Dove nasce la Giustizia spettacolo di Giovanni Verde Il Mattino, 24 agosto 2016 Siamo inondati, sommersi dalle notizie riguardanti processi. Radio, televisione, stampa e, oggi, anche la rete fanno a gara per fornircele e, a volte, si ha l’impressione che il processo diventi strumento per costruire uno spettacolo in un’epoca in cui tutto tende a diventare mercé o prodotto da mettere in vendita. Non è, forse, ciò che avviene per lo sport, dove il fatto agonistico ci è proposto come forma di intrattenimento al pari di una qualsiasi "fiction"? In questo modo la vicenda di vita vissuta (sia essa una competizione sportiva o una questione giudiziaria o una "querelle" politica o, perfino, un qualsiasi evento, anche tragico, della nostra vita di ogni giorno) si disumanizza. E la narrazione, che viene fatta dai media, rischia di diventare astrazione, una sorta di perverso intrattenimento ad uso e consumo di un pubblico alla ricerca di sensazioni forti. Non è, purtroppo, una novità. È sempre esistita la gogna e, nel passato, le esecuzioni avvenivano in pubblico per soddisfare gli istinti peggiori della gente comune. Oggi alla gogna o allo spettacolo delle esecuzioni pubbliche abbiamo sostituito il processo mediatico. Il vicepresidente del Csm ha evidentemente avvertito il pericolo che corriamo e, ieri, si è fatto portavoce di una legittima preoccupazione. "Bisogna evitare la spettacolarizzazione del processo mediatico", ha raccomandato. È una raccomandazione del tutto legittima; facile, tuttavia, da predicare, difficile da attuare. E dietro la quale si nasconde un problema di non facile soluzione, perché, da uniate), vi sono il dovere del giornalista di informare e il diritto del cittadino di essere informato; dall’altro lato, vi è l’esigenza che l’informazione sia fornita nel rispetto del principio di "continenza"; ossia, in maniera che non costituisca oggetto di spettacolarizzazione. Ma il limite tra l’informazione rispettosa del principio di continenza e quella che non lo è non è scritto da nessuna parte; dovrebbe essere il corredo naturale di chi informa. Il quale a sua volta è pressato dall’esigenza di attrarre l’attenzione del lettore o dell’ascoltatore ed è spesso spinto a forzare la mano per rendere il racconto meno banale, più accattivante. Tutto ciò è inevitabile fino a quando non si abbia un pubblico di utenti, sufficientemente acculturato, che inizi a rifiutare di prendere notizie quante volte esse appaiano frutto di una enfatizzazione non sufficientemente controllata. È un problema di civiltà, che non può essere governato dalla legge, e c’è soltanto da sperare che le cose migliorino nel tempo. Ma, forse, il vicepresidente Legnini non pensava tanto allo sfruttamento mediatico dei processi, quanto a ciò che avviene prima, al tempo delle indagini. Oggi, la deformazione dell’informazione non riguarda il pubblico dibattimento. Con i tempi lunghi della nostra giustizia penale, quando si celebra il dibattimento la notizia del processo non ha più interesse per l’opinione pubblica Non è più attuale. Provare per credere. Quanti sono interessati a ciò che avviene in dibattimento o all’esito definitivo del processo? Quanti, nel momento in cui viene data - in maniera quasi sempre assai contenuta - notizia che il processo si è concluso m un nulla di fatto, sono disposti a ritornare sull’opinione che si sono formati della vicenda e dei suoi protagonisti? In quanti di noi la notizia del proscioglimento cancella il pregiudizio che si è radicato circa l’esistenza di una classe di politici e di pubblici amministratori (perché, diciamocelo con franchezza, il problema riguarda soprattutto i processi contro politici e amministratori) totalmente corrotta? La spettacolarizzazione non riguarda il processo, ma l’attività di indagine. E, diversamente da ciò che avveniva nel passato, la gogna mediatica non è conseguente alla condanna, ma la precede. Questo è il vero pericolo, al quale occorre porre riparo. Legnini, che di ciò ha parlato, con ottimismo auspica un tempo in cui politica e magistratura smettano di delegittimarsi a vicenda e, anzi, siano capaci di trarre reciproca legittimazione. Non sembra che i tempi siano maturi per questo cambiamento e, forse, non lo saranno mai Di sicuro non lo saranno fino a quando la magistratura continuerà a proporsi come una sorta di controllore etico della politica, indulgendo sempre più spesso in inchieste ad ampio raggio piuttosto che in indagini per accertare singoli fatti specifici, che integrano reati. Sarebbe necessario un eccezionale "self control" da parte di tutti: degli indagatori, che non dovrebbero lasciare filtrare le notizie delle loro indagini tra le maglie bucherellate del segreto istruttorio, e, poi, da parte della stampa, che non dovrebbe propalare le notizie ottenute illecitamente. D’accordo, non solo il diritto all’informazione è sacrosanto, ma l’informazione spesso è anche strumento necessario di prevenzione, perché aiuta ad evitare che ci si possa imbattere, senza saperlo, in soggetti pericolosi. E tuttavia l’informazione, prima che il processo sia celebrato, può distruggere o compromettere in maniera irrimediabile la vita delle persone. La legge può e deve intervenire per trovare il giusto compromesso tra le due esigenze e tutti sappiamo come ciò sia difficile (la disciplina delle intercettazioni ce lo mostra con tutta evidenza). Ma -non dimentichiamolo- la legge non può tutto senza la leale collaborazione dell’uomo. Magistratura. Legnini (Csm): "superare la spettacolarizzazione dei processi" La Repubblica, 24 agosto 2016 Il vicepresidente del Csm a margine del Meeting di Rimini. Sul rapporto con la politica: "Bisogna passare dalla delegittimazione alla legittimazione reciproca". Sul caso di Ragusa della bimba rapita: "Chiesta informativa al procuratore, la valuteremo". Dall’evitare la spettacolarizzazione dei processi al caso di Ragusa della bimba rapita, alla riforma del Csm. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, a margine del suo intervento al Meeting di Rimini, ha toccato tutti i temi caldi che riguardano la giustizia. Superare spettacolarizzazione dei processi. Sui rapporti tra media e giustizia "credo che la funzione e la responsabilità dell’informazione sia cruciale. Bisogna superare la stagione della spettacolarizzazione dei processi, dei processi mediatici" ha detto Legnini. E sul rapporto spesso burrascoso tra magistratura e politica ha sottolineato che "non basta un abbassamento della temperatura del conflitto" ma "bisogna andare oltre, è il momento di produrre un cambiamento, bisogna passare da una fase di delegittimazione reciproca, che nei passati 25 anni si è reciprocamente manifestata, alla fase della legittimazione reciproca". Riforme in atto. Legnini ha rassicurato sulla riforma in atto della magistratura e dei processi, un cammino verso la trasparenza. "Tutto cambia, la magistratura non può rimanere ferma: il Csm che io rappresento sta dando il suo contributo autoriformandosi, introducendo criteri di maggiore leggibilità, trasparenza delle proprie decisioni, assumendosi il carico di dare il proprio contributo al percorso di riforme in materia di giustizia e di organizzazione di una giustizia efficiente: insomma siamo in cammino" ha detto il vicepresidente del Csm. "Nella nostra Costituzione vige la libertà di associazione: la magistratura italiana, non da oggi, si è associata in movimenti e correnti, questo diritto è sacrosanto, nessuno può sopprimerlo. Altro è il peso delle correnti e del loro orientamento. Stiamo procedendo delle innovazioni, migliori regole, più trasparenza, più leggibilità, più attenzione al merito, alla cultura dell’organizzazione". A giudizio di Legnini, "questi sono obiettivi comuni sui quali stiamo conducendo uno sforzo straordinario che è quello di un ricambio molto esteso ai vertici degli uffici giudiziari italiani. In meno di due anni - ha concluso - abbiamo fatto 438 nomine, ridisegnando una parte non secondaria dei vertici della magistratura italiana". Caso di Ragusa: chiesta informativa. Legnini ha poi parlato del caso di Scoglitti, della bimba rapita: "Ho chiesto al procuratore di Ragusa", Carmelo Pietralia, "un’informativa" dopo la decisione della procura di non convalidare l’arresto dell’indiano di 43 anni senza fissa dimora accusato di aver tentato di rapire una bambina sulla spiaggia di Scoglitti, nel ragusano. "Valuteremo il contenuto" dell’informativa "e ci orienteremo conseguentemente. Il ministro Orlando ha esercitato una sua prerogativa, quella di disporre un’ispezione. Anche lì conosceremo l’esito di questa ispezione. Se per casi come quelli non vi è l’obbligo di disporre la custodia cautelare, il problema è nella legge, non nell’applicazione della legge vigente". L’ex presidente Anm Cascini "da pm dico ai colleghi: o fai politica o fai il magistrato" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 agosto 2016 "Dobbiamo avere il coraggio di dire che i magistrati che scelgono la politica non possono tornare a vestire la toga". É netto Giuseppe Cascini - ex presidente dell’Anm e pm romano che indaga su Mafia Capitale - e con Il Dubbio affronta i nodi e i conflitti che in questi anni hanno attraversato la magistratura. A cominciare da chi ha scelto di entrare nel palazzo della politica: "Si tratta di una scelta senza ritorno. Non è possibile, infatti, che alla scadenza del mandato tornino in magistratura", dice. Ed è netto anche sulla vicenda della giudice Carla Romana Ranieri, nominata capo di gabinetto dal sindaco di Roma Virginia Raggi: "Non penso che per svolgere il ruolo di capo di gabinetto di un comune serva la professionalità di un magistrato", dice. Poi la difesa del sistema correntizio che il ministro della giustizia Orlando ha provato a limitare nel Csm: "Io penso che le correnti abbiano svolto storicamente un ruolo molto importante, in quanto luoghi di crescita e di confronto, di formazione culturale e professionale dei magistrati", dice Cascini. Che poi aggiunge: "Quanto alla proposta di "sorteggiare" i candidati del Csm penso che sia una proposta offensiva nei confronti dei magistrati e della loro capacità di discernimento e di selezione". Dopo la pausa estiva, il Csm riprenderà la discussione sui lavori della Commissione ministeriale presieduta da Michele Vietti ed incaricata dal guardasigilli Andrea Orlando di predisporre un progetto di riforma dell’Ordinamento giudiziario. Uno dei punti più dibattuti è, come era prevedibile, la modifica al sistema degli illeciti disciplinari e delle incompatibilità dei magistrati. Abbiamo voluto fare il punto con il dott. Giuseppe Cascini, dal 2008 al 2012 segretario dell’Associazione nazionale magistrati e attualmente Pm alla Procura di Roma nel pool che indaga su Mafia Capitale. Procuratore Cascini, a settembre il Csm dovrebbe votare il parere sui lavori della Commissione Vietti. Dopo 10 anni dalla riforma Castelli, l’orientamento è quello di superare l’attuale sistema basato sulla tipizzazione degli illeciti disciplinari, introducendo una norma di chiusura che vada a sanzionare "i comportamenti tenuti in luogo pubblico che compromettano in modo grave il prestigio della magistratura". Sul punto Magistratura Democratica, di cui lei è un autorevole esponente, ha manifestato la propria contrarietà. La scelta di tipizzare gli illeciti disciplinari (approvata durante il governo Berlusconi II, ndr) avvenne al termine di un lungo dibattito all’interno della magistratura associata. Fu una scelta di civiltà giuridica, un principio di garanzia per tutti i magistrati che devono sapere ex ante quali condotte devono evitare. Proprio come per l’illecito penale. La modifica che si vorrebbe approvare mi sembra, invece, alquanto semplicistica. "Lesione del prestigio" è espressione troppo vaga e generica, che finisce per affidare in via esclusiva all’interprete la individuazione delle condotte da sanzionare, che verrebbero individuate ex post sulla base della sensibilità del giudice disciplinare. Sensibilità, peraltro, legata al contesto sociale del momento. Ad esempio, fino agli anni sessanta, qualcuno avrebbe potuto ritenere "non consona al ruolo" e dunque "lesiva del prestigio" la scelta di una magistrato di convivere senza essere sposato, mentre oggi la convivenza more uxorio è espressamente tutelata dall’ordinamento. L’altro aspetto criticabile della proposta è quello di concentrare l’attenzione esclusivamente sull’aspetto della "apparenza", della "forma" piuttosto che su quello della sostanza. Ho paura che sull’onda emotiva del momento si perda di vista quello che è l’aspetto fondamentale del sistema disciplinare, cioè salvaguardare l’imparzialità e l’indipendenza del magistrato. Ha molto fatto parlare l’episodio della magistrata di Trani che si faceva baciare il piede da un avvocato. Che ne pensa? È un episodio senza dubbio inopportuno, non confacente alla sobrietà dei costumi che deve contraddistinguere un magistrato. Ma è un episodio che attiene ad aspetti deontologici, di costume, che non può certamente essere sanzionato sul piano disciplinare, a meno che non si dimostrino comportamento scorretti del magistrato in favore dell’amico avvocato. Cosa che non mi pare sia risultata in questo caso. Ecco quello che mi preoccupa è che con una norma del genere qualcuno possa avere la tentazione di sanzionare sul piano disciplinare episodi come questo. Non mi sembra, invece, che analoga attenzione mediatica ci sia stata sulla vicenda della Banca Popolare di Vicenza: le indagini sui vertici dell’istituto bancario sono state "silenti" per anni. Quando poi le stesse indagini sono state trasferite dalla procura di Vicenza alla procura di Roma si è proceduto con gli arresti e con i sequestri. Scoprendo, nel contempo, che alcuni magistrati che ricoprivano ruoli di vertice negli uffici giudiziari vicentini erano transitati nei ruoli dirigenziali dell’istituto di credito. Ecco, io mi preoccuperei maggiormente di individuare meccanismi per sanzionare questi "legami occulti", nei quali spesso le "apparenze" sono salve, ma che "nella sostanza" compromettono gravemente l’imparzialità del magistrato. Questa eccessiva attenzione al tema dell’apparenza nasca da una distorta interpretazione di una frase del presidente della Repubblica Sandro Pertini, "il magistrato oltre che esserlo deve apparire imparziale". Ma Pertini voleva dire che oltre alla sostanza conta anche l’apparenza, non certo che l’apparenza conta più della sostanza, mentre oggi l’attenzione dei media e dei commentatori sembra concentrarsi esclusivamente su aspetti di immagine. Con questo non voglio sottovalutare la preoccupazione di chi avanza questa proposta, e cioè il rischio che condotte di magistrati giudicate riprovevoli non possano essere sanzionate sul piano disciplinare. Ma questo problema può essere risolto procedendo alla individuazione di ulteriori fattispecie tipiche, anche tenendo conto della casistica riscontrata in questi anni, ma senza rinunciare ad un principio di civiltà e di garanzia. Un’altra questione assai dibattuta è il potere delle correnti in magistratura. Io penso che le correnti abbiano svolto storicamente un ruolo molto importante, in quanto luoghi di crescita e di confronto, di formazione culturale e professionale dei magistrati. E io resto convinto che le "formazioni sociali" nelle quali si sviluppa la personalità dell’individuo, come recita la costituzione italiana, siano un fattore irrinunciabile di crescita e di formazione. È vero però che negli ultimi anni, anche a seguito delle epocali trasformazioni intervenute, le correnti hanno perso molto della loro capacità di aggregare su valori, idee e progetti, rischiando di trasformarsi in centri di potere finalizzati esclusivamente alla raccolta del consenso, il che ha prodotto quelle prassi degenerative, fondate su logiche di appartenenza che da più parti vengono denunciate. Io credo che noi magistrati, e noi magistrati di Area in particolare, abbiamo il dovere, morale e politico, di contrastare con forza queste prassi, di respingere le "tentazioni del potere", di ritrovare il senso dell’impegno per valori e principi, avendo come riferimento solo l’interesse generale. Altrimenti noi, le correnti, saremmo spazzati via dalla storia, ma quello che verrà al posto delle correnti non sarà certo migliore, in quanto troveranno spazio forme di aggregazione per interessi, locali e/o personali, lobby di potere, che favoriranno, piuttosto che eliminarle, le logiche di favore, di clientela, di interesse particolare che si vorrebbero contrastare. Quanto alla proposta di "sorteggiare" i candidati del Csm penso che sia una proposta offensiva nei confronti dei magistrati e della loro capacità di discernimento e di selezione attraverso il voto. La quasi totalità dei magistrati italiani oggi vota per candidati provenienti dalle correnti, nonostante la presenza, ormai costante, di candidati indipendenti. E mi preoccupa chi sostiene che un voto democraticamente espresso sia "sbagliato" e pretende di limitare la scelta democratica delle rappresentanza. Inoltre una tale soluzione finirebbe per svilire il ruolo costituzionale del Csm che non è solo organo tecnico di amministrazione del corpo, ma organo politico di formazione e di indirizzo culturale. A questo punto la domanda è d’obbligo. I magistrati fuori ruolo. Come tutte le estati, in questi giorni, alcuni giornali stanno facendo il conteggio di quanti magistrati si occupano di altro. Vorrei fare subito una premessa. Bisogna distinguere di che fuori ruolo si tratta. Mi spiego. Io credo che svolgere un fuori ruolo in altri uffici della Pubblica amministrazione sia un arricchimento professionale per il magistrato. Diverso è il discorso di coloro che vanno a ricoprire incarichi prettamente politici come quello di assessore, sindaco, presidente di regione, sottosegretario, ecc. Per questi colleghi bisogna avere il coraggio di dire che si tratta di una scelta senza ritorno. Non è possibile, infatti, che alla scadenza del mandato tornino in magistratura. Si studi un sistema che permetta, salvaguardando la professionalità e il trattamento economico acquisito, un transito in altri settori della Pa. E la vicenda del giudice Carla Romana Ranieri, il neo capo di gabinetto del sindaco di Roma Virginia Raggi? Non penso che per svolgere il ruolo di capo di gabinetto di un Comune serva la professionalità di un magistrato. L’attuale presidente dell’Anm ha dichiarato che quando i magistrati fanno altro lo fanno "male". Ripeto, dipende molto dal tipo di incarichi. Ci sono ruoli nei quali l’esperienza è la professionalità di un magistrato sono estremamente utili, altri nei quali francamente non si sente il bisogno di utilizzare i magistrati. Inoltre molto dipende dal modo in cui si interpreta l’incarico. Se un magistrato che riveste un incarico fuori luogo partecipa attivamente al dibattito politico su temi generali, anche estranei al suo ruolo, allora la sua posizione diventa assimilabile a quella dei magistrati che ricoprono cariche politiche elettive. Da vittime della prostituzione a vittime della burocrazia di Federico Capurso La Stampa, 24 agosto 2016 In 5 Regioni ritardi e cavilli bloccano i fondi per le associazioni delle donne sfruttate. Da vittime del racket della prostituzione a vittime della burocrazia. In cinque regioni italiane, a partire dal primo settembre, centinaia di donne in fuga da una condizione di sfruttamento rischiano di trovare chiusa la porta delle associazioni che fino ad oggi le hanno aiutate. In Piemonte, Liguria, Sardegna, Basilicata e Sicilia, non sì potrà infatti attingere al fondo di circa 13 milioni di euro messo a disposizione con un bando del ministero per le Pari Opportunità. Dai moduli compilati solo a metà, inviati dalla regione Piemonte, agli otto minuti di ritardo sulla scadenza del bando che hanno escluso la regione Liguria "per colpa - dice l’assessore regionale Ilaria Cavo - della lentezza nel fornire la documentazione da parte della città metropolitana di Genova", fino ai casi di Sardegna, Sicilia e Basilicata, in cui a fare richiesta erano state associazioni Onlus private, e dove l’esclusione dalla graduatoria finale è stata decretata per esaurimento fondi, caduti però a pioggia sugli altri enti. Bocciature che, nelle loro diverse sfumature di irragionevolezza, dovranno essere compensate da soluzioni di rimedio. La proposta fatta ai rappresentanti delle associazioni presenti sul territorio piemontese dall’assessore per le politiche sociali Monica Cerutti prevede la richiesta di intervento del ministero per le Pari Opportunità, "affinché venga assicurata una continuità del servizio attraverso delle convenzioni con le regioni che invece hanno ottenuto i finanziamenti", dice Cerotti. Nel frattempo si lavora per individuare nuovi fondi provenienti da Bruxelles. È necessario però, sottolinea l’assessore piemontese, che "si superi la logica del bando annuale. Questo genere di servizi deve essere finanziato con continuità". In Liguria, invece, l’obiettivo si sposta sul bando nazionale per la riqualificazione urbana delle periferie, che ha un capitolo dedicato all’inclusione sociale ed è in scadenza il 29 agosto. "I 200mila euro provenienti da questo nuovo bando coprirebbero il budget previsto dal progetto originario", assicurano dalla Regione. "Ora vediamo se la Città metropolitana di Genova riusciranno a dimostrare efficienza". Una scommessa che se venisse persa porterebbe a dei tempi di rientro alla normalità più lunghi, passando dal ricorso al Tribunale amministrativo regionale, con un esito non scontato. Pensano di appellarsi al Tar anche le associazioni che non sono rientrate nella graduatoria, come l’associazione Penelope, che opera in Sicilia, regione che più di ogni altra assorbe i flussi migratori e che, dai risultati del bando ministeriale, verrebbe coperta dall’azione di una singola associazione operante nel territorio di Ragusa. "È assurdo pensare che in zone come quella del Cara di Mineo non ci saranno enti in grado di aiutare le vittime del racket della prostituzione", dice Mirta Da Pra, dell’onlus Gruppo Abele di Don Ciotti, "quando è proprio nei centri di accoglienza che gli sfruttatori reclutano ragazze per portarle in strada". Il rischio del ricorso al Tar, però, è che in caso questo fosse respinto, le associazioni meno grandi si troverebbero costrette a pagare anche le spese processuali. La partita dei cavilli burocratici e delle soluzioni tampone, dunque, si giocherà nelle prossime settimane sulla pelle delle ragazze sfruttate. "Sfortunate", ieri, perché costrette a vivere in un mondo di disagio e dal quale è difficile uscire; ancora più sfortunate, oggi, per il semplice fatto di vivere in una regione piuttosto che in un’altra. L’indiano, i genitori, il pm: cos’è successo veramente sulla spiaggia di Ragusa di Filippo Facci Libero, 24 agosto 2016 La storia dell’indiano che rapisce la bambina va completamente azzerata: le polemiche e gli articoli che sono stati scritti compreso uno su Libero, a cura dello scrivente - erano basati su informazioni insufficienti per quanto fossero le uniche disponibili. Non sappiamo che cosa faranno gli altri giornali, ma preferiamo rivedere criticamente tutta la faccenda: l’unico punto fermo rimane che una persona su cui pende un decreto di espulsione andrebbe espulsa, e basta, anche se non ha cercato di rapire bambini. Allora. La storia che tutti si sono bevuti era questa: martedì scorso, nella spiaggia di Scoglitti, nel Ragusano, c’è questo indiano senza fissa dimora che si avvicina a un gruppo di genitori e amici e poi piglia in braccio una bambina (5 anni) e fugge via, ma il padre l’insegue e lui desiste e scappa; i carabinieri però lo beccano più tardi dopo un rastrellamento e lo portano in caserma in stato di fermo, ma ecco che il pm Giulia Bisello non convalida il provvedimento perché dice che i reati (sequestro di persona e sottrazione di minore) sono rimasti allo stato di tentativo, in altre parole il rapimento non è riuscito. Tra l’altro salta fuori un decreto di espulsione emesso dal questore di Ragusa un anno prima, ma questo non impedisce che il giorno dopo l’indiano torni a vagare in spiaggia come se nulla fosse stato. Scandalo, articoli, polemiche, social scatenati, interpellanze parlamentari, inviti a dimissioni, il Guardasigilli che allerta gli ispettori ministeriali, i genitori della bambina che rilasciano interviste e "vomitano su questa legge", l’Associazione magistrati che difende la giovane pm, giornali che tirano la coperta secondo orientamento, l’indiano minacciato da un tizio che gli fa il segno di tagliargli la gola. Però ora i verbali e le ricostruzioni e le dichiarazioni del "caso dell’estate" consentono di riscrivere tutto, e, anche se la morale non cambia - un irregolare deve lasciare il Paese - il compito dei giornali dovrebbe essere quello di avvicinarsi a qualcosa che assomigli alla verità. Proviamoci. Ram Lubhaya è un classico extracomunitario indiano che vende collanine e ciarpame, fa tatuaggetti, uno come migliaia: è incensurato anche se è stato segnalato per furti di rame, ma non ha precedenti, tantomeno per droga e ricettazione come è stato scritto. È un extracomunitario senza fissa dimora come lo sono quasi tutti in un paesino dove più o meno tutti si conoscono. Ram è indiano (come gli zingari suiti) e questa è la sola cosa che lo avvicina al pubblico immaginario del rapitore di bambini. Otto giorni fa, un martedì, sul lungomare della Lanterna di Scoglittì (frazione di Vittoria, provincia di Ragusa) una famiglia bazzica attorno a una di quelle case che un serio piano regolatore dovrebbe radere al suolo. Ci sono amici e conoscenti. Attorno al gruppo si avvicina anche Ram Lubhaya, lievemente alticcio e in modalità "peace and love" come suo solito. Qualcuno lo conosce di vista. Ram comincia a giocare e scherzare con la bambina, ma nessuno ci bada particolarmente. Tantomeno la madre, che sta risalendo le scale di casa quando un’amica le dice: l’indiano si sta allontanando con tua figlia. Spavento e raccapriccio. E qui non è neppure chiaro le testimonianze divergono - se l’indiano l’abbia presa in braccio o solo per la manina, ma i genitori corrono dall’indiano e si riprendono la figlia. Lui non obietta nulla, non scappa, non fugge. La scena dura al massimo 45 secondi: i due, l’indiano e la bambina, sono sempre rimasti ben visibili entro un perimetro di una decina di metri. Ma la madre racconterà, a sostegno del tentato rapimento, che in precedenza "l’indiano li stava fissando", o questo le avevano detto. Non scatta nessuna denuncia e nessuna caccia all’uomo. Sono i due fratelli maggiori della famiglia, incontrando ancora Ram Lubhaya che passeggia sul lungomare, a far chiamare i carabinieri: la sua sola presenza gli genera angoscia. Alle obiezioni sull’improbabilità del tentato rapimento, madre e padre replicheranno: "Ma per far scattare il reato di rapimento doveva portarmela via?". Interrogato, l’indiano respinge ogni possibile accusa e non viene incarcerato. E, in effetti, dal quadro emerso non ce n’è ragione: anche volendo contestare a tutti i costi un tentato sequestro di minore, la pena prevede da 1 a 10 anni ma nel caso specifico - inesistente l’indiano sarebbe rimasto sotto la soglia minima per la carcerazione. Oltretutto, come si lascia sfuggire il procuratore capo di Ragusa, Ram probabilmente ne uscirebbe incapace di intendere e di volere: è uno che va espulso e basta, nel senso che non rinnovargli il permesso di soggiorno è più che sufficiente. Non è neanche vero che sull’indiano pendesse un decreto di espulsione: c’era stato, ma era stato sanato da un permesso di soggiorno che, caso vuole, scadeva proprio ieri: ergo, l’ordine di espulsione ora può essere firmato dal vicequestore (anzi, pare l’abbia già firmato) dopodiché la destinazione di Ram Lubhaya è un Cie dal quale probabilmente sarà espulso: il che, se non ci fosse stato il bailamme della sindrome da rapimento, probabilmente non sarebbe neppure successo. Nel Paese, intanto, rotolava e s’ingigantiva una spaventosa valanga mediatico-politica. Ram viene interrogato un’altra volta, per sette ore, ma non emergono novità. Lui è stranito: capisce che sarà espulso, in sostanza, perché ha preso in braccio una bambina. Assoluzione ampia con vincoli di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2016 Nei reati dichiarativi a dolo generico l’imputato non può impugnare la sentenza di proscioglimento per ottenere la formula più ampia ("il fatto non sussiste"), perché la "oggettività" della condotta è data dal semplice scostamento tra il dichiarato e l’accertato. Lo ha stabilito la Terza penale della Cassazione (sentenza 35277/16, depositata ieri), annullando - ma solo per una patologia nel giudizio di merito - la decisione dell’appello di Salerno a margine di una vicenda di false fatture e relativa dichiarazione fraudolenta. Il tribunale di Nocera Inferiore, come giudice di prime cure, aveva mandato assolti i due imputati di violazione del decreto legislativo 74/2000 (articoli 2 e 8) ritenendo, appunto, che i fatti contestati non costituivano reato, e valutando perciò come assente il dolo specifico "di evasione". I due, tuttavia, non soddisfatti della formula di proscioglimento - che in sostanza riconosce l’esistenza dei fatti "materiali" contestati nell’imputazione - avevano impugnato il provvedimento chiedendo la formula più ampia, in considerazione del fatto che la assoluzione fin lì incassata lasciava del tutto aperti i versanti civilistici e amministrativi. L’Appello aveva però respinto la pretesa, rimarcando come inammissibile il ricorso per "mancanza di interesse". La Terza penale della Cassazione, prima di annullare il verdetto di merito, ripercorre le tappe normative e giurisprudenziali dell’interesse a impugnare. Interesse che deve "essere concreto e attuale" (articolo 586 del codice di procedura) e cioè deve prospettare per l’impugnante una situazione pratica - e non solo teorica - "più vantaggiosa rispetto a quella esistente". La conversione della formula da "assenza di dolo" a constatazione della "inesistenza del fatto reato", scrive la Terza, è senz’altro nel solco di questo insegnamento giurisprudenziale, e ancor prima nell’orientamento della Consulta. Proprio la Corte costituzionale aveva rimarcato che in taluni casi il pregiudizio di ordine morale derivante da una assoluzione "zoppa" può addirittura essere peggiore di quello provocato da una condanna e, in ogni caso, si riflette in senso negativo sui giudizi civili, amministrativi e anche disciplinari connessi al medesimo fatto (sentenza 85/2008). Fuori dall’ombrello dell’interesse a impugnare restano invece tutte le ipotesi, per esempio, di una pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, così come la correzione di un semplice errore materiale ininfluente. Completato l’excursus tra i repertori, in sostanza ammettendo l’interesse ad agire degli impugnanti, l’estensore della Terza passa ad analizzare la patologia delle sentenze esaminate che ne giustifica l’annullamento con rinvio. Patologia che consiste nel fatto di aver ritenuto che i reati contestati - emissione di false fatture e dichiarazione fraudolenta - richiedano il dolo specifico di evasione mentre invece, chiosa il relatore, la sussistenza degli illeciti tributari "si fonda solo sul dato dello scostamento tra il dichiarato e l’accertato, senza che rilevino intenti fraudolenti di sorta". E nelle motivazioni della (erronea) assoluzione per mancanza di dolo, la stessa Corte d’appello aveva ribadito la materialità, cioè l’oggettività, dei fatti contestati, ovvero l’emissione di fatture false. Protagonisti noti: escluso il reato per il giornalista di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35361/2016. Il giornalista non è responsabile per le notizie diffamatorie date dal noto personaggio intervistato, relative a un altro soggetto che ricopre ruoli di primo piano. In tal caso è la stessa dichiarazione che fa notizia, indipendentemente dalla verità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate. Il principio affermato dalla Cassazione (sentenza 35361/2016, depositata ieri) vale anche quando i "vip" sono tali solo a livello locale e non nazionale. Della conclusione raggiunta dalla Corte, beneficia la cronista di un giornale regionale, la cui condanna per diffamazione viene annullata in nome della libertà d’informazione. I giudici della Quinta sezione chiariscono infatti che l’importanza dei protagonisti della vicenda narrata dal redattore fa sì che la pubblicazione debba scattare aldilà dell’attendibilità delle affermazioni, per soddisfare l’interesse della collettività ad essere informata: un diritto indirettamente protetto dall’articolo 21 della Costituzione. La Cassazione sottolinea che non si può pretendere che il giornalista controlli la verità storica di quanto detto perché sarebbe una limitazione alla libertà di stampa. Né si può chiedere di astenersi dalla pubblicazione solo in virtù delle espressioni offensive ai danni di un personaggio noto, senza comprimere il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica. Il giornalista non ha dunque il dovere di "purgare" il testo dalle offese, perché gli verrebbe attribuito un potere di censura che non ha. Il tutto vale anche quando i personaggi sono "famosi", come nel caso esaminato, solo a livello locale. Amministratore senza delega condannato solo se consapevole di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35344/2016. L’amministratore senza delega non può essere considerato responsabile di concorso in bancarotta per l’appropriazione di denaro da parte di altri due membri del consiglio di amministrazione se manca la prova che era a conoscenza dei fatti. La Cassazione (sentenza 35344) annulla la condanna, incassata dalla ricorrente in entrambi i gradi di giudizio, per non aver impedito che si consumasse il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale che aveva portato la società al fallimento. Un reato contestato alla manager nella sua qualità di membro del Cda, con l’aggravante del danno di rilevante entità. In particolare all’imputata era stato contestato di non essersi attivata per impedire le violazioni pur essendo al corrente della condotta degli altri due membri del board. Per la difesa un verdetto di colpevolezza raggiunto senza valutare gli elementi a discarico. Uno dei membri del Cda, amministratore esecutivo e socio di maggioranza prendeva denaro dalla cassa per giocare al Casinò, mentre l’altro, componente del Cda e socio di minoranza vendeva ad amici e conoscenti pacchetti vacanza intascandosi i proventi. La ricorrente era accusata di non aver controllato la situazione economica reale della società e di aver tollerato le razzie. La responsabilità penale dell’intero Cda era stata affermata malgrado dalle testimonianze risultasse che la donna non si era mai occupata di contabilità. Per la corte d’Appello l’imputata rivestiva comunque una posizione di garanzia che le imponeva un obbligo di vigilanza e controllo. I giudici di merito avevano riscontrato inoltre la configurabilità dell’elemento soggettivo, integrato dal dolo generico insito nell’accettazione del rischio che l’evento si verifichi come risultato e conseguenza della propria condotta. La Suprema corte precisa che la ricorrente pur avendo assunto, al pari degli altri, il ruolo di consigliere delegato con poteri di firma, non aveva mai esercitato le funzioni di amministratrice con delega: il suo ruolo era limitato al reperimento di strutture alberghiere all’estero. I giudici di merito non avevano spiegato quali erano i segnali di allarme sottovalutati e avevano "sorvolato" sulla prova della consapevolezza. La Cassazione ricorda che, con la riforma del diritto societario del 2003 (Dlgs n.6) è stata alleggerita la posizione degli amministratori privi di delega la cui responsabilità resta confinata alle proprie attribuzioni. È stato dunque rimosso l’obbligo generale di vigilanza sull’andamento della gestione sostituendolo con l’onore di "agire informato": un potere di chiedere informazioni privo di un autonomo potere di azione. Perché scatti la responsabilità servono quindi due elementi: la rappresentazione dell’evento e l’omissione consapevole nell’impedirlo. In questo quadro si colloca anche la possibilità di estendere la nozione di dolo al dolo eventuale. Perché questo ci sia non basta la sola rappresentazione della mera possibilità dell’evento ma serve che una probabilità dell’evenienza. Diversamente si scivola nel campo della colpa, improponibile nel reato di bancarotta caratterizzato dal dolo. Il giudice deve muoversi sul crinale della conoscenza dei segnali d’allarme: circostanza non provata nel caso esaminato. Se nullo l’avviso d’accertamento è irrilevante ai fini penali di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35294/2016. Eventuali nullità dell’avviso di accertamento per difetto di sottoscrizione sono del tutto irrilevanti ai fini penali. Ciò perché le patologie dell’atto fiscale si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico processual-tributario, costituendone l’impulso, e attengono quindi la sola pretesa dell’Erario. Nel processo penale, invece, questo atto rappresenta un semplice documento che veicola informazioni. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 35294 depositata ieri. Il tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo nei confronti di un contribuente indagato per dichiarazione infedele in relazione a un’asserita omessa dichiarazione della plusvalenza conseguita in un’operazione di sale and leaseback per la cessione di un immobile. L’interessato ricorreva per cassazione eccependo preliminarmente l’inesistenza/nullità dell’atto impositivo in quanto sottoscritto da un funzionario carente di potere, che avrebbe determinato l’automatica inutilizzabilità ai fini penali, dell’avviso stesso e degli atti su cui esso si fondava (Pvc e relativi allegati). L’eccezione si basava sulla nota sentenza n. 37 del 2015 della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che aveva autorizzato le Agenzie fiscali, nelle more dell’espletamento delle procedure concorsuali, di attribuire incarichi dirigenziali a funzionari con contratti a tempo determinato. La Suprema Corte ha rilevato che le patologie dell’avviso di accertamento si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico processual tributario e attengono esclusivamente la pretesa dell’Erario. Tali patologie, infatti, non incidono sull’attitudine dell’atto a veicolare nel processo penale le informazioni che se ne possono trarre. In sede tributaria l’avviso di accertamento è l’atto con cui l’erario promuove la pretesa dell’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria ed essendo un atto di impulso per la sua validità deve possedere specifici requisiti il cui rispetto è presidiato dalla sanzione di nullità che paralizza la pretesa stessa. In sede penale l’avviso di accertamento subisce una trasformazione genetica: non è più atto di impulso ma documento che veicola informazioni, In questa sede, infatti, il promotore dell’azione è il Pm che la esercita nei modi e nelle forme previste dal codice di rito, l’accertamento è strumentale all’esercizio dell’azione, ma non è l’atto che l’incorpora, con la conseguenza che le regole di riferimento, a questi fini, non sono le norme fiscali (articolo 42 del Dpr 600/73) ma l’articolo 191 del Codice di procedura penale. Il ricorso invece è stato accolto per l’altra eccezione formulata dalla difesa secondo cui l’amministrazione sbagliava a imputare in un solo periodo d’imposta la plusvalenza conseguente alla vendita dell’immobile nell’ambito della citata operazione di sale and lease back. Secondo la Cassazione tale plusvalenza, in assenza di indicazioni ad hoc del legislatore tributario, non segue le regole ordinarie di tassazione delle plusvalenze del Tuir (articolo 87) ma occorre osservare l’articolo 2425 bis del codice civile e il principio contabile Ias 17: il plusvalore va così ripartito in funzione della durata del contratto di locazione. In altre parole per i giudici di legittimità non è possibile applicare nella specie la disciplina del Tuir sulle plusvalenze patrimoniali da cessione di beni di impresa, perché il contratto di sale and lease back ha causa differente (prevalentemente finanziaria) rispetto a quello di vendita semplice. Roma: "Alti Pensieri", nel nome di Spinelli e degli altri reclusi a Santo Stefano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2016 Il summit dell’Unione Europea, fortemente simbolico, avvenuto all’isola di Ventotene ha avuto un momento di commozione con la visita lampo sul suolo del cimitero: Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande hanno reso omaggio alla tomba di Altiero Spinelli, uno dei firmatari del Manifesto di Ventotene e che su quest’isola fu confinato dal nazifascismo. Sulla minuscola isola, davanti a quella di Ventontene, sorge il famigerato carcere borbonico di Santo Stefano. In quel carcere, nell’Ottocento vi soffrirono i padri del Risorgimento, negli anni bui del fascismo le sue celle opprimenti, progettate per "dominare le menti dei detenuti", ospitarono uomini che hanno fatto l’Italia di oggi e l’Europa, da Altiero Spinelli a Sandro Pertini, da Umberto Terracini a Mauro Scoccimarro. Nel 1900 venne spedito qui Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise Umberto I, "il re mitraglia": Bresci "venne suicidato" dai secondini nell’infermeria del carcere. Nel penitenziario di Santo Stefano è passata la nostra storia risorgimentale, liberale, anarchica, e infine antifascista. Oggi c’è la volontà di voler recuperare tale struttura. Il progetto di recupero c’è già, ampiamente annunciato dal governo lo scorso gennaio, proprio da Ventotene, e finanziato a maggio con 70 milioni del Cipe. Ma il vertice dell’Ue "altamente simbolico" ha fatto notare il ministro della cultura Dario Franceschini, "ci rafforza anche nel percorso di recupero dell’ex carcere". Perché se i lavori sono già comunque decisi e dotati della necessaria copertura finanziaria, il coinvolgimento dell’Europa darebbe certo una marcia in più all’iniziativa italiana, che prevede la messa in sicurezza e la trasformazione in museo del penitenziario e la creazione di un approdo e di un eliporto per rendere raggiungibile l’isoletta, ma anche la riconversione degli spazi accessori in locali che possano ospitare incontri e convegni, nonché una scuola "di Alti Pensieri" da aprire ai giovani della futura classe dirigente europea. Il cantiere è partito e la messa in sicurezza della struttura ormai assediata da erbacce e tetti pericolanti, finanziata con 446 mila euro di fondi Mibact, sarà completata entro la fine di settembre. L’avvio vero e proprio dei lavori di restauro è invece previsto per l’inizio del 2017. La storia - S. Stefano fu scelta per la costruzione di un carcere che rispondesse agli, allora, imperanti dettami della salvaguardia della società "sana", mediante l’isolamento dei colpevoli ai fini dell’espiazione della "giusta pena". La costruzione dell’ergastolo fu l’ultimo atto della sistemazione urbanistica delle isole pontine, voluta da Ferdinando IV di Borbone, a prosecuzione delle imponenti opere, di uso collettivo e sociale, avviate da Carlo III a Napoli e nei territori del regno. Ferdinando infatti aveva deciso con il consiglio dei suoi ministri di fare delle isole pontine floride colonie. Nacque così un piano di interventi che prevedeva due direttrici: una, volta alla realizzazione di una serie di opere pubbliche; l’altra, al ripopolamento e alla trasformazione economica delle isole. Il piano dei lavori pubblici fu affidato alla direzione del Maggiore del Genio Antonio Winspeare, che si avvalse della collaborazione dell’architetto Francesco Carpi. Ma l’artefice materiale della realizzazione del carcere fu proprio il Carpi, il quale seguì tutte le fasi della costruzione sia sul piano strettamente architettonico che su quello riguardante le collaterali questioni amministrative. I lavori furono ultimati nel 1797: solo allora, il penitenziario poté allargare la propria capienza alle 600 persone previste dal progetto di Carpi; ma già in pieno XIX secolo si potevano contare quasi 900 detenuti. Il sovraffollamento carcerario, si sa, ha origini lontane. Il Panopticon - La ragione della forma circolare del carcere di S. Stefano, che pure si fonde mirabilmente con la linea curva dell’isolotto, è fondamentalmente ideologica. Nella seconda metà del Settecento, in Inghilterra e in Francia, venne maturando una riflessione che, pur investendo più direttamente il regime carcerario, si rivolge globalmente a tutte quelle che potremo chiamare "comunità coatte", nelle quali, cioè, molti individui vivono insieme non per libera scelta, ma perché costretti dalla loro comune condizione di sorvegliati: i pazzi perché non rechino danno a sé o agli altri, i malati per seguirne l’evolversi della malattia, i condannati perché non evadano, gli operai perché lavorino, gli scolari perché studino. Così la particolare forma del carcere rispondeva alla razionale volontà di chiudere e delimitare lo spazio che potesse consentire, nel contempo, al carceriere di guardare sempre il recluso e a quest’ultimo di sentirsi visivamente, e quindi anche psicologicamente, sempre controllato. L’opera teorica che spiega, illustra e ribadisce con insistenza quasi maniacale questa necessità di sorvegliare, perché le energie umane non vadano sprecate o non imbocchino sentieri devianti, è il "panopticon" di Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese. Esso è un vero e proprio trattato in forma epistolare mirante a dimostrare, come sia possibile, avvalendosi di un’idea architettonica, "ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente". Il panottico è il modello di reclusione che, meglio di qualsiasi altro, segue la trasformazione della prigione da "monumento" a "macchina", da spazio di morte a puro dispositivo disciplinare. Sottolineando la trasformazione di una mentalità punitiva, esso segue il passaggio da una morale di esclusione, di rifiuto, di lutto ad un progetto di recupero sociale degli individui tramite l’ammaestramento, il raddrizzamento: "Una sottomissione forzata conduce poco a poco ad un’obbedienza meccanica". Per quanto il Carpi potesse essere aggiornato sui più significativi orientamenti della cultura europea contemporanea, mancano prove certe della sua presa di coscienza; fatto sta, che il suo carcere a S. Stefano si avvicina per molti versi alle concezioni architettoniche ed ideologiche del Bentham finalizzate alla realizzazione di un panottico, una struttura cioè in grado di consentire, come dice il nome stesso, un controllo visivo a tutto campo: sorveglianza totale e visibilità totale. Dunque il potere deve sorvegliare continuamente perché nulla avvenga di male; il sorvegliato, a sua volta, deve essere continuamente visibile, e sapere di esserlo, perché così perderà la possibilità e la volontà stessa di fare il male. Quasi a giustificare tanta ansia di controllo, il Carpi fece apporre all’ingresso del carcere questa sintomatica frase: Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis victa tenet, stat res, stat tibi tuta domus, ovvero " fintanto che la santa giustizia tiene in catene tanti esemplari di scelleratezza, sta salda la tua proprietà, rimane protetta la tua casa. Gli ultimi anni - Dopo la seconda guerra mondiale, S. Stefano riprese la sua normale funzione di carcere giudiziario per ergastolani finché, il 2 Febbraio del 1965, fu definitivamente chiuso. Averlo chiuso è stato un atto di civiltà indipendentemente dai motivi contingenti per cui si lo si è fatto, ma da allora il complesso era stato esposto alle aggressioni del tempo, del clima e, soprattutto, del cieco vandalismo. Nel 1968 un privato aveva preso in affitto l’edificio per un canone annuo si dice, di sei milioni da versare allo Stato: pare che l’intenzione fosse di realizzarvi un grande complesso alberghiero, pur conservando integre le strutture settecentesche. Il progetto non è mai andato in porto, l’affitto è stato revocato, e continuò il processo di disfacimento. Fino ad arrivare ad oggi e con la promessa da parte del ministro Franceschini di volerlo recuperare: conservare il senso della nostra storia, vuol dire anche salvaguardare la memoria degli uomini e delle cose. Firenze: il battesimo in carcere (e gli altri 45 bimbi reclusi) Marco Gasperetti Corriere della Sera, 24 agosto 2016 I bambini sotto i tre anni costretti a vivere in un carcere sono 46. "Un autentico oltraggio alla dignità umana", commenta Luigi Manconi, presidente della Commissione tutela diritti umani del Senato. Così si ripetono tristi racconti di piccoli costretti a condividere dietro le sbarre la pena con le loro madri. L’ultimo caso, come scrive Jacopo Stomi sul Corriere Fiorentino, è quello di una bambina di 18 mesi che a settembre sarà battezzata a Sollicciano. Lo stesso carcere dove due anni fa si raccontò un’altra storia terribile: quella di Giacomo, un bambino di sei anni che da cinque viveva in cella con la madre. La legge prevede per le mamme detenute istituti di custodia attenuata e soprattutto case famiglia protette. "Per realizzare le quali non c’è bisogno di immaginare un’ardua e onerosa riforma - spiega Manconi - ma pochi calibrati interventi m cinque o sei città. Se questo non accadrà significa che manca la volontà politica e i diritti dei bambini continueranno a essere violati". La storia fiorentina ha suscitato sdegno e polemiche. E un’interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando del deputato e responsabile sanità del Pd, Federico Gelli. "Bisogna trovare urgentemente una struttura sorvegliata, che non sia un carcere, in grado di ospitare la bambina reclusa a Sollicciano - spiega il parlamentare che è anche un medico - perché crescere in queste condizioni rischia di compromettere irrimediabilmente la salute della bimba e di indirizzare la sua vita senza che quest’ultima abbia alcuna colpa. È opportuno un intervento anche per liberare gli altri 45 bambini e perché situazioni di questo genere non si verifichino più". Rossano Calabro (Cs): Sappe; detenuto aggredisce lo psichiatra e un agente zmedia.it, 24 agosto 2016 Un episodio di violenza si sarebbe verificato nel carcere di Rossano, dove un detenuto avrebbe usato comportamenti violenti nei riguardi di un ispettore della polizia penitenziaria, e avrebbe aggredito lo psichiatra. A denunciare l’accaduto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) e Damiano Bellucci, segretario nazionale. L’uomo, probabilmente affetto da disagi psichiatrici, si sarebbe già reso protagonista di episodi di violenza in altri istituti penitenziari. Il tutto sarebbe scaturito dalla richiesta del detenuto di stare in cella da solo, cosa non fattibile nel carcere di Rossano dove pare non esista neanche la sezione isolamento. "Il carcere di Rossano è ormai diventato un istituto con rilevanti problematiche - sostengono i sindacalisti - derivanti dalla particolare tipologia di detentivi reclusi. Infatti, oltre alla sezione dedicata ai detenuti islamici, quindi già condannati o sottoposti a procedimenti per reati di terrorismo internazionale, ci sono più della metà dei reclusi sottoposti al regime di alta sicurezza, perché appartenenti alla criminalità organizzata, oltre alla sezione dedicata ai detenuti sottoposti al regime di cui all’articolo 14 bis dell’ordinamento penitenziario". "Sarebbe opportuno - concludono - che l’amministrazione centrale provvedesse a riorganizzare in maniera diversa l’istituto di Rossano, alleggerendo anche i carichi di lavoro del personale che, negli ultimi anni, ha accumulato otre 20.000 ore di lavoro straordinario, con punte di oltre 500 ore pro-capite, mai retribuite". Migranti. Spinta di Renzi e Hollande. Missione europea per i rimpatri di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 24 agosto 2016 La proposta di non lasciare più ai singoli Stati la competenza, prudente Merkel. Il premier auspica che sulla manovra si usi lo stesso equilibrio per Spagna e Portogallo. La questione spinosa dei rimpatri dei clandestini e degli immigrati irregolari potrebbe nel prossimo futuro diventare materia europea e non più affidata ai singoli Stati nazionali. Se n’è discusso due sera fa, a cena, nel corso dell’incontro sulla nave "Garibaldi" fra Matteo Renzi, Angela Merkel e François Hollande. Anche per motivi giuridici - che si traducono in lunghi e complessi accordi bilaterali con i Paesi di provenienza - se la competenza dei rimpatri fosse affidata ad una regia europea, probabilmente quella dell’agenzia Frontex, il dossier rimpatri sarebbe più in discesa e acquisterebbe anche maggiore efficacia. In linea di massima sia Parigi che Roma sono d’accordo sul possibile cambiamento di competenze, e dunque sull’avanzare una proposta che possa essere adottata già nel prossimo Consiglio europeo. La cancelliera tedesca invece si è mostrata più prudente. Del resto l’incontro al largo delle coste di Ventotene sembra sia stato utile a mettere tanta carne al fuoco, in vista prima del Consiglio informale di Bratislava, a settembre, poi proprio di quello di dicembre, a Bruxelles. Si è discusso anche di crescita e in questo caso c’è un consenso di massima (con una prudenza della Merkel che vuole prima fare una verifica sui risultati pregressi) sul lancio di un piano "Juncker 2", più focalizzato su progetti strategici (digitale in primo luogo) e transnazionali. Argomento che verrà riaffrontato probabilmente in Slovacchia, mentre Juncker stesso sta lavorando per presentarlo il prima possibile ai 27 Stati della Ue. In tema di flessibilità c’è stato una sorta di accordo politico sulla comunicazione: mostrarsi meno divisi che mai rispetto alle proprie opinioni pubbliche, non enfatizzare in chiave interna eventuali dissonanze, soprattutto affrontare la stagione delle leggi di bilancio secondo un approccio "pragmatico e non ideologico", secondo le parole usate da Renzi e su cui la cancelliera si è mostrata d’accordo. In sostanza, per Renzi, dovrà essere "il buonsenso" a guidare il giudizio della Commissione sulla manovra italiana, ed è auspicabile che vengo usato "lo stesso tipo di equilibrio, o di pragmatismo, che nel recente passato è stato mostrato nei confronti di Paesi come Portogallo e Spagna". Un passo ulteriore è stata una riflessione sulla governance della Ue. La stessa Merkel si è mostrata in sintonia con il nostro premier sul processo decisionale della Ue - "ogni tanto bisognerebbe capire cosa succede fra un Consiglio e l’altro...", ha scherzato, Hollande è anche lui consapevole che gli attuali meccanismi di riunione, comunicazione e decisione sembrano in troppi casi adatti proprio a far aumentare lo scetticismo dei cittadini comunitari nei confronti delle istituzioni di Bruxelles. Ben vengano dunque tutte le iniziative possibili in grado di rafforzare la fiducia nella Ue. Da qui a dicembre, passando per Bratislava, sono dunque i progetti rivolti ai giovani, come il rilancio del programma Erasmus, ad avere più chance di trovare un consenso di tutti e 27 gli Stati. A bordo della portaerei "Garibaldi" si è discusso anche dell’ipotesi di lanciare pure un primo esperimento di servizio civile europeo, mentre la proposta italiana di definire in modo coordinato e nel lungo periodo un investimento sui luoghi di cultura, oltre che sui luoghi simbolo dell’Unione Europea, è stata accolta con curiosità e interesse anche a Bruxelles. In ogni caso la consapevolezza crescente dei tre leader è che bisogna offrire risposte non solo agli elettori, o ai cittadini, ma anche a quegli Stati, soprattutto del Nord Europa, che ora guardano a Londra, e alla Brexit, come qualcosa che potrebbe non essere tanto lontana. Occorre evitare che un effetto di emulazione possa contagiare altre capitali. E il prossimo referendum olandese sarà un test di importanza decisiva. Migranti. Alfano: "a settembre ricollocazione in Germania al via" di Katia Riccardi La Repubblica, 24 agosto 2016 Il ministro dell’Interno: "Ora ci aspettiamo che anche altri Paesi Ue si facciano carico dei profughi". Berlino rinforza controlli al confine svizzero. Weber (Popolari europei): "Chiudere le frontiere verso il Nord, verso l’Austria, al Brennero, non è una risposta". L’Europa fatica, rimanda a settembre. Il vertice di Ventotene con Renzi, Merkel e Hollande ha solo sfiorato il problema migrazione. "C’è una grande disponibilità della Merkel", ha detto ieri il premier italiano eppure secondo il ministro dell’Interno Angelino Alfano "la ricollocazione dei richiedenti asilo è stato il vero flop dell’agenda europea". "Oggi abbiamo avuto la notizia che da settembre centinaia di profughi ogni mese potranno andare in Germania", dice a Repubblica tv Alfano a margine del Meeting dell’Amicizia a Rimini, dove ieri ha incontrato l’omologo tedesco Thomas De Maizière. "Se parte bene con la Germania - aggiunge Alfano - noi riteniamo che finirà bene anche con gli altri Paesi Ue. Occorre ricordare che nel 2015 la Germania si è fatta carico di un milione di profughi, quindi se oltre a quelli già presi, la Germania si prende anche una parte dei nostri, vuol dire che anche gli altri Paesi europei lo potranno fare". Alfano ricorda che "abbiamo davanti due grandi sfide: l’economia e quella dei profughi. Sono due sfide difficilissime ma se trascuriamo la seconda avremmo dei popoli impauriti. Quello che dobbiamo fare è lavorare con un nuovo progetto di Europa che deve avere nella gestione dei profughi un pilastro essenziale, con il Migration Compact. Bisogna lavorare in Africa per non farli partire, accogliere i profughi, ridistribuirli in Europa e rimpatriare gli irregolari". L’Italia in testa. "La nostra ricetta?" continua il ministro, "Redistribuire in tutta Europa quelli che scappano da morte e violenza; rimpatriare gli irregolari ma dopo averli salvati. E polso duro con alcuni Paesi africani che prendono fondi per la cooperazione ma non lavorano come promesso e non riescono a fermare le migrazioni". Scettico Sandro Gozi, sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri con delega agli Affari europei: "Non c’è una sufficiente ridistribuzione dei migranti. Credo ci siano sufficienti condizioni per aprire procedure d’infrazione verso i Paesi che non hanno rispettato i loro impegni", dice in un’intervista a Il Mattino. "Non vedo - sottolinea Gozi - europe a due velocità. Sono in corso incontri preparatori in prospettiva del vertice di Bratislava". La posizione tedesca. Dalla parte della Germania proprio Thomas De Maizière, in un’intervista al Corriere della Sera, conferma che Berlino ha già iniziato a rinforzare i controlli di frontiera con la Svizzera. Secondo il ministro gli ingressi illegali in Germania dalla Svizzera di migranti sbarcati in Italia, siano stati 812 a luglio e 512 nei primi diciannove giorni di agosto: "È più dell’anno scorso", osserva, "anche se non è ancora realmente preoccupante". Il ministro ricorda che è in vigore un accordo fra Berlino, Berna e Roma secondo il quale tutti i migranti senza documenti diretti dall’Italia verso la Germania attraverso la Svizzera devono essere intercettati e rimandati indietro mentre transitano dalla confederazione. "L’Italia ha imparato le lezioni e ora si comporta in modo responsabile", dice. "Anche la Svizzera lavora con forza contro la tendenza a lasciar passare i migranti verso Nord. Ma bisogna che questo approccio sia confermato in futuro". Flussi migratori. Sul tema dei migranti, Tageszeitung scrive che nel comune di Rifiano vicino a Merano ci si prepara ad accogliere 25 profughi. Il giornale registra proteste della popolazione. E resta caldo anche il confine turco. Il ministro tedesco per gli Affari europei, Michael Roth, annuncia che sarà in Turchia tra il 25 e il 27 agosto, per una serie di incontri focalizzati sull’accordo per la gestione dei flussi migratori, siglato a marzo da Ankara e dall’Ue. Lo scrive la stampa turca, che cita fonti ufficiali tedesche anonime secondo le quali l’accordo "appare sempre più precario". Dopo il fallito golpe del 15 luglio, Ankara ha lamentato una scarsa solidarietà da parte dei paesi europei, minacciando di sospendere l’accordo, anche a causa della mancata revoca dell’obbligo dei visti per i cittadini turchi in arrivo nell’area Schengen. Fronti a rischio. Che l’Ue dovrebbe intervenire subito su terrorismo e migranti, è quanto pensa Manfred Weber, capogruppo dei popolari europei: "Per lotta contro il terrorismo serve un archivio europeo dei soggetti pericolosi. Sui migranti dobbiamo concentrarci di nuovo sul Mediterraneo. Su questo non possiamo lasciar sola l’Italia. Chiudere le frontiere verso il Nord, verso l’Austria, al Brennero, non è una risposta adeguata" dice in un’intervista alla Stampa, "un’Europa che punta sull’egoismo, come vediamo ad esempio nei Paesi del Gruppo di Visegràd sui migranti, non può funzionare", sottolinea. Migranti. Reportage dai campi di transito. Ventimiglia, numeri, pullman e container di Geraldina Colotti Il Manifesto, 24 agosto 2016 Si sale su per i sentieri di Ciaixe, fra gli ulivi della Val Nervia, sopra Ventimiglia. Colori abbaglianti. E all’orizzonte, il mare. Sulla collina, tra le tipiche fasce liguri, una trentina di tende da campeggio. Giovani e meno giovani si danno da fare con un forno improvvisato, un gruppo di migranti, in circolo, tiene un’assemblea. Sono gli ultimi due giorni di campeggio dei No Border. Si prepara una festa con vino, pizza fritta e balli, proiezione di film e dibattito. Si scherza sui 60 fogli di via, e sull’"avviso orale di pericolosità" arrivato a uno di loro. "L’unica frontiera è tra sfruttati e sfruttatori", recita uno striscione. Appeso ai tronchi, il disegno di una nave pirata, e drappi rosso-neri. "Vedi quanto pericolo c’è qui? - dice una ragazza in canottiera e calzoncini. Ci addestriamo a fare le pizze, non la guerriglia come strillano i giornali". I jihadisti? Indica il bottiglione di vino e la tenuta non certo castigata delle donne: "Qui l’unica minaccia sono le deportazioni quotidiane, i fogli di via e la repressione". E racconta dei trenta kg di pesce offerti dai pescatori ai migranti che sono andati a incontrarli sulla spiaggia, durante i mesi di autogestione "fuori dai percorsi tracciati": prima l’anno scorso ai Balzi Rossi, in seguito a Roverino, e poi lungo la ferrovia, poco distante dal campo di transito gestito dalla Croce Rossa. E infine per qualche settimana qui, sotto gli ulivi. Legami forti e nazionalità diverse, dall’Europa e da fuori, "prefigurano un altro mondo in cammino" . I volti dei migranti cambiano, il loro obiettivo è provare a passare. C’è chi li accompagna, rischiando di persona. Già due persone, definite "passeur" e "no border" sono state arrestate in Francia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver portato due famiglie. Entrambi hanno rivendicato il gesto: "Dignità, libertà, hurriya, senza frontiere, né galere". Si avvicina un ragazzo africano: "Questa è l’Europa che vogliamo", dice rivolto ai solidali. Un ventenne del Chad, invece, rifiuta di raccontare la sua storia, perché "sono confidenze riservate agli amici". Tra una crocchetta e un bicchiere di vino, parlano invece alcuni sudanesi. Il più anziano lo chiamano il Poeta, per il linguaggio figurato che usa e che la traduttrice dall’arabo cerca di rendere al meglio. Dice di ammirare Mandela e Lumumba. Racconta di aver lasciato il Sudan per motivi politici, perché fa parte del partito di opposizione Giustizia e condivisione, "che vuole più educazione e sicurezza, è contro il razzismo e gli stupri sulle donne e per una Primavera araba anche in Sudan". Per sfuggire "alla violenza dello stato", il Poeta avrebbe voluto andare in Israele, "ma il valico di Rafah era chiuso. Così - racconta - sono andato prima in Chad, poi a lavorare per un anno e mezzo in Libia, dove sono stato picchiato da gruppi armati. Mi hanno spezzato un dito e i colpi in testa mi hanno fatto venire un’infezione interna. Voglio andarmi a curare in Francia, lavorare e recuperare la mia famiglia, ma ogni volta mi riportano indietro". Anche il più giovane è stato in Libia per tre anni, dov’è stato picchiato e rapinato della paga. Viene dal Kordofan, una ex provincia nel centro del Sudan: "un luogo di guerra, dove se esprimi un’opinione, ti creano problemi. Tuttavia - aggiunge - dopo quello che ho vissuto in Italia vorrei tornare in Libia, e più ancora in Sudan. Credevo di trovare la patria dei diritti umani, invece non ho trovato un cocomero. Sono stato portato avanti e indietro senza spiegazione". Mostra le cicatrici sulla schiena e racconta: "Da Imperia mi hanno deportato in Sicilia. Mi hanno preso le impronte e chiesto dove volevo andare. Ho risposto: in Francia o in Germania. Mi hanno detto: vai. Non avevo niente, sono arrivato a Genova, ho chiesto un’informazione e la polizia mi ha deportato a Taranto. Da lì sono andato di nuovo verso la frontiera. Mi hanno fermato a Ventimiglia e riportato a Taranto. Perché mi dicono "vai" se poi mi riprendono? Perché hanno chiuso la frontiera con la Francia? Con tutto il tempo che ho passato in pullman sarei potuto tornare in Sudan". Adesso è notte, nello spiazzo ci si abbraccia e si balla, la luna accende gli sguardi, il vino le parole. Circola l’idea di un crowdfunding: per acquistare tutti insieme un terreno dove chi vuole può fermarsi, coltivare la terra e occuparsi degli ulivi all’abbandono: per "resistere e organizzarsi, senza aspettare a testa bassa di essere selezionati nell’esercito industriale di riserva di quest’Europa a filo spinato". Per entrare al campo di accoglienza temporaneo Parco Roja ci vuole l’accredito della Prefettura. Fuori, staziona un furgone di polizia. Dentro, c’è una postazione fissa dei carabinieri. A chi vuole entrare, viene dato un tesserino con nome e foto, ma non si prendono impronte. Funziona dal 9 luglio su disposizione della Prefettura, è gestito dalla Croce Rossa con il supporto di Caritas e di Articolo 21, un arco di associazioni. "Una struttura concepita per accogliere 360 persone su 60 moduli abitativi ognuno con 6 posti - spiega Valter Muscatello, responsabile del campo - ma poi il numero è salito a 600 e stiamo provvedendo, anche se i flussi si stanno normalizzando". Nei container c’è aria condizionata, il campo è pulito, ci sono le docce, l’infermeria e uno spazio per la preghiera. Alcuni giovanissimi palleggiano, altri giocano a carte. Problemi con il cibo e botte dai poliziotti? Muscatello nega. "Siamo professionisti dell’accoglienza. Per la gestione del campo ci avvaliamo di alcuni saggi, che ci spiegano le esigenze del gruppo". I Solidali? "A ognuno i suoi ideali. I giornali creano allarmi e speculazioni, come per la morte del poliziotto: è stato un infarto, lo abbiamo soccorso noi. Un incidente sul lavoro, purtroppo, nient’altro". E ora la questura di Genova ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti del sostituto commissario di polizia Franco Scibilia, che durante un servizio a Ventimiglia aveva urlato insulti ai migranti sulla scogliera dei Balzi Rossi ed era stato filmato da un giornalista. "La gran parte degli ospiti non vuole rimanere, abbiamo poche richieste di asilo e 4 richieste di rimpatrio - dice Muscatello - per chi vuole ritrovare le famiglie il nostro personale dà l’accesso a un cellulare per 3 minuti". Dal 10 agosto, dopo il "piano di decompressione" del capo della polizia Franco Gabrielli, sono oltre 500 i migranti trasferiti negli hotspot e nei Cie del Sud. Vengono rastrellati per strada e fatti salire sui pullman per Genova. Alla chiesa dei Gianchetti, dopo il cimitero, c’è odore di minestra. Anche qui si entra con il tesserino, ma senza polizia. Ci sono soprattutto donne e bambini. Ci accoglie Francesca, della Diaconia valdese, che fa parte di Articolo 21. Ha una formazione giuridica e fornisce consulenze legali. "Andiamo alla stazione - spiega - intercettiamo i migranti, forniamo informazioni prima che vengano presi dalla polizia, li accompagniamo in macchina. La cosiddetta decompressione è una vera e propria deportazione: anche dei migranti che hanno il tesserino e di quelli che hanno avviato la rilocation - eritrei, iracheni e siriani che possono essere accolti in altri paesi. Vanno alla stazione per il wifi e vengono presi. Con l’avvocata Ballerini abbiamo parlato con il commissariato, ma… Fra chiusure e lungaggini, anche programmi buoni sulla carta, sono un fallimento. La convenzione di Dublino è un fallimento". Migranti. Egitto e Sudan, no ai rimpatri di Luigi Manconi Il Manifesto, 24 agosto 2016 È necessario disporre di informazioni precise sulla situazione giuridica di ciascuna delle persone, prima di rispedirle nel paese d’origine. Da notizie diffuse in queste ore apprendo che, tra domani e dopodomani, è previsto un volo dall’Italia diretto a Khartoum, con scalo a Il Cairo, per riportare a casa i migranti egiziani e sudanesi che non hanno trovato accoglienza in Italia. Si tratta di due paesi, l’Egitto e il Sudan, in cui la tutela dei diritti umani non è garantita, come dimostrato anche dalla cronaca recente. Nel caso si trattasse di rimpatri volontari assistiti, ciò sarebbe il segnale di una possibile ripresa della politica italiana in materia di immigrazione e di cooperazione internazionale. Ma se così non fosse, e i rimpatri fossero coatti, sarebbe necessario disporre di informazioni precise sulla situazione giuridica di ciascuna delle persone rimpatriate. Pensiamo al Sudan, a quanto sia ancora drammatica la situazione in quel paese e al numero consistente di richiedenti asilo sudanesi che in Italia - e più in generale in Europa - ricevono forme di protezione: nel 2015 il 60% delle richieste d’asilo di persone d’origine sudanese sono state accolte. E pensiamo all’Egitto, dove le violazioni dei diritti umani e delle garanzie fondamentali della persona rappresentano una pratica quotidiana e sistematica, documentata e denunciata dalle grandi agenzie internazionali e da tutte le ong. Proprio alla luce del grande sforzo fatto dal nostro paese per accogliere e tutelare i profughi che attraversano il Mediterraneo, non possiamo correre il rischio di rimpatriare nessuno senza adeguate garanzie sulla sua incolumità, anche fosse una sola persona. Droghe. No cannabis club a Torino, siamo italiani di Susanna Ronconi Il Manifesto, 24 agosto 2016 All’alba del 18 agosto la procura ordina una irruzione al Centro sociale Gabrio, trovandovi 60 piante di marijuana e una modesta quantità di foglie essiccate. Due persone denunciate ex articolo 73 della legge sugli stupefacenti e sequestro delle piante. "Si sequestra in misura infinitamente più ampia la sostanza meno dannosa rispetto a quelle ben più nocive se non letali", denuncia la Direzione Nazionale Antimafia (Dna) nel prendere posizione a favore della legalizzazione della canapa. La canapa viene infatti sequestrata fino a 150 volte più di altre sostanze, e la gran parte delle persone segnalate alle Prefetture consuma canapa. Molto più utile sarebbe, per la Dna, passare da una inefficace repressione a forme di controllo "civili". Non sembra pensarla così la Procura di Torino, che all’alba del 18 agosto in una sonnolenta Torino ferragostana, ordina una irruzione al Centro sociale Gabrio, trovandovi 60 piante di marijuana e una modesta quantità di foglie essiccate. Due persone denunciate ex articolo 73 della legge sugli stupefacenti e sequestro delle piante. La pratica dell’autocoltivazione è da sempre pubblicamente sostenuta dal Gabrio, uno dei centri sociali italiani più attivi, informati e competenti nel discorso e nella pratica antiproibizionisti. L’appuntamento annuale della Festa della semina rende esplicita questa scelta, lavora per sottrarre alle narcomafie un mercato lucroso e si spende per la promozione di un consumo consapevole, più sicuro e informato attraverso una cultura della riduzione dei rischi. "Siamo consapevoli - dicono - che praticare coerentemente l’antiproibizionismo significa disobbedire a leggi ingiuste e sappiamo che può portare ad affrontare forme di repressione. Siamo d’altronde sicuri che l’autoproduzione sia l’unico sistema per scardinare il sistema delle narcomafie da un lato e del controllo sociale oscurantista dall’altro. L’autoproduzione è condivisione, non spaccio". Le 60 piante non sono destinate al mercato, ma a una condivisione solidale e gratuita: nessun contributo della polizia torinese alla lotta ai trafficanti, in questo caso. Sull’autocoltivazione ad uso personale da decenni si alternano sentenze nell’una o nell’altra direzione, che espongono i consumatori a una lotteria scandalosa sul piano del diritto e dei diritti. La politica sta faticosamente cercando di colmare questa colpevole assenza, portando al dibattito nell’Aula di Montecitorio la proposta di legalizzazione dell’intergruppo dei 300 parlamentari, mentre da marzo va avanti la campagna promossa da alcune associazioni - tra cui Luca Coscioni, Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione - per una proposta di legge di iniziativa popolare (www.legalizziamo.it). I due testi si richiamano, ma anche si differenziano su alcuni aspetti, e la storia del Gabrio ne mette in evidenza soprattutto uno: quello della liceità dell’autocoltivazione per uso personale individuale e di gruppo, che conviva con la regolazione della produzione e della vendita a livello commerciale. La proposta delle associazioni, oltre ad addolcire l’impeto monopolista di quella parlamentare prevedendo, per la parte commerciale, un più articolato sistema di licenze, prevede non solo la coltivazione personale (regolamentata se oltre le 5 piante) ma anche quella di gruppo, con i Cannabis Social Club (Csc) che non debbono superare i 100 soci, non devono prevedere attività commerciali e sono sottoposti a precise regole di gestione. Una differenza che non solo esprime una cultura più attenta alle libertà dei singoli, ma che è capace di cogliere e valorizzare dinamiche sociali "dal basso". Se si fosse in Spagna, in Belgio o in Slovenia già oggi la coltivazione e condivisione del Gabrio sarebbe un Csc, legale o para legale o tollerato, a seconda dei contesti nazionali. E, a proposito, ai sensi della legge di iniziativa popolare - ma anche dei Csc europei - le 60 piante sequestrate sarebbero lecite se il gruppo fosse di 12 persone, 5 piante a testa. Al Gabrio i soci sono molti di più. Se non fossimo in Italia, sarebbero moderati e virtuosi. Jihad e giustizia. Il nemico che dobbiamo imparare a riconoscere di Paolo Graldi Il Messaggero, 24 agosto 2016 Giocano di astuzia, di basso profilo e di cattiveria simulata, si nutrono d’odio liquido, si affidano ad Allah e aspirano al "martirio": spesso li conosciamo senza saperli riconoscere. Sono pericolosi perché davvero irriducibili, ovunque li porti la loro storia. Sono cangianti come onde e le loro conversioni portano luttuosi presagi. Sono fantasmi in carne ed ossa, sono fra noi. Occorrerà un ulteriore sforzo di realismo e di verità depurate dalla propaganda un tanto al chilo: il problema dei foreign fighter, degli imam esaltati d’integralismo, dei predicatori improvvisati e tuttavia non privi di seguito, gli sbandati accidentali e i convertiti per mancanza d’altro rappresenta già oggi un grumo complesso e denso di materiale altamente esplosivo. Problema carceri. Si sa, sono utilizzate come terreno fertile per la radicalizzazione, l’individuazione di soggetti adatti alla manipolazione. Sono, dapprima, per lo più reclusi per reati comuni e perciò stesso disponibili a cambiare status, pensando di affrancarsi da una condizione irreversibile. Le attuali norme, ancorché riformulate da circolari in senso restrittivo, mostrano tuttavia maglie larghe e una sorveglianza compressa dal "filtro" della lingua straniera, dei dialetti, della comunicazione contraffatta in chiave di slang. Come accade per i network intessuti dalla malavita organizzata - aspetto rilevato con preoccupazione anche nelle analisi del ministro Alfano - i contatti all’interno dei reclusori e quelli con il mondo esterno si trasformano in cellule attive, ancorché dormienti. Le storie di personaggi qualificati a bassa intensità criminale (spaccio di droga per lo più) processati e condannati (qualcuno per istigazione al terrorismo) configurano l’abitudine a ripetere gli stessi schemi di comportamento. Una volta liberi questi soggetti si riattivano, scompaiono dai radar investigativi e di controllo tradizionale per immettersi, meglio dire immergersi, nel circuito che alla fine prevede il loro utilizzo per un attacco. Lo si è visto con chiarezza in Belgio e in Francia nella ricostruzione delle vicende personali e criminali di giovani poi riapparsi sulla scena dei sanguinari assalti al Bataclan e altri luoghi di ritrovo. Anche da noi in Italia l’arresto, la condanna, la pena scontata con gli sconti e poi la scarcerazione di alcuni pericolosissimi soggetti che era impossibile trattenere ancora, si è trasformata presto in un vivo allarme sulle loro intenzioni. L’altra questione di centrale interesse riguarda i decreti di espulsione decisi dal Viminale. Procedure lente e complesse, con controparti poco sensibili a farsi carico dell’ingombrante passeggero. Anche in questa materia occorre guardare avanti, con lucida lungimiranza. È auspicabile che non sia l’esperienza vissuta e magari patita a suggerire o imporre aggiornamenti o aggiustamenti anche legislativi. Sarebbe assai meglio mettere mano alla materia prima che si manifestassero falle ed effetti indesiderati (come nel passato) imposti da qualche altro disastro non abbastanza previsto nel suo formarsi e nel suo divenire. L’amministrazione Gabrielli sta ponendo il massimo di attenzione a queste dinamiche. C’è gente che viene espulsa dall’Italia e nel proprio paese d’origine, forse godendo di alleanze mai dissolte e di occulte complicità, si rimette al servizio delle falangi del terrore, con in più portando in dote l’esperienza maturata nei luoghi dove ha trovato, da noi, aperta ospitalità. Le campagne di reclutamento di aspiranti "martiri" del resto, sono un altro segnale delle strategie sempre più diversificate che le centrali di comando dell’Isis lanciano sulla scorta delle mutate condizioni dentro l’aspro confronto sui terreni di guerra. Sotto questo profilo, senza voler alimentare polemiche fin troppo scadenti sulla identificazione di chi approda sulle nostre coste, l’analisi del problema ha bisogno di aggiornamenti e aggiustamenti con l’apporto di mezzi adeguati a fronteggiare la crescente ampiezza del fenomeno. I vertici tra capi di Stato e di governo ci dimostrano che su questa delicata materia molta strada andrà percorsa per approdare a intese e linee di condotta condivise nelle parole e nei fatti. Lasciate a se stesse le situazioni fuori controllo sono soltanto destinate a peggiorare. E di peggio non possiamo certo augurarci. Il bene supremo e virtualmente intangibile delle libertà personali integrali andrà coniugato, di fronte a mutate realtà, con le regole adatte al momento e al loro rispetto. La cronaca s’incarica ogni giorno di mostrarci il rischio che tutto ciò che dobbiamo proteggere si trasformi, per debolezza o insipienza, in una dolorosa utopia. Il termometro dei fatti deve restare sempre acceso. Il groviglio che sta uccidendo la Siria di Paolo Mieli Corriere della Sera, 24 agosto 2016 Nel 1995 le truppe di Mladic massacravano nei Balcani i civili musulmani senza che le Nazioni Unite intervenissero: oggi accade lo stesso alla città vittima delle bombe e della nostra confusione geopolitica della guerra allo jihadismo, per cui Assad è arruolato. Quando si osserva quel che sta accadendo ad Aleppo la memoria ci rimanda al luglio di ventuno anni fa allorché in quel di Srebrenica le truppe serbo bosniache guidate dal generale Mladic sterminarono migliaia di musulmani senza che i soldati olandesi delle Nazioni Unite riuscissero a impedirne l’eccidio. In Siria è lo stesso. Con la differenza che il numero degli uccisi è molto più grande e l’impotenza dell’Onu molto più evidente. E sì che la Russia ha accettato la tregua di quarantotto ore finalizzata a un primo soccorso alla popolazione martoriata, povera gente che, secondo l’inviato speciale dell’Onu Staffan De Mistura, non riceve aiuti dal 30 aprile scorso; ma tarda a giungere il momento della pur minima sospensione del conflitto. Già sappiamo che la sanguinosa estate di Aleppo verrà messa nel conto del dispotico regime di Assad il quale, secondo i rapporti di Amnesty International e delle stesse Nazioni Unite, si è ormai indelebilmente macchiato di ogni genere di nefandezza: uccisioni in massa nell’ordine delle centinaia di migliaia di esseri umani, distruzione di intere città, uso di gas, torture e stragi nelle carceri. Ciò che ha provocato un esodo di milioni di persone da quello sfortunato Paese. Eppure siamo costretti a registrare che dall’inizio del conflitto (2011) o quantomeno da un’altra estate, quella del 2013 - nella quale il presidente americano rinunciò a intervenire in Siria nonostante l’esercito di Assad avesse manifestamente oltrepassato la "linea rossa" dell’uso di armi chimiche da Obama fissata come confine varcato il quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente a sostegno dei ribelli - a poco a poco l’Occidente ha modificato la propria considerazione del regime siriano. Soprattutto dopo che, nell’estate successiva (2014), è nato il Califfato islamico. E mentre lo stesso presidente statunitense rivelava di essersi pentito per aver dato luce verde all’intervento in Libia atto a disarcionare e uccidere Gheddafi, in Siria le potenze occidentali si sono viste costrette a "riabilitare" in qualche modo Assad. Sicché è stato come se avessimo ammesso che la nostra opzione ideale sarebbe stata di adottare in Libia gli stessi comportamenti: prima appoggiare disordinatamente i suoi oppositori per poi fare dietrofront così da poter delegare al dittatore di Tripoli la battaglia contro la deriva islamistica. Va aggiunto che abbiamo dovuto compiere questa "svolta" nella condizione più mortificante, cioè messi con le spalle al muro dall’iniziativa politica, diplomatica e militare di Vladimir Putin. Il 30 ottobre 2015 "fonti" del Congresso americano annunciarono che gli Stati Uniti avrebbero inviato in Siria una trentina di soldati "non per combattere, ma per addestrare, consigliare e assistere" i combattenti anti-Isis e aiutarli a riconquistare Ramadi nella provincia di Al Anbar. Il viceministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov, ebbe così modo di cogliere in castagna quelle "fonti" ricordando che secondo il diritto internazionale nessun militare poteva entrare in territorio siriano senza averlo concordato con il regime di Assad. Già, Assad. In una conferenza a Nancy (febbraio 2016) l’arcivescovo greco melkita cattolico di Aleppo Jean-Clément Jeanbart ha accusato la Conferenza episcopale francese di eccesso di correttezza politica "al cospetto di quel che realmente accade in Siria", di "aver paura di parlare", di essere restati in un "silenzio che, a volte, è segno di acquiescenza". E di "mancanza di obiettività" per quel poco che fino a quel momento la Conferenza aveva detto. Il presule non è stato affatto reticente sulle atrocità commesse dal regime di Damasco ma ha poi detto in termini assai chiari che "non si può rimanere sospesi tra lo Stato Islamico e il governo siriano". È scandaloso, ha aggiunto come l’Occidente abbia sostanzialmente coperto i "misfatti delle forze di opposizione". Nel caso specifico non si riferiva soltanto all’Isis ma anche alla fazione qaedista di Al Nusra che, pur avendo cambiato nome, funge da spina dorsale alle forze di liberazione anti Assad protagoniste, tra l’altro, della battaglia di Aleppo. Ed è qualcosa, questa presenza di una filiazione di Al Qaeda tra i "buoni", che per troppo tempo si è sottovalutata. Nei giorni scorsi, nei pressi di Sirte, i miliziani del generale Haftar (il quale evidentemente ha ancora un grande ruolo nella contesa libica) hanno catturato un importantissimo reclutatore dell’Isis, Moez Al Fezzani - nome di battaglia Abu Nassim, già operativo in Italia, in Pakistan, in Bosnia - che in Siria aveva combattuto con Al Nusra prima di dar vita, per conto del Califfato, al "Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento". Cambiano le sigle delle formazioni jihadiste ma i confini tra una e l’altra sono ancora assai labili e gli uomini spesso sono gli stessi. Questo caos ha avuto come effetto una valanga di ripensamenti da parte di intellettuali non sospettabili di aver mai avuto cedimenti nei confronti del regime di Damasco. Michael Walzer è stato netto: "In Siria bisogna assolutamente evitare che l’Isis si espanda altrove; ci si deve alleare con la Russia nonostante i misfatti commessi in Ucraina". L’allieva di Lucàks, Agnes Heller, ha proposto un paragone storico: "L’islamismo è il nazismo contemporaneo e va combattuto allo stesso modo… Assad è un orribile dittatore ma contro questi terroristi accetterei anche lui. Contro Hitler, Churchill e Roosevelt si allearono con Stalin, eppure i gulag erano pieni". Esplicito Michael Ignatieff : "Assad deve rimanere al suo posto, almeno per ora. Ormai lo hanno capito tutti anche se non si può dire. Far cadere oggi Assad con metà territorio in mano agli jihadisti sarebbe un errore, il male peggiore". Ancora più esplicito Marek Halter: "Anche in Siria una volta sgominate le legioni dell’estremismo islamico, potremo sostenere una vera opposizione al regime di Damasco. Ma un’opposizione diversa da quella che ha ottenuto cinquecento milioni di dollari dall’amministrazione Usa con cui ha acquistato armi per donarne la metà alle brigate di Al Qaeda. Ogni cosa a suo tempo. Credo che per una volta abbia ragione Vladimir Putin: dobbiamo negoziare con Assad". Aleppo è vittima di missili e bombe che vengono dal cielo e dalla terra. Ma del groviglio in cui è rimasta intrappolata, una parte rilevante è riconducibile alle incertezze e ai contorcimenti della nostra guerra allo jihadismo. O meglio: della risposta alla guerra che lo jihadismo ci ha dichiarato. Una risposta confusionaria al punto da non avere precedenti nella storia. Yemen. Ecco dove colpiscono le bombe "made in Italy" di Michele Sasso e Giovanni Tizian L’Espresso, 24 agosto 2016 Gli ordigni sganciati sullo Yemen imbarazzano Roma. E alzano il velo anche sul traffico d’armi con l’Egitto del dittatore Al Sisi. I caccia F15 della Royal Saudi Air force sfrecciano nei cieli dello Yemen. Da oltre un anno sganciano bombe a pioggia. I raid si susseguono senza sosta. Partono dalle basi a sud di Ryad. In pochi minuti raggiungono l’obiettivo, lo distruggono e tornano indietro. Una meccanica mortale, che costringe intere famiglie all’esilio. Ma è una sigla incisa su un ordigno che fa di quel conflitto lontano una carneficina che ci riguarda da vicino: MK83, un modello prodotto da Rwm Italia. Questo marchio di fabbrica sta creando forte imbarazzo al governo Renzi, che ora deve affrontare una situazione paradossale. Ad aprile, infatti, sono sbarcati sulle coste siciliane i primi profughi yemeniti messi fuga dai bombardamenti con le MK83. Questa è la stessa bomba da 460 chili fotografata da Ole Solvang - ricercatore della ong Human Rights Watch - sul campo di battaglia. Mimetizzata tra le macerie di un palazzo di Saana, a soli cinquanta chilometri dal confine, c’è la prova dell’utilizzo di ordigni made in Italy da parte della coalizione a guida saudita. Così partecipiamo indirettamente alla guerra tra i ribelli sciiti Houthi, graditi all’Iran, e le forze governative appoggiate dal potente vicino sunnita che ha dispiegato aerei, truppe di terra e imposto il blocco navale. "Basta bombe fabbricate in Italia sullo Yemen", una petizione per fermarle - Su Change.org è stato lanciato un appello affinché il governo Renzi si occupi di fermare la fornitura di ordigni all’Arabia Saudita, che già nei mesi scorsi li ha usati per attaccare lo Yemen. In ripetuti attacchi anche sui civili, alcuni dei quali si configurano come crimini di guerra. Le autorizzazioni all’export dell’industria bellica, infatti, le rilascia il nostro ministero degli Esteri. Regola che vale anche per le armi assemblate dalla succursale italiana dal colosso tedesco Rheinmetall Defence. La società si chiama, appunto, Rwm Italia Spa. Sede operativa a Domusnovas, nel cagliaritano. Proprio da qui, nel 2015, sono partite cinquemila bombe. Un quinto in più rispetto all’anno precedente. La fabbrica ha prodotto armamenti per 41 milioni di euro contro i 27 milioni del 2014. È nei momenti di crisi e tensioni globali che i guadagni del settore crescono. Il valore delle armi - La guerra in Yemen, lontana dagli occhi, vicina agli interessi nazionali. Nel 2015 il valore dell’export di armi è più che triplicato. La cifra record dal dopoguerra è di oltre 8 miliardi e duecento milioni di euro. Il giro d’affari è contenuto nella relazione del governo sul "controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento", presentata alle Camere il 18 aprile scorso. Tuttavia il rapporto non dice tutto. "Del totale fanno parte oltre 3 miliardi di euro per i programmi di cooperazione che riguardano principalmente i paesi Nato e Ue: programmi che la Farnesina considera un tutt’uno insieme alle reali autorizzazioni alle spedizioni all’estero, contribuendo così a falsare le percentuali delle licenze per paesi e per zone geopolitiche", sottolinea Giorgio Beretta dell’ Osservatorio sulle Armi Leggere , che critica la scarsa trasparenza: "La relazione è ormai praticamente inutile per conoscere i dettagli delle operazioni. Tranne i valori monetari complessivi e i generici materiali militari suddivisi per paese il documento non indica nemmeno quest’anno quali siano i destinatari delle 2.775 autorizzazioni rilasciate". Nel report governativo è facile perdere l’orientamento tra tabelle e codici. Non per gli analisti, che hanno ricavato qualche informazione utile: 5 mila bombe partite dalla Sardegna per varie destinazioni. Molte di queste utilizzate dalla Royal Saudi Air force nella guerra in Yemen. E che dire degli oltre 3.600 fucili della Benelli forniti alle forze di sicurezza del regime egiziano di Al Sisi, che sta cercando di ostacolare le indagini sull’omicidio di Giulio Regeni. Per ricostruire le spedizioni "incriminate" verso Ryad occorre leggere con attenzione l’esposto inviato alla procura di Roma dalla "Rete disarmo" che punta il dito contro "noti da identificare" per la violazione della legge 185 che regola l’esportazione di armamenti: il 29 ottobre 2015 "diverse tonnellate di ordigni e munizioni sono state imbarcate all’aeroporto civile di Cagliari Elmas, su un cargo Boeing 747 della compagnia Silk Way dell’Azerbaigian, con destinazione diretta Arabia Saudita. Il cargo in questione, rintracciato dai sistemi di rilevamento, è giunto a Taif località in cui è situata un base militare della Royal Saudi Armed Forces", si legge nel documento in mano ai pm. Gli autori della denuncia precisano, poi, che tra il 2015 e inizio 2016 sono state perfezionate diverse spedizioni (almeno sei) "di ordigni militari assemblati in Italia alla volta dell’Arabia Saudita". Inoltre, "diversi documenti e comunicazioni diplomatiche provano la l’invio di componenti di bombe dal territorio della Ue alla penisola arabica". Ulteriori spunti "investigativi" li forniscono le carte, menzionate nella denuncia, che spiegano come "alcuni pezzi siano partiti dal porto di Genova e siano arrivati a Gedda, in Arabia Saudita. Da lì sono stati trasferiti a Jebel Ali, a Dubai, e poi via terra a un centro di produzione di armi di Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti. Il tutto è salpato da Genova perché realizzato in Sardegna dalla RWM Italia". Anche in Germania è diventato un caso l’affaire bombe. Il partito di sinistra della Linke ha chiesto conto al governo del commercio da parte della società tedesca in territorio saudita. Il chiarimento è arrivato dal ministero dell’Economia: "Quella della Rwm è un’esportazione italiana". Merkel e la sua squadra negano ogni responsabilità. La risposta, però, non assolve del tutto Berlino, che resta grande protagonista di questo business. Il settimanale "Der Spiegel" ha quantificato in 180 milioni il business bellico con la monarchia saudita. Il dato si riferisce ai primi mesi del 2015, in pieno conflitto. L’incontro tra Gentiloni e il Re - Dopo l’esposto consegnato a piazzale Clodio, sul tavolo del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sono arrivate diverse interrogazioni parlamentari. Le risposte, però, non hanno soddisfatto né deputati né attivisti per i diritti umani: "L’Italia rispetta, ovviamente, le leggi del nostro Paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali, sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati" ha spiegato in aula. In un successivo intervento, poi, ha chiarito che "l’Italia riconosce il diritto dell’Arabia Saudita a difendere la propria sicurezza". Alcuni mesi dopo quelle parole, il 2 giugno 2016, Gentiloni è volato a Gedda per incontrare il re. Un primo incontro per promuovere la tecnologia e il brand italiano. Ancor prima era stato il premier Matteo Renzi a volare dai sauditi per stringere accordi bilaterali. Sul piano economico l’Arabia è il nostro principale partner commerciale nel Golfo e il quarto fornitore di petrolio. Di fronte agli accordi commerciali in grado di muovere miliardi di euro, ecco che i processi sommari, la pena di morte (nell’ultimo anno un’esecuzione capitale ogni due giorni), l’oppressione delle minoranze, delle donne e degli omosessuali, diventano dettagli irrilevanti. Quasi 26mila le vittime civili - Eppure dovremmo sentire il peso di una responsabilità maggiore. Perché gli uomini e le donne che fuggono dal Corno D’Africa sbarcano anche sulle nostre coste. A fine aprile insieme ai tanti migranti c’erano anche i primi yemeniti. Sessantasei arrivati e accolti dall’Italia per chiedere asilo politico nei primi 7 mesi. Esportiamo bombe e importiamo rifugiati. Il cinismo nel nome degli affari. Secondo il centro legale per i diritti e lo sviluppo - una ong locale - si contano già più di 9mila morti, quasi 26 mila vittime tra i civili, 16.690 feriti e 2 milioni e 400 mila sfollati. Fuori da questi numeri ci sono ventisei milioni di persone che necessitano di urgenti aiuti. A. ha 23 anni, fino a gennaio viveva a Sanaa con sua moglie e tre figli. È uno dei migranti sbarcato a Lampedusa: "Quando gli Houthi sono arrivati in città hanno cercato di ingrossare la milizia reclutando i civili: chi si rifiuta viene rapinato, arrestato o ucciso. Insieme a mio fratello sono finito in carcere ma mentre io sono stato rilasciato di lui non sappiamo nulla". Nei mesi precedenti A. aveva perso anche il padre durante un attentato alla moschea. Il suo quartiere, vicino alla casa presidenziale, è uno dei più colpiti dai raid aerei. Per mettersi in salvo ha racimolato 2.500 dollari e preso un volo per il Sudan. "Da Khartum ci siamo messi nelle mani dei "passeur" e affrontato il deserto per raggiungere Alessandria d’Egitto. Alcuni miei connazionali hanno preso una barca per la Grecia mentre io ho scelto l’Italia". Violazioni del diritto umanitario - La guerra è contro le leggi di Dio anche per i musulmani sunniti e sciiti sulle barricate da un anno e mezzo. L’Islam prevede che non si possa andare in battaglia direttamente se non si viene attaccati. Così la guerra sporca la fanno i contractor: americani, inglesi ma anche filippini e senegalesi. Ai soldati yemeniti prima dello scoppio delle ostilità è stato chiesto di schierarsi. "Con chi stai?" è la domanda che ha permesso a lealisti e ribelli di dividersi le truppe che i generali comandano come eserciti personali. Tra i beneficiari di questo caos ci sono i combattenti di Al Qaeda e dei gruppi legati all’Is, che hanno trovato spazio nel paese. Le potenze occidentali forniscono munizioni, intelligence, rifornimenti e altre forme di sostegno alla coalizione guidata dai sauditi, nonostante questa sia responsabile di quelli che l’Onu ha definito "attacchi diffusi e sistematici a bersagli civili". Secondo il Congresso di Washington tra maggio e novembre gli Stati Uniti hanno venduto un totale di oltre 20 miliardi di dollari di armamenti a Ryad, comprese le famigerate "cluster bomb" messe al bando dalla comunità internazionale per gli effetti micidiali sui civili. Anche la Gran Bretagna si è macchiata della stessa colpa: tra la licenze autorizzate da Londra ci sono ordini per 2 miliardi e 800 milioni di sterline. Dopo questa scoperta gli attivisti della campagna contro il commercio delle armi hanno chiesto all’Alta Corte di Giustizia una revisione della legge sulle esportazioni. Mercoledì 29 giugno il giudice Gilbart si è espresso in questi termini: "Abbondanti prove di violazioni del diritto internazionale umanitario da parte del regime saudita che devono essere prese in considerazione". Intanto, i colloqui di pace tentati dalle Nazioni Unite in Kuwait sono naufragati e il rischio è una Somalia bis con scontri tra tribù per il controllo del paese. Mentre dal cielo continuano a cadere bombe made in Italy. Che distruggono villaggi e città. Da dove fuggono i futuri profughi che sbarcheranno sulle nostre coste. Etiopia. Sull’orlo della guerra civile: centinaia di morti durante proteste di Antonella Napoli La Repubblica, 24 agosto 2016 La grande instabilità e le violenze degli ultimi mesi stanno spingendo alla fuga migliaia di persone. Il bilancio più grave degli incidenti a Bahir Dar, con circa una trentina di vittime. I primi a dare notizia di questi eventi i ricercatori di Amnesty International, testimoni di quanto sta avvenendo nel Paese. Una nuova emergenza sta scuotendo l’Africa sub-sahariana. L’Etiopia è sull’orlo di una guerra civile. La grande instabilità e le violenze degli ultimi mesi stanno spingendo alla fuga migliaia di persone, soprattutto giovani. Ma il mondo si è accorto di questo dramma solo grazie al gesto delle manette di Feysa Lilesa, etiope medaglia d’argento nella maratona a Rio 2016. Oltre cento manifestanti uccisi. A far precipitare la situazione il recente massacro compiuto dalle forze di sicurezza durante alcune manifestazioni pacifiche anti-governative. La polizia ha aperto il fuoco contro i dimostranti uccidendone un centinaio e ferendone quasi il doppio in almeno tre cittadine delle regioni di Oromia e di Amhara, tra il 6 e il 7 agosto scorsi. Il bilancio più grave degli incidenti a Bahir Dar, con circa una trentina di vittime. I primi a dare notizia di questi eventi i ricercatori di Amnesty International, testimoni di quanto sta avvenendo nel Paese. La popolazione etiope chiede riforme. I manifestanti erano scesi in strada per chiedere riforme politiche, giustizia e ripristino dello stato di diritto. Chi non è stato ucciso o ferito è stato arrestato. In centinaia sono trattenuti in prigioni clandestine e a rischio tortura. ?La popolazione dell’area interessata dagli scontri è da mesi in agitazione contro la decisione delle autorità centrali di estendere i confini amministrativi della capitale Addis Abeba. ?Secondo Amnesty si tratta del più grave bagno di sangue degli ultimi anni, come l’enorme numero di persone finite in carcere, soprattutto provenienti dalla regione Oromia. Il conflitto fra etnie all’origine della crisi. Gli oromo rappresentano circa il 34% della popolazione, gli Amhara il 27%; i primi sono stati già protagonisti di violente manifestazioni tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 contro il piano del governo di inglobare terre agricole della propria comunità in una macroregione controllata dalla capitale Addis Abeba. Il piano è stato ritirato il 12 gennaio scorso, ma le proteste sono proseguite. Secondo Human Rights Watch, tra novembre del 2015 e lo scorso maggio oltre 400 persone sono morte e decine di migliaia sono state arrestate. I disordini che hanno visto protagonisti gli Amhara sono invece scoppiati il mese scorso a seguito dell’intervento delle forze di polizia per arrestare i leader della comunità accusati di ‘attività criminalì. Le proteste diffuse in tutto il Paese. Dopo il massacro di inizio agosto nelle regioni del nord , le proteste si sono estese in tutto il Paese. Ad animarle, oltre all’indignazione per l’uccisione di innocenti, la convinzione che le autorità centrali siano pronte a ridurre i già stretti spazi politici a disposizione delle due maggiori comunità etniche del paese. Attivisti di Amnesty hanno anche denunciato abusi dei diritti umani nei confronti degli oppositori. Detenuti a rischio tortura in prigioni clandestine. L’organizzazione non governativa ha diffuso un comunicato con il quale rileva che la retata dei dissidenti è proseguita anche dopo le manifestazioni. Negli ultimi giorni altri 120 sospettati di aver partecipato alle dimostrazioni sono finiti in centri di detenzione clandestini. ?"La risposta delle forze di sicurezza è stata pesante, ma non è una sorpresa", ha commentato Michelle Kagari, direttrice regionale di Amnesty. L’uso della forza per far tacere il dissenso. Per Kagari le forze etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nel tentativo di silenziare le voci del dissenso "crimini che vanno indagati in maniera rapida, imparziale ed efficiente, in modo che chi è responsabile venga portato davanti alla giustizia civile, senza il ricorso alla pena di morte". Il governo di Addis Abeba ha risposto alle accuse puntando il dito contro "nemici stranieri, attivisti sui social network e gruppi terroristici con l’obiettivo di alimentare le proteste anti-governative per destabilizzare l’Etiopia". Respinta richiesta Onu per l’invio di osservatori. L’Etiopia ha respinto la richiesta delle Nazioni Unite di consentire l’invio di propri osservatori nel Paese all’indomani delle violenze. Addis Abeba non vuole che l’Onu indaghi sugli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e attraverso il portavoce del governo, Getachew Reda, ha definito non necessarie "nuove presenze straniere in precise zone del Paese, dal momento che l’Onu ha un cospicuo numero di caschi blu in Etiopia" e che sarà "il governo stesso ad avviare una propria inchiesta" per stabilire se la polizia abbia fatto ricorso a un uso eccessivo della forza. Un paradosso che rischia di alimentare ulteriormente le tensioni e violenze. Stati Uniti: in California basta arresti per le droghe leggere, si svuotano le carceri di Federico Rampini La Repubblica, 24 agosto 2016 In prigione sono finite 52mila persone in meno l’anno: il dato più basso della storia dello Stato. Gli elettori della California hanno avuto ragione. Votando sì a un referendum che riduceva le pene su una serie di reati minori, tra cui il consumo di droghe (anche illegali), hanno ottenuto esattamente il risultato voluto: sono crollati gli arresti, la popolazione carceraria ha cominciato a scendere, si è alleggerito il lavoro della polizia e dei tribunali. I dati sono usciti ieri, due anni dopo la vittoria dei sì alla Proposition 47, il referendum che riduceva le sanzioni su un lungo elenco di reati. Tutti reati non violenti, tra cui i furti nei negozi purché il valore della merce rubata sia inferiore a 950 dollari, o l’emissione di assegni scoperti sempre sotto i 950 dollari. Tra i reati le cui pene sono state alleggerite sostanzialmente, c’è il consumo di ogni sorta di droghe: la marijuana essendo già largamente liberalizzata, si tratta di altre droghe. Il solo fatto che le pene siano state drasticamente ridotte, è un messaggio che la polizia della California ha colto senza esitazione: riducendo denunce e arresti per quei reati, e dedicandosi ad altro. Il bilancio complessivo è impressionante: l’insieme degli arresti è crollato del 28,5% l’anno scorso. In numero assoluto si tratta di 52.000 arresti in meno, il dato più basso da quando la polizia californiana ha cominciato a tenere queste statistiche nel 1960. Una svolta che viene considerata benefica anche da chi non sosteneva necessariamente il referendum. La California, come quasi tutti gli Stati Usa, soffre di un eccesso di popolazione carceraria e tutto ciò che può contribuire a ridurla è benvenuto. La singola tipologia di reati che ha dato il contributo maggiore a questa svolta, è quella legata alle droghe: 22.000 arresti in meno l’anno scorso. Il presidente dell’associazione degli sceriffi della California, Donny Youngblood, parla perciò di una "depenalizzazione di fatto delle droghe". Non mancano le voci critiche ai vertici delle forze dell’ordine. Un altro dirigente locale, Ken Corney che è il capo della polizia di Ventura County e presiede l’associazione dei capi di polizia, parla di "inevitabile aumento del consumo di droghe, che ben presto si tradurrà in un aumento di altri reati". Qualche segnale sembra confermare questi timori. Il dipartimento di Giustizia della California censisce un aumento dei "reati contro la proprietà privata" pari al 12% nel corso del 2015. Si tratta comunque di reati non violenti. Un parere nettamente positivo è quello espresso dal direttore dell’associazione dei magistrati della California, Mark Zahner: "Le forze dell’ordine e la magistratura ora si concentrano sui criminali più pericolosi". La depenalizzazione de facto può avere ricadute collaterali anche sulla tensione razziale. Gli arresti per reati minori, tipicamente proprio per il possesso e il consumo di droghe, tendono a colpire in modo sproporzionato i giovani maschi neri e ispanici, contribuendo per queste fasce etnico-demografiche ad un tasso di carcerazione molto superiore alla media. E questa è una delle questioni sollevate spesso dal movimento BlackLivesMatter. La California, pur non avendo conosciuto di recente rivolte razziali paragonabili ad altre zone del paese, ha tuttavia alcuni epicentri di tensione come la città di Oakland sulla baia di San Francisco. Argentina: la psicoanalisi è così popolare che anche i detenuti vanno in cura di Olivia Goldhill Internazionale, 24 agosto 2016 La psicoanalisi freudiana è di gran moda in Argentina. Nel paese si registra il più alto numero di psicologi pro capite e la psicoanalisi è un’opzione di cura standard per i bambini. Non stupisce quindi che anche nelle carceri i detenuti abbiano la loro dose di psicoanalisi freudiana una volta a settimana. Almeno questo è ciò che succede in un carcere di Buenos Aires, in cui la psicologa e ricercatrice Alicia Iacuzzi dirige un programma da trent’anni. Ci sono altri servizi di salute mentale per detenuti con un approccio più lacaniano, basati cioè sul lavoro dello psicanalista e psichiatra francese Jacques Lacan, ma, secondo Iacuzzi, Sigmund Freud fornisce le linee guida più appropriate per la terapia in carcere. "Lacan scrive che l’inconscio è strutturato come il linguaggio", spiega. "Ma molti dei problemi che riscontro qui in carcere sono prelinguistici e la teoria lacaniana non basta a spiegarli". Se le terapie cognitive o comportamentali possono modificare il modo in cui un paziente agisce, la psicoanalisi freudiana, che sonda l’inconscio a caccia di emozioni nascoste, cerca di focalizzarsi su problemi più profondi. Iacuzzi si assicura che durante la terapia non siano presenti guardie carcerarie, in modo tale da non far sentire vulnerabili i detenuti, con i quali sostiene di non aver mai avuto problemi. "Le persone che stanno in carcere sono state trascurate per tutta la vita. Perciò il fatto di avere all’improvviso qualcuno che le ascolti, che dia loro uno spazio per parlare, le fa sentire importanti come nessuno ha mai fatto prima, né la famiglia né la società". La maggior parte dei detenuti con cui lavora hanno sofferto di trascuratezza emotiva e molti mostrano segnali di personalità borderline. "La trascuratezza emotiva e l’abbandono lasciano dei segni sulla psiche", prosegue. "Molti pazienti piangono durante la terapia. Credo che sia dovuto anche al fatto che sono una donna. Anche se questo può rappresentare uno svantaggio sotto altri punti di vista, in questo contesto fa emergere un’attitudine materna che li aiuta a immergersi in quei dolori infantili per i quali non sono stati capaci di piangere". Progetto pilota. La paternità è un altro grosso problema per molti detenuti, aggiunge Iacuzzi. "Molti detenuti lasciano i figli e le famiglie senza un padre", dice. Grazie alla terapia hanno la possibilità di affrontare la paternità e i modi di assumere il loro ruolo anche dal carcere. Nel carcere maschile Servicio penitenciario 16 ci sono duecento detenuti. Qui Iacuzzi fa terapia individuale e di gruppo. Comincia tutti i giorni alle 7 del mattino con sedute di terapia di gruppo per le guardie carcerarie, avviate dopo che un agente aveva protestato osservando che se ai detenuti veniva offerta la psicoanalisi, allora la voleva anche lui. La terapia di gruppo per i detenuti dura un’ora, dalle 8 alle 9, dopo di che Iacuzzi e i suoi colleghi svolgono le sedute individuali per il resto della giornata. La psicologa afferma che l’80 per cento circa dei detenuti richiede la terapia. Vorrebbe offrire a ciascuno di loro una seduta settimanale, ma a volte la sua agenda è talmente piena che può prendere appuntamenti solo ogni due settimane. Ci sono anche gruppi di ascolto aperti a Natale e a Capodanno. Iacuzzi sostiene di impegnarsi molto per sviluppare un rapporto personale con i detenuti, e questo potrebbe spiegare in parte la domanda. "Ricevo chiunque entri in prigione, perciò riesco ad avere un colloquio con loro e a conoscerli fin dall’inizio", dice. "E non mi limito a stare nel mio ufficio. Vado in giro e parlo ai detenuti, alle guardie, ai medici. Ecco perché tutti sono interessati a venirmi a trovare nel mio ufficio". Un approccio più umano non guasta. "Cerchiamo di guardare oltre i reati commessi dai detenuti e di focalizzarci sulla loro parte sana", dice. Secondo Iacuzzi il suo programma è molto meno burocratico rispetto ai servizi di salute mentale presenti nella maggior parte delle carceri argentine e il governo vuole usare il suo modello come progetto pilota per estenderlo ad altre carceri di Buenos Aires. Medio Oriente: pestato a morte dalla polizia in una prigione palestinese di Michele Giorgio Il Manifesto, 24 agosto 2016 Ahmad Halawa, presunto capo di una "gang criminale" ma anche leader di un gruppo armato dell’Intifada, è morto sotto interrogatorio in una prigione di Nablus. Proteste in città. Rischia di pagare per l’accaduto il partito Fatah, spina dorsale dell’Anp di Abu Mazen. L’autorità nazionale palestinese (Anp) alza la voce contro la detenzione di Bilal Kayed, un militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) da 70 giorni in sciopero della fame nelle carceri israeliane per protesta contro la propria detenzione "amministrativa", senza accusa e processo, scattata nel giorno in cui doveva tornare a casa dopo aver scontato 14 anni di prigione. "Israele sta violando ogni etica medica trattando un essere umano come un animale - ha protestato il premier dell’Anp Rami Hamdallah - Le autorità israeliane sono responsabili della salute di Bilal Kayed e lo devono liberare subito". Mentre Hamdallah condannava Israele, da Nablus giungeva la notizia che il presunto capo della "gang di criminali" che la scorsa settimana ha ucciso due poliziotti palestinesi, era morto in carcere dopo essere stato pestato per ore dalle forze di sicurezza dell’Anp. È stato lo stesso governatore di Nablus, Akram Rajub, a confermare che Ahmed Halawa è stato ucciso da chi lo stava interrogando nel carcere di Jneid. Secondo le indagini, l’uomo era a capo di una banda di una dozzina di uomini, due dei quali uccisi la scorsa settimana negli scontri a fuoco scattati dopo l’agguato in cui erano caduti due agenti di polizia. Le cose sono più complesse. Halawa era anche uno dei leader locali delle "Brigate dei Martiri di al Aqsa", il braccio armato durante la seconda Intifada del partito Fatah, guidato dal presidente Abu Mazen, costretto a sciogliersi qualche anno fa per ordine dell’Anp. Le "Brigate" però sono riapparse nella città vecchia di Nablus e nei campi profughi di Balata e Jenin in sfida aperta ai vertici politici palestinesi. Una volta in prigione Halawa è stato picchiato duramente. Le immagini che giravano ieri in rete mostravano il corpo seviziato e torturato dell’uomo, in particolare il volto. Halawa ad un certo punto ha perso conoscenza ed è morto. "Esamineremo l’incidente e trarremo gli insegnamenti da esso" ha assicurato Rajub. Parole che non sono bastate a placare la tensione subito aumentata in città. Molti abitanti di Nablus contestano il modo in cui sono condotte le operazioni di polizia dell’Anp che, dicono, sono uguali a quelle dell’esercito di occupazione israeliano. Per l’Anp invece è in corso soltanto una operazione contro la criminalità organizzata e per il recupero delle armi illegali. A Nablus spiegano che il contrabbando è di fatto imposto alla parte più emarginata e povera della popolazione dimenticata dall’Anp e che fa i conti con una disoccupazione tra i giovani che tocca punte da record. "I palestinesi di Nablus non appoggiano i criminali ma, allo stesso tempo, non accettano i metodi violenti della polizia palestinese. Tanti pensano che l’Anp lavori come una forza di sicurezza di Israele e non per garantire protezione ai palestinesi" spiega al manifesto Diana Buttu, analista del think tank "Shabaka", ricordando numerosi episodi che hanno visto in questi mesi agenti e ufficiali della polizia e dei servizi di sicurezza dell’Anp abusare del loro potere contro semplici cittadini, talvolta solo ragazzi,a Ramallah, Gerico, Jenin e in altre località della Cisgiordania. Il pestaggio a morte di Halawa rischia di compromettere a Nablus le possibilità di successo di Fatah, spina dorsale dell’Anp, impegnato in una difficile campagna per le amministrative di ottobre in competizione diretta con il movimento islamico Hamas. "Se Fatah perderà le elezioni non potrà che recitare il mea culpa" dice Diana Buttu "perché non ha ancora imparato la lezione dalle precedenti sconfitte (2005 e 2006, ndr). Non ha compreso che non può lasciar governare l’Anp con il pugno di ferro e con impunità totale per le sue forze di sicurezza in un territorio dove la popolazione deve fare i conti ogni giorno, da 50 anni, con l’occupazione militare israeliana e la mancanza di libertà". Hamas, che pure è responsabile nella Striscia di Gaza di abusi e intimidazioni, ha affermato che la morte di Halawa è la punta dell’iceberg di un sistema di sicurezza instaurato dall’Anp che avrebbe come primo obiettivo quello di reprimere gli oppositori, a cominciare da quelli islamisti. Condanne sono giunte anche dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, da altre forze politiche, dalla società civile palestinese e dal rappresentante locale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. L’accaduto non sembra aver scosso particolarmente i vertici dell’Anp mentre Adnan Dmeiri, portavoce delle forze di sicurezza, da due giorni ribadisce che le operazioni nella casbah di Nablus andranno avanti fino a quando "il fenomeno del possesso di armi illegali non avrà termine". Stati Uniti: Guantánamo, in aula il primo presunto terrorista sottoposto a tortura La Repubblica, 24 agosto 2016 Udienza pubblica in video collegamento dalla prigione Usa per Abu Subaydahm, arrestato dopo l’11 settembre e sospettato di essere il numero 3 di Al Qaida. Subì ben 83 volte la terribile tortura, senza rivelare nulla. Prima apparizione in una udienza pubblica, dopo 14 anni di detenzione a Guantánamo, di Abu Zubaydahm il presunto terrorista brutalmente torturato dopo la sua cattura nel 2002, il primo ad essere sottoposto al waterboarding. L’uomo, che ora ha 45 anni, ha assicurato tramite una dichiarazione letta da un soldato anonimo che non ha "alcun desiderio o intenzione di danneggiare gli Usa o altri Paesi". E ha fatto sapere che vorrebbe riunirsi alla sua famiglia e di avere "del denaro che potrebbe essere usato per iniziare un’attività se fosse reintegrato nella società"‘. I giornalisti hanno potuto seguire per la prima volta in video collegamento la parte pubblica dell’udienza in una conference room del Pentagono. Zubaydah è apparso calmo e attento ma non ha mostrato reazioni mentre le autorità leggevano varie dichiarazioni. Nato in Arabia Saudita da una famiglia di origini palestinesi, il detenuto fu il primo sospetto significativo arrestato nella disperata caccia all’uomo della Cia dopo l’11 settembre. All’epoca l’intelligence americana concluse erroneamente che Zubaydah era uno dei leader di Al Qaida, il numero 3, e che avrebbe potuto essere a conoscenza di altri piani terroristici. Per questo fu sottoposto ad una serie terribili di torture, tra cui il waterboarding (per 83 volte), ma senza che rivelasse nulla. Oggi il suo caso è stato vagliato dalla commissione per la revisione periodica della situazione dei prigionieri di Guantánamo, che Barack Obama ha ribadito di voler chiudere entro la fine del suo mandato.