanga di processi e misure cautelari come una vessazione e da tempo hanno deciso di non subirla passivamente. Di conseguenza Nicoletta rifiuta, e lo dichiara pubblicamente, di collaborare all’esecuzione della misura ("Che sia chiaro, io non accetterò di andare tutti i giorni a chiedere scusa ai carabinieri, non accetterò che la mia casa diventi la mia prigione. Io a firmare non ci vado e nemmeno starò chiusa in casa ad aspettare che vengano a controllare se ci sono o non ci sono!"). Dopo qualche settimana, in considerazione "della personalità dell’imputata estremamente negativa, intollerante delle regole e totalmente priva del minimo spirito collaborativo", la misura cautelare viene trasformata in obbligo di dimora, aprendo la strada a ulteriori possibili aggravamenti fino alla custodia in carcere. Il copione è scolastico (e destinato a estendersi ad altri esponenti No Tav). Tutti dicono che Nicoletta può manifestare liberamente la sua opposizione alla grande opera ma, poi, le modalità - per quanto la riguarda - pacifiche di tale protesta vengono parificate ad azioni violente. Nessuno penserebbe di applicarle in prima battuta la custodia in carcere (non foss’altro per la scarsa rilevanza della condotta e per l’età) ma a tale esito si può arrivare per la sua mancata "collaborazione": secondo lo schema del diritto penale del nemico quel che rileva non sono le esigenze cautelari ma la mancata collaborazione dell’imputata, la sua alterità al sistema. Così si compie lo snaturamento delle misure cautelari non detentive. Introdotte per limitare la custodia carceraria ai casi di assoluta necessità, esse vengono applicate a imputati che, in loro assenza, sarebbero non in carcere ma in libertà e si convertono così da alternativa al carcere in sua anticamera. Parallelamente, in particolare con l’applicazione di obblighi tanto gravosi quanto immotivati, si realizza, in sintonia con le prassi dei regimi autoritari, la trasformazione dei provvedimenti cautelari in misure di sicurezza, la cui unica finalità è la neutralizzazione del "nemico": a sorreggerle non c’è alcuna esigenza cautelare in senso proprio (mancando ogni pericolo di fuga o di inquinamento delle prove) ma solo la previsione che gli indagati possano commettere (non delitti di particolare allarme sociale ma) ulteriori reati della stessa specie, cioè partecipare ad altre manifestazione di protesta. La posta in gioco, anche in termini generali, è elevata e ben chiara ai valsusini, che hanno lanciato la campagna "mettiamoci la faccia" facendosi fotografare a centinaia con il manifesto: "Io sto con chi resiste violando le imposizioni ingiuste del tribunale di Torino". Quando un segno di vita della cultura garantista e dei magistrati democratici? Custodia cautelare in carcere senza interrogatorio di garanzia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35468/2016. Via libera all’applicazione della misura cautelare senza interrogatorio di garanzia se l’imputato è stato prosciolto o assolto in primo grado e poi condannato in appello per lo stesso fatto. Con la sentenza 35468 depositata ieri, la Cassazione respinge il ricorso contro la decisione del Tribunale di non riesaminare l’istanza presentata dall’imputato tesa a evitare la custodia in carcere per omicidio pluriaggravato. Il Tribunale riteneva priva di supporto la richiesta di dichiarare l’inefficacia della misura cautelare perché non era stato assolto l’obbligo dell’interrogatorio di garanzia. Secondo i giudici di merito, infatti, la tutela invocata non é prevista quando la misura è applicata dopo l’assoluzione in primo grado seguita dalla condanna in appello. Quanto all’esigenza della custodia in carcere questa era giustificata dal "curriculum" dell’imputato: una condanna non definitiva per duplice omicidio e l’appartenenza ad una cosca mafiosa diffusa su tutto il territorio nazionale. Per il ricorrente invece l’omesso interrogatorio di garanzia costituiva una violazione del diritto al contraddittorio e di difesa, riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. I difensori avevano ribadito la necessità dell’interrogatorio per ripristinare una misura cautelare applicata in precedenza e successivamente revocata. Ipotesi che può scattare solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza delle quali, ovviamente, il ricorrente nega l’esistenza. La Cassazione respinge il ricorso. I giudici della prima sezione penale, precisano innanzitutto che, nel caso esaminato, non si trattava di un rinnovo della misura cautelare ma di una misura coercitiva nuova perché la precedente era stata emessa per reati diversi. Detto questo la Suprema corte conferma la correttezza della decisione impugnata. Nel caso di riapplicazione (articolo 300 del codice di procedura penale comma 5 ) di una misura cautelare nei confronti di un imputato assolto in prima battuta e condannato in seconda per la stessa vicenda, non ci sono i presupposti per affermare l’obbligo dell’interrogatorio di garanzia, previsto dall’articolo 294 del codice di rito. Anche se l’istituto dell’interrogatorio di garanzia non è del tutto sovrapponibile all’esame dibattimentale, non si può sostenere, sottolinea la Suprema corte, che il primo abbia una valenza difensiva più "forte" rispetto alla completezza dell’istruttoria dibattimentale. Anzi è vero il contrario. Soltanto la fase dibattimentale consente, infatti, all’imputato di svolgere nella misura massima possibile la sua difesa su tutti gli aspetti della contestazione. Non c’è dunque alcuna ragione, quando l’istruttoria è completata, "di un’ulteriore occasione difensiva ad hoc, costituita dall’interrogatorio di garanzia, che non aggiungerebbe alcuna significati garanzia rispetto a quanto derivante dal contesto del giudizio per pervenire alla decisione sul merito". Una conclusione che - sottolinea la Cassazione - trova un valido supporto nella sentenza della Consulta (32/1999), precedente alla modifica dell’articolo 294 e all’individuazione della dichiarazione di apertura del dibattimento come fase finale per procedere all’interrogatorio di garanzia. Con la sentenza il giudice delle leggi ha precisato che l’adempimento del dovere di interrogare immediatamente l’arrestato presupponeva che non fosse ancora instaurata la fase del giudizio che, per il suo carattere essenziale di pienezza del contraddittorio e per la presenza dell’imputato, assorbiva la stessa funzione dell’interrogatorio previsto dall’articolo 294. È valido il matrimonio con lo straniero celebrato per via telematica di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2016 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 25 luglio 2016 n. 15343. Una cittadina italiana contrae matrimonio con un cittadino pakistano, secondo la legge straniera di quest’ultimo: la cerimonia viene officiata per via telematica e, in particolare, a mezzo di connessione internet e video-chat, la moglie presta il consenso all’unione. Alla cerimonia è presente l’autorità pakistana celebrante, nonché il marito e due testimoni. L’Ufficiale di Stato Civile italiano respinge, però, la richiesta di trascrizione del vincolo coniugale ritenendo contrario all’ordine pubblico il rito seguito. Il Tribunale di Bologna (in primo grado) e la Corte di Appello di Bologna (in secondo grado) accolgono il reclamo degli sposi e ordinano all’Ufficiale di trascrivere il matrimonio. La Cassazione, con una pronuncia inedita, conferma la decisione dei giudici di merito. La decisione della Cassazione - La Corte di legittimità muove dal regime giuridico applicabile alla fattispecie e osserva che, ai sensi della legge n. 218 del 1995, articolo 28, il matrimonio celebrato all’estero è valido nell’ordinamento italiano, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento (v. in tal senso Cass. n. 17620/2013). La Corte rileva, conseguentemente, che, nel caso sottoposto al suo esame, essendo stato il matrimonio celebrato in Pakistan e validamente secondo la legge di quel paese (circostanza incontestata), esso deve essere considerato valido anche per l’ordinamento italiano. La Cassazione smentisce l’eccezione del Ministero quanto alla presunta incompatibilità del matrimonio per via telematica con l’ordine pubblico. Secondo l’eccipiente, la modalità di celebrazione del matrimonio, da parte dell’ufficiale pakistano, con la presenza del solo sposo, avendo la sposa partecipato al rito in via telematica, non garantirebbe la genuinità dell’espressione del consenso, rendendo l’atto non riconoscibile come matrimonio. Questa tesi, per la Suprema Corte, è errata in diritto per due ragioni. La prima, perché "pretende, in sostanza, di ravvisare una violazione dell’ordine pubblico tutte le volte che la legge straniera, in base alla quale sia stato emanato l’atto di cui si chiede il riconoscimento, contenga una disciplina di contenuto diverso da quella dettata in materia dalla legge italiana. Tuttavia, ravvisando l’ordine pubblico nelle norme, seppure inderogabili, presenti nell’ordinamento interno, sarebbero cancellate le diversità tra i sistemi giuridici e rese inutili le regole del diritto internazionale privato" (v., in modo chiaro, Cass. n. 10215 del 2007 e, in motiv., n. 14662 del 2000; nel senso che le norme espressive dell’ordine pubblico non coincidono con quelle, di genere più ampio, imperative o inderogabili, Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984). Secondo la Corte, il giudizio di compatibilità con l’ordine pubblico dev’essere riferito, invece, al nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento che non sarebbe consentito nemmeno al legislatore ordinario interno di modificare o alterare, ostandovi principi costituzionali inderogabili. La seconda, perché "il rispetto dell’ordine pubblico dev’essere garantito, in sede di delibazione, avendo esclusivo riguardo "agli effetti" dell’atto straniero (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), senza possibilità di sottoporlo ad un sindacato di tipo contenutistico o di merito né di correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano. Ne consegue che se l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero, in quanto da esso considerato idoneo a rappresentare il consenso matrimoniale dei nubendi in modo consapevole, esso non può ritenersi contrastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non prevista dall’ordinamento italiano". La soluzione sposata dalla Suprema Corte è senz’altro condivisibile. La forma matrimoniale descritta dall’articolo 107 del codice civile, non è considerata inderogabile neppure dal legislatore italiano, il quale ammette la celebrazione inter absentes (articolo 111 del Cc) in determinati casi, nei quali non può ritenersi che siano inesistenti i requisiti minimi per la giuridica configurabilità del matrimonio medesimo, e cioè la manifestazione di una volontà matrimoniale da parte di due persone di sesso diverso, in presenza di un ufficiale celebrante. Peraltro, la Corte si è espressa implicitamente in senso analogo, affermando il diritto al ricongiungimento familiare a coniugi pakistani che avevano celebrato il matrimonio in forma telefonica in presenza di testimoni (Cass. n. 20559 del 2006, in motiv.). Lombardia: 9 milioni per il reinserimento di detenuti e minori Italia Oggi, 26 agosto 2016 La Regione Lombardia ha approvato un bando per favorire il reinserimento sociale delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, adulti e minori, o a fine pena. Sono ammissibili alla presentazione dei progetti gli Enti pubblici locali, le Organizzazioni del terzo settore iscritte nei registri regionali e gli Enti accreditati per la formazione e per ü lavoro che abbiano maturato un’adeguata esperienza nel campo, le Parti sociali. I destinatari degli interventi sono i soggetti a rischio di esclusione sociale e loro famiglie; in particolare, sono destinatari gli adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, i minori e giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, nonché gli adulti e minori/giovani adulti a fine pena entro massimo l’anno successivo al termine della stessa. Ogni ente può partecipare come partner o capofila a un massimo di tre progetti che possono prevede attività di reinserimento individuale, informazione e sensibilizzazione, interventi propedeutici ci all’inserimento lavorativo, accoglienza abitativa temporanea. Il finanziamento massimo assegnabile per ogni progetto è pari all’80% del costo e comunque non può essere superiore a 550mila euro. Il cofinanziamento a carico della partnership è pari al 20% del costo del progetto. La domanda di partecipazione, a cura dell’ente capofila del partenariato, deve essere presentata esclusivamente attraverso SiAge raggiungibile all’indirizzo www.siage.regione.lombardia.it a partire dalle ore 12 del 15 settembre ed entro, pena l’esclusione, le ore 17 del 30 settembre 2016. Toscana: modello Corleone, così cambiano le carceri di Laura Bonaiuti La Repubblica, 26 agosto 2016 Il Garante per i detenuti a settembre incontrerà il Provveditore Martone. Si delineano nuovi progetti per il panorama carcerario fiorentino. Li ha descritti Franco Corleone, garante nazionale per i detenuti, che a settembre incontrerà il provveditore Martone per fare un ragionamento sulla geografia penitenziaria della nostra regione. Sollicciano ha bisogno di una ristrutturazione, a detta di Corleone. E non solo del tetto, delle docce e delle cucine, per i quali è arrivato il finanziamento di 3 milioni. Dopo la legge che decreta la chiusura degli Opg, tra cui quello di Montelupo, nel carcere sarà necessaria una sezione psichiatrica, gestita dal sistema sanitario regionale, a cui affidare i detenuti con dichiarati problemi di salute. Una sezione che dovrà essere "il meno possibile carceraria": non blindata e senza celle, concepita più come un centro clinico, un reparto speciale, e per questo "occorre predisporlo adeguatamente". A Sollicciano è già attiva invece l’osservazione psichiatrica, una zona dove i detenuti sono ospitati per 30 giorni per verificare se abbiano o meno problemi psichici. Il provveditorato regionale avrà a disposizione, oltre ai 3 milioni, altri fondi che erano stati dedicati alla costruzione di un nuovo carcere a Lucca, che invece non si farà. Non ci sarà neanche più bisogno dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri, previsto a Rifredi nel palazzo della Madonnina del Grappa, dove invece, dice Corleone, sarà probabilmente allestita una residenza per carcerati in semilibertà che vanno a lavorare durante il giorno e tornano la sera e che quindi hanno bisogno di un maggiore spazio di autonomia. Dell’Icam si è molto discusso sin dal 2008 quando il cappellano di Sollicciano Don Russo lo propose per venire incontro alle esigenze dei figli delle detenute, costretti a vivere in carcere insieme alle madri. Attualmente, dice Corleone, i bambini nel carcere fiorentino sono pochissimi, se ne conta uno (la bambina di 18 mesi che sta sollevando discussioni in merito al battesimo, da effettuare fuori o dentro Sollicciano), e pertanto non si avverte più l’esigenza di una struttura come l’Icam. Nel 2013 fu proprio il ministro Cancellieri a garantire che l’Istituto toscano venisse aperto a breve. Invece adesso la struttura non sembra più una priorità. Un altro punto in discussione è quello che riguarda le carcerate donne che sono "il 3-4% dei detenuti". In così poche, secondo Corleone, rischiano di non avere le attenzioni necessarie, di subire un regime carcerario duro e di essere vittime della loro stessa condizione di minoranza. Per questo si sta ragionando sull’ipotesi di dedicare uno spazio soltanto a loro, più precisamente l’istituto Gozzini, che potrebbe diventare a tutti gli effetti un carcere femminile, prendendo a modello strutture come la Giudecca a Venezia dove "c’è una vita e ci sono possibilità diverse per le donne". In questo quadro è importante, dice Corleone, che dopo la direzione di Sollicciano effettuata da Marta Costantino per soli nove mesi, sia nominato qualcuno pronto a restare per più tempo, che non rappresenti soltanto una sostituzione provvisoria. Costantino lascerà il posto a fine settembre per un nuovo incarico a Roma. Toscana: il progetto per la realizzazione dell’Icam a Firenze va avanti Comunicato Dap, 26 agosto 2016 In relazione ad alcuni articoli di stampa apparsi in questi giorni su diversi quotidiani della regione Toscana, che manifestano preoccupazione in ordine alla possibile mancata realizzazione di un Icam presso la città di Firenze, è opportuno fare chiarezza sulla posizione dell’Amministrazione penitenziaria centrale che, già nel mese di gennaio del 2010, prima della promulgazione delle legge 62/2011 volta a tutelare il rapporto tra detenute madri e figli minori, sottoscriveva con diversi partner istituzionali - Presidente della Regione Toscana, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Presidente dell’Opera Pia Madonnina del Grappa e Presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze - apposito protocollo d’intesa. Con tale atto, l’Opera Pia Madonnina del Grappa si è impegnata a concedere in comodato d’uso all’Amministrazione penitenziaria una villetta con giardino ed annessi edifici da destinare ad Icam, per l’accoglienza delle donne, imputate e/o condannate, con i propri figli al seguito. La ristrutturazione dell’immobile è finanziata dalla Regione Toscana che, con apposite delibere del 2012 e del 2013 ha stanziato complessivamente la somma di 621.000,000 euro, messa a disposizione della Società della Salute (Sds), incaricata, dalla stessa regione, della realizzazione dei lavori, la cui conclusione è stimata per la fine del corrente anno. In tal senso, pur apprezzando i suggerimenti di razionalizzazione che provengono dal territorio, questa Amministrazione continua a ritenere i diritti e gli interessi dei bambini, figli di persone detenute, prevalenti su ogni altra qualsiasi considerazione che vada a ritardare o rinviare il riconoscimento pieno e incondizionato di tale diritto, peraltro sancito da una legge dello Stato. In tal senso, pertanto, l’auspicio di questa Amministrazione è quello che i lavori presso la struttura dell’Opera Pia Madonnina del Grappa siano portati a termine nei tempi programmati e che, nelle more, le Autorità locali e la stessa Magistratura di Sorveglianza adottino provvedimenti, provvisori e preventivi, anche di comunità, affinché nessun bambino sia ristretto presso l’istituto penitenziario di Firenze Sollicciano. Cagliari: Calisaris (Sdr); concessi domiciliari a detenuta ultraottantenne cagliaripad.it, 26 agosto 2016 Stefanina Malu, detenuta di 83 anni, non tornerà in carcere ma continuerà a scontare la pena a casa di una figlia. Lo ha disposto il tribunale di Sorveglianza di Cagliari che ha concesso gli arresti domiciliari all’anziana - ribattezzata la nonnina dei penitenziari italiani - accogliendo l’istanza della difesa. La notizia è stata diffusa da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. "Stefanina Malu - sottolinea Caligaris - è ancora ricoverata nell’Ospedale San Giovanni di Dio con un quadro clinico non stabile. Vi era giunta dopo essere stata per alcuni giorni in una cella della Casa circondariale di Cagliari-Uta, essendo stata dimessa il primo agosto scorso da una clinica. Si tratta di una donna con problemi cardiocircolatori, non autosufficiente, con una semiparesi". Soddisfazione è stata espressa anche dall’avvocato Marco Lisu, legale dell’anziana: "È arrivato finalmente un provvedimento che abbiamo a lungo caldeggiato. Abbiamo prospettato l’opportunità di una Residenza Sanitaria ma non è stato possibile. La vicinanza alla famiglia, pur in stato di detenzione, avrà sicuramente positivi effetti anche sulla sua salute ancora molto precaria". Terremoto in Centro Italia, collaudi e materiali: la Procura indaga per disastro colposo di Ilaria Sacchettoni e Mario Sensini Corriere della Sera, 26 agosto 2016 Sotto accusa gli edifici appena inaugurati che non hanno retto e i fondi stanziati per la sicurezza ma mai utilizzati. I magistrati di Rieti hanno fatto un sopralluogo e disposto sequestri. Nel fascicolo per ora non ci sono indagati. Com’erano fatti quegli edifici che sono crollati come castelli di carte? C’è un responsabile della morte di centinaia di persone? Sotto una generica ipotesi di reato - disastro colposo - la procura di Rieti ha avviato un’ampia indagine che potrebbe decollare a breve con un primo sequestro di macerie, funzionale ad analisi più approfondite. Sarà presto per dirlo, visto che si sta ancora aggiornando il calcolo di morti e dispersi, ma intanto si comincia a ragionare su un fatto palese: alcuni degli edifici, appena inaugurati, avrebbero dovuto essere a prova di sisma. Quali regole sono state seguite nella progettazione e nell’esecuzione? È possibile che siano stati utilizzati, ad esempio, materiali scadenti. E ancora: chi ha eseguito i collaudi e con quali procedure? La pm Cristina Cambi e il procuratore capo Giuseppe Saieva vogliono stabilirlo rapidamente: ieri hanno compiuto un sopralluogo e disposto dei sequestri, in particolare di immobili colpiti dal sisma in cui ci sono state vittime. Quello in mano ai magistrati è un fascicolo che per il momento non contiene indagati, ma che è destinato ad ampliarsi a breve. Anche per le denunce che potrebbero arrivare da cittadini o da enti danneggiati: lo stesso Comune, ad esempio, potrebbe sporgere denuncia contro chi ha costruito, visto che molti edifici pubblici sono andati in briciole. In queste ore arrivano anche altre notizie: fondi stanziati nel 2009 eppure inutilizzati dai Comuni. Soldi per mettere in sicurezza edifici pubblici, come il campanile (che crollando ha ucciso un’intera famiglia) e la scuola di Amatrice ricostruita nel 2012. Le delibere con i relativi stanziamenti sono pubblicate anche sul sito della Protezione civile. A questo punto qualcuno potrebbe dover rispondere di reati ancora da accertare: dalla corruzione all’omissione di atti d’ufficio. Mentre nessuna denuncia è arrivata dai sindaci sulla tempistica dei soccorsi su cui si è polemizzato sia pure solo nelle primissime ore. C’è da dire che il mancato utilizzo dei fondi per la prevenzione del rischio sismico per infrastrutture pubbliche ed edifici privati non è un problema dei soli Comuni montani del Lazio. Dei 963 milioni di euro stanziati dal governo dall’aprile 2009, a pochi giorni dal terremoto de L’Aquila, ad oggi, ne sono stati spesi pochissimi in tutt’Italia. "Colpa soprattutto di un meccanismo a dir poco farraginoso per l’erogazione dei contributi, che pure ci sono" dice il sindaco di Ascoli Piceno, Guido Castelli, vicepresidente dell’Associazione dei Comuni. "I fondi arrivano ogni anno con un’Ordinanza della Protezione Civile, ma tutte le verifiche sulle richieste sono centralizzate, e i soldi - continua Castelli - non arrivano". Di fatto quei fondi sono serviti solo per sistemare alcune scuole. Le domande di finanziamento per ristrutturare o ricostruire ponti e viadotti, sono state, fin qui, appena 23. "Una era la nostra. Ho chiesto i soldi per rifare un ponte che rischiava di crollare tre anni e mezzo fa. Sono arrivati a maggio" aggiunge Castelli. Per la messa in sicurezza degli edifici privati, di quel miliardo, sono stati spesi pochi milioni di euro. Nel 2013, ad esempio, sono state presentate 11 mila domande ai Comuni, che le hanno girate alle Regioni e da queste alla Protezione Civile, ma ne sono state accolte solo 1.849, di cui 480 in Puglia e 580 in Calabria (191 nel Lazio, 114 nelle Marche, 77 in Umbria, le zone colpite dal sisma di questi giorni), con un contributo medio di 20 mila euro. Nel 2010 gli edifici privati che hanno beneficiato dei fondi per la prevenzione sismica sono stati appena 21 in tutt’Italia, saliti a 1.192 nel 2011 e a 1.326 nel 2012. Per il 2016 la Protezione civile stima interventi su 8-12 mila edifici, "ma se la normativa resta questa - dice Castelli - è del tutto irrealistico". Le Ordinanze della Protezione Civile per lo stanziamento dei fondi sono di una complessità estrema, in media una novantina di pagine, più una decina di allegati tecnici. Pagine e pagine per descrivere cosa sia un "edificio", quali caratteristiche debba avere, quali gli interventi possibili e le clausole di esclusione. Sono stati invece quasi tutti utilizzati i fondi concessi ai Comuni per la "micro-zonazione sismica del territorio", la premessa per qualsiasi intervento. Le mappe i Comuni le hanno fatte, pure Accumoli e Amatrice. Ci sono anche i soldi, ma le case continuano a crollare. La catastrofe politica di Michele Prospero Il Manifesto, 26 agosto 2016 Un terremoto è anche una grande questione politica. Ma non lo è nel senso che su una tragedia si possono ricamare meschine operazioni di marketing, con bande musicali al seguito, annunci di ricostruzioni miracolose e plastico avveniristico delle new town illustrato nella quarta camera, quella di Vespa. Si illude in maniera grossolana il governo se pensa di aver trovato ad Amatrice il suo Abruzzo. Cioè calcola di approfittare delle macerie per sviluppare un nuovo episodio di ingegneria della comunicazione, utile solo per la consacrazione del nuovo leader del fare che si spende in narrazioni in vista del referendum costituzionale. Eppure, a tutta pagina, ieri l’Huffington Post titolava, con un’enfasi degna della stagione retorica del secolo scorso: "Presenza fisica e azione". E nell’articolo si poteva leggere: "Svegliato alle 3,45 Renzi fa il punto dell’emergenza. Si decide di non lasciare nulla al caso. Ma proprio nulla". E quindi "anche la comunicazione viene organizzata a puntino". A puntino. Con la sua nuova tattica (proprio questo è il termine usato) il governo "cerca di non lasciarsi spiazzare dall’evento naturale" e quindi di "accelerare al massimo possibile". Il tentativo è quello di scandire artificialmente i tempi delle scelte, di simulare pragmatismo e efficienza: "La priorità è scavare, dice Renzi". Cose già viste. Che la catastrofe diventi politica in tal modo, ovvero che una tragedia figuri come materia di tattica, di scenografia e di comunicazione studiata "a puntino", questo è l’indizio di una decadenza inarrestabile della sfera pubblica. È questione politica un terremoto ma in un senso diverso, perché, ad esempio, su un evento catastrofico si è scritta una delle pagine più importanti del pensiero moderno. Nell’agosto del 1756 Rousseau scrive una lettera a Voltaire che aveva pubblicato un poema sul terremoto di Lisbona. Sebbene scosso dalle macerie, Voltaire, il cantore della grandezza del bel secolo delle arti e delle scienze, non perde le certezze del mondano che loda la perfezione del tempo e difende l’epoca "tanto denigrata dai mesti criticoni". Rousseau lo incalza negando che la catastrofe rinvii alla metafisica, alla teologia, al fato. Sebbene ci siano eventi imprevedibili, considerate "le combinazioni del caso" che smonta la pretesa che "la natura dev’essere soggetta alle nostre leggi", Rousseau vede la politica proprio dove Voltaire scrutava solo la teodicea, con il rapporto tra Dio e il male, la bontà e la natura. Dalla teologia scende perciò sulla politica. Lo spiega bene Ernst Cassirer: "Rousseau ha sottratto il problema della teodicea al circolo metafisico, trasponendolo al centro dell’etica e della politica". L’irrazionalista, il sentimentale Rousseau non se la prende con Dio (si distacca dalla pretesa dell’illuminismo di punzecchiare la religione in nome della ragione "quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la dimostrazione non ha ragion d’essere") o con la natura e mette sotto processo la società e così rilancia la ragione della politica come risposta critica alle emergenze. Rileva ancora Cassirer: è la "coscienza della responsabilità della società, che Rousseau ha indicato per primo. Il XVII secolo ignorava questa idea". Rousseau inventa la politica moderna e scorge nelle macerie di Lisbona non già indizi di metafisica ma le tracce del crollo di una civiltà alienata e per questo mette sotto processo le scelte pubbliche nel progetto di città. "Per restare al vostro tema, e cioè Lisbona, - scrive il ginevrino a Voltaire - dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa. Invece, sono dovuti restare abbarbicarsi alle macerie esporsi a nuove scosse". Non è in questione Dio o la natura che si presenta con "la durata ipotetica del caos". Contano scelte politiche nel contenere spiriti di lucro quando si edifica una città. Se nelle città umbre l’intervento sulle abitazioni dopo le precedenti emergenze ha consentito di prevenire disastri ciò significa che non è il semplice fato a portare in altri luoghi la morte, con scosse dalla intensità minore che abbattono alberghi e ospedali. Se le risorse scarse vengono promesse per il ponte sullo stretto, dirottate sulle grandi opere, destinate a chi compie 18 anni o regalate per le gigantesche decontribuzioni a favore delle imprese, ciò accade per una scelta politica che non apprezza la messa in sicurezza del territorio come bene pubblico prioritario. Il sostegno delle grandi potenze dell’economia e dei campioni della finanza è più ricercato della manutenzione dei territori, delle città affidata a lavori che mobilitano piccole imprese, artigianato, competenze diffuse. E questo ordine rovesciato dei valori è politica, cattiva politica che governa l’Italia come un paese periferico che frana dinanzi alle emergenze. "Peggio che a L’Aquila nel 2009" di Carlo Lania Il Manifesto, 26 agosto 2016 I morti accertati finora sono 250, ma il bilancio è provvisorio. Delle frazioni di Amatrice popolate da turisti restano solo montagne di detriti e oggetti domestici. I paesi interdetti agli abitanti e dichiarati "zona rossa". "Temiamo un bilancio peggiore dell’Aquila", sospira il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. Per ora i soccorritori hanno raccolto più di 250 vittime, 205 delle quali solo ad Amatrice e nelle sue frazioni. Oltre 300 scosse che saranno anche di assestamento, come spiegano gli esperti, ma non per questo fanno meno paura e meno danni. Le ultime, di magnitudo 4.5 e 4.3 si sono avute nella notte e verso le 2.30 del pomeriggio, la prima ancora con epicentro ad Accumoli, il piccolo centro diventato suo malgrado il cuore triste di questo terremoto. E tutte hanno provocato nuovi crolli e nuova angoscia tra gli oltre mille sfollati. Il palazzetto dello sport di Amatrice, punto di ritrovo per chi non ha più una casa, è stato evacuato per permettere ai tecnici del genio di effettuare i controlli. La buona notizia, si fa per dire, è che all’Hotel Roma, dove si temevano decine di vittime, i morti sarebbero sei mentre la maggioranza degli ospiti mercoledì notte avrebbe fatto in tempo a mettersi in salvo. Nel frattempo si avviano i primi atti amministrativi. Un’ordinanza del prefetto di Rieti ha dichiarato "zona rossa", e quindi impraticabili, le aree colpite dal sisma. Spetta adesso ai sindaci perimetrare le zone interdette a tutti, anche a chi le abitava fino a tre giorni fa a meno che non sia accompagnato. Amatrice ha decine di frazioni che la circondano. Con molte di esse il terremoto è stato più generoso. Quelle dove invece si è abbattuto con violenza, i tecnici della protezione civile le hanno riunite in quella che hanno chiamato Zona 1. Piccoli centri ognuno dei quali abitato tutto l’anno da poche famiglie, ma che d’estate, specie a agosto, si riempiono di centinaia e centinaia di persone. Sono i vecchi abitanti emigrati a Roma o in altri centri della regione in cerca di lavoro, ma che non rinunciano a tornare nel proprio paese per passare le vacanze insieme alla famiglia. Morti che, come un rosario, si sgranano frazione dopo frazione. 22 a Saletta, 12 a Casale (uno solo era residente). 8 a San Lorenzo, 10, tra cui un bambino di 10 anni, a Sant’Angelo. A Saletta, d’inverno ci vivono appena venti persone che d’estate diventano più di duecento. È stato così anche quest’anno, nessuno è voluto mancare e anche se chi è partito aveva promesso di tornare domenica prossima, giorno in ci era previsto "l’evento clou", come lo chiama il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, vale a dire il cinquantesimo anniversario della sagra dell’amatriciana. Chi ha promesso di tornare, senza saperlo si è salvato la vita. Almeno cinquanta di loro aveva invece scelto di restare e quasi la metà adesso non c’è più. Per capire come sono morti basta un’occhiata a quello che è rimasto della frazione. Per arrivare alla piazza della Chiesa dovevi percorrere una ventina di metri in salita lungo una stradina che costeggia le case. La piccola parrocchia era lassù, nella piazzetta con il monumento ai caduti della seconda guerra mondiale. Adesso devi letteralmente scalare una montagna di detriti, farti largo tra materassi sventrati, sedie rotte e vecchi dvd che testimoniano la passione per il cinema di chi abitava quelle case. Della chiesa è rimasto solo un povero Cristo in ferro appeso all’unico muro rimasto in piedi. "Un disastro" commenta il gestore del B&B Margherita che si trova lungo la strada. Lui e la moglie si sono salvati uscendo da una finestra ma hanno pagato il loro prezzo al sisma. Quando, con la prima scossa, la casa si è afflosciata su se stessa come un budino riuscito male, sotto le macerie è rimasta una famiglia romana di tre persone. "Per fortuna c’è anche qualcuno che si è salvato quasi miracolosamente", prosegue Francesco. E racconta di quella signora che si è salvata infilandosi nella canna fumaria del camino ("qui da noi i camini sono grandi, sa?"), oppure dei ragazzi che al momento della scossa si trovavano dentro la scuola. "D’estate diventa un punto di ritrovo per i giovani che vengono in vacanza". Mercoledì notte erano una decina e stavano giocando a carte. Si sono salvati perché la scuola, al contrario delle loro case, ha retto la scossa del sisma. "Uno di loro era tornato a casa per farsi un panino - prosegue Francesco - si è salvato, ma è rimasto quattro ore sotto un’intercapedine con il cane in braccio". Frazioni che oggi sono vuote, se non proprio abbandonate. Strade deserte nelle quali - quando non ci sono soccorritori all’opera - senti il rumore dei passi, vecchi cascine diroccate, macerie ovunque che però non riescono a nascondere quella che doveva essere la bellezza di questi centri, molti dei quali sono antichi borghi medioevali. A Sant’Angelo ora stanno montando una nuova tendopoli. Ospiterà i cento sfollati del paese, più altri duecento da Amatrice e le frazioni intorno. La protezione civile l’ha montata in un campo messo a disposizione da un’associazione locale. Quindici tende, una mensa, un punto di raccolta comune a tutti. La diocesi ha anche deciso che ogni tendopoli dovrà avere una tenda da adibire a chiesa. Inoltre già ieri sera dovrebbero essere arrivate le prime stufe elettriche, perché sarà anche estate ma la notte da queste parti fa già freddo. Ma anche qualcosa in più. Come le altalene e gli scivoli per i bambini. Tutto per provare a rendere un po’ più normale ciò che non lo è. "Dobbiamo creare dei luoghi che non intristiscano le persone, non dobbiamo perderci d’animo", non si stanca di ripetere il sindaco Pirozzi. Ce la faranno, se il terremoto lo permetterà. "Si muore di corruzione e imperizia nei lavori" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 26 agosto 2016 L’intervista. Il responsabile del Centro pericolosità sismica dell’Ingv Carlo Meletti: con una scossa simile in Cile o in California non ci sarebbe stata questa devastazione. "Una devastazione come in Irpinia nel 1980". Non è solo un’impressione quella di Carlo Meletti, responsabile pericolosità sismica dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia: è una prima valutazione fatta sulla base delle ispezioni che i suoi colleghi dell’Ingv stanno facendo in queste ore, perlustrando a tappeto la zona colpita dal sisma, e con i quali è in costante contatto. Perché l’Irpinia e non L’Aquila? Perché è crollato quasi tutto ad Amatrice? Sì, dai primi dati sembra che i crolli siano essenzialmente dovuti alla tipologia povera del costruito. Muri fatti con pietrame. Amatrice ha pagato il prezzo della sua passata povertà? L’edificio rosso nuovo che si vede nella foto dall’alto (anche ieri in prima, ndr) è rimasto in piedi… In realtà anche quello sembra seriamente danneggiato, da buttare giù. Nel filmato fatto dal drone dei Vigili del fuoco si vede chiaramente che è spezzato in due. Ed essendo di recente costruzione vuol dire una sola cosa: che il cemento armato non è stato legato bene con le travi dei pilastri. All’Aquila a volte il cemento non era neppure armato, mancava del tutto il ferro dentro. Per essere antisismico un palazzo deve prima di tutto essere costruito come si dice, a regola d’arte? Questo spiega perché la torre medievale di Amatrice è rimasta in piedi ed edifici molto più moderni come l’ospedale o la scuola si sono sbriciolati? Amatrice era proprio sopra al terremoto, che è stato superficiale. In questi casi il grosso della scossa più verticalea, immagino che se fosse stata più orizzontale la torre dell’orologio oscillando avrebbe avuto una maggiore probabilità di crollare. Anche in Emilia nel 2012 alcuni campanili stretti e lunghi hanno resistito perché l’accelerazione era verticale. La scuola era degli anni ‘30 ma risistemata nel 2012 con tecniche modernissime, addirittura fibre di carbonio: ci sarà modo di capire cosa sia successo e se i lavori siano stati fatti bene. In generale possiamo dire che la prima norma antisismica è avere un muratore che sa fare bene il suo mestiere, che usa il filo a piombo come facevano i romani o gli egizi. Poi naturalmente ci sono molte altre regole da seguire ma nel terremoto del Sannio del 1688, un paese amministrato dai Borboni fu distrutto totalmente da un terremoto di grado 6,5, lo Stato pontificio mandò i suoi architetti che dopo attente analisi compilarono un decalogo per la ricostruzione e trasformarono Cerreto Sannita nel gioiello che si può tuttora ammirare (vedi il manifesto di ieri, ndr). La regola basilare era l’utilizzo di pietra squadrata con angolo a novanta gradi e di travi in pietra sugli stipiti. Molto semplice ed è ancora lì. E a L’Aquila cosa è successo? L’Aquila non doveva crollare, dietro la parte crollata ci sono le magagne evidenziate nelle perizie del tribunale. Non doveva crollare con una magnitudo di 6, molto vicina a quella di Amatrice. Con un sisma così si può morire solo in Italia, in Grecia e forse in Turchia, non altrove. In California e in Cile quasi non se ne sarebbero accorti. Il Cile ha molto da insegnare. Lì nel 1960 c’è stata la scossa più forte mai registrata dagli strumenti, 9,5. Poi è stato tutto ricostruito con una normativa seria. Nel 2010 hanno subito un terremoto di magnitudo 8,8 e ha fatto pochissime vittime. Dagli Stati Uniti un’équipe di ricercatori ha stabilito un nesso tra numero delle vittime a parità di magnitudo e tasso di corruzione calcolato sulla base degli indici internazionali che oggi esistono. Il Cile, com’è noto, è considerato un paese non corrotto, al contrario dell’Italia. E questo è il primo fattore di sicurezza, il secondo è una responsabilità civile molto forte che lega per sempre il costruttore o restauratore, e il suo committente, con il manufatto, anche dopo successive vendite. In Umbria per la ricostruzione dopo il terremoto la Regione ha dato molti incentivi ai privati, forse non è un caso che oggi Norcia abbia resistito? Nel ‘79 in una zona poco a ovest, colpita da un sisma di magnitudo 6, non ci fu una devastazione paragonabile. Era l’epoca di Zamberletti e del dopo- Friuli, l’inizio delle vicende sismiche moderne nel nostro paese. Finanziare dappertutto le ristrutturazioni antisismiche delle case private, si dice costerebbe troppo. La Lunigiana dimostra il contrario. Nel ‘95 un terremoto del 5,3 ha fortemente danneggiato la zona. La Regione Toscana ha dato 20 milioni di lire a famiglia per interventi antisismici su edifici in muratura. L’intervento migliore in termini di costo-beneficio sono le catene di ferro da una facciata all’altra e questo è stato fatto. Gli investimenti sono triplicati perché le famiglie che ne hanno approfittato per fare altri lavori a proprie spese e le ditte edili hanno acquisito "un know how". Nel 2013 in Lunigiana c’è stato un nuovo sisma del 5,3 e in sostanza non ci sono stati danni. La prevenzione si può fare e dà risultati. Ma si può fare in tutte le zone rosse e viola della mappa dell’Ingv? La mappa colorata è diventata un’icona pop dei nostri tempi. L’abbiamo fatta, ma a che serve se non ci agganci un’azione di prevenzione? Invece cosa si dovrebbe fare? Ancora oggi per capire lo stato degli edifici mi devo basare sui dati poveri del censimento Istat che aveva alcune domande sulla tipologia abitativa. Sono gli unici dati disponibili e se ne ricava che l’80% delle case italiane è precedente al 1981, cioè sono state costruite prima della ancor blanda prima normativa antisismica. Quanto a scuole e ospedali c’è solo una mappatura finanziata dalla Protezione civile nel Centro Sud grazie ai lavori socialmente utili a metà anni 90. Che la prefettura dell’Aquila dovesse crollare era già scritto in quel librone. E non è stato fatto nulla? Le scuole… Qualcosa è stato fatto dopo S. Giuliano di Puglia ma ancora troppo a spot. In Italia c’è la sindrome Nintoo ("not in my terms of office"), non si fa niente se non è spendibile elettoralmente subito. Erdogan, che evidentemente non ha questo problema, ha varato nel 2012 un piano ventennale per abbattere e ricostruire 7 milioni di case: proprietari e costruttori ci guadagnano con un aumento delle volumetrie. Noi potremmo fare di meglio, credo. Terremotati e richiedenti asilo, la bandiera di tutti noi di Danilo Paolini Avvenire, 26 agosto 2016 Prima "noi", poi "loro". Non è mica colpa "nostra", è colpa "loro". "Noi" non siamo razzisti. Anzi, "noi" siamo fin troppo buoni e "loro" se ne approfittano. E adesso? Adesso è venuto giù un pezzo d’Italia, la falce implacabile del terremoto ha mietuto le sue vittime senza chiedere il passaporto o il permesso di soggiorno. Adesso gli sfollati siamo noi. Tutti noi, cioè con "noi" anche "loro". E conta poco, anzi niente, che perfino in queste ore di lutto ci sia chi gioca a "noi" e "loro": mettiamoci "loro" nelle tende", "noi" andiamo nelle strutture dove sono ospitati; prendiamo per "noi" i fondi stanziati per "loro"… Ma siamo uguali, ugualmente fragili. Lo saremmo sotto le bombe e i colpi di mortaio che martirizzano Aleppo, lo siamo sotto le macerie di Amatrice, Accumoli, Arquata. Esseri umani. Carne, sangue, anime. Non c’è differenza tra il Medio Oriente e il Lazio o le Marche, quando si muore innocenti. Quando a 8 mesi o a 10 anni si saluta la vita senza ancora averla assaggiata. Quando paghi il prezzo di un figlio o di un genitore alla vacanza "del cuore" nel paesino della nonna, dove vai pochi giorni all’anno. Il paese che in estate vede triplicare la sua popolazione. Se il terremoto avesse bussato a ottobre avrebbe inghiottito meno vite, pensi. E capisci che non servono i carri armati. Basta uno scrollone di 142 infiniti secondi. Non deve essere poi tanto diverso lo stato d’animo di chi sopravvive ma resta senza casa. Il terremoto, come la guerra, può trasformarti in un richiedente asilo. Cambia poco se la tenda è montata nel campo sportivo dove fino a ieri giocavi a pallone con gli amici. L’angoscia e la paura non si misurano in metri e nemmeno in miglia marine. Una delle foto simbolo di questo sisma è quella di un ragazzo salvato, strappato alle macerie e coperto con il Tricolore. I suoi tratti sono esotici, dicono che sia peruviano. "Il ragazzo sentiva freddo, era sotto choc. Gli ho dato un bacio sulla guancia e gli ho detto: "Dai è finita". Piangeva. "C’è mia mamma sotto", diceva. Ho trovato delle bandiere italiane in una piazza e le ho messe sul petto al ragazzo, per coprirlo", ha raccontato uno dei soccorritori. Chissà, forse le bandiere erano ancora appese a qualche balcone per via dei recenti campionati europei di calcio. Si dice che a noi italiani il Tricolore piaccia soprattutto allo stadio, poi quando è il momento di onorarlo ci tiriamo indietro. Non è del tutto vero, per fortuna. Lo sapevamo già ma lo dimostra una volta di più proprio quel soccorritore, che la bandiera nazionale l’ha onorata eccome. Dando salvezza e riparo a uno straniero, un essere umano, un fratello. Lo dimostrano quei soccorritori, tutti. Volontari o in uniforme, che da due giorni e due notti non si fermano, scavano, sorreggono, nutrono, confortano, semplicemente ascoltano. Perché essere italiani significa, innanzi tutto, amare l’Italia. Se sei nato qui e sghignazzi al telefono nella notte buia di un altro terremoto, fregandoti le mani al pensiero dei lauti guadagni che potrai fare con la ricostruzione, sei davvero italiano? Se, Dio non voglia, avessi risparmiato in materiali e in tecniche di sicurezza per ristrutturare qualche edificio pubblico che mercoledì non ha resistito all’urto della terra, sei italiano? Per l’anagrafe, solo per l’anagrafe. Per l’anagrafe non lo sono, invece, i venti richiedenti asilo provenienti dal Nord Africa che sono partiti da Monteprandone (Ascoli Piceno) per dare il loro contributo nei paesi delle Marche colpiti dal sisma. Non lo sono gli ospiti dello Sprar di Roccella Ionica, che hanno deciso di devolvere il loro pocket money (sì, i 2 euro e mezzo al giorno che tanto indignano i demagoghi di casa nostra) ai terremotati. E non sono italiani nemmeno i migranti alloggiati a Taranto, che si sono messi a disposizione per portare soccorsi nel cuore lacerato della nostra patria. "Nostra" e un po’ anche "loro", perché in questo modo dimostrano di amarla. O, come minimo, di essere umani. Che di questi tempi è tantissimo. Perché l’umanità le bandiere non le brandisce, le usa per salvare. Lavorare tutti, italiani e migranti di Guido Viale Il Manifesto, 26 agosto 2016 L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfacendo. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate. Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da "autorità" che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per "salvare" i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali. Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per "far ripartire il paese", che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno). L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la "flessibilità", concessa dall’Ue, è stata resuscitata. Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!). Eppure, gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto, irreversibilmente, alla sua formazione. Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. È sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso. In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo. In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni. Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni. I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state - e ancora sono - la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti. Profughi a Como, scene di caccia in alto Ticino di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2016 L’ultima frontiera è il confine con la Svizzera. Chiusa la rotta balcanica, presidiata Ventimiglia, bloccato il Brennero, i profughi tentano di raggiungere il nord Europa passando da Como a Chiasso, entrando nel Canton Ticino, per poi raggiungere la Germania o altri Paesi europei. Sono violentemente respinti dai gendarmi elvetici con la collaborazione della polizia italiana: violando i diritti umani, la legge svizzera e i trattati internazionali, denuncia l’avvocato Paolo Bernasconi, già membro del comitato internazionale della Croce Rossa, che ha appena inoltrato un rapporto alle Nazioni Unite. "Si è parlato di caos a Como, nei giorni scorsi, a causa di centinaia di profughi pronti a dare l’assalto ai treni", racconta Bernasconi. "Niente di più falso. È successo che una ventina di migranti, tra cui donne e bambini, hanno tentato di salire sul treno per Chiasso: sono stati bloccati da poliziotti in tenuta antisommossa. Ma niente minacce, nessun diverbio, nessuna violenza. L’emergenza non è della sicurezza, ma semmai dei diritti", continua l’avvocato. "Le autorità ticinesi chiedono alla polizia italiana di impedire ai profughi di prendere il treno, affinché non possano arrivare a presentare domanda di asilo alla Svizzera. E una grave e sistematica violazione delle tre convenzioni internazionali dell’Onu sull’accoglienza dei richiedenti asilo, sulla protezione dei minorenni e sul ricongiungimento familiare". Ecco perché Bernasconi ha denunciato l’accaduto all’Alto Commissariato per i rifugiati di Ginevra. "Sabato scorso, la polizia italiana è stata schierata in tenuta antisommossa alla stazione di Como, per impedire a un gruppetto di persone la partenza per la Svizzera. Erano uomini pacifici, con donne e bambini, avevano acquistato il biglietto del treno per Chiasso e avevano in mano la loro domanda d’asilo già compilata. Perché sono stati fermati?", chiede l’avvocato, storico difensore dei diritti umani. "Quale norma del diritto italiano permette alla polizia di bloccare delle persone che vogliono chiedere asilo in Svizzera?". Dall’altra parte della frontiera, a Chiasso, decine di poliziotti sono stati schierati in sostegno dei doganieri svizzeri. "In aperta violazione della legislazione elvetica", denuncia Bernasconi, "che impone ai funzionari della Sem, la Segreteria di Stato sulla migrazione, di esaminare le domande d’asilo senza interferenze della polizia cantonale". Le autorità di Berna dichiarano di aver bloccato, dall’inizio dell’anno, 22.181 clandestini entrati nel Paese illegalmente. Solo nel mese di luglio, le guardie di frontiera della Confederazione hanno respinto verso l’Italia 4.149 persone. "Il Libano", ricorda Bernasconi, "ha 1,5 milioni di profughi siriani, la Giordania 2 milioni. La Svizzera, il Paese più ricco del mondo, respinge anche quelli che chiedono l’asilo. I doganieri di rinforzo arrivano dai Cantoni svizzero- tedeschi, non parlano italiano e sostengono che i profughi non spiegano abbastanza chiaramente la loro intenzione di chiedere asilo. Ma l’ordine arriva da Norman Gobbi, il leghista ministro ticinese di Giustizia e Polizia, che viola l’Accordo di Dublino e ammette di aver introdotto la prassi di respingere in Italia anche chi domanda asilo e perfino i minorenni non accompagnati che vogliono raggiungere famigliari in Svizzera". Il giornale della Lega dei Ticinesi, il Mattino, scrive: "A Como treni presi d’assalto per andare in Svizzera, ma ci difenderemo dall’invasione!". Per individuare chi cerca di passare la frontiera, è stato messo in funzione un drone a infrarossi che rileva anche di notte, al buio, il calore dei corpi umani. Viene fatto volare su indicazione dei cittadini che denunciano la presenza di stranieri: poi parte la caccia. Tutte le guerre che non vediamo di Giulio Albanese Avvenire, 26 agosto 2016 È diffusa l’idea che l’informazione ai nostri giorni, nel contesto della globalizzazione, sia diventata una sorta d’infallibile nuovo sapere. Attraverso le sue molteplici enfatizzazioni, sui fatti e gli accadimenti che si verificano nel nostro povero mondo, vi è infatti la presunzione, da parte di vasti settori dell’opinione pubblica, di conoscere davvero come stanno le cose. Ecco che allora lo scenario dell’imbarbarimento sembra essere a senso unico, per cui da una parte vi sarebbero solo le vittime, dall’altra i carnefici. Sta di fatto che l’accento è spesso, troppo spesso, riposto su alcuni determinati eventi che, per così dire, rispondono all’invalsa tendenza a decidere la mediatizzazione di una notizia in base a un presunto interesse dei lettori e alla sua possibile spettacolarizzazione. Non molti anni fa, Sergio Zavoli, da grande conoscitore dell’areopago massmediale, citando fonti statunitensi, stigmatizzò l’inganno: il sistema mediatico planetario comunica appena il 20% delle notizie che pure saremmo tenuti a conoscere. E oggi, inutile nasconderselo, non abbiamo registrato notevoli progressi. Va da sé che sarebbe ingiusto, comunque, fare di tutte le erbe un fascio. Il mondo cattolico, ad esempio, attraverso le sue testate ha il grande merito di aver dato in questi anni, coraggiosamente, "voce a chi voce non ha". Di esempi, ne potremmo portare a iosa e riguardano, prevalentemente, le periferie geografiche ed esistenziali del pianeta: dalla Repubblica Centrafricana alla Somalia, per non parlare dello scenario mediorientale. E cosa dire della condizione in cui versa la popolazione civile, appartenente all’etnia Nande, sottoposta a indicibili sofferenze per i continui massacri perpetrati nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo? L’ultimo, a livello di cronaca, risale alla notte tra il 13 e il 14 agosto, a Beni, nella regione del Kivu settentrionale. L’episcopato locale ha espresso la propria costernazione, riprendono le parole di papa Francesco, che il 15 agosto scorso, aveva denunciato, durante la recita dell’Angelus "i massacri nel Nord Kivu che da tempo vengono perpetrati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione". Condannando senza riserva questi atti ignobili, i vescovi, hanno rivolto un accorato appello "alle autorità congolesi, garanti della sicurezza delle popolazioni e dei loro beni di fare tutto quello è in loro potere per fermare questo ciclo d’atrocità". È inquietante la brutale sequenza di uccisioni perpetrate, in gran parte, all’arma bianca, contro la popolazione inerme nei villaggi congolesi, nonostante la presenza dell’esercito regolare e delle truppe dell’Onu. Come spesso avviene da quelle parti, gli interessi in gioco sono legati a controllo delle materie prime (soprattutto nel sottosuolo) che rappresentano un fattore altamente destabilizzante. Se da una parte è chiaro che anche nel Kivu vi sono infiltrazioni di formazioni jihadiste, dall’altra non è trascurabile la galassia di gruppi ribelli al soldo del migliore offerente. Poco importa che si tratti dei ruandesi o degli ugandesi, di politici locali o di qualche faccendiere legato alle solite multinazionali di turno: a pagare sono coloro che vivono nei bassifondi della Storia. E dire che chi fa informazione, non per mestiere, ma per vocazione, non dovrebbe mai sottrarsi al ‘diritto- doverè di raccontare, stigmatizzandole, le ingiustizie e le sopraffazioni compiute nei confronti di tanta umanità dolente. Sui giornali di tutto il mondo ha campeggiato negli ultimi giorni la foto del piccolo Omran, il bambino salvato dopo un bombardamento dalle macerie di Aleppo, ma sarebbe opportuno rammentare che quella è l’icona di una mattanza che si spinge ben oltre i confini della martoriata Siria. Ogni 5 minuti, in qualche parte nel mondo, un bambino muore a causa di un atto di violenza. Se Martin Luther King oggi fosse spettatore di questi orribili misfatti, continuerebbe a dire ciò che ha sempre predicato: "Io vi scongiuro di essere indignati". Guerra all’Isis, a chi presenteranno il conto i curdi a partita chiusa? di Enrico Verga Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2016 La guerra contro l’Isis in Medio Oriente ha dei costi altissimi. Tra le risorse umane maggiormente impiegate, con grande copertura mediatica da parte di tutto il mondo occidentale, c’è la milizia di difesa curda: i Peshmerga. Da ormai due anni loro sono i primi scarponi sul terreno che tengono testa all’Isis. Un tema che tuttavia non ho avuto modo di approfondire grazie ai media occidentali è il costo del supporto (supporto quasi obbligatorio considerando che l’Isis li stava per schiacciare) Peshmerga alla Seconda guerra al terrorismo (la prima la combatté Bush contro Al Qaeda). Prima o poi l’Isis, sarà ridimensionato, e rimarrà (un po’ come al Qaeda) un’organizzazione terroristica in franchising (del tipo chiunque voglia fare un atto terroristico può chiedere il "brand book" a Isis, cosa che in vero questo gruppo terroristico sta implementando con grande efficacia, vedi lupi solitari). In attesa che un evento del genere abbia luogo chi ci lascia le penne sul fronte orientale sono i Peshmerga. Grazie alle armi occidentali hanno anche ripreso le aree che erano state conquistate dall’Isis. Grazie all’intervento turco contro l’Isis (all’inizio, per sbaglio, bombardavano anche i Curdi) han un poco rallentato la loro attività (c’è da dire che se mentre combatti un nemico un "alleato indiretto" ti prende a cannonate, la cosa non aiuta molto). Grazie all’ulteriore supporto russo e i loro bombardamenti mirati sulla linea nord (bombardamenti molto efficaci tanto che la Turchia ha deciso, volontariamente si intende, di valutare un veloce avvicinamento a Putin) l’esercito di Assad ha dato un ulteriore stretta all’Isis, allentando di fatto la morsa che il califfato stava stringendo al collo dei Peshmerga. Ci vorrà ancora un bel po’ prima che l’Isis sia ridotto, soprattutto in termini di territorio sotto il suo controllo. Tuttavia sarebbe opportuno capire quanto vogliono esser pagati, i curdi, per la loro gentile attività sul terreno. La risposta è piuttosto semplice. Vogliono il Kurdistan, uno stato libero, indipendente, riconosciuto dalla comunità internazionale. Questo Stato dovrebbe, uso il condizionale, essere costituito da elementi territoriali presi da Turchia, Iran, Iraq e Siria. A causa del disordine in Iraq, la regione nord della nazione, con capitale regionale Kirkuk, è quasi de facto indipendente. In vero il governo regionale curdo provò a testare il terreno dichiarando unilateralmente la sua indipendenza dall’Iraq. Il problema maggiore sono tuttavia i "supporter" di questo stato curdo. Gli iraniani, i Turchi non ci pensano nemmeno a lasciar territorio a questo stato. I turchi in più, con le problematiche che hanno con il PKK, non solo non darebbero mai il loro territorio, ma non vedono di buon occhio la formazione di uno stato curdo come vicino di casa. Non sono idioti, sanno che diventerebbe un precedente e un supporto perfetto per il movimento del PKK. Siria e Iraq: in Siria succede qualcosa di strano in questi giorni, pare che una città, Hasakan, sia oggetto di interessi americani. La situazione è piuttosto confusa, ma a quanto riportato da differenti siti, unità aeree americane hanno creato una No-fly zone. Intanto le milizie curde stanno prendendo la città. Ma cosa piuttosto strana, non si registrano truppe Isis sul campo. Al netto di questa situazione tutta in sviluppo, Assad non sembra molto convinto di lasciare un pezzo di Siria al popolo curdo. Anzi in vero con il nuovo cambiamento di umore di Erdogan (ora amicone di Russia e per estensione Iran e Cina) pare che la Siria debba rimanere integra e con Assad a capo, secondo il premier turco. Sull’Iraq già si è detto, è probabile che questo stato rischi una cessione per la creazione di un nuovo stato a nord (tra l’altro una zona ricca di petrolio e gas). Agli Usa di avere un potenziale alleato in zona andrebbe sicuramente bene. Specie considerando che la situazione con i Sauditi (è di pochi giorni fa un riposizionamento dei consiglieri militari americani che erano di stanza a Ryhad che consigliavano il regno sui bombardamenti diretti in Yemen) sta cambiando rapidamente, e i rapporti con l’Iran ( a cui gli Usa han deciso di pagare un po’ di dollari per avere gli ostaggi indietro) è ancora tutta definire. I russi han già detto la loro. Iran e Siria non si toccano. La Cina ha fatto sapere, giusto per non mancare la presenza, che supporta lo status quo (ergo posizione alla Putin). A questo punto la domanda sorge spontanea. I Curdi a chi presenteranno il conto a partita chiusa? Brasile. L’esempio delle prigioni senza sbarre e senza guardie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2016 Presentate al Meeting di rimini le Associazioni di protezione e assistenza ai condannati. Carceri senza sbarre né polizia, con la sicurezza garantita dai volontari e dai detenuti stessi. Utopia? No, è una realtà che da parecchi anni è ben radicata in Brasile. Parliamo del metodo innovativo portato avanti dalle Associazioni di protezione e assistenza ai condannati (Apac) ed è stato illustrato al Meeting di Rimini. L’Apac è un’associazione cattolica della società civile senza scopo di lucro che ha come obiettivo l’umanizzazione della pena privativa della libertà, che ha ideato in concreto una alternativa al carcere. In Brasile esistono 147 Apac. La media mondiale della recidiva dei condannati nel mondo è del 70% e in Brasile arriva fino all’80%, mentre con i "recuperandi" delle Apac la recidiva scende fino al 20%. Inoltre il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune e il costo di mantenimento è dimezzato. La metodologia utilizzata nelle Apac nasce 40 anni fa per opera di Mario Ottoboni, un avvocato visionario della Pastorale Carceraria a San Paolo. Oggi è riconosciuta dalla legge brasiliana e adottata dai Tribunali di 17 Stati. Tale metodologia è basata sul riconoscimento da parte del condannato di aver commesso un errore e sulla decisione di cambiare vita all’interno delle carceri Apac. Esse sono strutturate con l’obiettivo della risocializzazione reale dei condannati o "recuperandi", evitando che, dopo aver espiato la pena, ritornino a commettere crimini. Le Apac non sono solo un modello di recupero dei detenuti, ma anche un’alternativa reale di espiazione della pena, non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i "recuperandi" hanno le chiavi della prigione e spesso sui muri si legge "l’uomo non è il suo errore". Tutto si basa sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto. Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve essere condannato in via definitiva, deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), deve aver fatto richiesta di entrare in un’Apac. La vita in queste carceri senza carcerieri né armi, dove i colori predominanti sono il bianco e l’azzurro che richiama il cielo, è scandita da ferree regole: sveglia, preghiera, lavoro. Durante il Meeting di Rimini ha preso la parola Daniel Luiz da Silva, un ex detenuto che grazie all’esperienza dell’Apac ha cambiato vita. La sue era stata una vita segnata dall’odio per l’abbandono del padre, che aveva lasciato moglie e sei figli piccoli, consegnandoli di fatto a povertà ed emarginazione. Lui a dodici anni è già un piccolo boss perché ? parole sue - "la criminalità è stata l’unica mano tesa che mi ha accolto", e a sedici entra in una delle tante bande criminali che si sfidano nelle strade della sua città, seminando il terrore e rapinando banche e negozi, finché per una serie di vendette incrociate, per punizione gli uccidono il fratello maggiore. È la causa scatenante della sua violenza che gli procura una condanna a 37 anni di carcere. E ricorda: " In prigione ho vissuto l’inferno sulla terra, arrivando fino al punto di supplicare le guardie di uccidermi, pur di non continuare a vivere in quel modo". Ma un giorno, dopo aver incontrato Valeci Antonio Ferreira, intravede anche per sé una possibilità di cambiamento, e si mette a studiare in quell’inferno. Il giudice si accorge del suo cambiamento e gli permette di andare di andare in un’Apac. "Per la prima volta - prosegue nel racconto Daniel Luiz da Silva - ho ripensato alla mia storia non come una serie di fallimenti senza possibilità di ritorno. E ho capito, piano piano, che potevo anche perdonare mio padre per tutto il male che mi aveva fatto". Così Daniel è diventato un uomo nuovo, pronto per uscire dal carcere e raccontare la sua esperienza in tutto il mondo. È possibile applicare in Italia questo modello? Tre anni fa è stato accolto e presentato a Bruxelles tramite la commissione europea per gli European Development Days. L’interessamento c’è. In Italia, l’associazione cattolica "papa Giovanni XXIII" che si occupa dei diritti dei detenuti ha incontrato i rappresentanti dell’Apac e ha espresso il parere che questa strada potrebbe essere percorribile anche da noi, magari coinvolgendo il terzo settore. Brasile. Ma nei penitenziari c’è morte e corruzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2016 Sovraffollamento, pessime condizioni igieniche e di assistenza sanitaria, ostacoli strutturali all’implementazione del regime progressivo e delle norme sul lavoro previste nella Legge delle Esecuzioni Penali (Lep), carenze nell’assistenza giuridica, maltrattamenti e torture, corruzione delle forze dell’ordine, droghe e alcool presenti in quantità massicce, violenze tra detenuti, rivolte ? spesso causate da rivendicazioni sulle condizioni di detenzione - e repressioni sono caratteristiche comuni a molte realtà carcerarie del Brasile. Ci sono casi di cronaca indicibili come quello di una ragazzina sedicenne arrestata per furto e ancora in attesa di giudizio che è stata portata nella cadeia di S. Luis e rinchiusa in una cella maschile per mancanza di spazio in un luogo più adeguato. La ragazza ha subìto per più di un mese violenze sessuali giornaliere da parte dei quasi venti detenuti, ad eccezione di uno che si è sempre rifiutato. Casi come questo destano l’orrore e l’indignazione dell’opinione pubblica, ma allo stesso tempo sono innumerevoli i casi non resi pubblici di violazioni dei diritti umani nelle carceri brasiliane. La tortura continua ad essere una pratica diffusa ed è utilizzata per ottenere confessioni, umiliare e controllare le persone recluse, ed in misura sempre maggiore per estorcere soldi o servire agli interessi criminali dei poliziotti corrotti. E poi c’è tanta corruzione tra le forze dell’ordine che si ripercuote anche nella vita dell’ex detenuto costretto a collaborare in attività criminali sotto minaccia da parte dei suoi ex carcerieri. Innumerevoli i casi di rivolta nelle carceri brasiliani represse nel sangue. L’ultima in ordine cronologico è avvenuta in ben quattro penitenziari dello stato brasiliano di Cearà: 14 detenuti morti, tra i quali cinque sono stati ritrovati carbonizzati. Gli scontri sarebbero stati provocati dalla cancellazione delle visite ai detenuti, decisione presa in ragione dello sciopero delle guardie penitenziarie che protestavano contro il provvedimento dell’amministrazione di rateizzare il pagamento di stipendi arretrati. Ciò ha fatto esplodere la rabbia dei reclusi. Secondo quanto rilevano le fonti, durante la rivolta, vi sarebbero stati regolamenti di conti tra detenuti e ingenti danni alle strutture. L’insurrezione più famosa, riportata dalla stampa mondiale, avvenne il 12 ottobre del 1992. Le guardie carcerarie abbandonarono le posizioni e la struttura cadde in mano ai detenuti. Quando la polizia militare arrivò, i detenuti gettarono coltelli e altri oggetti da taglio dalle finestre per dimostrare di non volere resistere alle forze armate e convinti della possibilità di aprire delle trattative. Trecento venticinque poliziotti fecero irruzione negli edifici senza targhetta di identificazione e senza la presenza di alcuna autorità civile durante l’operazione. I militari aprirono il fuoco sui detenuti con mitragliatrici, fucili e pistole automatiche. Alla fine del blitz 111 detenuti giacevano a terra morti, 130 furono invece i feriti gravi, ma alcune stime sono più pesanti. "Ho dovuto nascondermi sotto i corpi dei compagni morti per sopravvivere - raccontò l’ex detenuto José André de Araújo, che all’epoca aveva 21 anni, i poliziotti entravano chiedendo se c’era qualcuno vivo: se c’era, veniva ammazzato sul momento". Gli Usa rinunciano alle prigioni private "non danno le garanzie delle statali" Italia Oggi, 26 agosto 2016 La decisione riguarda una minoranza dei detenuti, quelli delle prigioni federali degli Stati Uniti, perlopiù stranieri in attesa di estradizione, ma è fortemente simbolica. Il ministero della giustizia americano venerdì 19 agosto ha fatto sapere che metterà fine progressivamente agli accordi con le imprese che gestiscono le prigioni private. Un mercato redditizio, regolato dagli accordi stipulati in passato con il governo federale, che riguarda all’incirca 22 mila prigionieri sul totale dei 190 mila detenuti federali (30 mila in meno negli ultimi tre anni); una quota, però, molto inferiore rispetto alla massa dei 2 milioni di carcerati delle prigioni pubbliche che dipendono dagli stati. Sulla necessità di riformare il sistema carcerario americano per mettere fine al sovraffollamento oggi si registra un consenso mai visto in passato, anche fra i candidati alla Casa Bianca: Hillary Clinton e Donald Trump. La numero due del ministero della giustizia Usa, Sally Yates, ha disegnato un bilancio piuttosto severo delle attività dei gruppi privati che gestiscono le prigioni, sostenendo che non offrono le stesse condizioni di personale, detenzione rispetto alle carceri pubbliche, neppure rispetto ai programmi di rieducazione e reinserimento sociale. In sostanza, non permettono risparmi sostanziali e non garantiscono lo stesso livello di protezione e di sicurezza rispetto alle prigioni pubbliche. Il disimpegno dello stato federale non sarà senza conseguenze sui singoli stati e sul fatturato delle società, in particolare sui due gruppi più importanti Cca (cui la California assicura l’8% del fatturato) e Geo Group, che ha nella Florida il suo miglior cliente (6% del fatturato). I profitti realizzati in questo settore dai privati hanno attirato in passato diversi investitori, tra i quali alcuni insospettabili come la Columbia University, che nel 2015 è stata la prima università a sbarazzarsi del proprio portafoglio legato a questa attività, e Yale, che ha fatto altrettanto dopo le proteste degli studenti. Iraq: approvata amnistia generale, presto la liberazione di 42mila detenuti Nova, 26 agosto 2016 Il parlamento iracheno presieduto da Salim al Jubouri ha approvato oggi una legge per la concessione dell’amnistia generale a tutti i detenuti. Lo ha riferito una fonte parlamentare irachena ad "Agenzia Nova". La normativa, secondo il sito "Iraqi Day", consentirà la liberazione di 42mila detenuti, inclusi quelli accusati di violenze settarie. I partiti sciiti si erano opposti inizialmente alla legge per il timore riguardo alle ripercussioni sulla società irachena. Per i sunniti invece la normativa rappresenta "una soluzione alla grave situazione" in cui versa il paese. "Consideriamo le riforme come una tutela dei diritti umani e della dignità - aveva detto il presidente Jubouri nei giorni scorsi. Per questo la presentiamo come una delle riforme chiave per il paese". Un esponente sciita aveva chiarito che l’opposizione degli sciiti alla legge non era dettata da motivazioni politiche, ma dalla preoccupazione che la normativa potesse permettere la liberazione di terroristi dello Stato islamico e di al Qaeda. Colombia: addio alle armi, le Farc firmano l’Avana vince di Valerio Sofia Il Dubbio, 26 agosto 2016 L’accordo con la Colombia siglato a Cuba dopo 52 anni di guerriglia e migliaia di morti. È una di quelle storie che può valere il Premio Nobel per la pace. Uno dei conflitti che durava da più tempo nel mondo è stato dichiarato ufficialmente chiuso. Dopo 52 anni di intensa guerriglia, il governo della Colombia e i ribelli delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) hanno posto fine alla guerra civile. Le trattative andavano avanti da quasi quattro anni, ma ancora pochi mesi sembravano ben lontane dal trovare una conclusione. Ora invece è arrivata la svolta. I delegati delle due parti hanno trascorso molto tempo a L’Avana, a Cuba, che si è offerta di ospitare le trattative di pace che sono state condotte anche con la mediazione di altri Paesi. Nella scorsa notte si è infine arrivati alla stesura finale dell’Accordo generale per la conclusione del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura in Colombia. Il testo prevede che i guerriglieri abbandonino in modo definitivo le armi e si smobilitino nel giro di sei mesi, sotto la supervisione di una commissione internazionale guidata dalle Nazioni Unite. Non saranno perseguiti ma al contrario dovranno essere reintegrati nella vita civile. In questo modo, le Farc cesseranno di esistere come organizzazione armata illegale e si trasformeranno in un movimento politico. Per sei mesi le Farc saranno rappresentate da portavoce al Congresso, i quali avranno diritto di parola ma non di voto sino al 2018, quando potranno presentarsi alle elezioni con rappresentanza minima garantita per due legislature. Inoltre, il testo prevede una riforma agraria, misure su vittime del conflitto, giustizia, lotta al narcotraffico, eliminazione delle mine, ricerca degli scomparsi. L’intesa dovrà essere ratificata da un referendum che si terrà il 2 ottobre e che ovviamente è sponsorizzato dal presidente Juan Manuel Santos, rieletto nel 2014 proprio con la promessa dell’accordo di pace. Le premesse sono positive: nei recenti sondaggi, il 67,6% dei colombiani si è detto a favore, e all’annuncio dell’accordo a Bogotà, migliaia di persone sono scese in strada a festeggiare. La guerra civile ha causato oltre 220 mila morti e un totale di otto milioni di vittime comprendendo feriti, scomparsi, sfollati, sequestrati e mutilati, oltre alle perdite economiche e ambientali impossibili da quantificare. I colloqui erano iniziati nel novembre 2012 e hanno incontrato turbolenze, con crisi, recriminazioni, interruzioni e minacce di rottura. Ma hanno anche avuto momenti di slancio, fatti di dimostrazioni di impegno e fiducia, come le dichiarazioni di cessate il fuoco della guerriglia o la sospensione dei bombardamenti degli accampamenti da parte del governo. Il presidente Santos non ha mancato di ricordare e ringraziare i suoi predecessori che più degli altri si erano impegnati nella ricerca della pacificazione nazionale, Belisario Betancur (1982-1986) e Alvaro Uribe (2002-1010). Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si è congratulato al telefono con Santos. L’alta rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini, ha parlato di "un’opportunità storica e unica per la pace in Colombia, che arriva dopo un lungo negoziato che ha richiesto grande volontà politica e perseveranza", "sebbene restino molte sfide" legate alla realizzazione delle intese. Anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha elogiato l’accordo. In questo mezzo secolo di guerriglia la storia e il senso stesso del conflitto si sono spesso modificati. Le Farc furono fondate nel 1964 come braccio armato del partito comunista, nell’ambito delle forti tensioni fra i grandi proprietari terrieri e i contadini. Inoltre a livello globale si era nell’ambito della Guerra Fredda, e il Sud America a sua volta non brillava certo per la democraticità delle sue istituzioni. Seguendo l’ispirazione della rivoluzione castrista a Cuba alcuni gruppi di campesinos avevano formato comuni agricole e anche gruppi armati di autodifesa. L’esercito intervenne duramente a reprimere queste realtà, in particolare la cosiddetta Repubblica di Marquetalia. I sopravvissuti di quella comune il 30 maggio 1964 fondarono le Farc, sotto il comando di Pedro Antonio Marin, meglio noto come Tirofijo. Movimento di guerriglia rurale per i diritti dei campesinos, le Farc sono arrivate a contare fino a 20mila combattenti attorno al 2002 quando controllavano ampie porzioni di territorio colombiano. Le Farc sono note anche per aver praticato in modo diffuso il sequestro di persona, mantnendo ostaggi nella giungla colombiana anche per molti anni. Presto lo spirito contadino venne integrato e superato da quello rivoluzionario marxista, in virtù del clima di quegli anni e anche dei rapporti di alleanza internazionale che il movimento si trovava a imbastire. Sparite le ideologie, alle Farc rimase un po’ dello spirito originario ma anche un semplice spirito di sopravvivenza e di perpetuazione dei propri interessi e dei propri affari, che secondo chi li accusa comprendevano anche il narcotraffico. Proprio il depotenziamento ideologico ha potuto condurre alla smobilitazione delle due fazioni contrapposte aprendo la strada al processo di pace. Israele: Bilal Kayed interrompe lo sciopero della fame Nena News, 26 agosto 2016 Sarà scarcerato il 12 dicembre alla fine del periodo di detenzione amministrativa. Resta in piedi la protesta di altri 4 prigionieri. Scelte individuali che in parte indeboliscono il movimento dei detenuti. Dopo 71 giorni di sciopero della fame, Bilal Kayed ha interrotto la sua protesta: il prigioniero politico palestinese ha trovato ieri un accordo con le autorità israeliane che lo avevano posto in detenzione amministrativa (misura cautelare che non prevede né accuse ufficiali né processo, in violazione del diritto internazionale) a giugno. Quel giorno doveva uscire di prigione dopo 14 anni e mezzo di carcere: era stato condannato nel 2002 perché presunto membro delle Brigate Abu Ali Mustafa, il braccio armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ieri l’accordo: secondo Sahar Francis, direttore dell’associazione per i prigionieri palestinesi Addameer, Israele ha accettato di non rinnovare l’ordine di detenzione amministrativa, senza specificare una data di rilascio. Ma fonti anonime palestinesi la indicano nel 12 dicembre, il giorno in cui finiranno i sei mesi iniziati a giugno. La protesta di Kayed - che si trova in questo momento in gravi condizioni di salute - aveva sollevato altre proteste: centinaia di prigionieri palestinesi sono entrati in sciopero della fame in solidarietà con la battaglia di Bilal, mentre fuori la società civile organizzava tende di protesta e manifestazioni. L’ultima ieri: alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, un sit-in è stato aggreddito dalla polizia israeliana che ha poi arrestato tre persone. Intanto altri prigionieri restano in sciopero della fame: Malik al-Qadi e Ayyad al-Hreimi, da 40 giorni; Muhammad al-Balbolu, da 49; e suo fratello Mahmoud da 52. Non è la prima volta che simili proteste individuali vengono messe in atto nelle carceri israeliane: negli ultimi anni i casi più noti sono stati quelli di Khader Adnan e di Samer Issawi. Entrambi hanno rischiato di morire per la mancanza di cibo per poi trovare un accordo con le autorità israeliane. Non sempre, però, simili lotte vanno a buon fine: Adnan è stato riarrestato e poi liberato, mentre Issawi è tornato in prigione durante gli scontri che infiammarono Gerusalemme nel giugno 2014, prima dell’attacco contro Gaza. Da allora non è più uscito: a maggio 2015 una corte militare ha riattivato l’originale condanna a 30 anni. Nonostante ci siano 7mila prigionieri politici in carcere, di cui 750 in detenzione amministrativa, il movimento dei detenuti politici da alcuni anni ha perso una delle sue caratteristiche: per decenni, fin dopo l’occupazione militare del 1967, i detenuti palestinesi divennero colonna portante del movimento di liberazione. Gli scioperi della fame collettivi hanno permesso miglioramenti delle condizioni di vita in carcere e stimolato proteste della società esterna. Da alcuni anni, però, i detenuti preferiscono la via dello sciopero individuale per il proprio caso, e non contro la più generale applicazione di misure detentive o condizioni di vita in prigione. Scelte che, se da una parte accendono l’attenzione esterna, dall’altra indeboliscono il movimento in sè impedendogli di organizzare proteste comuni e più efficaci.