Intanto ti arresto, poi... di Walter Vecellio L’Indro, 25 agosto 2016 Cresce il numero dei detenuti: "Se non si pongono argini il sistema tornerà a scoppiare". Tuttavia, nel 2015 dei procedimenti definiti "cautelati", 42 risultano definiti con sentenza assolutoria definitiva; altri 156 risultano definiti con sentenza assolutoria non definitiva. Nello specifico: le "assoluzioni definitive impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare… quelle non definitive 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con misura degli arresti domiciliari". Fuori dal gergo giudiziario: quasi duecento persone sottoposte a misure cautelari, processate e assolte. Definitivamente o meno. Un’assoluzione ogni due giorni, ma giova ricordare che si parla di dati che provengono da meno della metà dei distretti giudiziari. Dunque si è autorizzati a credere che ogni giorno, comprese le domeniche e le feste, un cittadino viene incarcerato, e poi dichiarato innocente (e sconta e patisce una ingiusta carcerazione, poco importa, a questo punto se di qualche giorno, settimana o mesi). L’unico grande Tribunale ad aver fornito i dati richiesti dal ministero è stato quello di Napoli: 2.275 misure cautelari emesse, 1.227 carcerazioni preventive. E ancora: "Su 321 procedimenti in cui si è ricorso alla misura detentiva in carcere e per i quali è stato emesso un giudizio", in 292 casi si è arrivati a sentenza di condanna. Il 91 per cento. Significa che nel 9 per cento dei casi, si è trattato di persone arrestate e poi giudicate innocenti: 25 assoluzioni e cinque "non luogo a procedere o non doversi procedere". La detenzione, insomma, non è la risorsa ultima a cui ricorrere, e con molta cautela. Seconda considerazione: se il Ministero della Giustizia chiede dei dati, come mai solo 48 uffici giudiziari su 136 li forniscono, e tra quelli di una certa dimensione, solo Napoli? E come mai le Direzioni Distrettuali Antimafia non comunicano i loro dati? E dal Ministero della Giustizia ci si è limitati a prendere atto della situazione di non disponibilità, oppure si sono messe in cantiere iniziative perché questi dati siano disponibili e conoscibili? Il dossier Ue. Quel rapporto ostile tra cittadini e giudici italiani di Simona Musco Il Dubbio, 25 agosto 2016 Pochi magistrati, troppi carichi pendenti e poca fiducia nell’indipendenza di giudici e pm. È questo la fotografia che emerge dal quadro di valutazione della giustizia 2016, stilato dalla Commissione europea, che evidenzia un rapporto "ostile" tra la cittadinanza e la magistratura, percepita come lontana, schiacciata dalle pressioni politiche o dagli interessi economici, e dove l’accesso ad un giusto processo sembra essere cancellato dall’eccessiva durata dei procedimenti e dai pochi soldi investiti nel gratuito patrocinio. Una percezione che si scontra con le difficoltà, oggettive, degli stessi magistrati, costretti a smaltire, con pochi uomini a disposizione, un carico di lavoro impressionante. Il rapporto, infatti, mette in evidenza il primato del nostro paese in fatto di contenziosi civili e commerciali pendenti, assieme a paesi come Ucraina, Turchia, Russia, Grecia e Romania. "La preoccupante disfunzione italiana - si legge in un commento dell’Anm al rapporto dello scorso anno - è dovuta al gran numero di affari entranti rispetto a quelli smaltiti, che allunga i tempi di pendenza dei procedimenti. L’elevata produttività dei magistrati italiani non è sufficiente ad arginare un fenomeno di cronica lentezza del sistema". Il problema è "strutturale" e richiede "interventi globali di sistema". Nel 2012, in Italia risultavano pendenti in primo grado 4.986.193 processi civili, a fronte di una media europea pari a 719.893. I giudici civili, però, in primo grado sono riusciti a definire, nel 2012, 4.346.215 pendenze rispetto a 4.010.588 sopravvenienze, guadagnandosi il terzo posto in Europa per affari definiti. Anche il carico penale è tra i più elevati: 1 milione e mezzo di procedimenti, a fronte di una media europea di circa 340mila processi. E nonostante l’elevata produttività, sono ancora troppi i procedimenti in sospeso, con tempi lunghissimi rispetto alla media europea: 370 giorni contro 146, secondi solo alla Russia (387). Ma il nostro paese è anche poco accessibile. On line, innanzitutto, in barba alla semplificazione, ma anche per quanto riguarda l’accesso alla giustizia dei ceti più disagiati, nonostante l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Le somme destinate al gratuito patrocinio, infatti, sono inferiori ai 5 euro a cittadino, una miseria, insomma. E, in generale, la spesa totale delle amministrazioni pubbliche per i tribunali tende a scendere, assestandosi a meno di 100 euro a testa, contro i 180 spesi dal Lussemburgo, primo in classifica. Il tutto con circa dieci giudici ogni 100mila abitanti, tra gli ultimi posti in Europa, mentre il record è della Svizzera, che ne conta circa 50 ogni 100mila. Poche persone e troppo lavoro non può che tradursi in affanno e poco tempo a disposizione per corsi di formazione: a parte quella iniziale, l’Italia non ne organizza, contrariamente agli altri paesi, dove ci si aggiorna sugli strumenti informatici e sulle gestioni specializzate. E qui si arriva al tasto dolente: l’indipendenza dei magistrati. Solo il 2% circa degli italiani ci crede, mentre una grossa fetta della popolazione, circa il 60%, ha espresso un giudizio piuttosto o molto insoddisfacente. Prevalentemente a insospettire gli italiani sono questioni relative alle interferenze o alle pressioni da parte del governo o di politici ma anche per interessi economici e di altra natura. Ma i magistrati sono convinti del contrario: nove su dieci si promuovono. La Cassazione dei debuttanti fa infuriare i magistrati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 agosto 2016 Il decreto legge che il governo sta predisponendo in queste ore per prorogare a 72 anni l’età della pensione per alcuni alti magistrati che, altrimenti, avrebbero lasciato il servizio attivo il prossimo 31 dicembre, contiene al suo interno anche delle novità procedurali che, nelle intenzioni dell’esecutivo, consentirebbero di "accelerare" i processi in Cassazione. Fra le varie misure che il governo starebbe approntando, infatti, ci sarebbe quella di impiegare i magistrati attualmente in servizio presso il Massimario della Corte di Cassazione per la composizione dei collegi della predetta Corte. Seguendo l’equazione: più collegi uguale più sentenze. Il provvedimento, di cui ancora non si conosce però il testo definitivo, sta già comunque facendo molto discutere gli "addetti ai lavori". Sia i magistrati e sia gli avvocati. Attualmente, per poter ricoprire funzione giudicanti di legittimità, la legge prevede che un magistrato debba (salvo deroghe particolari) aver conseguito almeno la quarta valutazione di professionalità. Cioè debba possedere la qualifica di consigliere d’appello. Oltre all’anzianità di servizio, bisogna inoltre dimostrare il possesso di una determinata serie di requisiti professionali, la pluralità delle esperienze e la varietà delle funzioni svolte. Per ricoprire il ruolo di magistrato addetto al Massimario, cioè l’ufficio della Corte di Cassazione che si occupa di estrapolare dalle sentenze il principio di diritto, espresso dalla pronuncia medesima, cui si uniformeranno in futuro i magistrati nelle loro decisioni, invece, è sufficiente essere in possesso della qualifica di magistrato di tribunale. Qualifica che si acquisisce dopo pochi anni di carriera. Con la modifica legislativa che si andrebbe ad approvare, dunque, un congruo numero di magistrati che non avrebbero neppure potuto concorrere a tale ruolo, proprio per mancanza dei requisiti soggettivi, eserciterebbero di colpo le superiori funzioni di legittimità. Senza dover essere soggetti alle previste valutazione dei Consigli giudiziari e del Consiglio superiore della magistratura. Va tenuta ben presente la delicatezza delle funzioni della Corte di Cassazione nell’ordinamento italiano. Essendo l’ultimo grado di giudizio, cui consegue la definitività delle sentenze. Non sono, infine, state fornite al momento informazioni in ordine alle modalità in cui i magistrati del Massimario dovrebbero andare a comporre i collegi della Corte. Nei prossimi giorni dovrebbe essere pronto l’articolato definitivo. Se Ram Lubhaya fosse innocente? E se i magistrati avessero applicato una legge giusta? di Beniamino Migliucci* e Francesco Petrelli** Il Dubbio, 25 agosto 2016 La parola "presunto" è quella che più frequentemente leggiamo negli articoli di cronaca giudiziaria e che, quasi ossessivamente, ascoltiamo, nel corso dei telegiornali e dei giornali radio. A volte anche le parole come le monete si "svalutano". Ma, nel caso della parola "presunto", crediamo non si tratti di una "svalutazione", ma di una parola che non è mai stata spesa e intesa nel suo vero e fondamentale significato. Un significato che si risolve in fondo, in queste poche essenziali domande: e se il cittadino indiano Ram Lubhaya fosse innocente? E se i magistrati avessero ritualmente applicato una legge giusta? E se non fossero ravvisabili, né il reato di sequestro di persona, aggravato dalla minore età del rapito, né quello di sottrazione di persona incapace? E se questi illeciti non fossero ravvisabili, né sotto la forma del reato consumato, né sotto la forma del tentativo? E se non vi fossero state ragioni di cautela per applicare la custodia in carcere? Pare che la parola "presunto" abbia "corso", nel nostro Paese, con un senso opposto a quello che il buon senso gli dovrebbe attribuire (di presunto innocente sino a giudizio definitivo): "presunto rapitore" sta a significare, infatti, che lo "presumiamo certamente colpevole" di avere commesso questo odioso reato, presumendo, di conseguenza, scandaloso il comportamento dei magistrati che non hanno gettato il "presunto rapitore" nel fondo di un carcere "gettando via la chiave". Presumendo, infine, che, se i magistrati avessero mai applicato correttamente la legge (come più volte dagli stessi affermato), si tratterebbe certamente di una legge vergognosa, tutta da rifare. Così, pare, la intendano alcuni la parola "presunto". Pronti magari ad invocare la "presunzione di innocenza" come un gadget personale. Non vi è dubbio che la stessa magistratura, che ora protesta per gli "inaccettabili attacchi mediatici" e che con il Vicepresidente del Csm chiede la fine della "spettacolarizzazione dei processi", abbia avuto un ruolo assai rilevante nello spostare l’asse del processo sul fronte mediatico della ricerca del consenso e nel favorire il "deragliamento" del significato di questa parola, che non è solo una fondamentale regola del processo, ma un principio costituzionale che, come tale, dovrebbe impregnare l’intera cultura della nostra società. Capita tuttavia a volte, come in questo caso, che la magistratura resti vittima della sua stessa propaganda giustizialista, che sia messa sotto accusa sol perché avrebbe applicato la legge, per aver dunque fatto il proprio dovere. Non vi è dubbio che quando in uno stato democratico ed in una società "aperta" i magistrati sbagliano debbano essere consentite anche le critiche più aspre. Ma il problema è un altro. Ed è che dobbiamo tutti convincere una opinione pubblica oramai matura, che non solo carcerando e condannando, ma anche garantendo la libertà degli "ultimi" i magistrati tutelano le nostre garanzie, i nostri diritti e le nostre libertà. Ed è per questo che occorrerebbe piuttosto vergognarci quando vediamo quanti innocenti finiscono in carcere scontando lunghissime ingiuste custodie cautelari, e dovremmo conservare la nostra indignazione quando vediamo che lo Stato è costretto a pagare milioni di euro di indennizzi per le ingiuste detenzioni o per le riparazioni di errori giudiziari che hanno distrutto intere esistenze. Se, anche qui, un magistrato ha sbagliato saranno gli organi competenti a dirlo. Allo stato nessuno è in possesso di elementi di fatto sufficienti per anticipare un giudizio. Ma una cosa è certa: questa vicenda dovrebbe insegnarci, oltre al significato (vero) della parola "presunto", anche altre cose. Che se non è certo irrituale che il Ministro Orlando intenda accertare eventuali responsabilità nell’aver lasciato un fermato in libertà, non capita, tuttavia, di osservare analoghe sollecitudini quando la libertà di un cittadino viene invece ingiustamente violata. Che non bisognerebbe speculare sullo spavento e sui sentimenti di un genitore per chiedere la "reintroduzione" di un "reato di clandestinità" che è già inutilmente presente nella nostra legislazione o chissà quali altre riforme autoritarie dei nostri codici. Che non abbiamo, infine, bisogno di un processo penale che si nutre di casi esemplari e di capri espiatori, né di silenzi per le molte sicure ingiustizie, e di improvvisi clamori per presunte indecenze processuali, perché la giustizia non dovrebbe mai essere amministrata "a furor di popolo", sotto il peso di una indebita spinta emotiva. *Presidente e **Segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane Niente tenuità del fatto per gli ultras che lanciano oggetti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 24 agosto 2016, n. 35428. Rischiano otto mesi di reclusione i tifosi che lanciano, bottiglie, razzi e fumogeni o bengala, in occasione delle partite di calcio. Il reato, per il quale è esclusa l’applicazione della norma sulla particolare tenuità del fatto, scatta anche quando il lancio degli oggetti avviene prima o dopo l’incontro. Nel caso esaminato, è confermata la condanna ad otto mesi per l’ultras che, a fine partita, aveva lanciato bottiglie sulla strada dove passavano veicoli e persone a piedi. La Corte respinge la tesi dell’intento scherzoso, al pari di quello che spinge a lanciare gavettoni d’estate. La Cassazione dice no dunque alla non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale. Vendere prodotti biologici "finti" è reato anche se il prezzo è basso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 24 agosto 2016, n. 35387. Il reato di frode in commercio per chi vende arance tradizionali spacciandole per biologiche scatta anche se il prezzo di vendita è uguale. La Corte di cassazione, con la sentenza 35387 depositata ieri, punisce la "bugia" indipendentemente dal profitto e respinge il ricorso dell’amministratore unico e del gestore di fatto di una società ortofrutticola che acquistava arance da un’altra Srl e le metteva in commercio dopo averle etichettate. Proprio questo passaggio era finito nel mirino degli inquirenti. In seguito ad una perquisizione nei locali della società che faceva capo ai due imputati erano state sequestrate le etichette di una ditta, che si era poi costituita parte civile, che attestavano la produzione biologica di numerose confezioni di arance. Le stesse erano state poi trovate sugli scaffali di una nota catena di supermercati. Inutile per i ricorrenti negare sia il dolo, sia l’inganno al consumatore perché, secondo la tesi della difesa, oltre all’etichetta "neutra ed oscura per molti" non c’erano altre indicazioni sull’origine biologica della frutta. Il prezzo poi era pari al prodotto convenzionale. Una tesi che la Suprema corte non condivide. I giudici ricordano che l’etichetta indica il contenuto e la vendita di un prodotto non conforme a quanto dichiarato integra il reato di frode in commercio e non un semplice illecito amministrativo. Né la condanna può essere evitata in nome di un mancato profitto. Gli elementi del profitto e del danno altrui sono del tutto estranei alla struttura di un reato, che si delinea quando all’acquirente viene consegnata una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, a prescindere dal costo. I giudici della terza sezione penale precisano quindi che il finto biologico integra il reato anche se al compratore è stata consegnata una merce che ha un costo di produzione pari o addirittura superiore rispetto a quella dichiarata, né conta che il cibo, come nel caso esaminato, abbia lo stesso valore nutritivo. La Cassazione respinge anche un’altra censure relativa alla riconosciuta legittimazione della ditta di certificazione a costituirsi parte civile. Per i giudici l’utilizzo illegittimo delle etichette su prodotti non corrispondenti a quelli la cui genuinità era stata verificata dall’azienda aveva certamente determinato un danno che risulta dimostrato. Anzi la Cassazione trova la somma, liquidata a titolo di provvisionale, assolutamente contenuta e certamente inferiore all’effettiva lesione subita dalla parte civile. Resta estraneo al ricorso in cassazione, perché assolto in Corte d’Appello l’amministratore unico della società che forniva le arance tradizionali, senza mentire sulla loro origine. Per le fatture false sequestro se si prova il vantaggio illecito di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 24 agosto 2016, n. 35459. Per il reato di emissione di fatture false il profitto dell’illecito da individuare ai fini del sequestro finalizzato alla confisca non va commisurato all’imposta evasa da parte di colui che ha utilizzato tali documenti, ma all’eventuale compenso incassato per la commissione del delitto. Il risparmio di imposta, infatti, è riferibile solo all’utilizzatore con esclusione per espressa previsione normativa del concorso tra i due soggetti. Ad affermare questo interessante principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 35459 depositata ieri. Ma veniamo ai fatti. Un note procuratore sportivo (Alessandro Moggi) era stato indagato per emissione di fatture per operazioni inesistenti, al fine di consentire a una società di calcio di evadere l’Iva e agli atleti di evadere le imposte. Il Gip aveva disposto il sequestro di disponibilità e beni equivalenti al profitto del reato contestato, nella misura pari all’imposta considerata evasa. L’indagato ha proposto così istanza al Tribunale del riesame, che l’ha però rigettata, confermando la misura cautelare. Avverso la decisione il procuratore sportivo ha fatto ricorso in Cassazione, lamentando, in estrema sintesi, che il giudice territoriale aveva erroneamente assimilato la posizione del soggetto emittente le fatture false a quella dell’utilizzatore. La norma, tuttavia, preclude il sequestro nei confronti di chi ha emesso i documenti e non esiste alcuna previsione di solidarietà o concorso con l’utilizzatore, con la conseguenza che il profitto del reato non poteva essere rappresentato dall’imposta evasa dalla società e dagli atleti, ossia gli utilizzatori delle fatture. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha innanzitutto richiamato l’articolo 9 del decreto legislativo 74/2000, secondo cui, in deroga alle disposizioni del codice penale, l’emittente di fatture per operazioni inesistenti e il relativo utilizzatore non sono punibili a titolo di concorso tra loro. Circa il sequestro, poi, occorre quantificare il profitto del reato e poiché le posizioni di chi emette i documenti e di chi li utilizza sono "autonome", non può trovare applicazione il principio solidaristico, secondo cui vi è riparto tra i correi del profitto conseguito. I giudici di legittimità hanno infatti precisato che l’emissione di fatture per operazioni inesistenti è funzionale all’evasione di terzi e pertanto solo per questi ultimi ha rilevanza l’imposta evasa. Per l’emittente, invece, il profitto è rappresentato dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto e non certo dall’imposta risparmiata dai destinatari delle fatture emesse. In altre parole, secondo la Cassazione, emittente e utilizzatore conseguono profitti differenti da quantificare autonomamente e, dovendosi escludere il concorso, in capo a chi ha emesso le fatture è irrilevante l’imposta evasa. Nella specie il collegio cautelare non aveva individuato il profitto o il prezzo del reato riferibile all’emissione di fatture false, limitandosi a un generico vantaggio, oltre che in ogni caso, ritenendo erroneamente applicabile il principio solidaristico con chi aveva utilizzato tali documenti. Da qui l’accoglimento del ricorso. Rumore, depenalizzazione esclusa per l’azienda che disturba di notte di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 24 luglio 2016, n. 35422. Chi fa un eccessivo rumore nello svolgere la sua attività produttiva, disturbando di notte il sonno delle persone non può invocare la depenalizzazione. In tal caso scatta anzi il concorso formale tra le due ipotesi previste dal primo e dal secondo comma dell’articolo 659 del Codice penale. Il primo comma punisce con il carcere fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro chi con schiamazzi e rumori disturba le occupazioni e il risposo di chi abita nelle vicinanze, mentre il secondo, che prevede l’ammenda da 103 a 516 euro scatta quando un mestiere o una professione rumorosa viene svolta "contro le disposizioni di legge e le prescrizioni dell’autorità". Nel caso esaminato, la Corte di cassazione, con la sentenza 35422, depositata ieri considera integrate entrambe le ipotesi: sia la violazione delle prescrizioni amministrative (nello spefico quelle sull’orario) sia il superamento dei valori soglia fissati in materia di immissioni rumorose. La Suprema corte afferma il concorso formale tra i due reati e nega la possibilità di applicare, alla condotta indicata nel secondo comma dell’articolo 659, la depenalizzazione prevista dalla legge 447/1995. L’articolo 10 della legge quadro sull’inquinamento acustico, invocato dai ricorrenti, è stato modificato per effetto della depenalizzazione (legge 205/ 1999) e prevede, infatti, la possibilità di punire con la sola sanzione amministrativa "chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di emissione o di immissione". La Cassazione ricorda che in tema di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone, l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso integra l’illecito amministrativo, indicato dall’articolo 10, quando si verifica esclusivamente il semplice superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni in materia. Mentre resta un reato (comma secondo dell’articolo 659 del Codice penale) la violazione delle specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere, diverse da quelle relative ai valori limite di emissione. La Corte conferma poi anche che i due commi dell’articolo 659 costituiscono due titoli autonomi di reato rendendo possibile l’affermazione del concorso formale. Un tipico esempio di violazione delle disposizioni della legge è lo svolgimento dell’attività rumorosa in orari diversi da quelli previsti, mentre l’abuso che si concretizza quando le emissioni superano la normale tollerabilità si configura indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale il rumore proviene e quindi scatta anche nel caso di un uso smodato dei mezzi tipici della professione o del mestiere. Nello specifico c’erano entrambe le circostanze e correttamente i giudici di merito hanno affermato il concorso formale ed escluso la depenalizzazione per la violazione delle diposizioni di legge (secondo comma). Verona: detenuti al lavoro in piazza Bra, impegnati in sistemazione dei cubetti dì porfido L’Arena, 25 agosto 2016 Il sindaco Flavio Tosi con l’assessore Antonio Lella ha incontrato in piazza Bra tre detenuti nel carcere di Montorio impegnati nel sistemare cubetti dì porfido in Bra e nelle strade, nell’attività avviata dall’Amministrazione insieme alla Garante dei diritti dei detenuti, Margherita Forestan. Lucca: detenuto per 1.324 giorni in celle troppo piccole, ottiene risarcimento Ansa, 25 agosto 2016 Ancora una sentenza di condanna al risarcimento per il ministero della Giustizia. La vicenda riguarda un detenuto che ha trascorso 1.324 giorni di detenzione in celle troppo piccole al carcere di Massa. Per questo motivo ha promosso un ricorso contro lo Stato ottenendo ragione. Una sentenza civile del tribunale di Genova condanna il ministero della Giustizia a risarcirlo con 10.592 euro, otto euro per ogni giorno di trattamento subito in contrasto con le convenzioni internazionali. Nel procedimento si è discusso sulla vicenda di un detenuto di 62 anni, condannato per traffico di droga, fra 2010 e 2014 che ha avuto a disposizione uno spazio vitale anche inferiore a tre metri quadri, misura ben sotto il minimo di quattro metri quadri pro capite indicato dal Comitato europeo di prevenzione della tortura (Cpt), organismo del Consiglio d’Europa. Quattro mq è il valore indicato dal Cpt come spazio minimo vitale in carceri con grave sovraffollamento. Per il giudice Lorenza Calcagno erano "illegittime le condizioni detentive alle quali il ricorrente è stato sottoposto presso la casa circondariale di Massa". Foggia: aggredito agente penitenziario. Il sindacato Osapp "protesta a oltranza" La Repubblica, 25 agosto 2016 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito nel carcere di Foggia, nella sezione "protetti", da un detenuto extracomunitario. Lo rende noto in una nota il segretario generale aggiunto del sindacato di Polizia penitenziaria, Osapp, Pasquale Montesano. "Il detenuto senza alcun motivo all’atto dell’apertura della cella per essere accompagnato ufficio matricola con scatto fulmineo - si legge nel comunicato - ha colpito l’agente di reparto con il piede del tavolino in dotazione, procurandogli ferita lacero contusa trattata con sei punti di sutura". "Non sono più rinviabili - si sottolinea - azioni di protesta ad oltranza e fino a quando politica e amministrazione centrale porranno fine all’assenza di interventi in particolare per le strutture di Foggia, Lucera, Bari, Taranto e Lecce" dove esiste "un grave problema - si evidenzia - di carenza di organico". "L’episodio avvenuto a Foggia - secondo l’Osapp - al pari di altri avvenuti in questi ultimi mesi in Puglia in danno dei poliziotti penitenziari costituisce un evidente segnale del salto di qualità che le organizzazione criminali stanno adottando in termini di strategia della tensione e della intimidazione nei confronti del Corpo di polizia che, pressoché abbandonato a se stesso, gestisce la precaria sicurezza delle carceri e garantisce all’interno delle stesse il rispetto della legalità e la tutela degli interessi della collettività nazionale". Cinema. Mettere le mani nell’orrore: i dilemmi morali nella guerra contro Daesh di Giona A. Nazzaro Il Manifesto, 25 agosto 2016 "Il diritto di uccidere" di Gavin Hood, i "danni collaterali" dei conflitti. Protagonisti Helen Mirren e Alan Rickman nella sua ultima interpretazione. Gavin Hood, sudafricano in prestito a Hollywood, ama i destini esemplari. Siano essi quello di Tsotsi o di Wolverine, il destino è la somma dell’ambiente che circonda l’eroe e le scelte che compie. Un cineasta assolutamente non banale Hood, anche se il suo cinema non si eleva dal conforto dell’esecuzione lineare della commissione. In Il diritto di uccidere l’oggetto - o meglio: tema - è già nel titolo; sia in quello italiano, più contenutistico, che in quello inglese Eye in the Sky, l’occhio nel cielo che non può non ricordare il tormentone pop-prog di Alan Parsons. Il film si pone il problema del cosiddetto collateral damage (ossia le vittime innocenti delle guerre giuste). Che fare quando ci si trova davanti a un covo di Al Shabaab e la decisione da prendere comporta l’ipotesi di uccidere anche innocenti? Il film di Hood è contenuto tutto in questa premessa che, per esempio, Eastwood ha risolto ammirevolmente con la soggettiva iniziale di American Sniper. Hood, invece, autentico bleeding heart, mette in scena un teatro morale nel quale un polo (Helen Mirren) si confronta con il suo opposto (Alan Rickman, alla sua ultima interpretazione). Ovviamente Hood, nelle mani di interpreti sublimi come la Mirren e Rickman, riesce a far valere la sua voce. Il dilemma morale rimbalza con grande convinzione attoriale nonostante la prevedibilità etica di uno script che non va al di là di un talk show ben intenzionato. Eppure sarebbe ingiusto disconoscere la precisione dell’esecuzione di Hood, che nell’ambito di un cinema dall’impianto teatrale decisamente tradizionale riesce a creare una tensione a tratti genuina facendo oscillare i punti di vista di partenza. La tensione rispetto alla decisione da prendere, le cui implicazioni e conseguenze sono sviscerate in ogni dettaglio umano, sono l’alimento drammatico del film. Hood riesce a stemperare con attenzione i momenti esplicativi per poi imprimere accelerazioni drammatiche attraverso l’uso dei dettagli e di un montaggio stretto. Non c’è nulla di rivoluzionario in Il diritto di uccidere e l’esecuzione corretta non può occultare il fatto che la prospettiva ideologica nella quale si muove il film è quella di una posizione etnocentrica, che compie sì uno sforzo per comprendere l’altro da sé ma che proprio in virtù di tale tensione vuole anche riconosciuto il diritto a esporre le proprie posizioni. Richiesta un tantino forte se si pensa che le posizioni in campo sono tali da non consentire certe pretese.Si pensa all’esemplare film di Michael Bay su Benghazi e al rifiuto di qualsiasi posizione conciliante che osa mettere in scena le aporie dell’uomo in guerra. Proprio come il già citato Eastwood. Hood vuole mettere le mani nell’orrore ma è come se avesse già stabilito a priori quali siano i limiti di questo suo procedere. Si muove con un punto di vista ben saldo in tasca nonostante la tentazione di far basculare la narrazione in una direzione non prevista. Se il film resta comunque godibile nonostante alcuni forti limiti di fondo, dipende soprattutto dallo stuolo di interpreti arruolato per l’impresa. Raramente la Mirren è stata talmente intensa e altrettanto raramente Rickman è stato in grado di far risuonare la sua ironia di notazioni tanto sinistre. La loro presenza, come quella dei comprimari Aaron Paul e Iain Glen, è l’elemento principale che tiene desta l’attenzione dello spettatore in questo dibattito dall’esito prevedibile (e in fin dei conti pilotato). Si sente la mancanza in tempi come questi di un amoralista come John Milius che avrebbe saputo cogliere venature non viste nelle immagini della guerra americana contro Daesh. Milius, come Eastwood, sa che le posizioni della guerra non sono mai ferme. Nonostante la grande articolazione del dibattito etico, Hood non riesce mai a celare del tutto il sospetto che in fondo il film proceda con la soluzione in tasca. E, inevitabilmente, ne risente anche la sua tensione morale e spettacolare Terremoto. Gli errori del passato da non ripetere di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 25 agosto 2016 La priorità è evitare che scuole, ospedali e altri edifici pubblici vengano giù alla prima scossa, poi serve un censimento per poter iniziare a mettere in sicurezza i nostri borghi almeno lungo la dorsale appenninica. Le comunicazioni sono difficili. Le strade interrotte. L’area del cratere si estende in tre regioni diverse e i territori dei Comuni colpiti sono disseminati di frazioni complicate da raggiungere. La macchina dei soccorsi però funziona. Le ruspe lavorano a pieno ritmo. Le donne e gli uomini della Protezione civile e dei vigili del fuoco scavano senza sosta. La loro abnegazione, e quella dei volontari, rasenta il sacrificio. Ma in un Paese dove negli ultimi quarant’anni si sono verificati almeno sette terremoti devastanti, al ritmo di uno ogni cinque anni e mezzo, è l’unica lezione che abbiamo davvero imparato: salvare vite umane, dopo. Quanto alle altre lezioni, siamo ancora molto indietro. Con scarse eccezioni le ricostruzioni sono state lente, tardive e costosissime per non parlare degli sprechi e delle dissipazioni clientelari di denaro pubblico. La ricostruzione dell’Irpinia è costata l’equivalente attuale di 70 miliardi di euro, con l’area del cratere allargata fino a raggiungere Comuni dove il sisma non aveva fatto cadere un soprammobile, e una faraonica iniziativa di industrializzazione forzata di cui restano soltanto macerie e una bella fetta di debito pubblico. La commissione parlamentare d’inchiesta ha accertato le gravi responsabilità dei politici in un meccanismo che fu fonte di ruberie e malversazioni, completando lo scenario già emerso da molte indagini giudiziarie. Nemmeno L’Aquila è stata risparmiata dal virus. Basterebbe ricordare i costi e la follia, tutta giustificata dalla politica, dell’operazione Case. E se oggi nel centro storico la ricostruzione delle case e dei palazzi privati sta finalmente procedendo, grazie a un sussulto di buonsenso per cui si è preso atto che non era un problema degli abruzzesi ma di tutti gli italiani, quella degli edifici pubblici invece arranca nel percorso minato della burocrazia. Tutto questo adesso non si deve più ripetere. Le stime dicono che i danni provocati dai terremoti ci sono costati dal 1968 al 2003 ben 162 miliardi di euro, mentre con al massimo un quarto di quella somma investita negli ade-guamenti antisismici l’Italia avrebbe forse potuto evitare anche i costi umani di quelle tragedie. Sappiamo che per com’è fatta l’Italia questo sarebbe stato impossibile. Ma oggi quei numeri devono indurre una seria riflessione. L’Italia è un Paese fragile. Il territorio è in gran parte sismico: il terremoto che tre anni fa ha colpito Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia ha dimostrato come non esistano zone franche. Questa sua caratteristica è accentuata dal fattore umano: alla fragilità delle migliaia di bellissimi centri storici medievali, si deve purtroppo aggiungere quella di un’edilizia sterminata e priva di qualità architettonica e strutturale che ha allagato le periferie delle grandi città e assedia anche i nostri meravigliosi borghi. Un’edilizia realizzata in gran parte quando ancora non ancora esistevano le norme antisismiche e prevalentemente abusiva: quindi per definizione nell’inosservanza di quelle disposizioni. Fatto sconcertante, anche molti edifici pubblici sono a rischio, come sta a dimostrare la strage dei bambini nel crollo della scuola di San Giuliano di Puglia nel 2002. Ma anche la casa dello studente dell’Aquila, l’ospedale di Amatrice… Da qualche anno si sta facendo strada nel Paese l’idea di intervenire sullo sfacelo delle periferie. Che il tema sia stato posto all’ordine del giorno è incoraggiante, anche se per ora è solo un dibattito. Al tempo stesso c’è da domandarsi che cosa si aspetti, con la frequenza dei terremoti devastanti sperimentata negli ultimi quarant’anni, a mettere in campo un piano nazionale straordinario di sicurezza. Innanzitutto per evitare che scuole, ospedali e magari residenze universitarie vengano giù alla prima scossa nemmeno fossero castelli di carte. Lasciamo perdere qualità e forma dell’edilizia statale, ma che in questo Paese certi edifici pubblici non siano a norma con le prescrizioni antisismiche è una vergogna. Il piano dovrebbe tuttavia prevedere tassativamente anche la messa in sicurezza dei nostri borghi. Almeno quelli lunga la dorsale appenninica, e dopo un rigoroso censimento degli edifici esistenti, che oggi manca. È un patrimonio troppo importante perché non si debba riparare dai terremoti, anche di forte intensità. Oggi esistono le tecnologie: mentre scriviamo si stanno sperimentando a L’Aquila. Che potrebbe diventare un centro di eccellenza per la ricerca in questo campo, se solo le università e le forze imprenditoriali private lo volessero. L’eco-bonus per la ristrutturazione delle abitazioni è già oggi estensibile agli interventi antisismici. Qui si tratta però di introdurre misure per consentire l’adeguamento strutturale di interi blocchi omogenei. Esattamente come nel capoluogo abruzzese, dove questo sistema sta dando risultati. Se si vuole cambiare passo nella difesa del Paese dai terremoti, senza dover prima aspettare un’altra Amatrice, è ora di dimostrarlo. Terremoto. Le nostre macerie di Norma Rangeri Il Manifesto, 25 agosto 2016 Le parole di cordoglio - "l’Italia piange", "il cuore grande dei volontari", "con il cuore in mano voglio dire che non lasceremo da solo nessuno" - pronunciate dal presidente del consiglio ieri mattina in televisione a poche ore dalla tragedia, avrebbero dovuto suscitare condivisione se non le avessimo già sentite ripetere troppe volte per non provare, invece, insofferenza, rabbia, indignazione. Forse perché non c’è altro evento più del terremoto capace di mettere a nudo lo sgoverno del nostro paese, l’incapacità delle classi dirigenti di mettere in campo l’unica grande opera necessaria alla salvaguardia di un territorio nazionale abbandonato all’incuria, alla speculazione, alle ruberie (come i processi del post-terremoto dell’Aquila hanno purtroppo mostrato a tutti noi). Nessun paese industriale, con un elevatissimo rischio sismico come il nostro, viene polverizzato ogni volta che la terra trema. Le cifre imbarazzanti stanziate un anno dopo l’altro per la sicurezza ambientale nelle leggi finanziarie danno la misura dell’inconsistenza delle politiche di intervento. Dal 2009 a oggi è stato messo in bilancio, ma solo perché in quel momento eravamo stati colpiti dallo spappolamento dell’Aquila, meno dell’1 per cento del fabbisogno necessario alla prevenzione. È la cifra di un fallimento storico, morale, politico. Chiunque capisce che prima di abbassare le tasse alle imprese, prima di distribuire 10 miliardi divisi per 80 euro, bisognerebbe investire per costruire l’unica grande impresa che i vivi reclamano anche a nome dei morti. Chi ci amministra ha costantemente lavorato alla dissipazione delle nostre risorse comuni. Il paese è allo stremo ma nessuno, nemmeno questo governo, cambia direzione. Con investimenti tecnologici, ripopolamento delle terre interne, salvaguardia del patrimonio culturale, paesistico. E finalmente lavoro per gli italiani, per gli immigrati. Finalmente progetti ambiziosi per uno sviluppo economico di qualità legato ai territori e alle loro istituzioni. Non ci sono soldi? E quanti ne spendiamo per il rattoppo delle voragini materiali e morali? Purtroppo oltre a temere e piangere ogni volta le vittime della mancata prevenzione (andiamo verso l’autunno, pioverà, saremo esposti al pericolo di frane e alluvioni), dobbiamo aver paura anche della ricostruzione. Nelle pagine dedicate al terremoto pubblichiamo un pro-memoria dei cittadini dell’Aquila che riassume come meglio non si potrebbe i danni, i pericoli aggiunti con gli interventi edilizi post-terremoto. Perché accanto al simbolo della tragedia di sette anni fa, il monumentale palazzo della Prefettura del capoluogo abruzzese, oggi abbiamo l’ospedale di Amatrice colpito perché nemmeno questo edificio era costruito con criteri antisismici. E nessuno dimentica le macerie della scuola di San Giuliano di Puglia con i suoi piccoli rimasti sepolti, come i bambini morti ieri sull’Appennino. Il numero delle vittime sale ogni ora, persone uccise dall’incuria di chi aveva il dovere di provvedere e non lo ha fatto, nemmeno per salvaguardare scuole, ospedali, edifici pubblici. Rivedremo le tendopoli, assisteremo allo sradicamento degli abitanti, alla desolazione delle new-town. Speriamo almeno di non dover riascoltare le risate fameliche di chi ora aspetta l’appalto. Terremoto. La necessità della prevenzione e le case antisismiche che non ci sono di Paolo Conti Corriere della Sera, 25 agosto 2016 Il Paese si è mobilitato subito e bene. Ora serve una seria prevenzione: costa mille volte meno - in termini di vite umane, ma anche economici per il Paese - di una sbadata e ignorante noncuranza che diventa anche assassina. Ancora un terremoto che sconvolge il cuore dell’Italia, come avvenne in Abruzzo nel 2009. E ancora una volta un dolore che colpisce tutta la comunità nazionale anche simbolicamente: non è il Nord, non è il Sud, è il centro della Penisola, non per niente i romani chiamavano il Gran Sasso d’Italia "Fiscellus Mons", il Monte Ombelico. La reazione della macchina organizzativa, stavolta, è stata all’altezza della difficilissima situazione. Alle 4 del mattino le agenzie già battevano la notizia della convocazione del Comitato Operativo della Protezione Civile per decisione del capo Dipartimento Fabrizio Curcio: una mossa quasi in tempo reale, dunque una rilevante differenza rispetto al passato. Poi l’immediata mobilitazione dell’Esercito, la partenza dei Genieri è stata immediata. La rete di collegamento tra le Regioni ha funzionato. Le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non sono state formali: "È un momento di dolore e di appello alla comune responsabilità. Tutto il Paese deve stringersi con solidarietà attorno alle popolazioni colpite". E poi l’assicurazione del presidente del Consiglio Matteo Renzi che "nessuno verrà lasciato solo, nessuna famiglia, nessun Comune, nessuna frazione". La percezione è quella di un Paese consapevole del disastro, ben coordinato, emotivamente coinvolto. Ma c’è un dato che, in queste ore tragiche, colpisce profondamente: la grande quantità di edifici costruiti senza alcun criterio antisismico proprio in un’area tra le più soggette ai terremoti dell’intera Europa. E non parliamo solo di manufatti antichi, magari cinquecenteschi, comunque non adeguati ai rischi contemporanei, come si dovrebbe con adeguati interventi. Il problema sono le tante costruzioni del secondo Novecento, anche degli anni Duemila, edificati tenendo ben poco conto di una realtà densa di pericoli. Non è lontano il 31 ottobre 2002, quando crollò la scuola di san Giuliano di Puglia, sempre per un terremoto. Morirono 27 bambini e un’insegnante, una strage indimenticabile, dovuta a una colpevole gestione dell’edificio, sopraelevato e ancora in attesa di un collaudo. Così come vengono in mente le strutture moderne crollate all’Aquila come i monumenti storici. È arrivato il tempo di organizzare, al più presto, un serio censimento degli edifici nelle aree più sismiche d’Italia. Come dimostra la catastrofe di queste ore, una seria prevenzione costa mille volte meno - in termini di vite umane, ma anche economici per il Paese - di una sbadata e ignorante noncuranza che diventa anche assassina. Terremoto. L’ora maledetta che ha spento i nostri sogni, come sette anni fa di Giustino Parisse La Repubblica, 25 agosto 2016 Su corso Umberto ad Amatrice fra le macerie di una casa disfatta c’è una Bibbia. Aperta e impolverata. Mi avvicino. Vedo una pagina del libro di Ezechiele. La prima riga contiene il verbo morire, coniugato al futuro. Ma ieri mattina alle 3.38 ad Amatrice la morte è stata coniugata al presente. Le 3.38. Come le 3.32 dell’Aquila, poco più di sette anni fa. L’ora maledetta è scoccata di nuovo. Ha tuonato dalle viscere della terra e ha chiesto alla vita la sua percentuale di morte. La mia casa in cemento armato, a Onna, a pochi chilometri dall’Aquila, ha cominciato a dondolare come fosse finita in mezzo all’oceano. Alle 3.38 sono sveglio. Le notti insonni ormai mi perseguitano da quel sei aprile 2009. Mi alzo dal letto. Questa volta non ho camerette in cui andare a cercare i miei ragazzi: Domenico e Maria Paola. Loro se ne sono andati travolti dalle macerie. Quel grido di mio figlio "papà, papà" risuona ancora nelle mie orecchie e batte sul cervello fino a sfinirlo. Io ero là, impotente. Come si è impotenti di fronte a una tragedia più grande di te. Ieri mattina il primo pensiero è stato: è tornato. Il terremoto è tornato. Colpirà ancora forte. Sono quasi le 4 del mattino ma il telefono squilla come fosse mezzogiorno. Dal villaggio map di Onna dove ancora vive la gran parte dei sopravvissuti, si odono le voci concitate di chi si sente perseguitato dallo scossone orrendo. Mi chiamano dalla vicina Paganica: grande paura, ma stiamo tutti bene. A un certo punto leggo "Monti Reatini". Il pensiero va subito a Pizzoli, Campotosto, Montereale. Contatto gli amici che nell’estate del 2009 mi fecero vedere le ferite sanguinanti dei loro paesi. A Campotosto c’è Assunta: qui tutti bene - mi dice - ma non riesco a contattare i miei conoscenti ad Amatrice. È chiaro, è lì l’Apocalisse. L’ora maledetta ha cambiato obiettivo ma non ha rinunciato al suo bottino di morte. Mi sento con i colleghi del Centro, stanno partendo. Vado pure io. Mi avvio sulla statale 17. Sono da poco passate le 5 del mattino eppure c’è movimento. Quando arrivo all’Aquila, in viale della Croce Rossa c’è traffico come nelle ore di punta. Gente vestita alla meglio, come scappata da un incubo, si affanna davanti a un bar per prendere un caffè o un cappuccino. Le facce sono sconvolte. È successo di nuovo. Come allora. E la paura riaffiora, prende allo stomaco, ti strappa la lacrima che pensavi di aver asciugato per sempre. Sfatata la favola di quelli che ti danno di gomito e dicono: adesso il terremoto all’Aquila tornerà fra trecento anni. No, è tornato, e tornerà. Mi vengono alla mente le parole di un amico professore della facoltà di ingegneria dell’Università dell’Aquila incontrato per caso due giorni fa: "Sono amareggiato, noi dovremmo ricostruire pensando al prossimo terremoto e invece stiamo mettendo solo delle pezze". Terribile. Ma forse vero. Quando poco prima delle sette del mattino giungo ad Amatrice il primo sentimento è la rabbia. All’ingresso del paese c’è l’ospedale, sembra un castello di carte pronto a cedere al primo colpo di vento. In una zona altamente sismica nessuno ha pensato a mettere in sicurezza l’edificio. In questa Italia parolaia è l’ennesima beffa. Arrivo nel centro storico di Amatrice e il colpo è forte. È come se guardassi il remake di un brutto film, quello del sei aprile 2009.Vedo occhi persi nel vuoto, persone vagare senza meta. Spunta da un angolo una barella. Il collega che è con me si informa e mi dice: è una bambina di 12-13 anni. I suoi sogni si sono fermati alle 3,38. Quelli di Maria Paola, la mia bambina quasi sedicenne, alle 3.32. La barella sembra uguale a quella di allora. Ma forse vaneggio o forse voglio azzerare questi sette anni passati da prigioniero del dolore. Non è giusto mi dico. Perché accade tutto ciò? Nessuno mi ha risposto finora e nessuno mi risponderà mai. Il filo rosso non perdona. È quello dove corre l’ora maledetta. Terremoto. Rischi ignorati, la rabbia oltre il dolore di Dacia Maraini Corriere della Sera, 25 agosto 2016 Ancora una tragedia della nostra terra inquieta. Ma devo dire che la rabbia supera il dolore. La rabbia al pensiero che questo sfacelo avrebbe potuto essere evitato. Si sa che il nostro è un Paese sismico, si sa che il pericolo delle scosse ci riguarda tutti, dal Sud al Nord. Possibile che non si sia fatto niente per prevenire la catastrofe? Possibile che non si sia costruito con intelligenza, prevedendo i pericoli, con criteri antisismici che ci sono e sono efficacissimi? Ho vissuto 8 anni in Giappone da bambina e ho subito diversi terremoti, anche terribili, con la terra che si spaccava sotto i piedi. Ma non è mai crollata una casa. Perfino la vecchia costruzione che costituiva il nostro campo di concentramento per italiani contrari al regime fascista è rimasta in piedi nonostante le scosse. Ricordo una volta di avere fatto in volata gli scalini che portavano al piano terra mentre una pioggia di intonaco mi cadeva sulla testa. Ma la struttura ha retto, se no non sarei qui a raccontarlo. È che il Giappone è un Paese in cui l’interesse pubblico precede, per antica consuetudine etica, quello privato. E i controlli sono rigorosissimi e i cittadini consapevoli e diligenti. Da noi succede esattamente il contrario: l’interesse privato viene sempre prima di quello pubblico. E i costruttori di case, per risparmiare qualche soldo, hanno fabbricato senza tenere conto delle norme di sicurezza antisismiche. Spesso con la connivenza delle autorità locali. Tanto nessuno avrebbe mai controllato. È una tale pena vedere quei corpi coperti di calce che vengono estratti dalle macerie: corpi vivi e corpi morti. Una pena ascoltare le voci di coloro che sono stati sepolti per ore e che a furia di urlare sono riusciti a farsi sentire e farsi tirare fuori. Ma gli occhi di quei bambini che hanno sentito la morte addosso non si possono dimenticare. Sono occhi attoniti, dilatati dalla paura. Una paura che li segnerà per la vita. Sepolto vivo: l’incubo di tutti i sogni più devastanti. Come i minatori che scavano sottoterra e temono sempre di rimanere chiusi in un tunnel appena scavato, asfissiati dal gas o coperti dalle macerie. Una terra che conosce da secoli l’orrore della devastazione, della morte per asfissia, e non riesce a darsi delle regole per la costruzione delle sue città, sembra incredibile. Si preferisce rischiare la morte di centinaia di persone, lo strazio di corpi dilaniati, piuttosto che spendere qualcosa in più per mettere in sicurezza gli appartamenti, i palazzi, le scuole, gli ospedali, come abbiamo visto all’Aquila nel 2009. Mi sono occupata del terremoto del 1915 per ragioni letterarie. Ho letto decine di testimonianze, ho visto le prime fotografie di Avezzano rasa al suolo, ho visto migliaia di corpi allineati sulla neve mentre i salvataggi arrivavano lenti, con i carri tirati dai muli. Le case di Gioia dei Marsi sono crollate tutte. Erano case senza fondamenta, case tirate su alla meglio: pietre incollate con la calce, senza criterio. In tutta la Marsica sono morti in 30 mila. I superstiti sono partiti per l’America, per l’Australia, abbandonando terreni stravolti, case bruciate, animali morti. Oggi certamente l’assistenza è migliorata. Gli interventi si sono fatti più rapidi e precisi. E poi, come al solito, nei momenti di emergenza, il Paese risponde con generosità e umano senso della solidarietà. Ma i morti sono tanti, troppi. I feriti sbigottiti vengono portati via sotto gli occhi delle telecamere, mentre lo sguardo spazia sulle macerie che ancora sono avvolte in nuvole di polvere. Un Paese che si vuole bene può permettersi di ignorare con tanta disinvoltura un futuro prevedibile? Un Paese che ha cura di se stesso può consentirsi di trascurare un minimo di controllo sulla stabilità delle case che vengono giù, alla prima scossa, come fossero di biscotto? La piccola e bella città di Amatrice è ridotta un cumulo di macerie. Il sindaco chiede aiuto, dice che ci sono ancora molti sepolti sotto le macerie. Ma possibile che si debba intervenire sempre dopo il disastro e mai prima? Purtroppo, lo sappiamo, questo è il motivo ricorrente del nostro Paese. Tutti generosi e solidali nell’emergenza ma incapaci di prevenire il futuro. Ricordo un episodio fra l’eroico e il grottesco, quando il re d’Italia venne a riverire i morti di Avezzano, nel gennaio del 1915, accompagnato da un corteo di automobili, dopo qualche giorno dal disastro, e don Orione gli chiese di concedere le auto per trasportare i bambini feriti. Il re si guardò intorno e disse che senz’altro avrebbe mandato dei mezzi ma non si potevano sequestrare le auto delle autorità. Don Orione radunò i bambini terremotati e nel momento in cui il re si era allontanato per confabulare con le alte cariche del luogo, cacciò i bambini nelle auto e partì rapido con loro per Roma. Ripeto: siamo un Paese a forte rischio sismico. Ogni anno siamo funestati da crolli, morti e feriti. Possibile che la memoria non conti proprio niente? Non contano le lezioni durissime che ci ha dato la storia? La furbizia, l’avidità di chi vuole guadagnare sui disastri, sembrano sempre avere la meglio. E ancora una volta ci dobbiamo considerare vinti dall’imprevidenza e dalla cupidigia. Ma anche dalla mancanza di ogni controllo e dall’indifferenza dei cittadini, presi dagli interessi personali e mai attenti al bene comune. Potremo mai cambiare? Terremoto. Il sismologo: "Scosse così altrove non uccidono" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 agosto 2016 Intervista. Il sismologo dell’Ingv Camassi: "Non servono miracoli, ma risorse. Dove si fa la prevenzione sono contenuti anche i danni. I centri antichi sull’Appennino potrebbero essere adeguati al rischio senza stravolgimenti". Ieri sera l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha informato che la situazione sismica "continua ad essere di forte attività, con molte repliche che si susseguono nelle aree" della scossa delle 3.36 di ieri. "È possibile che nei prossimi giorni ci sia ancora un numero elevato di scosse", aggiungono dall’istituto di via di Vigna Murata a Roma, dove nel pomeriggio c’è stata una conferenza stampa. Ma non chiedete a un geologo di fare previsioni sui terremoti. Romano Camassi, sismologo dell’Ingv, gli ultimi due grandi terremoti prima di questo hanno avuto epicentri immediatamente a nord (Foligno ‘97) e a sud (L’Aquila 2009) di Accumoli e Amatrice. Non bastava una cartina dell’appennino centrale per prevedere questa scossa? Che sia un’area ad alto rischio lo sappiamo dalle carte della pericolosità: siamo in piena zona uno. Detto questo, i terremoti precedenti non sono così significativi in termini di prevedibilità. Riguardavano settori diversi della catena appenninica. Di faglie attive in quel settore ce ne sono tante. In questo caso, poi, diversamente da quanto accaduto all’Aquila, l’evento principale non è stato preceduto da nulla. È stato l’inizio di una sequenza, che ancora continua. Proprio nulla? Le mappe che l’Ingv pubblica sul sito evidenziano proprio lì centinaia di piccole scosse negli ultimi mesi. È un fenomeno quasi costante in quella zona dell’Appennino, piccole scosse che sono registrate solo dalle apparecchiature. Se però lei allarga l’osservazione agli ultimi due, cinque anni vedrà che non c’è una concentrazione superiore al resto della Zona 1. Secondo l’Ingv è stata una scossa meno potente di quella dell’Aquila, malgrado sia stata anche questa del 6 grado Richter. Ed è stata superficiale, ma è stata avvertita da Napoli al Veneto. Come lo spiega? In attesa di dati più completi, immaginiamo che sia stato un terremoto meno forte di quello dell’Aquila in termini di energia, misurato in "magnitudo momento": 6.0 oggi e 6.3 allora. È una misura che la sismologia considera più rappresentativa perché calcolata sull’intero sismogramma e non solo sull’ampiezza massima. Quanto alla profondità, anche questa stima presenta numerose incertezze persino superiori a quelle sull’energia. Penso che alla fine scopriremo che è stato più profondo dei 4 Km stimati inizialmente. I comuni più colpiti sono in Zona 1, come dice lei. Averli segnalati ad alta pericolosità non è servito a niente? Per legge in Zona 1 ogni nuovo edificio va costruito in maniera che sia resistente ai terremoti. E ogni volta che si interviene su un edificio già esistente bisogna che sia adeguato al rischio sismico. È obbligatorio. Ma serve il tempo necessario e servirebbero molte più risorse. I paesi sull’appennino sono tutti centri storici, è realistico pensare che possano essere adeguati al rischio? Nel giro di qualche decennio si potrebbe fare. Un lavoro progressivo sull’adeguamento e miglioramento sismico è la vera prevenzione. Molto più che insegnare alle persone dove scappare o come proteggersi in caso di scossa. È vero che le vecchie case in pietra e malta reggono meglio del cemento armato? Per metterle in sicurezza bisognerebbe stravolgerle? Tendenzialmente non è vero. Hanno bisogno di interventi. Esistono tecniche anti sismiche non troppo costose che rispettano il patrimonio storico. Si può fare, altri paesi lo fanno. Non parlo solo di Usa e Giappone, anche in Cile un terremoto come questo non fa danni sul piano strutturale. E non fa vittime. C’è bisogno però che il nostro paese dedichi più tempo e più risorse agli interventi di prevenzione. Direi almeno un centinaio di volte superiori a quelle attualmente investite. Migranti. Prima espulsione di gruppo: 48 presi a Ventimiglia e rispediti in Sudan di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2016 "Ma Khartoum viola diritti umani". L’operazione organizzata in gran segreto, manifestazione di protesta a Malpensa mentre i migranti venivano dirottati - a quanto trapela - a Torino-Caselle. È il primo frutto del memorandum firmato il 4 agosto con il Paese africano. Protestano le associazioni umanitarie. Alessandra Ballerini (legale Caritas): "Deportazione di massa, la loro vita ora è in pericolo". Possibile chiama in causa Alfano: "Ci dica se operazione è legittima". Quarantotto migranti provenienti dal Sudan, fermi a Ventimiglia nella speranza di passare il confine e raggiungere i propri familiari, sono stati rimpatriati oggi. Il volo charter, destinato alla capitale Khartoum, è stato operato da Egyptair. Secondo le informazioni trapelate nella tarda serata di ieri, il volo doveva partire alle 12.45 dall’aeroporto di Milano Malpensa, dove quell’ora sono arrivati alcuni manifestanti per esprimere solidarietà ai migranti, ma il volo sarebbe invece partito dall’aeroporto di Torino-Caselle intorno alle 13. Si tratta della prima espulsione diretta di questo genere: "Dei ragazzi partiti con quell’aereo ne conoscevamo bene due", spiegano a ilfattoquotidiano.it alcuni attivisti giunti a Malpensa da Ventimiglia. Ci dicono i nomi dei migranti, ci raccontano le loro storie: "Fino a ieri erano al Centro della Croce Rossa, si sentivano al sicuro e stavano preparandosi per la richiesta di asilo". A quanto si può ricostruire in assenza di conferme ufficiali, i sudanesi sono stati prelevati nei giorni scorsi da Ventimiglia e sono stati accompagnati nella giornata di ieri alla Questura di Imperia, dove il giudice di pace ha convalidato, per ciascuno di loro, il decreto di espulsione. Per Alessandra Ballerini, avvocato di fiducia della Caritas di Ventimiglia, esperta in diritto dell’immigrazione: "Si tratta di una deportazione di massa verso un Paese dov’è certa la violazione dei loro diritti fondamentali, dov’è in pericolo la loro stessa vita. Con questa operazione il nostro Paese si rende complice di tutte le violazioni che saranno poste in essere da questi regimi". Nel 2015 il 60% dei sudanesi richiedenti asilo ha ricevuto la protezione umanitaria in Italia. Se quindi, da una parte, il nostro Paese riconosce la drammaticità della situazione in Sudan, dall’altra, con questo accordo, accredita la repubblica governata dalla dittatura militare di Omar al Bashir come "paese terzo sicuro", verso il quale rimpatriare i richiedenti asilo che si vedono negare il diritto alla protezione. Risale al 4 agosto la firma del "Memorandum of Understanding" tra l’Italia e il Sudan - di cui ha scritto il sito di "Nigrizia" - che prevede la collaborazione nella gestione delle migrazioni e delle frontiere, con articoli dedicati proprio al rimpatrio dei cittadini "irregolari". Nelle scorse settimane il governo italiano ha chiesto al Sudan di inviare una sua delegazione a Ventimiglia, è stato lo stesso Ministro degli Esteri sudanese Gharib Allah Khidir, la scorsa settimana, ad annunciarlo al Sudan Tribune: "Abbiamo accettato la proposta dell’Italia e inviato una delegazione di agenti al confine franco-italiano allo scopo di identificare e avviare il rimpatrio dei nostri concittadini". Resta da chiarire come sia possibile il coinvolgimento di agenti dei paesi di origine nell’identificazione dei migranti, dal momento che le regole della Convenzione di Ginevra lo vietano espressamente. In Sudan si moltiplicano le persecuzioni contro i cristiani e, come ha denunciato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati "centinaia di persone già riconosciute come aventi diritto di protezione internazionale vengono espulse dal governo nelle carceri di Etiopia ed Eritrea, dove la tortura è la prassi". Non bastasse, in Sud Sudan è in atto un conflitto armato tra gli eserciti delle etnie dinka e nuer, combattuto anche con il reclutamento di bambini soldato. Lo stesso Governo italiano, lo scorso anno, ha inviato un contributo di 545.000 dollari al Sudan per supportare i campi profughi destinati ai rifugiati del conflitto. Dopo il "Processo di Khartoum" di fine 2014, da qualche mese il Sudan ha intensificato i rapporti con l’Ue "per risolvere alle radici le cause della migrazioni". "Come si può dire che in Sudan è garantita la tutela dei diritti umani? Come possiamo mettere in pericolo la vita di queste persone rimpatriandoli forzatamente?", si chiede Luigi Manconi, senatore Pd e presidente dell’associazione "A Buon Diritto". "Non possiamo correre il rischio di rimpatriare nessuno senza adeguate garanzie sulla sua incolumità". Fino a oggi, i trasferimenti coatti erano avvenuti solo all’interno dei confini italiani, dal confine verso hotspot e centri di accoglienza del Sud Italia. Le operazioni si ripetono da maggio: interventi della polizia di Ventimiglia, trasferimenti verso l’aeroporto con le corriere della Riviera Trasporti, voli operati da Mistral Air (compagnia delle Poste Italiane) e Bulgarian Air Charter. Non si conosce il costo di queste operazioni, ma la loro efficacia è messa pesantemente in dubbio: "I migranti trasferiti non vogliono stare in Italia, dopo pochi giorni li rivediamo qui" testimoniano gli operatori della Croce Rossa, che a Ventimiglia gestiscono il primo vero e proprio "campo di transito" in Italia. A definirle per primo "operazioni ipocrite" è stato Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e Sanremo che aveva dichiarato al Fatto Quotidiano: "Vogliono far passare per accoglienza politiche di respingimento e deportazione e chi li sostiene viene criminalizzato, è un martirio". "Se quanto riportato fosse confermato" scrivono i deputati Giuseppe Civati, Elly Schlein e Andrea Maestri (Possibile), "sarebbero ipotizzabili gravissime violazioni di legge ed in particolare il divieto di espulsioni/respingimenti collettivi, nonché la violazione della Convenzione di Ginevra, della Costituzione italiana, del Testo Unico sull’Immigrazione. (…) Chiediamo che il Ministro Alfano chiarisca immediatamente i fatti e fornisca la prova della legittimità dell’operazione, se effettivamente programmata". Migranti. 48 sudanesi deportati a Khartoum, processo per direttissima ai No Border Il Manifesto, 25 agosto 2016 Tre manifestanti No Border fermati all’aeroporto di Malpensa. Saranno processati per direttissima oggi alle 13 i tre No Border che ieri hanno inscenato una protesta su una torre all’aeroporto di Milano Malpensa: contro le deportazioni dei migranti, dirottati poi a Torino-Caselle. I solidali si sono dati appuntamento per un presidio davanti al Tribunale di Busto Arsizio. L’operazione era stata organizzata in gran segreto a seguito del memorandum firmato il 4 agosto con il Sudan. Dal paese africano provenivano infatti i 48 migranti, che si trovavano a Ventimiglia nel campo di transito della Croce Rossa (ne abbiamo parlato martedi) dove intendevano inoltrare la richiesta di asilo, e che ieri sono stati rimpatriati con un volo charter, destinazione Khartoum. Stando alle prime testimonianze, i migranti sono stati presi a Ventimiglia e portati alla Questura di Imperia, dove il magistrato ha notificato loro il decreto di espulsione. È la prima operazione del genere e ha messo in allarme le organizzazioni umanitarie. Droghe. Quel che serve è la legalizzazione condizionata delle droghe leggere di Vincenzo Musacchio Il Dubbio, 25 agosto 2016 Se il termine "legalizzare" significa regolamentare, controllare e vigilare, allora, sono pienamente d’accordo sulla legalizzazione delle droghe leggere. Ad onor del vero, sono stato e sono tuttora favorevole ad un’azione volta a rendere legale, sotto il controllo diretto dello Stato, la vendita e la coltivazione della cannabis e dei suoi derivati per scopi terapeutici. Il concetto di legalizzazione che intendo io, implica una "libertà condizionata" nella produzione e nella vendita delle sostanze leggere e non di certo la nascita di un libero mercato delle sostanze stupefacenti. Onestamente, se si imposta il tema su simili direttrici, non ci vedo nulla di pericoloso nel consentire la produzione e il libero commercio, nel rispetto della legge, delle droghe leggere e dei suoi derivati per scopi sanitari, ludici e ricreativi. Sono convinto che la tenue pericolosità delle droghe leggere giustifichi, all’interno di tale prospettiva, la scelta di legalizzazione che alcuni Stati potrebbero adottare, e ciò assume anche validità scientifica soprattutto se si considera che sostanze come alcol e tabacco, valutate da molti studiosi come più dannose delle droghe leggere, sono da sempre tollerate e regolarmente commerciate. Alcol e tabacco, sono responsabili di migliaia di vittime ogni anno e godono persino dei benefici della pubblicità. Credo che una legalizzazione "condizionata" delle droghe leggere possa evitare il pericolo concreto per i più giovani di entrare in contatto con ambienti delinquenziali e soprattutto possa garantire a chi ne fa uso un controllo sul prodotto e conseguentemente meno rischi sulla salute. Mi domando che male ci sarebbe nel consentire l’uso della cannabis per scopi terapeutici? Voglio solo ricordare che la cannabis per scopi terapeutici è già coltivata negli stabilimenti dell’Esercito italiano. Una volta prodotte con simili meccanismi, le droghe leggere poi dovrebbero essere somministrate attraverso il circuito delle farmacie e sarebbero certamente meno pericolose poiché non conterrebbero quegli additivi chimici e inquinanti che fanno più danni dello stesso principio attivo e che sono stabilmente usati dalle organizzazioni criminali per incrementare gli introiti economici. Non dobbiamo dimenticarci inoltre che la microcriminalità è alimentata soprattutto dai giovani che proprio per procurarsi queste sostanze si rivolgono al mercato nero e commettono delitti come furti, scippi e rapine. A sostegno delle mie argomentazioni porto l’esempio di un Paese europeo molto vicino all’Italia: il Portogallo. Nel 2000 questa Nazione ha deciso la depenalizzazione del possesso di qualunque tipo di droga, dalla marijuana all’eroina. Premesso che noi siamo per la legalizzazione delle sole droghe leggere, oggi, a prescindere dalla nostra opinione, si può affermare che la misura intrapresa dal Parlamento portoghese ha avuto successo. In Portogallo, le autorità di polizia non arrestano più chi viene trovato con una dose pari al consumo medio individuale per massimo dieci giorni (vale a dire, un grammo di eroina, ecstasy o anfetamina, due grammi di cocaina, venticinque grammi di cannabis). Chi commette delitti legati alle sostanze stupefacenti riceve un mandato di comparizione, che lo costringe a presentarsi davanti a dei "comitati di dissuasione" composti da giuristi, psicologi e assistenti sociali. Dopo un certo numero di volte che si viene chiamati a presentarsi davanti ai comitati, possono venire prescritti dei trattamenti che spaziano da colloqui con psicologi motivazionali a terapie a base di oppiacei. Il Portogallo ha fatto passi da gigante anche per quanto riguarda il sistema di sanità pubblica, con vasti programmi di prevenzione, di trattamento e moltissimi effetti deflattivi sulla giustizia penale. In società dove le droghe sono meno stigmatizzate, i consumatori sono più inclini a cercare delle cure. Sono venticinque i Paesi che hanno introdotto qualche forma di depenalizzazione, ma il modello portoghese è unico nel suo genere. Dall’entrata in vigore della legge sulla legalizzazione delle droghe nel 2001, i casi di HIV in Portogallo sono diminuiti drasticamente, passando da 1016 a 56 nel solo 2012, mentre le morti da overdose sono scese da 80 a 16. A scanso di equivoci voglio precisare che le droghe sono ancora illegali in Portogallo e i trafficanti e gli spacciatori continuano a essere spediti in prigione e con pene severe. Di conseguenza la legalizzazione oggi ha un senso e funziona se a monte ci sono: una seria attività di prevenzione, servizi sanitari efficienti, la disintossicazione, le comunità terapeutiche e le possibilità di impiego per le persone che consumano droga. Concludo dicendo che legalizzare ha un senso se si cammina sul binario della prevenzione e dei servizi ausiliari realmente funzionanti. Per affrontare con cognizione di causa questo delicatissimo argomento, allora, occorre ragionare sul fatto che stiamo parlando di dipendenza, di malattia cronica, di un problema di salute. Il fatto che tutto ciò stia al di fuori del sistema penale, a mio giudizio, rappresenta un fattore positivo. Il problema, dunque, va affrontato con molta attenzione ma liberandolo da pregiudizi che spesso frenano possibili e utili riforme. *Giurista e direttore scientifico della Scuola di Legalità "don Peppe Diana" di Roma e del Molise Egitto. Caso Regeni. "Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 agosto 2016 Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia: "Il governo non smentisce le dichiarazioni di al-Sisi e la visita di Barani. Se prevarranno gli interessi, il prossimo desaparecido sarà la società civile egiziana". Un altro mese si aggiunge alla lista di quelli senza verità. Il 25 gennaio 2016 Giulio Regeni scompariva al Cairo, dove conduceva una ricerca sui sindacati egiziani. È stato ritrovato il 3 febbraio, morto. Barbaramente torturato e poi ucciso. Da allora la famiglia, la società civile italiana e quella egiziana, organizzazioni e semplici cittadini chiedono di rompere il muro di silenzio calato sul suo omicidio, di cui il regime del generale al-Sisi ha piena responsabilità politica. Nessun risultato è stato archiviato e, al contrario, ad agosto si sono fatti passi indietro, ci spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, da febbraio capofila della campagna "Verità per Giulio Regeni". L’Egitto parla ancora di piena collaborazione con l’Italia. Ma non se ne ha traccia. Immaginavo che il mese di agosto non avrebbe portato sviluppi positivi sul piano dell’accertamento dei fatti. Ma non mi aspettavo ce ne fossero due negativi, in linea con quella sensazione di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi. Innanzitutto la doppia dichiarazione del presidente al-Sisi e del Ministero degli Esteri secondo cui i rapporti con Roma sono ottimi e l’Italia ne sarebbe contenta. Queste dichiarazioni non sono state smentite dall’Italia, per cui ci chiediamo se sia davvero così. E se è così, sarebbe interessante capire chi lo ha detto, in quale occasione, con quali modalità. Il secondo episodio è la visita del senatore Barani, accolto in Egitto all’inizio del mese come fosse un rappresentante ufficiale del governo italiano. Barani ha ribadito la teoria del complotto per rovinare le relazioni tra Italia e Egitto. Il suo partito, Ala, fa parte della maggioranza di governo, ma né la maggioranza né il governo si sono dissociati. Sono segnali che preoccupano, soprattutto perché siamo ancora fermi dall’unica misura presa dal governo, ovvero il ritiro dell’ambasciatore dal Cairo ad aprile. Cosa deve fare oggi l’Italia? Dichiarare l’Egitto paese non sicuro e pretendere la scarcerazione di tutti gli attivisti per i diritti umani e la fine della persecuzione giudiziaria di gruppi e singoli. In secondo luogo, sospendere il trasferimento di armi e software di sorveglianza all’Egitto. È poi necessaria quella che chiamiamo la via dell’internalizzazione del caso di Giulio. Non si tratta di un’alternativa all’inchiesta italiana, ma una forma di pressione complementare. Come l’assunzione delle misure previste dalla Convenzione Onu sulla tortura o commissioni di inchiesta e risoluzioni dell’Onu che abbiano un peso almeno morale. Che dicano, cioè, che i diritti umani in Egitto non interessano solo la famiglia Regeni, Amnesty o milioni di cittadini italiani. Sembrava che la terribile morte di Giulio avesse aperto gli occhi delle opinioni pubbliche internazionali sulla campagna repressiva di Stato egiziana, ma Il Cairo non ha visto intaccata la sua rete di alleanze occidentali. La situazione dei diritti umani è addirittura peggiorata. Le opinioni pubbliche straniere sono consapevoli della situazione, la stampa Usa ha dato un sostegno inaspettato e approfondito, ma sul lato delle istituzioni viviamo un paradosso: il paese isolato non è l’Egitto ma l’Italia. Se l’Unione Europea fosse davvero solidale avremmo 27 ambasciatori ritirati e non uno. L’Egitto è stato abile nel mantenere saldo il suo ruolo di partner fondamentale nel dossier Libia, nel dossier immigrazione, nel dossier terrorismo, mettendoli in contrasto con il caso Regeni. La richiesta della verità è considerata quasi un fastidio, un ostacolo. Cosa vi dicono le organizzazioni egiziane ancora attive? Siamo in contatto con organizzazioni locali che hanno ancora un minimo spazio di manovra. In questi giorni sta arrivando al culmine l’inchiesta giudiziaria aperta nel 2011 sui finanziamenti esteri alle Ong egiziane e si sta procedendo con divieti di espatrio, congelamento dei fondi, confische di beni. Quel mondo, la società civile egiziana, rischia di essere il prossimo desaparecido. Significa che tra pochi anni non avremo più notizie da un paese con organizzazioni chiuse, avvocati in carcere, stampa "sisizzata". Francia. Nizza, il burkini bandito in spiaggia. Polizia obbliga una donna a svestirsi di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 25 agosto 2016 All’ingresso della spiaggia libera di Nizza, a pochi metri dalla Promenade des Anglais dell’attentato del 14 luglio, c’è affissa l’ordinanza che vieta i vestiti "non rispettosi del buon costume e della laicità". Sulla base di quel testo, martedì mattina intorno alle 11 quattro agenti municipali armati sono scesi tra i bagnanti e si sono rivolti a una donna che, dopo essere uscita dall’acqua, stava distesa sui ciottoli (a Nizza non c’è sabbia) con un velo sui capelli e una tunica turchesi, e dei leggins neri fino alle caviglie. Nelle fotografie la donna si toglie la tunica davanti agli agenti. Il municipio di Nizza ha precisato ieri che "la signora si è voluta togliere da sola la tunica per mostrare che aveva un costume da bagno. Il poliziotto le ha detto che doveva mettersi in tenuta da spiaggia, o andarsene. La donna ha preferito andarsene", dopo essere stata comunque multata di 38 euro. Continua la polemica sulle ordinanze "anti-burqini" - Questi scatti hanno rilanciato una polemica che domina il dibattito politico in Francia da settimane, in seguito alla prima ordinanza "anti burkini" del sindaco di Cannes, David Lisnard, emessa il 28 luglio. L’idea è che si debba censurare la censura: se alcune donne musulmane sono costrette a coprirsi e a negare il proprio corpo anche al mare, occorre negare quella negazione. Nei primi giorni il divieto del burkini è sembrato raccogliere molte critiche nel mondo anglosassone e molti consensi in Francia. Dopo l’episodio di Nizza, la destra continua a essere favorevole mentre la sinistra si divide, nonostante il premier socialista Valls qualche giorno fa abbia detto di "comprendere" la decisione dei sindaci. In astratto, proibire i vestiti islamici in spiaggia sembra un’azione di contrasto contro l’oscurantismo e l’invadenza dell’islamismo radicale. In concreto, mandare poliziotti armati a rimproverare una donna sola, inoffensiva, che sta riposando sulla spiaggia, appare un’azione sproporzionata e di certo poco collegata alla lotta contro il terrorismo. Il collettivo "Osez le femminisme" ha protestato con un comunicato nel quale sostiene che "con queste misure le donne di confessione musulmana sono le grandi perdenti, vittime di atti di umiliazione, su un fondo di razzismo e di sessismo". "Le foto di Nizza alimenteranno la propaganda jihadista per anni" - Alcuni sospettano che le foto di Nizza siano una messinscena, una provocazione, ma l’agenzia che le ha diffuse assicura che il suo fotografo si è imbattuto per caso nell’episodio vedendo il gruppo di agenti municipali, e ha ripreso il fatto da un centinaio di metri usando il teleobiettivo. Il punto non è più il burkini, il costume integrale che copre il corpo della donna dalla testa ai piedi, ma qualsiasi tenuta che richiami la tradizione islamica e non i costumi da bagno occidentali. In Francia il velo sembra ormai proibito non più solo nelle scuole, ma di fatto anche in spiaggia. Solo che il principio della laicità si applica nei luoghi dove si esercita l’autorità pubblica, non per strada o al mare. A Cannes, gli agenti sono intervenuti in spiaggia per intimare a Siam, 34 anni, di togliere il velo che aveva sui capelli. "Mi hanno umiliata, i miei bambini piangevano". Tra i bagnanti, qualcuno ha preso le sue difese, altri hanno applaudito i poliziotti dicendo "la Francia è un Paese cattolico, se ne torni a casa sua!". La signora è di Tolosa, e citerà in giudizio il Comune di Cannes. Oggi alle 15 il Consiglio di Stato, massima giurisdizione amministrativa, esaminerà la questione. In ogni caso, secondo David Thomson, esperto di terrorismo, "le foto di Nizza alimenteranno la propaganda jihadista per anni". Francia. Cacciate e denudate. Il divieto burkini che umilia le donne di Angela Azzaro Il Dubbio, 25 agosto 2016 Sono le immagini che non avremmo mai voluto vedere, la sequenza di foto che mai e poi mai avremmo voluto pubblicare. Invece eccole qui, una dopo l’altra, uno scatto dopo l’altro, per raccontare ciò che era prevedibile: il divieto del burkini ha generato una caccia alle streghe nei confronti di quelle donne che, a parole, ma solo a parole, si sostiene di voler salvare perché usano il velo o indumenti simili. Guardatele queste immagini catturate da un bravo fotografo nella spiaggia di Nizza: probabilmente una provocazione costruita ad hoc, a cui però le forze dell’ordine non si sono sottratte. Le immagini mostrano un gruppo di poliziotti che umilia una donna perché vuol andare al mare, perché come altre migliaia e migliaia di donne vuole stare all’aria aperta. Ma a differenza di tante altre sceglie di vestirsi in maniera per noi diversa. Quei poliziotti applicano la norma approvata in 15 città della Francia con il plauso del ministro dell’Interno Valls. Dicono di farlo per difendere il principio della laicità e per proteggerci dal terrorismo. Ma è difficile credere all’una e all’altra cosa: perché è davvero risibile pensare che così ci salvino dall’orrore dell’Isis e soprattutto perché è davvero difficile sostenere che si affermi il principio della laicità obbligando un’altra persona a fare ciò che noi abbiamo deciso al suo posto. La discussione è complessa. Da anni si discute del ritorno del velo (nelle sue varie forme) nei paesi islamici e nel mondo occidentale. Si tratta di un simbolo religioso, patriarcale e maschilista: il corpo delle donne va nascosto, coperto, è impuro. Ma questo significato ha assunto nella vita di diverse donne una valenza diversa: di consapevolezza, di scelta, oppure di chiusura identitaria ma rispetto a un mondo occidentale che sentono come escludente. Cosa fare? Come agire? Per rispondere a questa domanda, teniamo lo sguardo sempre puntato sulle immagini della spiaggia di Nizza. Non perdiamole di vista. C’è chi pensa si debbano obbligare le donne a spogliarsi. Si sentono come i poliziotti del foto racconto: aguzzini della laicità. C’è invece chi pensa che quelle immagini siano orribili: che sia orribile costringere una donna a fare ciò che decide lo Stato per lei. C’è insomma chi critica l’Occidente che risponde alla norma maschilista con un altro obbligo. In mezzo ci sono loro, le donne. Usate da una parte e dall’altra: dall’Isis con il suo folle e omicida tentativo di ricreare lo Stato islamico; dall’Occidente impaurito, che se la prende con le più deboli. Il grande teorico francese Roland Barthes ci ha spiegato che le foto ci colpiscono per i particolari, spesso per il fuori campo che non vediamo. Il fuori campo in questo caso sono le donne che oggi in Francia vorrebbero andare in spiaggia o con il burkini o solo con il velo, per prendere un pò d’aria, e che non possono più farlo. Devono stare a casa. Costrette per un verso a coprirsi, dall’altra a non poter godere neanche di un pò di mare. È successo anche martedì, sempre in Francia. Lo ha raccontato una donna al quotidiano inglese The Guardian. Sono arrivati i poliziotti in spiaggia e hanno detto: vai via. Con lei c’era la figlia, che ha pianto. Le persone infatti urlavano, le cacciavano. Questo perché la donna portava il velo. La bambina, a cui avremmo dovuto parlare, spiegare cosa sia la libertà, oggi è più fragile, più insicura. Le abbiamo trasmesso non i valori della democrazia, ma i principi dell’intolleranza. Se vogliamo fare una battaglia perché le donne non subiscano più obblighi come il burka, facciamola subito. Ma devono essere chiari alcuni punti. 1) La discussione sugli indumenti usati dalle donne islamiche non può non tenere conto della questione migranti. Non dobbiamo cioè cadere nel tranello di usare questi temi per chiudere le frontiere e avallare i nazionalismi. 2) Il simbolo religioso, che sottolinea il potere maschile, viene modificato dall’uso. Il burkini tanto criticato è di fatto un passaggio in avanti: le donne che prima stavano in casa, escono, fanno il bagno. 3) I divieti non costruiscono cambiamenti positivi, generano ulteriori chiusure e in questo caso rendono le donne più fragili, più isolate. Torniamo al fuori campo, a quella bimba. Avremmo dovuto insegnarle a essere, sempre, orgogliosa della madre anche davanti a una scelta che non condividiamo. La abbiamo invece umiliata. La abbiamo fatta piangere. Lacrime amare, troppo amare, per chi si batte per la libertà. Brasile: progetto Apac, la vita cambiata di Daniel nelle carceri senza carcerieri di Andrea Tornielli La Stampa, 25 agosto 2016 Al Meeting di Rimini uno tra gli incontri più seguiti: le testimonianze sul sistema di detenzione alternativo, senza guardie né armi, che responsabilizza i detenuti, coinvolge le comunità locali e i giudici. Una famiglia disastrata - il padre che abbandona la moglie con sei figli, la donna che cade in depressione - e un’esperienza precoce fatta di furti al supermercato. Poi il salto nella criminalità con l’appartenenza a una gang di strada, un fratello ammazzato dai rivali che non avevano trovato lui a casa, una spirale di violenza infinita. Guardi il volto bambino di Daniel Luiz da Silva, oggi quarantenne, uomo libero, sposato, padre di tre figli, e ti imbatti nella debolezza onnipotente della misericordia e del perdono. Daniel è un ex carcerato che ha trascorso qualche anno in un centro penitenziario a bassa vigilanza, autogestito dagli stessi detenuti resi responsabili del recupero l’uno dell’altro. La sua esperienza ha reso ancora una volta concretezza il titolo del Meeting di Rimini, "Tu sei un bene per me". Daniel è intervenuto all’incontro "Dall’amore nessuno fugge. Apac: in Brasile un carcere senza carcerieri". Negli anni 70 un gruppo di cristiani coinvolti nelle attività della pastorale carceraria di San Paolo iniziò a trascorrere del tempo con alcuni detenuti del carcere di São José dos Campos. All’inizio la loro preoccupazione era solo quella di accompagnare i condannati nella situazione drammatica in cui si trovavano, dovuta alle condizioni terribili di sovraffollamento e a un trattamento disumano e violento. Da quell’impegno iniziale nacque un gruppo di volontari cristiani guidati dall’avvocato Mario Ottoboni; il gruppo decise di chiamarsi Amando o Próximo Amarás a Cristo (Amando il Prossimo Amerai Cristo). È nata così la prima Apac. Quell’esperienza avrebbe cambiato per sempre le loro vite insieme a quelle di migliaia di carcerati del Brasile. Nel 1974 quel gruppo di volontari decise di compiere un ulteriore passo fondando l’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati - Apac, un’associazione della società civile che collabora strettamente con l’amministrazione penitenziaria. Per la storia dell’APAC fu decisiva la richiesta che un giudice fece all’associazione: quella di gestire un padiglione di detenuti prima nel carcere di Humaita (São José dos Campos), poi in quello di Itaúna, a Minas Gerais. Richieste che innescarono una continua crescita dell’esperienza APAC. Oggi in Brasile i centri APAC sono una cinquantina. Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve essere condannato in via definitiva, deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), deve aver fatto richiesta di entrare in un’APAC. La vita in queste carceri senza carcerieri né armi, dove i colori predominanti sono il bianco e l’azzurro che richiama il cielo, è scandita da ferree regole: sveglia, preghiera, lavoro. "I condannati generalmente non provano sensi di colpa - spiega Valdeci Antonio Ferreira, direttore generale dell’associazione che coordina le APAC - perché dicono: io ho rubato, ma in questo paese tutti rubano! Io non vendevo droga, erano gli altri che la compravano! Io non ho stuprato una donna, è stata lei a provocarmi! Per questo grazie al lavoro dei volontari e all’accompagnamento degli altri detenuti in fase di recupero cerchiamo di mettere in atto la "terapia della realtà": ognuno deve essere messo di fronte al male che ha fatto, agli errori che ha commesso". Non appena questo avviene, ha continuato Ferreira, bisogna però immediatamente evitare che la presa di coscienza per il male commesso diventi un macigno che schiaccia: "Dobbiamo separare l’uomo dal suo errore, dal suo peccato, dal suo reato. Ridargli speranza di poter cambiare". Tra i racconti che Valdeci Antonio Ferreira ha proposto alla folta platea del Meeting c’è quello di un uomo che aveva ucciso un altro uomo durante una rapina. Messo di fronte alla realtà del suo delitto, sembrava non darsi pace: "Come farò a riparare a ciò che ho commesso? Come posso ridare la vita?". "Un giorno nell’APAC si è presentata una donna con un fratello in dialisi che rischiava la vita se non avesse trovato un rene disponibile per un trapianto. In sei detenuti si sono offerti di donarglielo. Ma soltanto quello dell’uomo che aveva ucciso nella rapina è risultato compatibile. Dopo l’operazione lui ha continuato a mostrare a tutti la sua cicatrice dicendo: "Ho ucciso una vita umana, ma ora ne ho salvata un’altra". Il titolo dell’incontro, "Dall’amore nessuno fugge", sono le parole di un altro detenuto APAC, oggi scomparso, José du Jisoys, che aveva commesso 56 omicidi ed era stato condannato a cinquant’anni di carcere. Dopo più di vent’anni nelle prigioni comuni, era evaso due volte. Nell’APAC, dove è stato accolto e dove ha concluso la sua vita, non mise mai piede fuori senza l’autorizzazione del magistrato. A chi gli chiedeva "Sei evaso da tutte le prigioni, perché non fuggi anche da questa? Hai la chiave, lo puoi fare!", aveva risposto: "Dall’amore nessuno fugge!". Amore, compassione e condivisione, insieme a uno sguardo che mai fa coincidere gli uomini e le donne con i loro errori, sono emersi anche dalla testimonianza di Luis Carlos Rezende e Santos, giudice di esecuzione penale del Tribunale di Giustizia di Minas Gerais, sostenitore dell’esperienza APAC. E da quella di Cledorvino Belini, Presidente di Sviluppo del Gruppo FCA per l’America Latina. Luis Carlos Rezende ha descritto, attraverso dati molto eloquenti, perché il modello APAC è stato assunto dallo Stato brasiliano: soltanto il dieci per cento dei detenuti di questo circuito alternativo hanno delle ricadute, contro una percentuale del 70 per cento per i detenuti delle carceri tradizionali. Inoltre, il sistema APAC, a motivo dell’assenza di guardie carcerarie e armi, e dell’autogestione, costa meno di un terzo rispetto al sistema tradizionale. Le famiglie dei prigionieri vengono coinvolte - un detenuto può entrare in un’APAC se la famiglia risiede in quella zona - e raggiunte dai volontari: spesso hanno più bisogno di aiuto del loro parente carcerato. Ma il giudice, colpito dalle parole spesso ripetute da Papa Francesco, il quale ha detto da peccatore di non sentirsi migliore delle persone che stanno dietro le sbarre ogni volta che varca le porte di un carcere, ha raccontato come l’esperienza del perdono e della misericordia nella sua vita lo abbiano aiutato a guardare in modo diverso i carcerati, sulle cui vite è chiamato a giudicare. Personale e sincero anche il racconto di Belini, manager Fiat, che ha raccontato come l’essersi personalmente coinvolto nel volontariato APAC ha reso la sua vita più bella e più felice. Il mondo delle imprese può aiutare in modo significativo l’esperienza del recupero dei detenuti, anche grazie a incontri di formazione che preparino a una professione. Nell’aiuto allo sviluppo del progetto, destinato a essere esportato e adattato ai sistemi carcerari di altri Paesi, contribuisce anche AVSI, l’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale. Il "metodo APAC" è stato reso carne e sangue nella vita cambiata di Daniel Luiz da Silva, che ha preso la parola per ultimo, non senza momenti di commozione. Il 90 per cento dei detenuti nelle carceri brasiliane provengono da famiglie disastrate. E questo è anche il caso di Daniel: suo padre ha abbandonato la moglie e sei figli e lui è stato cresciuto dalla nonna. "Il sistema sociale in cui vivevo non mi offriva alternative, sono entrato in una banda e ho compiuto ogni specie di crimine" ha raccontato. Una banda rivale cerca di ammazzarlo, ma non trovandolo a casa uccide suo fratello. È l’inizio di una guerra senza quartiere, fatta di violenza e vendette. A 19 anni si ritrova in carcere con una condanna a 37 anni e 27 altri processi pendenti. "Il giudice mi disse che non c’era speranza, che sarei morto dietro le sbarre, che ero un mostro e che non sarei dovuto nascere". Si trova a vivere in una cella di sei metri quadrati insieme a venti persone, con due soli rotoli di carta igienica e due saponette al mese, senza alcun contatto con il mondo esterno. "Ho chiesto ai miei compagni di uccidermi, non ce la facevo più. Non ho chiesto di nascere nella famiglia in cui sono nato, non era il mio sogno di diventare così". Decisivo per Daniel è l’imbattersi in una Bibbia e nelle parole "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". "Pregai Dio. Gli dissi: se veramente esisti, cambia la mia vita! Ti prometto di dedicarmi a chi vive nelle carceri". Dopo qualche tempo Daniel viene trasferito in un’APAC. L’impatto non è facile: vi ritrova molti "nemici", appartenenti alla banda rivale e anche colui che aveva ucciso suo fratello. Incontra anche Valdeci Antonio Ferreira, il volontario che diventa per lui come un padre e che lo aiuta a riconciliarsi con se stesso e anche a incontrare quel padre che lo aveva abbandonato, riuscendo a perdonarlo. "Dissi allora - ha raccontato Daniel - che in quel momento uscivo dal crimine. Capii che mio padre non poteva darmi amore perché lui stesso non l’aveva ricevuto. Gli dissi che lo perdonavo". È grazie all’incontro con l’abbraccio della misericordia, con l’amore, la fiducia, con volti di persone che nonostante tutto ti dicono di credere in te, che la vita può cambiare. Come quella di Daniel, che non è fuggito dall’amore, e che piange come un bambino abbracciando Valdeci Antonio Ferreira, il giudice Luis Carlos e il manager Belini sul palco del Meeting. Brasile: Amnesty "durante le Olimpiadi repressioni e 8 uccisi in operazioni di polizia" Avvenire, 25 agosto 2016 "Il Brasile ha perso la più importante medaglia di Rio 2016: diventare campione dei diritti umani". Lo afferma in una nota Atila Roque, direttore generale di Amnesty International Brasile. Secondo l’organizzazione per i diritti umani, a Rio de Janeiro durante lo svolgimento delle Olimpiadi sono state uccise almeno otto persone nel corso di operazioni di polizia e manifestazioni pacifiche sono state duramente represse. "L’unico modo per rimediare ai molti errori commessi durante le Olimpiadi è quello di assicurare indagini efficaci sulle uccisioni e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e assicurare i responsabili alla giustizia" ha aggiunto Roque. Nel 2016 le uccisioni ad opera della polizia sono aumentate di mese in mese mentre Rio si preparava a dare il benvenuto al mondo. Secondo l’Istituto per la pubblica sicurezza dello stato di Rio de Janeiro, in città la polizia ha ucciso 35 persone ad aprile, 40 a maggio e 49 a giugno, con una media sempre superiore a un omicidio al giorno. Operazioni di polizia segnate dalla violenza si sono svolte per tutta la durata delle Olimpiadi in diverse parti di Rio. Le manifestazioni di protesta sono state durante represse dalle forze di polizia, sia all’interno che all’esterno degli impianti sportivi. Dal 5 al 12 agosto, proteste pacifiche sono state sciolte con violenza, anche mediante l’uso di gas lacrimogeni e granate stordenti. Diverse persone sono state arrestate mentre altre sono state allontanate dagli impianti sportivi per il mero fatto d’indossare magliette su cui erano scritti messaggi di protesta, in violazione del diritto alla libertà d’espressione. A San Paolo, il 5 agosto, la polizia ha represso una manifestazione con estrema violenza arrestando 100 persone, tra cui almeno 15 minorenni. Gli abitanti di queste zone hanno denunciato altre violazioni dei diritti umani da parte della polizia, come irruzioni nelle abitazioni, minacce di morte e aggressioni fisiche e verbali. La "guerra alla droga" e l’uso di armi pesanti nel corso delle operazioni di sicurezza hanno posto a rischio la vita degli stessi agenti di polizia, almeno due dei quali sono stati uccisi nei primi 10 giorni delle Olimpiadi. Nella prima settimana di svolgimento dei Giochi (5-12 agosto), nella regione metropolitana di Rio hanno avuto luogo 59 scontri a fuoco (in media, quasi otto e mezzo al giorno), rispetto ai 32 della settimana precedente. Nello stesso periodo, la violenza armata ha causato almeno 12 morti e 32 feriti. Palestina: del voto a Nablus dopo il pestaggio a morte di un detenuto nena-news.it, 25 agosto 2016 I partiti politici palestinesi hanno deciso all’unanimità il rinvio delle elezioni amministrative nella città cisgiordana dopo che Ahmad Halawa, presunto capo di una "gang criminale" nonché leader di un gruppo armato dell’Intifada, è morto sotto interrogatorio in una prigione dell’Anp di Abu Mazen. L’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e tutte le formazioni politiche palestinesi hanno deciso, al termine di una riunione tenuta ieri, di rinviare a Nablus le elezioni amministrative dell’8 ottobre. La decisione è la conseguenza del clima politico e sociale torrido che si è creato in città dopo il pestaggio a morte in una prigione palestinese di Ahmad Hakawa, accusato di essere capo di una "gang di criminali" e responsabile dell’uccisione di due agenti di polizia la scorsa settimana.