Se i detenuti spiegano ai giovani cos’è la violenza di Agnese Moro La Stampa, 23 agosto 2016 Uno dei temi sul tappeto è come spiegare ai nostri giovani che la violenza non è mai la strada giusta per raggiungere gli obiettivi che ci proponiamo. Non lo è per ottenere giustizia, fare soldi, scaricare la propria rabbia, appartenere a qualcosa, dimostrare il proprio valore. Il problema purtroppo c’è. Basta pensare gli atti di bullismo o alle violenze "del branco". Non sono molte le iniziative che spiegano concretamente ai ragazzi cosa l’uso della violenza fa alle vite degli altri e alle proprie. Una di queste poche esperienze è quella della Redazione di "Ristretti Orizzonti", rivista, agenzia di informazioni e sito internet del carcere "Due Palazzi" di Padova, animata da detenuti e volontari. Scrivono sull’ultimo numero della rivista: "È un progetto complicato quello che Ristretti Orizzonti organizza da anni per le scuole. Il progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere" cerca di fare prevenzione attraverso la conoscenza ravvicinata del carcere, mettendo al centro dell’attenzione l’incontro tra chi sta vivendo in prima persona l’esperienza della detenzione, e i tanti ragazzi che, per i propri comportamenti trasgressivi, si trovano spesso sul filo dell’illegalità. Nonostante le molte difficoltà, anche quest’anno ci sono stati più di 150 incontri e intorno ai 7.000 studenti vi hanno partecipato, per ascoltare le testimonianze di vite distrutte da scelte sbagliate. I ragazzi con le loro domande severe hanno anche costretto i detenuti a fare profonde riflessioni sul loro passato, e a loro volta hanno cominciato a ragionare sulla fatica di "pensarci prima" quando ci si trova in difficoltà e sull’importanza di chiedere aiuto". Quest’anno anche un gruppo di genitori ha voluto fare una esperienza simile, perché i figli gliene avevano comunicato l’importanza. Tutto questo, e tanto altro ancora, rischia di finire per una mancata erogazione di fondi già stanziati da vari Enti. Sono gli effetti meno noti della questione dei debiti della Pubblica Amministrazione, che non danneggiano solo le imprese, ma tante iniziative significative. "Ristretti Orizzonti" chiede il nostro aiuto per non interrompere le proprie ventennali attività e per non dover dipendere da sovvenzioni pubbliche. Gli basterebbero 2.000 abbonamenti da 30 euro per risolvere il problema. Tutte le modalità sono sul loro sito www.ristretti.it. Aiutiamoli. Lo meritano. I legalitari rumorosi che odiano la legalità di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 agosto 2016 Un Pm, in seguito a una denuncia, affronta il caso di un tentato sequestro di persona. Anzi, sequestro di bambino. Indaga, e abbastanza in fretta accerta che contro l’indiziato non c’è niente. È un indiziato senza indizi. Quindi lo libera. Evitando in questo modo la clamorosa persecuzione di un malcapitato. È veramente molto improbabile che il magistrato in questione, che è una donna e opera a Ragusa, abbia preso la vicenda sottogamba. Nessuno prende sottogamba il possibile sequestro di un bambino. Infatti la Pm ha interrogato l’indiziato per sette ore filate, e poi ha interrogato i parenti della presunta vittima, e i testimoni, e alla fine non ha avuto dubbi. L’indiziato stava giocando con la bambina e non aveva nessuna intenzione di sequestrarla né ha provato a farlo. L’indiziato era indiano. Aveva un decreto di espulsione, e dunque non doveva stare su quella scogliera. Pare che avesse anche precedenti penali per uso di droga e furto di rame. Queste circostanze, nell’opinione pubblica, sono indizio o addirittura prova di colpevolezza. Niente di strano. Nel clima nel quale viviamo - creato dalla stampa, dalla Tv, dalle polemiche politiche, dal populismo - è abbassata normale che l’opinione pubblica ritenga colpevole di qualunque reato possa essere accusato chi abbia delle colpe precedenti. Per esempio il furto di rame, per esempio il mancato espatrio, ma anche l’uso di droga e, alla fin fine, persino l’essere indiano, che magari non sarà proprio una colpa sancita dalle leggi, ma insomma... Se ha rubato rame, è probabile che possa rubare anche bambini. Se è indiano. Non è stata però solo la cosiddetta opinione pubblica a scagliarsi contro la magistrata e contro la Procura. Sono stati i giornali, gli opinionisti e un bel numero di politici. Che hanno persino chiesto l’intervento del Ministro, il quale a un certo punto si è sentito in dovere di inviare gli ispettori, per ristabilire un pò di calma e accertare la verità. C’è un ex grillino, consigliere comunale, che ha signorilmente definito una "merda" l’indiano e altrettanto "merda" la magistrata che lo ha scarcerato. Potremmo liquidare questo episodio come un ordinario episodio di isteria collettiva. Succede spesso, specie quando qualcuno grida a reati particolarmente odiosi, come il sequestro dei bambini. Sono reati molto molto rari, però tenutissimi. E quindi spesso succede che una paura, un’incertezza, un’incomprensione, portino a gridare al rapimento, o al pedofilo, anche quando non è vero. Basterebbe pensare alla leggenda infondata, eppure incrollabile da decenni e da secoli, secondo la quale i rom (anzi: gli zingari) hanno tra le loro attività quella di sequestrare - chissà perché - i bambini. Il fatto che negli ultimi cent’anni, in Italia, non sia stato accertato neanche uno -neanche uno - episodio di rapimento o tentato rapimento di bambini da parte dei rom, non serve in alcun modo a intaccare la leggenda e la paura (con la conseguenze di tipo razzista che questo meccanismo psicologico comporta). Qui però il caso è leggermente diverso. Perché c’è di mezzo un magistrato. E entra in gioco l’idea popolare di magistrato, e quello che l’opinione pubblica si aspetta da un magistrato. Si aspetta che il magistrato arresti e condanni. Un buon magistrato arresta e condanna, e dunque fa giustizia. Perché la giustizia è questo: condanna. Se un magistrato scarcera o assolve è un pessimo magistrato, perché fa esattamente l’opposto di quello che dovrebbe fare. Pochissimi prendono in considerazione l’ipotesi che "non condannare" un innocente sia il massimo grado di giustizia, e che arrestare un innocente, viceversa, sia il fallimento completo della giustizia. Le sentenze dei grandi processi ? quelli dei quali si sono occupati giornali e Tv - se sono di assoluzione, sono accolte al grido di "vergogna". I giornali si scandalizzano, indicano i magistrati al ludibrio. Lasciano intendere che, per qualche ragione misteriosa, sono complici. Tutto questo è il risultato di molti anni di azione diffusa giustizialista. Che ha coinvolto quasi tutti gli strumenti di orientamento - o addirittura di dominio - dello spirito pubblico: giornali, Tv, organizzazioni culturali, politiche, morali. Quasi al gran completo l’intellettualità italiana è su queste posizioni. E le principali organizzazioni della magistratura - in particolare l’Anm - non fanno nulla per contrastare questa ondata di "spasimo" forcaiolo. Anzi, spesso agevolano lo spargersi di queste idee, accarezzano il giustizialismo. Ciononostante ci sono dentro la nostra magistratura le eccellenze e le donne e gli uomini capaci di sfidare il conformismo e di applicare con coscienza e saggezza la legge. Ma per fare questo devono avere molto coraggio, diventare sommamente impopolari, affrontare un muro di ostilità. Che viene da chi? Dalla forma più diffusa e ampia del legalitarismo: quello che odia la legge e la legalità O meglio, che considera la legalità una forma di potere al di sopra della legge, garantita e imposta da un etica superiore, nella quale il sospetto è il "signore" e la punizione è l’espressione di una sorta di divinità in grado di purgare la società e far trionfare il bene. È il legalitarismo antilegalitario, che ha fatto strame del diritto e oggi dilaga, maggioritario, fin dentro il parlamento. Questo legalitarismo antilegalitario è il nemico vero della democrazia, e per combatterlo occorrerebbe una mobilitazione anche della magistratura. Servirebbero molti Pm come quelli di Ragusa. Il caso dell’indiano rilasciato. La giovane pm: "Io insultata ma ho solo applicato la legge" di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 23 agosto 2016 Giulia Bisello: "Tanti attacchi e poca solidarietà, ma capisco quei genitori". Offesa e amareggiata dalla valanga di improperi che dilagano sui social, non vorrebbe parlare del presunto sequestro della bimba di 5 anni sulla spiaggia di Scoglitti, né del presunto sequestratore, l’indiano, l’ambulante che lei da pubblico ministero non ha lasciato in cella "perché non si poteva". Studi a Terni, laurea, concorso e tirocinio a Roma, primo incarico di sostituto procuratore a Ragusa, Giulia Bisello, 34 anni, dallo scorso novembre nella terre del Commissario Montalbano, non avrebbe certo immaginato di finire al primo anno di carriera sui mass media per questa controversa storia sfociata nell’invio degli ispettori del ministro della Giustizia. La relazioni sui fatti - Negli uffici della Procura, sottostanti il piano d’ingresso del palazzo di giustizia, alle due del pomeriggio lei scrive una relazione sui fatti. "Per il ministro, per gli ispettori, per i magistrati di Messina, per le inchieste, per le querele che lei presenterà, "aggredita" da giornali e social...", spiega e la conforta il suo capo, il procuratore Carmelo Petralia, magistrato di lungo corso, dalle trincee antimafia al caso del piccolo Loris. Proprio lui, dopo un primo indiretto attrito con il ministro Orlando, si è sentito con il sottosegretario Cosimo Maria Ferri: "Un magistrato. E finalmente abbiamo potuto parlare la stessa lingua, quella del codice. Tutto chiarito". La cosa solleva Giulia Bisello, comunque "un pò preoccupata": "È una questione talmente semplice. Il nostro ordinamento per alcune ipotesi di reato non prevede né il fermo né il carcere. E noi magistrati non possiamo non applicare la legge". Vediamo allora cosa pensa e cosa scrive questa giovane magistrata sull’indiano di 43 anni Ram Lubhay, venditore di collanine e cianfrusaglie in spiaggia, specializzato in tatuaggi, a volte un pò fastidioso, noto ai carabinieri per furti di rame e senza permesso di soggiorno. Un profilo improbabile, per molti, come sequestratore, anche se i genitori della bimba parlano di rapimento. "Applicata la legge" - "Il reato per cui si può procedere è il tentato sequestro di persona", spiegano Petralia e la sostituta. "Reato aggravato perché in danno di minore. Un reato che prevede una pena da 1 a 10 anni. Ma per chiedere una convalida del fermo eseguito dalla polizia la pena minima deve essere per legge di 2 anni. Qui siamo al di sotto della soglia minima. Ecco perché non abbiamo decretato il fermo. Non si può. E se lo chiedessimo il Gip lo rigetterebbe". Sentite le parti offese, i testimoni, interrogato il soggetto, il quadro che è emerso non avrebbe quindi consentito di chiedere la misura cautelare, come spiegano procuratore e sostituta: "Il fatto viene considerato dal codice di una gravità minima, anche se comprendiamo che tutto questo allarma i genitori, infastiditi, indignati...". Quali sono i fatti accertati? Per i due magistrati "l’indiano si è limitato a tenere in mano la bimba per meno di un minuito, sotto gli occhi del padre che se l’è fatta subito restituire. Senza che l’indiano opponesse diniego, senza fuga...". Ma altri accertamenti vengono eseguiti per fare scattare il cosiddetto giudizio immediato. Un processo rapido con l’indiano comunque a rischio espulsione, come spiega Petralia: "Noi procediamo pure per il reato dell’articolo 10 bis, il reato di clandestinità. Insomma, per noi è un clandestino". Precisazioni ignorate dalle polemiche politiche e dalle valanghe di commenti su Internet. Forse quello che più la inquieta: "Non voglio parlare del mio stato emotivo, ma non c’è stata nessuna solidarietà. Gli ispettori? Sto preparando il resoconto della vicenda. Se lo chiederanno è pronto. Pesano le conseguenze mediatiche. Ma io penso di avere fatto solo il mio lavoro. Come cerco di fare tutti i giorni". Gli strali sulla Rete - Pesa perfino il più innocuo degli strali via Facebook, quello di una consigliera comunale di Ragusa eletta con Grillo, poi espulsa dal movimento per affermazioni inneggianti al fascismo: "Vergognati e togliti la toga, non sei cosa". Ma la magistrata agli esordi non se la toglierà e il procuratore già prepara per lei la controffensiva invitando la Procura di Messina, competente per territorio, "a valutare le offese contro chi sta lavorando seriamente e applicando la legge". "Giusto accertare se quel magistrato ha agito correttamente" Corriere della Sera, 23 agosto 2016 Ragusa, il ministro Orlando e il tentato rapimento della bimba. Secondo decreto di espulsione per l’indagato. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha avviato un’inchiesta sul caso dell’indiano, Ram Lubhay, che il 16 agosto avrebbe tentato di rapire una bambina di cinque anni sul lungomare della Lanterna di Scoglitti, nel ragusano. "È interesse di tutti - ha detto il Guardasigilli - valutare se c’è stata correttezza da parte della magistratura e evitare che si celebrino processi paralleli". E ancora: "È importante che tutto segua le regole e anche la valutazione degli atti sia fatta non in modo emozionale e intuitivo, ma sulla base dei fatti che il ministero sta raccogliendo". I contorni della vicenda non sono ancora chiari. Secondo i genitori, l’extracomunitario avrebbe preso in braccio la piccola e si sarebbe allontanato. Questa la versione del papà: "Mi è stato detto che non c’è reato di rapimento perché la bimba è rimasta sotto il controllo visivo dei genitori. Ma questo è avvenuto per la nostra prontezza di riflessi e la mia immediata reazione. È stata mia moglie, dopo che l’ho raggiunto, a strappargliela dalle braccia con forza". Dalla Procura arriva però un’altra versione: l’indiano avrebbe preso la bambina in braccio sotto gli occhi dei genitori, e dopo neanche un minuto l’avrebbe restituita. Nessuna fuga. La famiglia ha però sporto denuncia, e dopo neppure un’ora l’indiano è stato identificato, fermato e sottoposto a un interrogatorio. Il giorno dopo, il sostituto procuratore di Ragusa, Giulia Bisello, ha ritenuto di far tornare in libertà Ram Lubhay, scatenando l’ira della famiglia e una valanga di polemiche sia sui social network che in Parlamento, con un’interrogazione del senatore Maurizio Gasparri. Tutti hanno chiesto l’immediata espulsione dell’uomo. Il fatto però è che Ram Lubhay, che ieri ha denunciato di aver ricevuto minacce di morte, era già stato raggiunto da decreto di espulsione, emesso dal questore di Ragusa e scaduto ieri (è il secondo, visto che un primo provvedimento, motivato con i precedenti penali dell’extracomunitario, indagato per furto di rame e traffico di droga, non è mai stato eseguito). Siccome non si è ottemperato entro i termini, il vicequestore di Ragusa Nicola Spampinato ha firmato la richiesta di trasferimento in un Cie, dove l’indiano resterà almeno 30 giorni, e sino a un massimo di 18 mesi, come ogni volta che non è possibile eseguire l’espulsione. Il caso però non si sgonfia. "Va espulso subito", ha tuonato il sindaco di Vittoria. C’è un giudice a Ragusa, ma vogliono linciarlo di Simona Musco Il Dubbio, 23 agosto 2016 "Ram Lubhaya si è proclamato innocente, non era sua intenzione rapire la bambina". Biagio Giudice, legale del 43enne indiano accusato del tentato rapimento di una bambina martedì scorso sul lungomare di Scoglitti, in provincia di Ragusa, è convinto della sua innocenza. Ma dopo la scarcerazione disposta dalla pm Giulia Bisello, è scoppiata la polemica. "Ram Lubhaya si è proclamato innocente, non era sua intenzione rapire la bambina. La procura ha applicato la legge ma il mio assistito è già stato processato mediaticamente e condannato alla pena massima. In uno stato di diritto questo non è corretto". Biagio Giudice, legale del 43enne indiano accusato del tentato rapimento di una bambina martedì scorso sul lungomare di Scoglitti, in provincia di Ragusa, è convinto della sua innocenza. "Mi ero avvicinato per giocare, non l’ho presa in braccio e non volevo farle del male", ha raccontato durante l’interrogatorio. Sul suo caso, dopo la scarcerazione disposta dalla pm Giulia Bisello, è scoppiata la polemica e un botta e risposta tra il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha annunciato l’invio di ispettori in procura, e il procuratore Carmelo Petralia. Il nocciolo della questione è uno: la scarcerazione del 43enne ha scatenato reazioni furiose e Orlando si è sentito in dovere di intervenire per accertare che i magistrati non abbiano agito "di pancia". Anche se hanno semplicemente applicato il codice penale. Ad indignarsi, tra gli altri, il leghista Roberto Calderoli, che ha chiesto l’intervento del presidente della Repubblica, ma anche il consigliere di Ragusa Gianna Sigona, ex M5S, che ha pesantemente accusato il sostituto procuratore. "Sei una merda come questo indiano", ha scritto sul suo profilo Facebook, spingendo i magistrati di Ragusa a sporgere denuncia. Orlando, però, è irremovibile: gli accertamenti vanno fatti nell’ "interesse di tutti". Lo scopo è, da un lato, "valutare se c’è stata una correttezza nell’azione della magistratura" e dell’altro "evitare che si celebrino processi paralleli", assicurandosi "che tutto segua le regole e anche che la valutazione degli atti sia fatta non in modo emozionale e intuitivo ma sia fatta sulla base dei fatti che il ministero sta raccogliendo". Parole che hanno lasciato basito il procuratore Petralia, che si aspettava "solidarietà nei confronti di un magistrato che applica la legge e fatta segno di pesanti e volgari offese". La legge, appunto, quella fatta in parlamento dai politici che poi si indignano: per il tentativo di sequestro e sottrazione di minore, infatti, il codice penale non prevede la convalida del fermo, ha chiarito Petralia. "Resta il fatto inquietante dell’accaduto ma siamo in presenza di un indagato che non ha precedenti per reati specifici ? ha spiegato -. Non c’erano spazi giuridici per agire per la custodia cautelare". Il pm, dunque, ha solo seguito la legge. "Una legge che fa vomitare", ha commentato indignata la madre della piccola, che sperava nell’espulsione dell’uomo, clandestino e già destinatario di un provvedimento di rimpatrio. Una fuga di 10 metri la sua, durata 45 secondi, raccontano i testimoni, interrotta dall’intervento del padre della bimba. "Ci è stato detto che non ha concluso il reato: lo dovevamo perdere di vista per poter dire che si stava portando via la nostra bambina. Lui si è fermato solo perché noi l’abbiamo fermato", ha raccontato a NewsMediaset. Dopo il fermo, l’uomo era stato scarcerato, riacciuffato il giorno successivo per essere interrogato e di nuovo liberato. Davanti al magistrato, Lubhaya ha raccontato quel confuso giorno a Scoglitti, dove si guadagna da vivere facendo tatuaggi all’henné sulla spiaggia. "Ora ha paura - ha spiegato il suo avvocato. Dopo tutte le polemiche teme qualche ritorsione". In città infatti è psicosi e le chiamate al 112 si sono triplicate. "Anche se le forze dell’ordine e la procura fanno il proprio dovere - conclude, ognuno, sotto l’ombrellone, può scrivere sui social quello che vuole, anche per sentito dire. Dispiace per lo spavento subito dai genitori, però bisognerebbe celebrare un processo al di là dei riflettori". Arresti domiciliari violati per chi passeggia in cortile di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2016 Corte di cassazione - Ordinanza 34115/2016. Aree condominiali e arresti domiciliari: integrato il reato di evasione. In tre recentissimi provvedimenti la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema relativo alle aree condominiali, con particolare riferimento al reato di evasione per le persone in regime di arresti domiciliari. La questione, che vede intrecciarsi aspetti civilistici e penalistici, riguarda il concetto di abitazione e in particolare, se tali possono intendersi le aree condominiali. Integra il reato di evasione l’allontanamento (dal carcere o dal luogo degli arresti domiciliari) del soggetto legalmente arrestato o detenuto per un reato (articolo 385 del Codice penale), intendendo con ciò qualsiasi allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari senza autorizzazione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la sua durata, la distanza dello spostamento o i suoi motivi. (Cassazione, sentenza 28118/2015). Solitamente il luogo dove si scontano gli arresti domiciliari è la propria abitazione che, secondo la definizione data dall’articolo 1022 del Codice civile, rappresenta quel diritto reale di godimento su cosa altrui che conferisce al titolare la facoltà di abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia, diritto peraltro riconosciuto esclusivamente in favore del titolare ed ai membri della sua famiglia. Questo diritto di abitazione non riguarda solo la "casa" vera e propria, ma si estende anche alle sue pertinenze e accessori, in particolare, ai balconi, alle verande, al giardino, alle autorimesse e così via, giacché l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria, sia, in virtù del combinato disposto degli articoli 983 e 1026 del Codice civile, alle accessioni (Cassazione, sentenza 2335/1981). Tuttavia, la pressoché unanime giurisprudenza penale, tende a restringere il concetto di abitazione nel senso civilistico sopra visto, intendendo con ciò il solo "appartamento", ritenuto come luogo in cui il soggetto conduce la propria vita domestica. A ribadirlo è la Corte di Cassazione, VII sezione penale, con le sentenze n. 34121, 34115 e 34107, pubblicate in data 4 agosto 2016. Le vicende vedevano gli imputati alla sbarra per il reato di evasione, non essendo stati gli stessi - ristretti in regime di arresti domiciliari - rinvenuti all’interno delle rispettive abitazioni all’atto del controllo dei militari dell’arma. Gli stessi si difendevano deducendo di essere stati trovati a poca distanza dalle rispettive abitazioni e, comunque, nelle aree di pertinenza del condominio, da intendersi a tutti gli effetti "abitazione" degli stessi. Di contrario avviso, tuttavia, la suprema Corte, che conferma tutte le sentenze di condanna. In particolare, dice la Cassazione, "configura il delitto di evasione e non l’ipotesi di trasgressione alle prescrizioni imposte, sanzionabile ex art. 276 cod. proc. pen., l’allontanamento della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari dal luogo di detenzione in un orario che si ponga in termini di inconciliabilità con la fascia oraria prefissata dall’autorità giudiziaria nel provvedimento cautelare (Cass. 3744/2013); integra il reato di evasione qualsiasi allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari senza autorizzazione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la sua durata, la distanza dello spostamento, ovvero i motivi che inducono il soggetto ad eludere la vigilanza sullo stato custodiale (Cass. 28118/2015); nel reato di evasione dagli arresti domiciliari il dolo è generico e consiste nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione, a nulla rilevando i motivi che hanno determinato la condotta dell’agente (Cass. 10425/2012; Cass. 19218/2012)". In altri termini, stop alle "passeggiate" dei detenuti agli arresti domiciliari nelle aree condominiali, siano essi giardini, cortili o altre dipendenze, salvo i casi in cui non siano strumentalmente integrate all’appartamento stesso o, comunque, tali da garantire un immediato riscontro circa la presenza dell’imputato da parte degli organi di polizia. Legittimo il sequestro preventivo anche se si paga a rate di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35246/2016. È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sulle somme che il contribuente si è impegnato a versare con un piano di rateazione. La nuova norma, infatti, esclude solamente la confisca, con la conseguenza che la misura cautelare è la garanzia affinché l’impegno sia rispettato. A confermare questa interpretazione è la Corte di Cassazione con la sentenza 35246. Nei confronti del legale rappresentante di una società, accusato di dichiarazione infedele (articolo 4 Dlgs 74/2000) era stato emesso un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Il Tribunale, in seguito a impugnazione del contribuente, aveva revocato parzialmente la misura cautelare, disponendo la restituzione delle somme eccedenti. Avverso la decisione era stato proposto ricorso in Cassazione lamentando che la Corte territoriale aveva erroneamente interpretato la nuova norma in tema di confisca. Il contribuente aveva infatti sottoscritto un piano di rateazione del debito di imposta e le rate erano in parte già state versate. Secondo la tesi della difesa, quindi, con la formalizzazione dell’accordo tra contribuente e amministrazione si era verificato il presupposto normativo ostativo alla confisca, con la conseguenza che non poteva applicarsi la misura del sequestro preventivo. La Suprema Corte, richiamando una precedente interpretazione, ha respinto il ricorso. Il Dlgs 158/2015 ha introdotto una disciplina specifica per la confisca in materia di reati tributari, prevedendo con l’articolo 12 bis che nel caso di condanna o di applicazione della pena per uno dei delitti previsti dal Dlgs 74/2000 è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato o, quando essa non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. La confisca, inoltre, non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro mentre in caso di mancato versamento essa è sempre disposta. La Suprema Corte, in proposito, ha precisato che dalla norma si evince che in caso di mancato pagamento la confisca è consentita. Ne consegue così che nel corso della rateazione, se da un lato può escludersi la confisca, dall’altro è legittimo il sequestro preventivo, poiché è volto a garantire il recupero delle somme qualora il versamento "promesso" non si verifichi. Va segnalato che sul punto era inizialmente intervenuta una interpretazione differente. La Cassazione (n. 5728/2016) aveva ritenuto che in presenza di un piano rateale di versamento la confisca fosse consentita per gli importi non ancora corrisposti, escludendo dalla misura sanzionatoria la sola parte versata. La nuova pronuncia, invece, pare confermare l’orientamento più favorevole (n. 28225/2016), che esclude che nelle more della rateazione sia legittima la confisca per gli importi ancora dovuti dal contribuente. Induzione indebita anche "tentata" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2016 La condanna per induzione indebita tentata rimane anche se la pratica delle vittime designate era già stata archiviata all’epoca delle "pressioni" dei funzionari infedeli. La Sesta sezione penale della Cassazione (sentenza 35271/16, depositata ieri) ribadisce la natura "non bilaterale" del reato previsto dalla riforma Severino degli illeciti contro la Pa; pertanto, il tentativo resta perfettamente integrato - cioè "utile" per la condanna - anche se il privato non aveva già più alcun indebito vantaggio da trarre dalla proposta contra legem del funzionario pubblico. Il caso ripercorso dai giudici di legittimità riguardava un episodio avvenuto negli anni scorsi all’agenzia delle Entrate di Varese, in cui due funzionari avevano minacciato indagini fiscali a danno di una coppia - e del loro commercialista - a margine del rientro di capitali collegati al terzo e ultimo scudo del decennio scorso. Le vittime, che si erano viste richiedere una somma definita "ingente" nella carte processuali, avevano finto di stare al gioco denunciando però subito la vicenda ai carabinieri, facendo così partire le intercettazioni telefoniche e ambientali. Tra i motivi del lungo ricorso per Cassazione - incentrati soprattutto su questioni procedimentali e sulla valutazione della chiamata di correo tra gli imputati - c’era però anche l’aspetto relativo all’inquadramento giuridico della fattispecie: secondo i legali dei due funzionari infedeli, l’assenza dell’indebito vantaggio come "corrispettivo" per le vittime - indebito costituente "requisito implicito della fattispecie dell’articolo 319-quater del codice penale" - avrebbe dovuto indurre i giudici a reinquadrare l’ipotesi nel meno grave reato di "istigazione non accolta alla corruzione". Una soluzione, questa, che invece i magistrati di legittimità hanno respinto senza margini di incertezza, richiamandosi peraltro a un precedente del gennaio scorso (6846/16, della medesima Sezione). Il requisito del perseguimento dell’indebito vantaggio da parte dei privati, argomenta la Sesta, è fuori dal perimetro del "tentativo", nonostante sia un pilastro portante del delitto consumato di "induzione indebita a dare o promettere utilità". Le Cassazione stessa ha definito tale indebito vantaggio come il "criterio di essenza" della fattispecie induttiva che, in una interpretazione costituzionalmente orientata, diventa il presupposto per estendere la punizione allo stesso privato/ pagatore /beneficiato (che in questo caso rischia fino a tre anni di reclusione, a fronte dei 10 e mezzo per il funzionario infedele). Ma, aggiunge l’estensore, se il privato resiste all’induzione, allora "viene meno la ratio che si colloca a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del destinatario della condotta induttiva; non per questo però crolla la possibilità di perseguire l’agente pubblico che compie atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o promettere denaro o utilità. In sostanza, chiosa la Sesta sezione, il delitto di induzione indebita non è un "reato bilaterale", perché le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto "si perfezionano autonomamente e in momenti diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l’evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente". Il giornalista può usare il sarcasmo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2016 Cedu - Sentenza 5 luglio 2016 n. 1799/07. Sarcasmo e ironia in articoli di stampa quasi senza limiti. Anche quando singole espressioni come "stupido" e "lento a capire" sono in sé offensive, perché i giornalisti hanno diritto ad usare tecniche stilistiche, su questioni di interesse pubblico, con sarcasmo e ironia anche eccessivi. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 5 luglio, con la quale ha condannato la Polonia per violazione dell’articolo 10 della Convenzione che assicura il diritto alla libertà di espressione, dando ragione, su tutta la linea, a un giornalista (caso Ziembinski, 1799/07). A rivolgersi alla Corte era stato un cronista polacco che aveva pubblicato un articolo sul quotidiano del quale era anche proprietario, in cui criticava aspramente un progetto dell’amministrazione comunale che, in pratica, prevedeva il via libera a un allevamento di quaglie ritenendo potesse essere utile a fronteggiare la disoccupazione nella zona. Malgrado non avesse citato nominativamente il sindaco e due funzionari pubblici, il reporter era stato denunciato e condannato per diffamazione. Di qui il ricorso alla Corte europea che, ancora una volta, ha rafforzato la libertà di espressione dei giornalisti rispetto ad altri diritti in gioco come quello alla reputazione. E questo soprattutto quando oggetto degli articoli sono politici e dipendenti pubblici. La Corte europea critica l’operato dei giudici nazionali che hanno deciso la condanna del giornalista valutando le singole espressioni e non il contesto generale. L’articolo, molto critico nei confronti di alcuni amministratori pubblici - osservano i giudici di Strasburgo - conteneva termini in sé forti sottolineando che chi aveva effettuato la scelta di dare il via a un allevamento di quaglie era "stupido", "lento a capire", "smorto". Detto questo, però, i giudici nazionali hanno sbagliato a considerare le espressioni in sé e non nel contesto dell’articolo, nel quale il giornalista aveva fatto una scelta stilistica precisa, ugualmente protetta dall’articolo 10 della Convenzione. La valutazione delle autorità nazionali - scrive la Corte - non può essere staccata dal contesto e senza considerare che il giornalista ha diritto di scegliere una comunicazione ironica e sarcastica quando riporta alla collettività questioni di interesse generale. "Un livello di esagerazione - osserva la Corte - e di provocazione è permesso al giornalista" e questo anche quando arriva a un certo grado di intemperanza e a taluni eccessi. Senza dimenticare che i destinatari non erano indicati nominativamente (anche se identificabili) e, soprattutto, erano personaggi pubblici. L’articolo, infatti, prendeva di mira il sindaco che, in quanto politico, è maggiormente esposto a critiche rispetto a un privato cittadino, con un obbligo di tolleranza maggiore. Con la conseguenza che, nei suoi confronti, le autorità nazionali hanno margini di intervento molto ristretti laddove intendano limitare la libertà di espressione. Tanto più che è compito del giornalista animare e suscitare un dibattito su questioni di interesse generale. Inevitabile, quindi, la bocciatura dell’operato dei giudici nazionali, che si sono limitati a decidere nel senso della diffamazione senza considerare l’articolo nel suo complesso. Con la conseguenza che la Polonia dovrà versare al giornalista oltre 4mila euro tra danni patrimoniali e morali. Dottor Pignatone non può non arrestarmi. O liberi tutti o in galera anch’io di Rita Bernardini Il Dubbio, 23 agosto 2016 Egregio Dott. Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica di Roma, Le scrivo questa lettera aperta per informarLa che sto reiterando quello che, su proposta del sostituto procuratore della Repubblica dottoressa Silvia Sereni, il Presidente Aggiunto Gip dottor Stefano Meschini ha ritenuto un "non reato", procedendo all’archiviazione del relativo procedimento penale. La richiesta di archiviazione del procedimento n. 15/023899 RG PM NOTI proposta dalla Procura della Repubblica si basava sui seguenti elementi: gli arbusti "seppure in numero di 56" erano di piccole dimensioni (40 di 30 cm., e 16 di circa 12 cm di altezza); erano "piantati in modeste quantità di terriccio contenuto in buste di stoffa"; "custoditi in un terrazzo con esposizione a condizioni climatiche sfavorevoli". "In assenza di accorgimenti mirati e di specifiche modalità di coltivazione (quali lampade per assicurare condizioni idonee allo sviluppo completo del principio attivo) - si leggeva nell’atto - le piantine non avrebbero potuto mantenersi e crescere fino a produrre quantità di principio attivo tale da superare le soglie di offensività, tanto che dalle numerose piante sequestrate è stato rilevato un esiguo quantitativo di principio attivo, pari a soli grammi 0,468". Sento il dovere di informarLa, qualora non me avesse contezza, che per un’analoga coltivazione di cannabis effettuata sul mio terrazzo con le medesime modalità descritte nel provvedimento di archiviazione di cui sopra, sono processata a Siena per la cessione del prodotto di quella piantagione da me effettuata insieme a Marco Pannella e Laura Arconti il 1° novembre 2014 al congresso di Radicali italiani. Questa che sto portando avanti è la sesta coltivazione di cannabis sul mio terrazzo e vorrei qui riassumere cosa è accaduto le volte precedenti: 1) in data 9 novembre 2012, mentre ero in carica come deputata, effettuavo una cessione di cannabis terapeutica ai malati di sclerosi multipla del Social Cannabis Club LapianTiamo di Lecce; la sostanza proveniva dalla coltivazione che avevo avviato e completato sulla terrazza del mio appartamento documentando quasi quotidianamente sul mio profilo pubblico di Facebook la crescita delle piante; quel giorno, in Piazza Montecitorio a Roma, insieme a Marco Pannella sollecitai più volte le forze dell’ordine ad intervenire ma solo dopo molto tempo e dopo molte nostre insistenze i funzionari del Commissariato Trevi-Campo Marzio, sequestravano parte del raccolto quantificato nel verbale in quasi mezzo chilo di marijuana (478,03 grammi); nessuna ulteriore comunicazione in merito ho avuto, ad oggi, da parte dell’Autorità giudiziaria; 2) il 29 gennaio 2014, a Foggia, cedevo ai malati dell’associazione ?La Piantiamò, 120 grammi di marijuana da me coltivata sul mio terrazzo; il giorno dopo mi sono presentata per autodenunciarmi alla Procura della città pugliese, consegnando il video della cessione e le foto della coltivazione che, dalla semina alla fioritura, avevo postato sistematicamente sul mio profilo pubblico di Facebook; il 6 febbraio 2015, a più di un anno di distanza dai fatti - previsti come reati dalla normativa vigente - chiedevo ufficialmente notizie presso la Procura di Foggia ai sensi dell’art. 335 c. c. p. e da quella Procura mi venne rilasciato un certificato dal quale risultava che nei miei confronti "non esistono iscrizioni suscettibili di comunicazioni"; 3) il 25 luglio 2014, sempre presso la terrazza della mia abitazione, "seminavo" germogli di cannabis terapeutica assieme al leader Marco Pannella e all’esponente storica radicale Laura Arconti; il relativo raccolto lo consegnai a Chianciano il 1° novembre 2014 in pieno congresso di Radicali Italiani alla presenza del leader del CSC LapianTiamo, Andrea Trisciuoglio, delle forze dell’ordine preventivamente avvisate, dei miei "complici" Arconti e Pannella, e dei dirigenti e militanti del Movimento radicale. Il procedimento giungerà a sentenza il prossimo 21 ottobre alle ore 15 presso il Tribunale di Siena; 4) 15 Maggio 2015 ? sequestro delle mie 56 piante; 8 febbraio 2016, archiviazione G. I. P 5) 4 ottobre 2015 Roma ? presso la sede del Partito Radicale cedevo il raccolto della cannabis terapeutica coltivata sul mio terrazzo. Presenti Marco Pannella, Laura Arconti, Andrea Trisciuoglio e un malato che da due anni non riusciva ad aver accesso alla cannabis terapeutica se non al caro prezzo praticato dalla Asl. L’iniziativa veniva trasmessa in diretta da Radio Radicale e le riprese audio/video sono tuttora reperibili sul sito della radio. I ragazzi venivano successivamente fermati dalle forze dell’ordine, attratte dal forte odore di marijuana proveniente dalla loro automobile. Avvisata di questo fermo da Andrea Trisciuoglio, mi precipitavo presso la caserma dei Carabinieri vicino all’Orto Botanico per autodenunciarmi della cessione, raccontandola nei minimi particolari. Nessuna comunicazione mi è mai giunta dal 4 ottobre 2015 ad oggi. P. S. il ragazzo al quale i Carabinieri avevano sequestrato la mia marijuana, dopo molta sofferenza e dopo diversi mesi contrassegnati dalle sue e nostre insistenze, ha ottenuto gratuitamente la cannabis per curarsi ed ha potuto così scalare fino a ridurli a zero i farmaci a base di oppiacei che il servizio sanitario gli forniva da anni per combattere un dolore cronico "severo" refrattario ai comuni analgesici. Quanto a "certezza del diritto" non c’è che dire, visto che la disobbedienza civile alla legge in vigore la manifesto sempre con le medesime modalità. Ma c’è di più. Infatti, le mie sei coltivazioni costituiscono solo l’ultima fase di una carriera "criminale" iniziata nell’agosto del 1995, a Porta Portese, con Marco Pannella e altri dirigenti e militanti radicali fra i quali si possono annoverare l’attuale Sottosegretario agli esteri Benedetto Della Vedova (presentatore del disegno di legge di legalizzazione della cannabis), gli ex parlamentari Paolo Vigevano, Domenico Pinto, Sergio Stanzani, Gianfranco Dell’Alba, Olivier Dupuis e l’ex consigliere regionale in Liguria Vittorio Pezzuto. Quali sorti abbiano avuto le ripetute cessioni di hashish e marijuana degli anni 90 e duemila è documentato in un atto di sindacato ispettivo presentato nella presente legislatura dall’onorevole Tancredi Turco e rintracciabile a questo link http://aic.camera.it/aic/scheda.html/numero=4/08661&ramo=camera&leg=17. Per quel che mi riguarda una cosa è certa: nei miei confronti non è stato applicato quanto previsto dalla normativa in vigore, diversamente da quanto è stato e viene riservato da 21 anni a questa parte a centinaia di migliaia di cittadini nel nostro Paese. Ognuno può leggere sui giornali notizie che parlano di persone arrestate e spesso incarcerate anche per 4 o 5 piante di cannabis. Da questo punto di vista la vicenda di Fabrizio Pellegrini è emblematica: come me era recidivo, ma con una differenza: coltivava marijuana per curarsi della sua fibromialgia, dato che la Asl di Chieti chiedeva somme spropositate che, da indigente, non poteva assolutamente permettersi. Pellegrini è stato arrestato e trattenuto in carcere per oltre un mese in mezzo, e solo grazie a un patrocinio gratuito offerto da due avvocati esponenti del Partito Radicale, Vincenzo Di Nanna e Giuseppe Rossodivita, ha potuto usufruire degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Egregio Dott. Pignatone, Lei non può non arrestarmi. O liberi tutti o in galera anch’io. Io conduco la mia battaglia radicale antiproibizionista seguendo l’esempio di Marco Pannella che ha sempre creduto nel rigore della legge e quando l’ha infranta ha chiesto di subirne le conseguenze senza rivendicare alcun tipo di esimente politica. A Lei, Egregio Procuratore della Repubblica di Roma, Dott. Giuseppe Pignatone, chiedo soltanto di fare quel che Lei deve di fronte ad una persona recidiva che coltiva, per cederne il raccolto, ben 19 piante di marijuana. Buon lavoro. Cordialmente. Rita Bernardini Modena: l’incubo del carcere Sant’Anna, tra risse e latitanza del giudice di sorveglianza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2016 Continui episodi di violenza causati anche dalle forti criticità sanitarie per la cura dei tossicodipendenti e la quasi totale assenza del magistrato di sorveglianza. È una situazione esplosiva quella del carcere modenese di Sant’Anna. Da mesi è un continuo susseguirsi di risse, gesti autolesionisti, botte da orbi tra guardie penitenziarie e detenuti. La struttura ad oggi è un luogo ad altissimo rischio, sia per la salute degli agenti di polizia penitenziaria, sia per l’incolumità stessa dei detenuti. L’ultimo episodio risale al 18 agosto scorso quando un detenuto extracomunitario, per evitare che venisse trasferito un altro ristretto nella sua cella, ha tentato di ribellarsi. L’uomo avrebbe aggredito il personale intervenuto e sarebbero serviti tre poliziotti penitenziari per bloccarlo e riportare la calma nel reparto: a seguito delle botte ricevute i tre agenti sono stati medicati e refertati con sette giorni di prognosi a testa. Qualche giorno prima, a ferragosto, era andata in scena un’altra aggressione che ha visto protagonista un detenuto extracomunitario che ha minacciato un ispettore e l’agente di servizio in infermeria brandendo una lametta per poi utilizzarla sul suo corpo provocandosi diversi tagli. Dopo una lunga trattativa per far desistere il detenuto dal tagliarsi, le guardie sono riuscite a convincerlo a medicarsi. Il detenuto ha poi deciso di barricarsi in infermeria, facendosi scudo con le sedie e il lettino, costringendo gli operatori penitenziari ad immobilizzarlo e, a fatica, ad accompagnarlo in isolamento. Ma ci sono state anche risse tra detenuti. A luglio ne era scoppiata una tra detenuti italiani e marocchini. Così aveva riferito il Sappe: "Un marocchino ha riportato la frattura del setto nasale, mentre un italiano ustioni su varie parti del corpo, a causa del lancio di olio bollente". E aveva concluso: "Solo grazie all’intervento della polizia penitenziaria è stato scongiurato il peggio". I sindacati della polizia denunciano che la situazione, per loro, è diventata insostenibile e per protesta circa 130 appartenenti al Corpo, in servizio al reparto di Modena, hanno presentato una istanza di assegnazione ad altre strutture. Ma quali sono le cause di tanta violenza? Il carcere, attualmente, risulta sovraffollato. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione del Dap, su una capienza massima di 372 detenuti, ve ne sono ristretti 444. Ma non è quello il fattore scatenante. Il sindacato della polizia Alsippe ha emanato un comunicato dove ha spiegato i veri problemi. Non solo denuncia alcuni aspetti critici nella gestione amministrativa del carcere, ma parla di "problematiche di carattere sanitario dovute principalmente all’assenza di consapevolezza da parte del servizio sanitario preposto all’attività carceraria, che continua a effettuare interventi di cura non adeguati soprattutto per quei detenuti con gravi problemi di tossicodipendenza". Poi il sindacato spiega che il carcere modenese ormai "viene utilizzato ciclicamente per ospitare detenuti particolarmente violenti e che vengono trasferiti da altri istituti penitenziari per ragioni di sicurezza". Ma c’è anche un altro grave problema che contribuisce al disagio che provano i detenuti e che poi riversano in atti di violenza. A luglio è stata denunciata l’assenza totale del magistrato di sorveglianza il quale da più di otto mesi non va al carcere di Sant’Anna per ricevere i detenuti. Una situazione stigmatizzata anche dalla Garante regionale dei detenuti Desi Bruno. Il ruolo del magistrato di sorveglianza è importante: è colui che deve conoscere le storie dei detenuti e il loro fascicolo, è lui che deve decidere sulla detenzione. Sono tanti i detenuti che hanno avuto gravi problemi per i ritardi delle pratiche che permettevano loro di uscire dal carcere con pene alternative. E nascono anche storie tragiche. Come quella di un uomo con problemi di salute mentale che si è impiccato in cella poche ore prima che gli fosse notificata l’idoneità per scontare la pena ai domiciliari in una casa di accoglienza. O come un carcerato che aveva chiesto la libertà anticipata ma che per ottenere udienza al Tribunale del magistrato di sorveglianza ha dovuto aspettare e quando ha ottenuto ragione aveva già scontato due mesi in più di quanto doveva. Sono casi accaduti al carcere di Sant’Anna, ben noti anche agli operatori interni alla struttura. Tra i tanti c’è la storia tristissima di un 53enne che, avendo precedenti per piccoli reati, aveva patteggiato un anno di carcere nel 2011 diventato definito nel 2015. Ed era stato portato a Sant’Anna nell’aprile 2015: parliamo di un uomo minato nella salute dall’alcolismo, in cura al Centro salute mentale e che prima di essere ristretto era ospite di una casa di accoglienza in montagna. In carcere tutti si sono accorti di quanto fosse fragile. I suoi avvocati avevano avanzato richiesta per fargli scontare i mesi restanti in quel centro in Appennino. Tutti lo controllavano sapendo quanto fosse depresso. Ma lui non ce l’ha fatta e a fine luglio si era impiccato. Ma non è morto subito. Seppur prontamente soccorso, la sua agonia è durata in ospedale fino a gennaio scorso. Quando si muore in ospedale, il nome non rientra nemmeno tra le statistiche dei suicidi in carcere. Firenze: la piccola rom che sarà battezzata nel carcere di Sollicciano Il Dubbio, 23 agosto 2016 Lei è una piccola di un anno e mezzo, detenuta insieme alla mamma nel carcere di Sollicciano. Domenica 4 settembre sarà battezzata nell’istituto penitenziario toscano. La bambina non è nata in carcere, ma ci è arrivata qualche mese fa dopo l’arresto della madre, che deve scontare ancora circa un anno di galera. Il battesimo, voluto dalla madre reclusa e dal padre della piccola, entrambi originari dei Balcani, di etnia rom, sarà celebrato nella chiesa del carcere dal cappellano dell’istituto don Vincenzo Russo. È proprio il cappellano a sottolineare la straordinarietà della cosa: "Un evento religiosamente importante ma che evidenzia una forte criticità del carcere di Sollicciano, e non solo di Sollicciano, dove è costretta a vivere una piccolissima bambina, che invece dovrebbe crescere lontano dalle sbarre dall’ambiente detentivo. Far vivere una bambina così piccola in carcere è un vero e proprio sequestro di persona". "Sarà un momento importante per la famiglia della bambina ? ha aggiunto don Vincenzo Russo ? ma speriamo che possa costituire anche un momento di riflessione affinché siano trovate soluzioni diverse per le figlie delle detenute. Una bambina innocente non può pagare per le colpe della madre". Agrigento: Uil-Pa; in carcere infiltrazioni d’acqua e personale insufficiente Adnkronos, 23 agosto 2016 Proseguono i sopralluoghi della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria presso le carceri siciliane. Dopo la casa circondariale di Giarre, in provincia di Catania, è stata la volta di Agrigento, dove una delegazione del sindacato, capeggiata da Angelo Urso e Armando Algozzino, rispettivamente segretario generale e segretario nazionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, si è recata al carcere Petrusa. "Malgrado l’inaugurazione relativamente recente della struttura, risalente al 1995 - sottolinea l’esponente della Uil, accompagnato nel corso della visita da Gioacchino Veneziano e Calogero Speziale, rispettivamente segretario regionale e provinciale della Uilpa Polizia Penitenziaria - l’istituto non è mai stato interessato da interventi di manutenzione straordinaria né tantomeno ordinaria e presenta un aspetto già logoro". "Le infiltrazioni di acqua, molto diffuse, creano disagi soprattutto nella stagione invernale - spiega il sindacato -. Quest’ultimo fenomeno riguarda in particolar modo l’ufficio matricola, dove le infiltrazioni d’acqua rischiano di danneggiare i numerosi fascicoli presenti, tutelati dall’accortezza del personale in servizio". La segreteria nazionale ha trasmesso una nota al Visag, il servizio di vigilanza sull’igiene e la sicurezza dell’amministrazione della giustizia, per garantire al personale della polizia penitenziaria "idonee condizioni lavorative sotto il profilo della salubrità". A fronte di 35 ispettori, Petrusa ne ha soltanto 11; i sovrintendenti sono 6 rispetto ai 31 previsti, così come sono 200 gli agenti in servizio, rispetto ai 236 che l’istituto dovrebbe annoverare. "In tutto - chiarisce ulteriormente Algozzino - le unità in servizio sono 245, con un impiego di 36 soggetti nel Nucleo traduzioni e piantonamenti, la cui posizione nel centro - sud della Sicilia fa sì che esso fornisca supporto ad altri nuclei quali Sciacca, Enna e Caltanissetta". Tra le numerose criticità individuate, anche l’assenza di impianto di climatizzazione nelle garitte sul muro di cinta, un particolare che "rivela lo stato di diffusa trascuratezza della struttura, situata in un’area dove le temperature estive possono anche raggiungere i 40 gradi". Napoli: "in cella con le detenute ho conosciuto il perdono" di Antonio Mattone Il Mattino, 23 agosto 2016 Il Racconto di suor Clotilde, vita da missionaria in carcere. L’8 giugno 1903 il prefetto di Napoli Tommaso Tittoni scrisse a quello di Perugia per farsi inviare 5 suore da destinare al nuovo carcere che da lì a qualche anno sarebbe sorto nella zona orientale della città. Il funzionario era stato nella cittadina umbra qualche anno prima ed evidentemente aveva conosciuto le capacità e le virtù delle monache. Dopo 6 giorni, accompagnate dalla Madre generale, le 5 religiose giunsero a Napoli ed alloggiarono nella prigione del Carmine dove alcuni giorni dopo furono sistemate 200 detenute, "tutte donne di malaffare che trascorrevano il loro tempo a bestemmiare e a cantare" come riporta un documento redatto oltre mezzo secolo fa, che ripercorre questa vicenda. Comincia così l’avventura delle suore della Divina Provvidenza, le cosiddette suore francesi, nelle carceri femminili di Napoli. Una presenza che qualche anno dopo il loro arrivo è proseguita nel carcere di Poggioreale, senza interruzioni fino al 1975, quando con la chiusura del manicomio criminale femminile di Pozzuoli, le detenute vennero trasferite nel penitenziario flegreo. Suor Clotilde è stata una delle ultime religiose a lasciare la missione con le carcerate. Oggi ha 79 anni e vive in un convento a Castellammare di Stabia. Gracile, con qualche acciacco sulle spalle, quando comincia a raccontare degli anni del suo apostolato a Poggioreale sgrana i suoi occhi vispi. "Io ci ritornerei ad occhi chiusi, ci si voleva bene", dice con ferma convinzione. Poi comincia a parlare di Marco Pannella. "I detenuti ne dicono bene, ed hanno ragione. Io che ho vissuto nel carcere posso dire che quello diceva la verità". Si perché Suor Clotilde assieme ad altre 30 consorelle stava giorno e notte all’interno delle mura del penitenziario, condividendo con le prigioniere la vita quotidiana ma anche le ansie e i piccoli e grandi problemi di esistenze difficili. "Loro ci raccontavano cose che neppure gli avvocati conoscevano - dice la suora con un filo di voce, come a voler mantenere confidenze e racconti custoditi nel segreto e mai svelati. Noi sapevamo tutto". Non c’erano agenti di custodia a sorvegliare le donne, ma solo due guardiane che stavano per lo più all’esterno delle mura ed erano addette alle perquisizioni delle detenute, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Le religiose si occupavano di tutto, dalla cucina alle attività di cucito e ricamo fino ai conti della spesa delle ospiti. Tenevano con loro le grandi chiavi che chiudevano celle e cancellate ed erano addette perfino al controllo del portone dell’edificio. Solo la notte erano sostituite dalle guardiane per questo compito e tornavano nel loro alloggio attiguo alla prigione. Se le detenute avevano bisogno di qualche genere di necessità, una suora usciva e si procurava quello che loro chiedevano. E proprio per soddisfare una loro richiesta, una consorella fu investita da una macchina e morì. Le donne rimasero scosse, chiesero il permesso al direttore di prendere i soldi dai loro risparmi per fare una bella ghirlanda di fiori per il funerale. Il commercio della borsa nera fece salire vertiginosamente il numero delle recluse nel periodo della guerra e in quello post bellico. In quel periodo le ospiti erano più di 400. Negli anni successivi, invece, ci fu una riduzione degli ingressi: "la conta riporta oggi 170 presenze, compresi i 7 bimbi del nido", si legge in una relazione del direttore redatta nel 1965. La presenza dei bambini incarcerati assieme alle madri era l’aspetto più struggente. Arrivarono ad essere anche una ventina, dai più piccoli che stavano ancora nelle cullette fino a quelli più grandicelli. Alcuni donne partorivano proprio in carcere, Suor Clotilde si ricorda almeno di 20 bambini venuti alla luce a Poggioreale. Erano oggetto dell’attenzione di tutti, soprattutto durante le cerimonie o le visite di qualche personalità. Quando il 17 dicembre 1938 Sua Altezza Reale Maria Josè la Principessa di Piemonte andò a trovare le detenute "si diresse al piano del nido, chiedeva il nome ai bambini e li accarezzava", riporta un dettagliato resoconto di quell’incontro. Era un solidarietà vera, non di facciata, che nei momenti drammatici veniva fuori. Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale le detenute e le suore scendevano insieme nei sotterranei. E proprio in quegli scantinati tenebrosi, qualche mese fa sono stati rinvenuti la cella buia e il letto di pietra, che secondo il regolamento del 1931 erano destinati per chi subiva punizioni. Tuttavia, le religiosa afferma che non furono mai utilizzati. Quando scoppiò una bomba nei pressi del carcere, alcune donne pur ferite dalle schegge fecero scudo con il loro corpo per mettere in salvo le suore. Suor Clotilde era infermiera, ed aveva la mansione di preparare i ferri per gli interventi nella camera operatoria. "Mi sono trovata con dei mafiosi, quelli terribili, - dice abbassando ancora una volta il tono della voce. Tenevo con le mie mani quelli che avevano ammazzato e loro mi chiedevano: suora ma ce la farò?". Sono rapporti ed amicizie che sono continuati nel tempo, come quella con una donna di origini calabresi che si incolpò dell’omicidio del cognato al posto della sorella. Un uomo violento che voleva uccidere la moglie, ma lei fece prima e lo ammazzò. Poiché la sorella aveva 2 figli piccoli da accudire si accusò del delitto che non aveva commesso, e anche essendo minorenne finì in prigione. "Era tubercolotica e cacciava sangue - ricorda la religiosa - ed io con il bacile lo raccoglievo senza precauzioni. E lei queste cose non le ha dimenticate". Ora è sposata ed ha 3 figli, e ogni tanto telefona alla vecchia suora, ed è andata a trovarla con il marito. La superiora di allora, di origini nobili, raccontò la sua storia al ministro Gonella che le fece avere la grazia. "Io ho imparato tanto nel carcere - ribadisce suor Clorinda -, ho imparato il perdono. È facile giudicare chi ha fatto del male. Ma io credo che se il Signore non mi avesse dato il dono della vocazione forse mi sarei potuta trovare in mezzo a loro". E con i suoi occhi vispi sorride e saluta dalla finestra. Ventimiglia (Im): proseguono le attività dello Sportello Spin, di nuovo attivo sul territorio sanremonews.it, 23 agosto 2016 Lo sportello ventimigliese é aperto tutti i martedì dalle 14 alle 16 presso la sede dei servizi sociali in Piazza XX Settembre. Lo sportello SPIN si rivolge a persone che abbiano problemi di giustizia (detenuti, ex-detenuti, persone in attesa di scontare una condanna) o che sono interessate a tali problematiche (familiari), con lo scopo di fornire supporto, orientamento ed informazioni specifiche su lavoro-formazione-istruzione, gratuito patrocinio, misure alternative alla detenzione, messa alla prova, istanze di remissione del debito ed indulto, multe ed ammende, servizi presenti sul territorio. Per ulteriori informazioni contattare la mail spin.imperia@gmail.com o chiamare il nuovo numero dedicato 3664626547. Viareggio (Lu): a Villa Argentina i racconti e le foto dei detenuti di Massa e Lucca dilucca.it, 23 agosto 2016 Doppio appuntamento, mercoledì 24 agosto, per la rassegna estiva di Villa Argentina a Viareggio "Di mercoledì, scrittori e lettori sulla terrazza di Villa Argentina". Il libro "Impariamo a volare! Racconti e poesie dall’Isola del naufragio" (Bandecchi e Vivaldi Editore) è una raccolta di testi scritti dai detenuti della casa di Reclusione di Massa prodotti durante il 2015 grazie al Laboratorio di Scrittura Creativa, realizzato con il contributo della Banca della Versilia Lunigiana e Garfagnana, e sarà presentato domani, alle ore 18.00, nella suggestiva cornice di Villa Argentina. Nello stesso giorno, sarà inaugurata anche la mostra di fotografie scattate dai detenuti del carcere San Giorgio di Lucca durante l’"Ora d’aria", progetto realizzato in collaborazione con la Provincia Di Lucca Stampa e la Fondazione Banca del Monte di Lucca. La mostra sarà visitabile fino al 4 settembre, dal martedì al sabato, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 24.00; la domenica dalle 16.00 alle 24.00. Alla giornata interverranno Costantino Paolicchi, responsabile del Laboratorio di Scrittura Creativa dell’Associazione di Volontariato Carcere di Massa, Nicola Gnesi, direttore artistico del progetto "Ora d’Aria", Emanuele Giannelli, artista. A introdurre e moderare, Vito Michele Cornacchia, psicologo e critico d’arte. Palermo: film sotto le stelle per i detenuti dell’Ucciardone Dire, 23 agosto 2016 Film sotto le stelle per tutti i detenuti dell’antico carcere dell’Ucciardone di Palermo. Per il sesto anno consecutivo il centro di accoglienza Padre Nostro e la direzione della Casa Circondariale dell’Ucciardone organizzano la manifestazione cinematografica dal titolo "Nuovissimo Cinemissimo Paradisissimo 6" che vede impegnati i volontari del centro all’interno del carcere Ucciardone. Sono previste quattro proiezioni serali, da oggi al 30 agosto. La rassegna cinematografica si svolge non all’interno del teatro del carcere che può contenere soltanto 60 persone ma nelle aree esterne di passeggio delle varie sezioni carcerarie che possono avere una partecipazione variabile che va da 50 ad un massimo di 200 persone. Il centro fornisce un videoproiettore che con l’aiuto degli stessi detenuti viene trasferito da un punto all’altro della casa di reclusione per dare a tutti la possibilità di partecipare. Durante la pausa del film ai detenuti viene offerto il gelato. "Siamo i primi in tutta Italia per la forma in cui avviene l’iniziativa che non è in un ambiente chiuso ma nell’area esterna alle sezioni. Continuiamo nel solco del nostro fondatore, il beato Giuseppe Puglisi, che nel suo mandato pastorale aveva un’attenzione particolare per i detenuti e le loro famiglie - afferma Maurizio Artale, presidente del centro Padre Nostro -. Per una sera regaliamo ad ogni detenuto la possibilità di guardare un film ed ammirare le stelle nella speranza di vedere un giorno brillare anche quella della loro vita. L’emozione dei detenuti è davvero notevole perché escono per l’ora d’aria soltanto di giorno e mai la sera". La violenza individuale nella "società psicotica" di Mauro Magatti Corriere della Sera, 23 agosto 2016 Un ruolo fondamentale lo gioca la rete, che non solo trasmette in modo anarchico messaggi e immagini estremamente violente, ma soprattutto rende disponibili identificazioni immaginarie per privatissimi disegni criminali. Uno degli aspetti più sorprendenti del tempo che viviamo è che, nonostante condizioni economiche precarie e scarse prospettive per il futuro, il livello di conflitto sociale continua a essere alquanto limitato. Esiste, è vero, un diffuso malcontento che si incanala nei vari populismi. Ma, al di là di qualche fiammata (come la protesta contro la riforma del lavoro in Francia, Occupy wall street a New York o la "rivolta dei forconi" in Italia), non si ha traccia di un vero conflitto sociale. Al contrario, le cronache sono piene di episodi violenti legati al terrorismo di matrice islamica, al femminicidio, alle stragi di singoli uomini in "preda alla follia". Ciò che accomuna tutte queste drammatiche vicende è l’azione individuale - o al più di microgruppi - che si sfoga direttamente contro qualche innocente mediante un atto violento. Non ci si associa più in un gruppo o in un movimento; non si abbraccia più una prospettiva di futuro. Come nel quadro di Munch, ciò che rimane è solo un urlo che non riesce a prendere parola ma che passa direttamente all’atto. Nella certezza di finire all’indomani sulle prime pagine dei giornali, raggiungendo così una seppur postuma glorificazione dell’Io. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo che lega insieme l’individualismo radicale e le faglie del cambiamento sociale in atto (l’identità di genere, il passaggio generazionale, il riconoscimento sociale). Nella società a pezzi nella quale viviamo, persino il conflitto si esprime in forma molecolare, episodica e violenta. Senza un senso né una direzione. Un ruolo fondamentale lo gioca la rete, che non solo trasmette in modo anarchico messaggi e immagini estremamente violente, ma soprattutto rende disponibili identificazioni immaginarie per privatissimi disegni criminali. Come ha mostrato O. Roy, è questo un aspetto molto importante per capire i giovani jihadisti francesi. La loro "carriera fondamentalista" non ha alcun rapporto né con la concretezza di una qualche comunità né con l’insegnamento religioso, ma passa da forme di socializzazione con un ristrettissimo gruppo di "compagni" incontrati in un luogo particolare (quartiere, prigione, società sportiva) con cui si crea un senso di profonda comunanza. Grazie alla rete diviene poi possibile riconoscersi in un "Islam puro" che viene preso come via d’uscita da una situazione insopportabile. Da qui nasce una nuova personalità, in preda al delirio di onnipotenza e alla voglia di rivincita: la volontà di uccidere coincide con la fascinazione per la propria morte, perché se si ha un ragione per morire, allora si ha anche un motivo per vivere. Roy parla di una forma di "nichilismo individualistico" che trova nella interpretazione fantasmagorica della religione offerta dalla rete il canale della propria strutturazione. Ma non è solo questione del web. Più in profondità, il problema nasce dal fatto che nella società contemporanea pensiamo di poter evitare i conflitti semplicemente aumentando le possibilità di azione individuali. Col risultato che, oltre alla indifferenza, cresce la sfiducia che le cose possano essere risolte un pò alla volta, discutendo o, quando serve, lottando. Lo psicanalista Pietro Barbetta ha parlato di "società psicotica", facendo riferimento ad una condizione nella quale si ha la perdita della capacità di accettare e gestire gli elementi problematici della realtà. Il conflitto viene rimosso: bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Operazione alla lunga insostenibile, che induce meccanismi di difesa spesso problematici (svalutazione, scissione, identificazione proiettiva, diniego, onnipotenza) per proteggere l’individuo dalla disintegrazione. Così, di fronte a un problema che pesa sulla sua vita, lo psicotico, anziché aprire una discussione, si rivolge a un’istanza superiore che, nella sua mente, dovrebbe annientare l’origine della sua sofferenza. Come l’individuo psicotico, così la società psicotica - sottomessa e impotente - accumula frustrazione e nel contempo la nega. Esponendosi così alle forme tragiche della sua manifestazione. In tale interpretazione, la violenza molecolare e la domanda dell’"uomo forte" fanno parte della stessa sindrome. Tutto ciò porta a interrogarci sulla natura della cosiddetta "società della comunicazione": come in un bazar, tutti gridano: il rumore di fondo è altissimo, nessuno riesce più a parlare con qualcun altro. Neppure col proprio vicino. Così, nell’impossibilità di articolare non dico un dialogo, ma almeno un conflitto aperto e leale, per molti non rimane che la violenza. Come urlo disperato, per farsi ascoltare. Libertà di scegliere la propria oppressione, vietare il burkini è un boomerang di Nicoletta Gini Il Manifesto, 23 agosto 2016 Donna non si nasce, lo si diventa. Il celebre motto di Simone de Beauvoir, diventato ormai il mantra di una buona parte del femminismo, ha subito forse un cambiamento di significato rispetto al senso che aveva assunto ne "Il secondo sesso". Ricostruiva e decostruiva con minuzia di particolari il modo in cui la definizione di maschile e femminile aveva determinato ogni campo del sapere e ne era stata determinata a sua volta. Il genere perciò non è altro che l’insieme del sapere su maschile e femminile, sapere che influisce costantemente sul modo di immaginarsi. Ne "Il sapere senza fondamenti" Aldo Giorgio Gargani suggerisce che ogni tipo di sapere ha la necessità di darsi uno sfondo che vada oltre il sapere stesso e che legittimi, nascondendola, la totale arbitrarietà dei suoi assunti: il modo cioè in cui costruiamo l’immagine del mondo e la chiamiamo vera. Lo stesso accade forse per il sapere del sé. Il sapere sul genere - femminile o maschile - che assorbiamo attraverso le pratiche quotidiane, l’educazione e lo studio è anche parte del percorso che decide ciò che diventeremo a fronte delle aspettative che il mondo e noi stessi abbiamo in relazione al nostro sesso. Ogni tempo e ogni civiltà ha costruito un "discorso" sul maschio e sulla femmina, creando la grammatica delle relazioni di ognuna e di ognuno con il sé e con il mondo. Come ogni sapere, anche questo discorso ha avuto la necessità di fondarsi metafisicamente: ecco allora il ricorso alla "natura", alla religione, all’eternità, e non ultimo ai diritti universali, che suona come un assiomatico ridondare allo stesso modo di un perché sì" dato a risposta alla domanda perché?". La tensione tra aspettativa e volontà è dappertutto tangibile: la definizione della donna, che come femministe abbiamo imparato a mettere in discussione, ha allo stesso tempo portato alla definizione dell’uomo, che forse ha ancora bisogno di essere messa in crisi. Eppure si tratta di definizioni che si vogliono universali - anche nel discorso femminista, in cui la donna deve essere "libera" - e che ancora si scontrano con la varietà dell’individuale, creando di nuovo il paradosso del sapere che rammentava Gargani. Perché? Perché sì. La polemica sul burkini non è altro che un esempio della medesima tensione. Non v’è dubbio che si tratta di un capo che simbolizza un’oppressione di stampo religioso, che mira a mortificare il corpo femminile come se fosse elemento di vergogna e per il quale la donna deve umiliarsi. Ma la scelta di indossarlo è davvero lesione del diritto all’autodeterminazione e sintomo di un regime maschilista interiorizzato più di quanto non siano le pratiche quotidiane di ciascuna e ciascuno di noi che rispondono all’immagine della donna e dell’uomo che determinano le nostre scelte e il nostro definirci? Il divieto di indossarlo, non indica semplicemente la contrapposizione di due immagini del femminile - così ben rappresentata nella famosa partita di beach volley tra Egitto e Germania in cui, come al solito, più che delle capacità si è parlato dell’apparenza delle atlete - che come tali sono statiche ed entrano necessariamente in conflitto con la volontà del singolo? È questa tensione che, tra conflitti e identificazione, definisce il sé in rapporto al proprio sesso e solo chi la vive può decidere cosa accettare e cosa rifiutare. Certo, alcuni caratteri sono più faticosi di altri, ma solo scoprendo che dietro al discorso con cui ci confrontiamo per definirci non esiste nessun fondamento che lo legittima, si può arrivare a vivere in piena autodeterminazione e nella piena consapevolezza delle concessioni che decidiamo di fare o, finalmente, di non fare più. Altrimenti, vietare il burkini somiglia un pò alla volontà di esportare la democrazia in un altro paese. Inutile e distruttivo. Europa: in cerca di unità per fermare migranti e terrorismo di Carlo Lania Il Manifesto, 23 agosto 2016 Il vertice di Ventotene. I tre leader chiedono all’Ue maggiore cooperazione su migration compact e intelligence. Per quanto riguarda i migranti "la Germania ha cambiato la propria posizione. Per tanti anni siamo stati contrari all’europeizzazione di questo tema, adesso invece vogliamo più collaborazione europea". Sembra un mea culpa quello pronunciato ieri da Angela Merkel. Sembra, perché in realtà dietro le parole della cancelliera tedesca, che parla dal ponte della portaerei Garibaldi con al fianco il premier italiano Matteo Renzi e il presidente francese Francois Hollande e con alle spalle l’isola di Ventotene, c’è solo la rivendicazione delle politiche che l’Europa vuole attuare per arginare i flussi di migranti. A partire dall’accordo con la Turchia, che la cancelliera rivendica nonostante le continue violazioni di diritti umani da parte di Ankara, e che giustifica con la necessità di rendere più sicuri i confini del Vecchio Continente. La neonata (forse) guardia costiera europea da sola "non basta" spiega, giustificando in questo modo la necessità di arrivare a tutti i costi a una ripresa più serena dei colloqui con Ankara. Temi economici a parte, sui quali ha insistito in modo particolare Renzi, crisi dei migranti e sicurezza dai pericoli del terrorismo jihadista sono stati gli altri due argomenti che hanno tenuto banco al vertice di Ventotene. Sul primo punto c’è poco da dire. I tre leader hanno confermato la necessità di avviare subito accordi con i paesi africani di origine dei migranti per convincerli a una maggiore collaborazione nel fermare le partenze. Si tratta della conferma dei migration compact proposti nella scorsa primavera dall’Italia e fatti propri da Bruxelles, seppure in una versione ridotta rispetto a quella avanzata da Roma. "Se vogliamo essere credibili dobbiamo andare in Africa e intervenire" ribadisce Renzi, che se da una parte rivendica giustamente la scelta di salvare vite in mare dall’altra, aggiunge, "è arrivato il momento in cui noi europei facciamo uno sforza comune. È successo con altre rotte (il riferimento è a quella balcanica, chiusa proprio in seguito all’accordo con la Turchia, ndr) deve diventarlo anche per il Mediterraneo centrale". Rotta attraverso la quale "a oggi sono arrivati sulle coste italiane 102 mila migranti, lo scorso anno al 20 agosto erano stati 105 mila". Intervenire in Africa significa finanziare progetti di sviluppo nei paesi di origine in cambio di controlli più serrati delle frontiere e campi profughi dove fermare i migranti e avviare una selezione di coloro che hanno diritto all’asilo. Un progetto sul quale i tre leader sanno di aver la strada spianata persino con gli stati membri più ostici, come i paesi dell’est. Almeno per quanto riguarda la necessità di fermare la massa di disperati che cerca di raggiungere l’Europa. Altro discorso è reperire i finanziamenti necessari a far sì che tutto ciò avvenga. Il progetto prevede infatti uno stanziamento di 3,1 miliardi di euro dal budget europeo più una cifra analoga a carico degli Stati membri. Somma che dovrebbe crescere fino ad arrivare a 60 miliardi di euro grazie all’effetto leva. Viste le difficoltà avute nel finanziare progetti analoghi qualche perplessità c’è. Ma trovare una soluzione alla crisi dei migranti significa anche dare finalmente il via ai ricollocamenti. Argomento sul quale però la maggior parte degli Stati membri fa orecchie da mercante. A partire proprio dalla Germania della cancelliera. La soluzione proposta un anno fa dalla Commissione Juncker prevedeva la distribuzione tra i 27 di 40 mila migranti in due anni, 24 mila dalla Grecia e 16 mila dall’Italia. I profughi effettivamente ricollocati alla fine di luglio sono stati invece appena mille per le difficoltà create dalle singole capitali, Berlino compresa che fino a oggi ne ha accolti solo 57. Tutte cose che Renzi, Hollande e Merkel affronteranno nel vertice informale previsto per il 16 settembre a Bratislava. E nel quale, oltre agli scontati temi economici, si parlerà anche di sicurezza. Gli attenti in Germania e Francia hanno spinto ieri i tre leader a chiedere maggiore cooperazione anche su questo delicato terreno. Va detto che fino a oggi, anche dopo gli attacchi di gennaio 2015 a Parigi, gli Stati sono andati ognuno per conto suo, tanto da rendere impossibile la creazione di una procura europea antiterrorismo in grado di garantire una cabina di regina delle indagini e - soprattutto - la possibilità di mettere in comune le informazioni raccolte dai vari servizi. Cosa impossibile fino a oggi per le gelosie nazioni "Dobbiamo condividere di più le informazioni di intelligence. Vogliamo anche maggiore coordinamento, più mezzi e più risorse nel settore della difesa", ha detto ieri Hollande. E d’accordo con lui si sono detti anche Renzi e Merkel. Al di là delle buone intenzioni, va detto però che tutte le decisioni prese ieri e che verranno prese entro la fine dell’anno, per essere attuate dovranno tener conto dei risultati delle elezioni già fissate in Austria (2 ottobre) e in Germania e Francia (2017), nonché del fatto che dei tre leader visti ieri a Ventotene almeno uno, Hollande, tra un anno probabilmente non siederà più all’Eliseo. Stati Uniti. Obama prova a chiudere le carceri private di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 23 agosto 2016 Stati uniti. Prigioni più violente e più costose di quelle pubbliche. E le azioni dei "big" delle sbarre vanno a picco. A pochi mesi dal suo definitivo addio alla Casa Bianca, Barack Obama dice addio anche alle prigioni private. Il Dipartimento di Giustizia ha dato indicazione al Federal Bureau of Prisons di rivedere e non rinnovare tutti i contratti con le multinazionali che gestiscono le carceri private. Nella comunicazione ufficiale del Dipartimento della Giustizia federale si legge che le prigioni private "non assicurano lo stesso livello di servizi e programmi per la riabilitazione; non garantiscono risparmi sui costi e adeguati livelli di sicurezza". L’American Civil Liberties Union, da sempre impegnata contro la mass incarceration, per bocca dell’avvocato Carl Takei, che dirige il progetto nazionale sulle prigioni, ha definito l’annuncio "una vittoria straordinaria, enorme che migliorerà considerevolmente la vita di migliaia di persone che altrimenti sarebbero restate chiuse in quei posti abusivi, incomprensibili e gestiti solo per fare soldi". Due anni prima l’Aclu aveva pubblicato un rapporto shock sulle donne e gli uomini dimenticati e intrappolati nei centri privati di reclusione dei migranti. Non è mai troppo tardi e ora il Federal Bureau of Prisons afferma categoricamente che le prigioni private sono addirittura ben nove volte più chiuse e violente rispetto a quelle pubbliche, usano l’isolamento disciplinare in modo improprio e fortemente lesivo dei diritti umani, negano un adeguato trattamento medico ai detenuti e non assicurano la sicurezza personale dello staff penitenziario. Le modalità di reclutamento dello staff e di funzionamento della vita interna in una prigione privata sono descritte in modo formidabile da un’inchiesta giornalistica realizzata da un reporter del Mother Jones che si è fatto assumere come guardia dalla Correction Corporations of America (CCA), una delle grandi multinazionali della sicurezza che gestisce parte dei 131 mila prigionieri custoditi negli USA da privati. I suoi quattro mesi passati come guardia nella prigione di Winn in Louisiana, uno stato che ha un tasso di detenzione pari a 800 detenuti ogni 100 mila abitanti, costituiscono una ricerca etnografica straordinaria. In apertura racconta che per essere assunto gli è stato sufficiente telefonare al centralino della CCA così contrattando uno stipendio di 9 dollari l’ora: formazione zero, preparazione zero, conoscenza del sistema penitenziario zero. L’annuncio del Dipartimento della Giustizia Federale ha fatto traballare le quotazioni in borsa dei due colossi del sistema penitenziario privato: la CCA e il GEO Group. I contratti in scadenza non verranno rinnovati. Una richiesta di nuovi 10.800 posti letto per il Texas è stata ridotta a 3.600. Molti contratti saranno dunque progressivamente cancellati già entro marzo 2017. Si attende adesso una presa di posizione del Department of Homeland Security che gestisce il sistema di reclusione degli immigrati e che già l’anno scorso aveva fortemente criticato le società che gestiscono i centri privati per il trattamento non rispettoso del diritto alla salute fisica e psichica degli immigrati ristretti nei centri privati. La speranza è che il Dipartimento degli Interni si metta nel solco di quello della Giustizia disdicendo i contratti in corso d’opera. La mole degli affari fa impressione. Il 9% degli introiti complessivi della CCA arriva dal Federal Bureau of Prisons per gestire le carceri private e addirittura il 28% dal Dipartimento degli Interni per la reclusione degli immigrati. Nel caso della GEO il 15% del bilancio è prodotto dalla gestione delle galere e il 18% dai centri per migranti. La GEO ha ottenuto una commessa di un miliardo di dollari solo per detenere madri provenienti dal Centro-America con i loro figli. Un affare enorme sulla testa delle persone che ha fatto crescere a dismisura i tassi di detenzione negli Usa, evidenziando anche casi di corruzione tra i giudici. Se anche il Dipartimento degli Interni dovesse decidere di cancellare i suoi contratti verrebbe inferto un colpo mortale ad entrambe le multinazionali corresponsabili nel processo di incarcerazione di massa negli Usa. Egitto. Caso Regeni, la famiglia contro Al Sisi "sia solidale con i fatti, non solo a parole" La Repubblica, 23 agosto 2016 Il presidente egiziano parla di "sforzi investigativi" e "collaborazione con l’Italia" nelle indagini sull’assassinio del ricercatore italiano. I genitori di Giulio: "Finora nessuna risposta concreta". "Non capiamo a quali dichiarazioni positive faccia riferimento Al Sisi né a quale solidarietà alluda, atteso che ad oggi le indagini sono ancora in una fase di stallo e nessuna risposta concreta ci è stata fornita dalle autorità egiziane". I genitori di Giulio Regeni, il ricercatore italiano assassinato in Egitto e il cui corpo è stato ritrovato lo scorso febbraio, commentano così - attraverso il loro legale, Alessandra Ballerini - le parole del presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, che in un incontro con i giornalisti locali, riportato dal quotidiano El Watan, ha sottolineato l’"apprezzamento per i commenti positivi del presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi", sostenendo che "in Italia comprendono che stiamo collaborando con loro e che siamo desiderosi di scoprire la verità". Al Sisi ha parlato anche della solidarietà dell’Egitto nei confronti della famiglia di Regeni precisando che "vi è collaborazione" tra gli inquirenti dei due paesi. Ha ricordato gli incontri tra le "delegazioni non governative italiane ed egiziane volte a chiarire gli aspetti della cooperazione bilaterale", ha aggiunto che "gli sforzi investigativi sul caso sono tuttora in corso", ha concluso ripetendo quanto già affermato lo scorso marzo, in un discorso in diretta televisiva, e cioè che a complicare la vicenda sarebbe stato "il modo in cui alcuni media egiziani hanno trattato la questione". Parole, quelle del presidente egiziano, che non trovano riscontro nella realtà, come i genitori di Regeni tengono a ricordare. "Non sono stati consegnati gli atti richiesti dai nostri avvocati alla procura egiziana, non è stata fornita alcuna risposta circa la nostra pubblica domanda riguardo la veridicità di quanto affermato nel dettagliato dossier consegnato da un anonimo alla nostra ambasciata a Berna ed infine non è stata minimamente presa in considerazione la nostra richiesta di libertà e giustizia per il nostro consulente Ahmed Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecfr), che si trova in carcere dal 25 aprile e che ha anzi subito recentemente una gravissima aggressione in cella ed è stato privato dei libri che aveva con sé". Risale a un mese fa, il 19 luglio, l’ultimo "no" della commissione egiziana che lavora al caso. E che ha accusato l’talia di aver avanzato "richieste in contrasto con la Costituzione", ovvero parte dei tabulati, l’estradizione di tre persone e le immagini di telecamere a circuito chiuso. Accuse respinte dalle fonti investigative di Roma, secondo le quali non sarebbe stata "chiesta l’estradizione di alcuno". "La solidarietà - concludono Paola e Claudio Regeni - il presidente Al Sisi la dimostri coi fatti, non con le parole". Brasile. Quelle carceri senza guardie da cui l’Italia dovrebbe imparare di Piero Metti Il Foglio, 23 agosto 2016 "Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori". La scritta - a mano, nera su sfondo azzurro - accoglie i visitatori di una delle mostre presenti al Meeting. Si intitola "Dall’amore nessuno fugge", non parla di buoni sentimenti ma di carcerati in Brasile che scontano la loro pena nelle strutture Apac (dal nome dell’associazione che le gestisce, Associazione di protezione e assistenza ai condannati). Ladri, stupratori e assassini che vivono un’esperienza impensabile nel paese con la quarta popolazione carceraria al mondo, circa 600 mila detenuti dei quali quasi 250 mila in attesa di giudizio. Impensabile perché si tratta di prigioni in cui non ci sono né guardie né poliziotti, le chiavi delle celle sono custodite dai detenuti stessi (chiamati "recuperandi"), gli spazi hanno misure umane, ai prigionieri vengono insegnati dei mestieri e da cui praticamente nessuno scappa. Il Brasile è uno dei paesi in cui si contano più rivolte carcerarie, e in cui il tasso di recidiva di chi è stato in galera e poi esce sfiora l’80 per cento. Chi esce dalle strutture Apac torna a delinquere solo nel 20 per cento dei casi. Oggi in Brasile sono circa 50 le prigioni di questo tipo, e diversi paesi stanno cominciando a importarne la metodologia. Con una differenza, però, che rimane sostanziale. La spiega al Foglio Fabrizio Pellicelli, responsabile in Brasile di Avsi, la ong internazionale partner di Apac: "Qui non è lo stato che decide di aprire un carcere Apac, ma la società civile". È una esigenza che nasce "dal basso", e ha lo scopo di rieducare i condannati, non soltanto di punirli con la reclusione. In un sistema fallito come quello carcerario, persone legate al territorio decentralizzano la costruzione di carceri in presìdi di piccole dimensioni (le Apac non ospitano più di 200 persone), permettendo alle comunità di assumere direttamente la responsabilità del recupero dei detenuti stessi (e facendo risparmiare i contribuenti). "Nello stato brasiliano del Minas Gerais le istituzioni hanno riconosciuto il valore dell’opera", continua Pellicelli, aiutando la costruzione dei centri e - negli ultimi anni - pagando il personale amministrativo. La gran parte del lavoro è però sulle spalle dei volontari e dei recuperando Amore incondizionato, disciplina e fiducia sono i tre elementi fondamentali su cui si basa il metodo Apac, che punta su coinvolgimento della famiglia, partecipazione della comunità, attenzione alla salute, aiuto mutuo tra i carcerati e religiosità. L’origine di quest’opera è nell’esperienza di fede cristiana del fondatore, Mario Ottoboni, avvocato che nel 1972 comincia a mettersi al servizio dei condannati come volontario nelle carceri brasiliane. Lo scopo è "offrire al condannato le condizioni per pagare il suo debito con la giustizia e insieme recuperare se stesso". "Qui siamo trattati come persone e non come animali, chiamati per nome e non con un numero", dicono le testimonianze dei carcerati che la mostra del Meeting racconta, e di cui si parlerà oggi in Fiera alle 19 in un incontro. Negli anni Novanta un amico e "discepolo" di Ottoboni, Valdeci Antonio Ferreira, rimane colpito dal metodo, lo impara e comincia a lavorare alla sua diffusione. All’inizio politici e giudici non si fidano, Valdeci fa loro mettere alla prova la prima Apac, cominciando a lavorare con i carcerati in regime aperti, poi con quelli in regime semi aperto e infine con quelli in regime chiuso. L’esperimento funziona, si allarga, e quando nel 2006 la Fondazione Avsi conosce le Apac decide di diventarne partner. Anche grazie ad alcuni fondi europei per progetti sui carcerati le strutture Apac cominciano a essere "esportate" negli stati vicini. Il metodo arriva anche in altri continenti, Europa compresa, anche se in carceri nelle quali i poliziotti sono presenti. L’Italia, multata dall’Unione europea per la condizione delle proprie carceri, sarebbe un terreno fertile, dal punto di vista della società civile, per iniziare un tipo di esperienza del genere. Che dà frutti imprevedibili, come testimonia la storia - raccontata nella mostra - di Walter, un pluriomicida giudicato irrecuperabile e mandato in un carcere Apac da un giudice, scettico sul metodo. Arrivato, come tanti, con l’idea di scappare al più presto, Walter dopo qualche tempo cambia. Un giorno nello stesso carcere arriva uno stupratore, il corpo segnato dalle violenze subite nelle prigioni in cui era stato in precedenza. Il primo che lo accoglie, lavandogli le ferite, è Walter. "Nessuno è irrecuperabile", conclude Pelli-celli, se guardato in modo umano. Stati Uniti. Le carceri e l’economia sommersa delle tagliatelle valori.it, 23 agosto 2016 Non sono più le sigarette né gli alcolici passati di nascosto a dominare gli appetiti dell’economia sommersa all’interno delle prigioni Usa, perché a soppiantarle sono ora le confezioni di piatti pronti di tagliatelle, alla base del cosiddetto ramen giapponese. A certificarlo è uno studio in via di pubblicazione realizzato da Michael Gibson-Light, dottorando presso la School of Sociology dell’Università dell’Arizona, secondo cui i detenuti reagiscono così ai tagli alle risorse destinate ai penitenziari, che stanno peggiorando sensibilmente la qualità di alcuni servizi, come ad esempio quelli di mensa, ovvero puntando sui beni alimentari. Di fatto l’aumento della diffusione del ramen come valuta interna alle prigioni nell’ambito dell’economia informale che sfrutta il baratto è un segnale della cosiddetta "frugalità punitiva" che costringe i carcerati a rivedere le proprie priorità di valore per garantirsi standard di vita accettabili. Una politica non formalizzata che, sottolinea Gibson-Light, mentre riduce in tutta l’America le risorse per il sistema carcerario, scarica molti dei costi un tempo sostenuti dall’amministrazione sui detenuti stessi. Di fatto la crescita di valore delle tagliatelle sarebbe quindi una risposta al calo di investimenti nei servizi effettuati dal Bureau of Prisons. La ricerca Gibson-Light è parte di una indagine svolta tra maggio 2015 e maggio 2016, con interviste e osservazione di quasi 60 persone tra detenuti e membri del personale di un carcere maschile.