Legnini frena le toghe: basta con le nomine prestabilite dalle correnti di Dino Martirano Corriere della Sera, 22 agosto 2016 Il vicepresidente Csm: "No all’idea di una magistratura moralizzatrice. Pm e giudici potranno assolvere meglio il loro compito se si dimostrano indipendenti". "Dopo anni di conflitti in apparenza incomponibili tra politica e magistratura, e di inconcludenza legislativa sulle riforme della giustizia, si sta procedendo con un approccio nuovo...Spero si produca una svolta...". Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, l’avvocato Giovanni Legnini, ha una cultura parlamentare e di governo alle spalle ma da quando guida il plenum del Csm il suo orizzonte è cambiato: "Dobbiamo allontanare il sospetto, fondato o meno che sia, che una parte della magistratura agisca per invadere il campo della politica". Per questo il vice di Sergio Mattarella al Csm ci tiene a rimarcare la separazione dei rispettivi campi quando parla dell’ipotesi di decreto legge che (ri)proroga l’età pensionabile di 180 alti magistrati o del testo governativo sulle intercettazioni. Legnini, però, rivendica un ruolo propositivo per il Csm e tra le novità annuncia la fine delle "nomine a pacchetto" e altre innovazioni per arginare "eccessi e degenerazioni" del sistema correntizio del consiglio. Senza decreto rischiano di rimanere vuote anche le poltrone di primo presidente e del Pg della Cassazione? "Spetta al governo assumere una decisione. La riforma del 2014, con l’abbassamento dell’età massima di permanenza in servizio da 75 a 70 anni, sta producendo un esteso ricambio generazionale di magistrati. I pensionamenti hanno accresciuto le scoperture di organico fino a circa mille unità. Così, a un flusso in uscita rilevante non corrisponde un proporzionato flusso in entrata. La prima proroga di un anno per i magistrati tra i 70 e i 72 anni ha attenuato il fenomeno ma le carenze permangono. Un decreto analogo produrrebbe la permanenza in servizio di soli 180 magistrati. Noi abbiamo proposto di agire anche sull’accesso dei giovani, riducendo il tirocinio oggi fissato in 18 mesi e aumentando i concorsi". Il Guardasigilli Orlando lamenta la lentezza delle nomine "tenute a bagnomaria" dal Csm. Come risponde? "Rispondo con i numeri, che dicono altro. In meno di due anni abbiamo fatto 438 nomine tra direttivi e semidirettivi: l’età media dei "capi" degli uffici si è abbassata, le donne dirigenti sono circa il 30%, i tempi medi di decisione ridotti, i ricorsi sono crollati". Un procuratore deve sapere gestire uomini. Concorda? "Le attitudini organizzative degli aspiranti costituiscono il cuore della riforma del testo unico sulla dirigenza, inoltre i candidati per i direttivi sono obbligati a frequentare un corso alla Scuola superiore sulla cultura organizzativa". Il governo intende varare la riforma del Csm con interventi sulle modalità di elezione dei togati e sulla sezione disciplinare: "Chi giudica non nomina", dice Renzi. "Avevamo assunto un impegno con il ministro Orlando e lo stiamo mantenendo. Riforma e autoriforma del consiglio dovevano integrarsi e così sta andando. Ai primi di settembre approveremo il parere preliminare sulla bozza della commissione Scotti che non è ancora un articolato. Il parere è sostanzialmente positivo anche sul disciplinare. L’autoriforma sta per essere completata, dopo il nuovo Testo unico sulla dirigenza, gli interventi sui fuori ruolo e incarichi extragiudiziari, la delibera sui rapporti tra magistratura e politica, a settembre contiamo di approvare la riforma del Regolamento sul funzionamento del consiglio, il lavoro più impegnativo, con il sostengo vigile e prezioso del Capo dello Stato. Il tutto in un anno". E il potere delle correnti? "Le nomine a pacchetto con il nuovo Regolamento saranno superate, ciascun consigliere potrà intervenire in plenum per proporre un’alternativa al singolo candidato. Numerose saranno le innovazioni sulla collegialità, trasparenza e leggibilità delle decisioni, tra cui mi auguro la pubblicità dei verbali della V commissione che si occupa di nomine". Sulla divulgazione delle intercettazioni non penalmente rilevanti ci sono scintille tra politici e magistrati. Serve la nuova legge? "Dopo le importanti circolari di alcuni procuratori, il consiglio ha adottato una coraggiosa risoluzione che ha indicato linee guida per meglio conciliare, a legislazione invariata, l’obbligatorietà dell’azione penale e il ricorso indispensabile alle intercettazioni con il diritto alla privacy, il diritto di difesa e il diritto di cronaca. Senza confusione di ruoli, se il legislatore intenderà conferirle forza di legge saremo soddisfatti. Se intenderà andare oltre, vedremo... Penso anche che quelle misure stiano già producendo effetti positivi. Forse molti degli abusi lamentati si sarebbero potuti evitare applicando quelle buone pratiche organizzative". Contrasti tra toghe e politica ci sono stati anche sul diritto al lavoro e sulla tutela della salute. C’è un limite all’intervento del giudice? "Spero che si possa produrre una svolta. Il compito di ciascuno è quello di allontanare il sospetto che una parte della magistratura agisca per invadere il campo della politica, autoassegnandosi un ruolo di forza moralizzatrice. La funzione della magistratura è quella di dirimere le controversie per tutelare i diritti e di reprimere con rigore i reati. È tutto questo lo potrà fare meglio se si dimostra indipendente, terza ed autorevole e se sarà messa in condizione di svolgere i suoi compiti fino in fondo. E questo spetta alla politica, con decisioni concrete e coraggiose". Illeciti delle toghe, l’Anm si divide tra duri e garantisti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 agosto 2016 Orlando vuole colpire le infrazioni extra-giudiziarie. L’attuale sistema che regola gli illeciti disciplinari dei magistrati è improntato sulla loro "tipizzazione". Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 109 del 2006 riguardante la "Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati e delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicazione", il legislatore, infatti, modificando in radice il pregresso sistema, introdusse un elenco tassativo dei comportamenti dei magistrati concretamente meritevoli di sanzione disciplinare. Distinguendoli in due categorie: da un lato le ipotesi di illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e dall’altro le ipotesi di illeciti commessi fuori dell’esercizio delle funzioni. Fino a quel momento era in vigore l’articolo 18 del regio decreto 511 del 1946, "Guarentigie della magistratura", caratterizzato da una estrema genericità: "Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari". Tale formulazione vaga, imprecisa e "fluida", aveva reso possibili condanne arbitrarie o, molto più spesso, improbabili assoluzioni per le toghe "indisciplinate". Si trattava, sostanzialmente, di un impianto normativo che, proprio per la sua indeterminatezza e incertezza applicativa, appariva - quantomeno - di sospetta costituzionalità per quanto concerne il principio della certezza del diritto. Criticità risolta, appunto, con la "tipizzazione" delle condotte vietate. Dopo dieci anni dall’entrata in vigore della norma in questione, però, le maggiori difficoltà interpretative e applicative si sono rinvenute nel settore degli illeciti extra-funzionali, per la evidente problematicità di individuare un punto di equilibrio tra l’esercizio dei diritti del magistrato in quanto cittadino, da un lato, e la necessità di esigere comportamenti e atteggiamenti che garantiscano, dall’altro, quella imparzialità e quella indipendenza che devono connotare la condotta professionale di chi esercita la giurisdizione. Alcuni esempi? Solo per citare dei casi recenti, l’ormai celebre scatto fetish che ritraeva la pm tranese Simona Merra intenta a farsi baciare il piede da un avvocato durante una festa di compleanno o il post di apprezzamento sulla fisicità di Gabriel Garko pubblicato su Facebook dal sostituto procuratore di Imperia Barbara Bresci. Per superare questo "deficit", la commissione ministeriale Vietti, incaricata dal ministro Andrea Orlando di riformare l’ordinamento giudiziario, oltre a riscrivere sulla base della giurisprudenza disciplinare le fattispecie troppo generiche, ha previsto la reintroduzione di una forma di illecito disciplinare "atipico" dove comprendere "i comportamenti tenuti in luogo pubblico che compromettano in modo grave il prestigio della magistratura". Come disse lo stesso Orlando nel suo ultimo intervento al plenum, "la questione della atipicità di alcuni illeciti è una questione che ha un impatto sull’opinione pubblica molto più forte di quello che non si supponga. Alcuni comportamenti che non sono a priori definibili in forma tipica sono stati il presupposto di un forte allontanamento dell’opinione pubblica nei confronti della magistratura". E poi, "è un tema che non ho intenzione di risolvere con l’accetta ma che credo vada affrontato con un confronto consapevole e con un’assunzione di responsabilità di chi sarà chiamato a prendere questa decisione che, capisco, può non essere popolarissima perché l’elemento della tassatività rassicura molto la base dei magistrati, ma considero che quel meccanismo rischia di produrre nel corso del tempo una serie di danni che poi rischiano di pagare complessivamente i magistrati, soprattutto quelli che fanno bene il loro lavoro e che rispettano le regole". Ed è su questo tema, quindi, che si confronterà alla ripresa dei lavori la base della magistratura. Divisa fra i fautori dello status quo - cioè della tipicità dell’illecito disciplinare in chiave garantista - e i "moralizzatori", in questo momento rappresentati dall’attuale dirigenza dell’Anm, propensi invece a prevedere nuovi limiti per i comportamenti censurabili delle toghe. L’esito è quanto mai incerto. Banca nazionale del Dna: test sul 90% dei detenuti, già effettuati 8.000 prelievi di G.U. Corriere della Sera, 22 agosto 2016 L’intervista a Renato Biondo, a capo del nuovo database con sede a Roma. Conservati solo codici, metodo più accurato rispetto a Usa e resto d’Europa. Renato Biondo è il dirigente della polizia di Stato al vertice della nuova banca dati del Dna, che raccoglie i profili genetici di tutte le persone accusate di reati contro la persona o contro il patrimonio. "Tutti i Dna raccolti corrisponderanno ad un numero - spiega. L’identità sarà svelata solo nel caso di compatibilità con le tracce raccolte in altre indagini". Secondo Biondo, inoltre, in Italia si è raggiunto il miglior livello di analisi genetiche del mondo. Sulla carta c’è dal 2009, nella realtà ci sarà dall’autunno. È la banca dati del Dna, cervellone unico dei profili genetici. Renato Biondo, 50 anni, dirigente della polizia di Stato, è il direttore della Quarta divisione Banca dati del Dna che dipende dal servizio per il sistema informatico interforze della direzione centrale anticrimine. Tra tre anni il comando passerà a un carabiniere. A chi può essere prelevato il Dna che finirà nella banca dati? "Solo ai soggetti sottoposti a un provvedimento dell’autorità giudiziaria di fermo o arresto per un reato non colposo. Furti, rapine, omicidi, violenze. Sono esclusi i reati fiscali, amministrativi, finanziari. In altri paesi, la polizia giudiziaria procede direttamente, in Italia no". Una persona viene arrestata per furto, viene processata per direttissima e poi? "Il giudice convalida l’arresto e la persona viene portata all’ufficio abilitato per il prelievo da chi l’ha arrestata". Se va in carcere? "In quel caso cambiano le modalità del prelievo: lo effettua la polizia penitenziaria, personale appositamente formato o, su delega, il personale sanitario". Come funziona operativamente? "Vengono prelevati due campioni di Dna per dare la garanzia che un domani, a fronte di una contestazione, possa essere analizzato uno dei due. Vengono chiusi in buste di sicurezza per escludere la manipolazione, mandati ai punti di raccolta intermedi regionali quindi a Roma, al laboratorio centrale, l’unico in Italia autorizzato a svolgere le analisi". Dov’è il laboratorio centrale? "Al polo logistico di Rebibbia, una struttura nuova". L’arrestato (o il detenuto) si può opporre al prelievo. "A quel punto, l’autorità giudiziaria può disporre il prelievo coatto, ma per il momento non è stato necessario". Il Dna viene prelevato a tutti i detenuti? "Per una questione organizzativa, per il momento l’attenzione è più su chi esce. Per chi entra c’è più tempo. Comunque dovrà essere fatto al 90% della popolazione carceraria". Chi sta per uscire perché ha scontato la pena, però, diventa un uomo libero. "Ma prima che esca, se rientra nelle categorie, non ha ancora scontato la pena". Quanti prelievi sono stati effettuati? "Dal 10 giugno, orientativamente, in Italia sono oltre 8.000". La banca dati è stata istituita nel 2009: perché tutto questo tempo per farla partire? "È stato allestito un laboratorio ex novo e sono stati avviati i concorsi per il personale preparato. Serve del tempo. Arrivando per ultimi, abbiamo visto a che punto stavano gli altri Paesi e il nostro è uno standard analitico che non ha nessuno al mondo. Negli Stati Uniti è leggermente inferiore". Cioè, nel concreto? "L’analisi del Dna viene fatta a punti, per noi sono 24. Dal gennaio 2017 gli americani ne useranno 21; la banca inglese, partita per prima, è su 9". Le informazioni verranno scambiate a livello solo europeo? "Dobbiamo ancora ratificarlo, ma lo saranno anche con gli Stati Uniti". Ogni Dna verrà salvato con un codice. "Questa è la prima banca dati delle forze dell’ordine senza nomi e cognomi, un primo elemento di sicurezza". Se però corrisponde con un profilo sulla scena del crimine che cosa succede? "Facciamo un esempio. Se il Dna 002 su un mozzicone di sigaretta corrisponde al Dna 001 nella banca dati, il Ris o la Scientifica va alla struttura Afis che ha generato il codice e chiede a un operatore che ha un’autenticazione forte, una smart card, di risalire al nome". Non è un eccesso di garanzia che limita l’efficacia? Sono informazioni che circolano tra le forze dell’ordine, si presume siano riservate per contratto. "Sarà un eccesso, ma garantisce un po’ tutti. Chi deve ricevere l’informazione la riceve. Se la banca dati trova un match, dà immediatamente l’esito a chi ne ha bisogno". Serve per tutelarsi da contestazioni in un eventuale processo? "Non solo. La banca del Dna detta così può fare un po’ paura, in realtà in questo modo si garantisce la privacy. Il dato ha solo un senso investigativo, perché dare un nome e un cognome a un’informazione che serve solo se il match è positivo?" L’uomo condannato per l’omicidio di Yara era incensurato. La banca dati non sarebbe servita. Perché non mappare tutta la popolazione? "Il discorso è stato affrontato. Il Kuwait lo fa, non solo con chi nasce ma anche con chi lavora nel Paese. Quella inglese fu sanzionata dalla Corte europea perché manteneva in memoria anche i dati di chi era innocente. La Corte ha imposto la cancellazione. La banca è passata da sei milioni e mezzo di dati a cinque e mezzo senza che la percentuale di positività (una volta su due) fosse cambiata, a riprova che non ha senso campionare chi non ha commesso reati". Il caso Yara lo smentisce. Anche se fosse una volta su un milione, sarebbe utile. "Le tecniche investigative ci sono, la capacità dell’investigatore, che in Italia è molto alta, deve rimanere parallela allo strumento tecnico. Altrimenti, anche se avessi le telecamere ogni 10 metri in una città individuerei tutti". Se un persona viene sottoposta a misura cautelare e dopo il processo viene assolta il suo Dna viene cancellato. "Viene distrutto il campione e viene cancellato il profilo". Che fine fanno i 21 mila Dna raccolti nell’inchiesta su Yara? "Non vanno sicuramente nella banca dati, perché non rientrano nelle casistiche". Salvo il Dna di Massimo Bossetti. "Quello ci va". Lo è già? "No. La priorità, come detto, è a chi deve uscire dal carcere". Quali garanzie dà la banca dati? "Verrà certificata Iso 9001, significa che tutti i processi sono tracciabili. In Europa solo una o due banche dati che lo stanno facendo". Quante persone lavorano al laboratorio centrale? "Sono 29, tutte assunte per concorso, tutte specializzate". Chi sono? "I ruoli tecnici della polizia penitenziaria". La banca dati ha già permesso di individuare qualcuno? "No, perché i profili non sono ancora presenti. È solo una questione di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto che regolamenta l’accesso informatico ai laboratori. Ci sarà ad ottobre". Quanto è costa? "La banca dati 1,8 milioni all’anno. Il laboratorio centrale 2,2 milioni. Quindi, ogni anno, quattro milioni di euro". Spionaggio: la violazione del diritto alla riservatezza va risarcita di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2016 Tribunale Milano -Sezione X civile - Sentenza 16 marzo 2016. Risarcibile il danno non patrimoniale nei confronti di chi ha subito attività di "spionaggio" illecita, al fine di recuperare sue informazioni personali e professionali. Dell’illecito perpetrato dal dipendente, risponde il datore di lavoro in presenza di un nesso di occasionalità necessaria. Lo ha stabilito il tribunale di Milano con la sentenza del 16 marzo 2016. Responsabilità dei padroni e dei committenti e danno - Il caso trattato dal Tribunale di Milano nella decisione in commento trae linfa da una vicenda di cronaca oggetto anche di paralleli accertamenti in sede penale. Un nutrito ventaglio di dipendenti di una società di servizi e comunicazioni avviava illecite attività di "spionaggio" ai danni di persone fisiche, talvolta legate da rapporto di clientela: le attività miravano a raccogliere in modo illecito e non assistito da consenso, informazioni di vario genere, dalla vita privata a quella professionale, al fine di farne oggetto di divulgazione o scambio. Per queste condotte, la Corte d’Assise di Milano riconosceva la consumazione del delitto di associazione per delinquere e stimava anche sussistente un danno da reato in capo ai soggetti passivi delle attività di spionaggio. Entro questo ambito, si colloca la decisione del tribunale di Milano in commento che, pur riferendosi a vittime non costituitesi parti civili nel procedimento penale, affronta il tema della responsabilità del datore di lavoro per la illecita ingerenza nella vita privata degli "spiati". In primo luogo, l’ufficio milanese riconosce la legittimazione passiva della società datrice di lavoro "in quanto responsabile ex art. 2049 c.c. del fatto illecito commesso dai suoi dipendenti, ricordando sul punto che, per pacifica giurisprudenza, è sufficiente che ricorra un mero vincolo di occasionalità tra attività lavorativa e danno, tale per cui le funzioni esercitate abbiano determinato o anche solo agevolato la realizzazione del fatto lesivo, essendo irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli o abbia agito con dolo o per finalità strettamente personali". Il principio di diritto cui aderisce il Tribunale di Milano è coerente con il costume pretorile collaudato (da ultimo, v. Cass. Pen., sez. V, sentenza 23 febbraio 2016 n. 7124): ai fini della responsabilità solidale ex art. 2049 c.c. è sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal preposto, che ricorre quando l’illecito è stato compiuto sfruttando comunque i compiti da questo svolti, anche se egli ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti (ex multis e tra le più recenti Sez. 6, n. 17049 del 14 aprile 2011, M. e altri, Rv. 250498; Sez. 6 civ., n. 20924 del 15 ottobre 2015, Rv. 637475). In tal senso, non è necessario che sussista uno stabile rapporto di lavoro subordinato tra i due soggetti, essendo sufficiente che l’autore del fatto illecito sia legato al committente anche solo temporaneamente od occasionalmente e che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso (ex multis Sez. 5, n. 32461 del 22 marzo 2013, R.C. e Bogui, Rv. 257115). In particolare, quella del committente è una responsabilità di natura oggettiva ispirata a regole di solidarietà sociale, tesa ad attribuire - secondo la teoria della distribuzione dei costi e dei profitti - l’onere dei rischio a colui che si giova dell’opera di terzi (Sez. 3 civ. n. 14578 del 22 giugno 2007, Rv. 598802; si v. anche Sez. 3 civ. n. 1516 del 24 gennaio 2007, Rv. 594385). Quanto al danno da spionaggio, il Tribunale milanese predica una violazione del diritto alla privacy e, conseguentemente, provvede a una liquidazione equitativa del pregiudizio, passando, però, per indici sintomatici del nocumento quali: la tipologia delle intrusioni nella vita privata e la loro diffusione, come pure la durata delle intrusioni stesse, la loro portata, l’oggetto delle violazioni. Nel caso di specie, in conclusione, il tribunale milanese riconosce a ogni danneggiato un danno pari ad euro 15.000. Marche: Ascoli e Pesaro le carceri più affollate veratv.it, 22 agosto 2016 Il supercarcere di Marino del Tronto non fa eccezione. Anche nel piceno si vive lo stesso problema degli altri penitenziari italiani: quello del sovraffollamento della popolazione carceraria. La capienza regolamentare è di 49.659 detenuti. In realtà, il numero effettivo al 31 luglio 2016 è di 53.850, oltre 4.000 reclusi in più. Nelle Marche gli istituti penitenziari sono sette e la popolazione carceraria è di 814 detenuti. E a non avere più celle a disposizione oltre a Marino del Tronto c’è anche la Casa Circondariale di Pesaro dove i presenti sono 216 per una capienza di 167. Ad Ascoli invece i reclusi sono 130 a fronte di una capienza di soli 104 posti. Ce ne sono 26 in più dietro al cosiddetto "blindo", la porta della cella. Il criterio per calcolare i posti da parte del Ministero di Giustizia, è di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri in sovrannumero. Un ultimo dato interessante è relativo agli stranieri; nella Casa Circondariale di Ascoli sono 28, quindi il 21% del totale. Una percentuale inferiore alla media nazionale che si assesta sul 33% di tutti i reclusi. Tra gli italiani ad Ascoli hanno passato il Ferragosto anche tre fermani, saliti alla ribalta della cronaca nazionale. C’è Amedeo Mancini, accusato dell’omicidio preterintenzionale con l’aggravante razziale di Emmanuel, il giovane nigeriano morto a seguito del pugno sferratogli dal 39enne fermano durante una lite in strada. E i due "bombaroli" anarchici, autori dei quattro attentati alle chiese di Fermo. Tutti e tre in attesa dei domiciliari. Roma: il Garante regionale Anastasia "sì al lavoro per i detenuti, ma serva a reinserirli" radiocolonna.it, 22 agosto 2016 "Un’ottima iniziativa. Bisognerebbe però inserirli in un progetto di sostegno e di reinserimento sociale di più ampio respiro". A Radiocolonna.it, il Garante dei detenuti nel Lazio, Stefano Anastasia, commenta così la proposta del vice sindaco Daniele Frongia, che qualche giorno aveva proposto di coinvolgere i carcerati nella pulizia della città, precisando che: "tre anni fa con i detenuti è stato fatto un progetto per ripulire la passeggiata del Gianicolo. È stato un ottimo intervento. Adesso lo faremo su più ampia scala. Se i detenuti saranno impiegati per ripulire la città? Lo diremo dopo l’incontro con il direttore e il garante". Anastasia fa notare che l’utilizzo di chi costretto in un penitenziario è un progetto "già in corso di svolgimento, anche in relazione all’anno giubilare, in alcune aree della città, ricordo, per esempio, i giardini di Piazza Cairoli, sono proprio i detenuti a curare il verde urbano. Comprensibilmente, la gran parte dei detenuti farebbe di tutto, pur di respirare l’aria esterna e di non morire di inedia in carcere, ma le amministrazioni pubbliche devono porsi il problema della loro prospettiva. Allora i lavori socialmente utili, come qualsiasi attività lavorativa dei detenuti, sono più ‘utilì se sono qualificati e se hanno una prospettiva di prosecuzione oltre il termine della pena". Ed ancora, precisa il Garante , "tutto ciò implica una formazione adeguata e il coinvolgimento nell’esecuzione di queste attività di soggetti imprenditoriali interessati all’assunzione dei detenuti con contratti che possano proseguire oltre l’esperienza detentiva". Al 27 aprile, secondo gli ultimi dati disponibili del Dap, nel Lazio c’erano 5891 detenuti di cui 5.514 uomini e 377 donne. La capienza regolamentare dei 15 istituti della regione Lazio è di 5.260 posti. Il carcere più affollato è il Raffaele Cinotti a Rebibbia (Roma), con 1.374 detenuti, seguono Regina Coeli e Frosinone. Cosenza: ex imam e soldati dell’Is nel carcere dei jihadisti di Rossano di Giuliano Foschini La Repubblica, 22 agosto 2016 È in una cella tre metri per tre, un letto, un televisore ingabbiato da una rete, un tavolo scarno, che hanno esultato il 13 novembre dopo la strage di Parigi. È in due delle celle di questo casermone bianco, a due passi dal negozio di "Caccia e pesca", che hanno gridato di gioia all’attentato in Belgio. È qui, mentre giocavano a un biliardino, che hanno sorriso commentando la strage di Dacca. Un lungo corridoio pulito, freddo come sanno essere soltanto le carceri. Dieci celle tutte su un lato, due piani. Braccio Alta Sicurezza 2, carcere di Rossano Calabro. Non è Guantánamo, e non è nemmeno Fleury-Mérogis, la struttura a sud di Parigi dove è detenuto Salah, il terrorista di Molenbeek. Eppure è in questa prigione calabrese, dove nessuno tra gli agenti parla l’arabo, che sono passati negli ultimi mesi tutti i jihadisti d’Italia. Venti fino a qualche mese fa, nove oggi (gli altri sono stati da poco trasferiti, in Sardegna soprattutto), il Dipartimento penitenziario ha creato qui - una prigione nuova, pensata per gli ergastolani di criminalità organizzata e quindi con standard di sicurezza elevati - il principale centro di detenzione per chi è stato condannato, o è accusato, di terrorismo in Italia. L’esercito ne controlla il perimetro 24 ore su 24, all’ingresso c’è un ragazzo in mimetica. I presunti terroristi sono nell’area numero 2, dove ieri mattina è entrata l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Laura Ferrara. Tunisini, libici, iracheni, curdi, pachistani, tre di loro secondo gli inquirenti sono direttamente da collegare all’Is. Quattro ad Al Qaeda, 2 ad Al Nusra. C’è Hamil Mehdi, il presunto foreign fighter di origine tunisina arrestato dai poliziotti del Questore Luigi Liguori in Turchia diretto, secondo l’accusa, in Siria per combattere. Ci sono Neuroz e Jalal, due dei presunti adepti del Mullah Krekar, che ai bambini invece che i cartoni animati facevano vedere video di guerriglie ed esecuzioni, per indottrinarli alla jihad sin da subito. "Ma erano tutti giochi" hanno detto ieri, nel corso della visita. Nei giorni scorsi un Imam è stato trasferito perché le sue prediche stavano diventando pericolose. Un altro, Hosni, dopo essere stato assolto dalla Cassazione (che ha annullato le condanne di primo e secondo grado) è stato subito espulso dal ministro degli Interni, Angelino Alfano, con la motivazione - si legge negli atti - che in carcere avrebbe promosso "azioni terroristiche da attuare in danno degli Stati "infedeli". Quelli del braccio numero 2 non possono avere alcun contatto con altri detenuti di questo carcere, né i mafiosi che si trovano nell’alta sicurezza né i detenuti comuni. Al momento hanno tutti celle singole e occupano soltanto uno dei due piani. Nel fondo del corridoio è stata creata per loro una zona ricreazione: c’è un tavolo con degli appunti, un biliardino. Hanno abbattuto alcuni muri per creare aree di socialità più ampie, all’aperto. Mentre tre volte al giorno, com’è segnato sul calendario appeso nello spazio comune, vengono accompagnati al piano inferiore per pregare. "Da un punto di vista strutturale la situazione è soddisfacente" spiega l’eurodeputata Ferrara. "Il problema sono numero e formazione del personale". Nessuno parla l’arabo. Gli agenti sono la metà di quelli che dovrebbero essere. "Oggi ne ho contati e mi hanno detto di essere tanti". "Da poco l’amministrazione ha promesso corsi di formazione che però servono a pochissimo" sostiene Donato Capece, segretario nazionale del Sappe. "Apriamo i concorsi subito a ragazzi madre lingua arabi. C’è troppa sufficienza nell’approccio al problema: si dice che la prigione sia l’università del crimine. Ma noi, in questa maniera, come facciamo a fare il nostro lavoro? Che strumenti abbiamo per osservare il comportamento dei detenuti?". All’eurodeputata ieri hanno raccontato che possono passare settimane prima che si possa tradurre, per esempio, un documento che può essere utile ai fini investigativi. Mentre alle volte sono gli stessi detenuti a fare da interpreti. "Il tema della radicalizzazione è molto delicato" ammette il numero uno del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. "E noi stiamo lavorando per creare all’interno delle carceri corsi di deradicalizzazione, stando molto attenti a segnalare comportamenti anomali ed evitare i contatti pericolosi". Secondo gli ultimi dati forniti dallo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sono 345 i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione: di questi 153 sono "classificati a forte rischio di radicalizzazione: il carcere - ha scritto Orlando - è un luogo dove si realizzano forme di radicalizzazione rapida e perché si tratta di soggetti vulnerabili. L’isolamento si trasforma in vendetta e odio contro la società". Inclusione e non isolamento per fermare l’odio, dice il ministro. Quello non è soltanto un biliardino. Ma un’arma contro il terrorismo. Padova: lotta all’Isis, agenti infiltrati al Due Palazzi di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 22 agosto 2016 A volte il germe del terrorismo viene instillato proprio lì dove invece dovrebbe avvenire il processo di riabilitazione. Le carceri italiane sono pentole in ebollizione perché spesso è proprio all’interno dei penitenziari che i detenuti si avvicinano alle posizioni più estremiste della religione islamica. L’ha ammesso il ministro dell’Interno Angelino Alfano al tavolo tecnico di Ferragosto al Viminale. Anche il carcere Due Palazzi di Padova non sfugge a questa pericolosa dinamica ed è il motivo per cui, ormai da tempo, è stata avviata un’attività d’intelligence. Uomini dei servizi segreti si mescolano ai normali detenuti per osservare da vicino ciò che succede nelle celle sovraffollate, negli spazi di preghiera e anche durante l’ora d’aria. L’allarme l’hanno dato gli agenti della polizia penitenziaria quando hanno visto con i loro occhi tre nordafricani esultare davanti ai tg che davano notizia degli attentati di Parigi e Nizza. "Situazione a rischio". I primi a rendersi conto della pericolosità della situazione sono proprio gli uomini che lavorano ogni giorno a contatto con i detenuti. "Il pericolo esiste" ammette Giampietro Pegoraro, della Cgil Penitenziari. "Troppo spesso registriamo lo scollamento tra chi ci porta in carcere i detenuti e chi li deve vigilare, che siamo noi. Non c’è passaggio di informazioni e questo è un problema". Nel carcere di Padova sono stati creati spazi di preghiera appositi per gli islamici. "Noi non possiamo fare altro che ascoltare ciò che si dicono in quei momenti" continua Pegoraro. "Facciamo anche molta attenzione a come si comportano nelle celle. Quando tre nordafricani hanno esultato di fronte alla notizia degli attentati messi a segno a Parigi e Nizza l’abbiamo subito segnalato a chi di competenza". Estremisti seguiti - Spesso le indagini nascono proprio così, dalle segnalazioni di persone individuate perché vicine a posizioni estreme. Se è vero che all’interno del carcere Due Palazzi ci sono uomini dei servizi segreti, è anche vero che pure Ros e Digos seguono con molta attenzione le dinamiche del penitenziario padovano. Alla casa di reclusione ci sono circa 750 detenuti e più della metà sono stranieri. Una realtà simile, in un momento come questo, non può essere trascurata. Inchiesta aperta in procura "Allah è grande, colpirà i miscredenti". L’inno alla guerra santa, all’odio e alla violenza contro gli "infedeli". Frasi farneticanti, in parte estrapolate dal Corano, quelle vergate a mano sulle due fotografie ritagliate dalla stampa e affisse alla parete di un’anonima cella della casa circondariale Due Palazzi da un detenuto tunisino che ora ha 27 anni. Oltre alla prima già nota - un fermo immagine che ritrae il boia di James Foley (ucciso nel 2014) con pugnale in mano e lo sfortunato reporter Usa inginocchiato accanto, qualche istante prima della decapitazione - la seconda immortalava un gruppo guerriglieri arabi in uno sconosciuto paese mediorientale. La procura di Padova, due anni fa, ha aperto un’inchiesta sull’inquietante ritrovamento di quei due ritagli di giornale appesi al muro come poster da ammirare e, forse, come materiale di propaganda da distribuire e mostrare a connazionali detenuti. A distanza di due anni la situazione preoccupa ancora. Torino: imam in carcere per favorire l’integrazione e combattere il jihadismo La Repubblica, 22 agosto 2016 Le Vallette fanno da apripista in Italia per un progetto che porta gli imam tra i detenuti. L’obiettivo, oltre quello di garantire in un contesto già difficile la libertà di culto, è combattere il proliferare dell’estremismo. Solo pochi giorni fa il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha lanciato l’allarme per il pericolo di radicalizzazione nelle carceri ad opera di imam "fai da te". Chiunque può infatti prestarsi a ricoprire questo ruolo, col rischio che le sue idee vengano diffuse senza controllo. Così Torino, prima città italiana, ha avviato un’iniziativa che coinvolge alcune guide spirituali delle moschee cittadine e l’amministrazione penitenziaria per portare il sermone del venerdì nella casa circondariale "Lorusso e Cutugno". "Lavoriamo per spiegare ai nostri fratelli detenuti come comportarsi tra di loro e con i compagni non musulmani - spiega Said Ait El Jide, imam della moschea Taiba - In questo modo il supporto arriva da guide formate e non da figure ambigue che nascono all’interno delle celle". Al progetto, partito lo scorso agosto ma diventato operativo solo dallo scorso febbraio, partecipano anche una ventina di assistenti degli imam. All’inizio tra i detenuti si respirava un clima di diffidenza, poi, un po’ alla volta, sono aumentati sempre più i fedeli che prendevano parte alla preghiera. "Adesso sono circa duecento - precisa Brahim Baya, portavoce dell’associazione islamica delle Alpi - su circa trecento detenuti di fede islamica, ma puntiamo a far crescere ancora le presenze. Oltre al sermone, avviamo anche tutta una serie di colloqui sia coi detenuti che con le famiglie. Non siamo per gli imam "fai da te" che nascono all’interno del carcere: crediamo piuttosto che sia opportuno introdurre figure che siano già operative all’esterno e che abbiano ricevuto una dovuta formazione. Vogliamo dare il nostro contributo a un insegnamento corretto dell’Islam anche all’interno del carcere, a maggior ragione in un ambiente delicato dove è più alto il rischio di essere influenzati negativamente". Rimini: al Meeting di CL si parla di carceri "l’uomo non è il suo errore" di Benito Giorgetta termolionline.it, 22 agosto 2016 Il meeting oltre che essere una esperienza di cultura, di incontri, approfondimenti è, senz’altro, anche un’occasione per ricevere provocazioni e proposte. In genere oltre le relazioni cattedratiche, esperienziali, esistenziali, gli approfondimenti tematici, un ruolo importante è molto sfruttato lo svolgono le interessanti e periziate mostre che vengono proposte. Quest’anno in risposta alla tematica generale: "Tu sei una bene per me", sono state allestite diverse mostre. Una particolarmente interessante tocca il mondo della detenzione accendendo i fari sull’interrogativo sempre presente nel cuore dei giustizialisti, perché cercare di redimere coloro che hanno sbagliato e sono stati condannati a motivo dei loro errori? "Dall’amore nessuno fugge. L’esperienza delle Apac (Amando o Proximo Amaras a Cristo - Amando il Prossimo Amerai Cristo) in Brasile" cerca di rispondere a questa domanda motivando le ragioni del donare tempo spazio e amore a coloro che abitano le carceri in generale è in modo particolare quelle brasiliane. Intanto è bene precisare che un carcere no è una discarica sociale dove si depositano coloro che sono di disturbo alla società a motivo delle loro colpe, dei loro errori. "L’uomo non è il suo errore" amava ripetere don Oreste Benzi fondatore della comunità papa Giovanni XXIII, proponendo una verità fondamentale che no si può ridurre la dignità di una persona a quello che è stato un suo sbaglio. L’errore è un episodio della vita non il racconto di una vita intera. Da tutti gli. Errori si può guarire perché nessuno, in genere, sbaglia senza una ragione che no giustifica mai il male compiuto ma lo fa comprendere cercando di soccorrere chi lo ha messo in atto. "Qui entra l’uomo, il delitto rimane fuori" così è scritto nelle carceri brasiliane gestite dalle Apac. Nessuno è irrecuperabile. La pedagogia dell’incontro, dell’ascolto, della condivisione, del lavoro, della fede, ha dimostrato in diversi ambiti e per molte persone che c’è la possibilità del recupero, del reinserimento. Ridare fiducia, riscoprire il valore intangibile della persona che non può essere né seppellita ne dimenticata o offuscata dal crimine commesso è un percorso di crescita che si può proporre a chi l’ha dimenticato o imbrattato col suo comportamento lesivo nei confronti del prossimo e di se stesso procurando si la vita carceraria come tempo di detenzione e di allontanamento dalla vita sociale, lavorativa, familiare. Bisogna assassinare il crimine e salvare l’ho, sempre e ad ogni costo. Una persona che sbaglia non è una brutta copia da cestinare, un errore irreparabile da rottamare, ma una persona da recuperare. Le armi sono tante, le opportunità reali poche. Non basta arrestare, ammanettare, giudicare, condannare per illudersi d’aver risolto un problema. Se alla base di ogni intervento nella vita di una persona non c’è il recupero ogni scelta e fallimento, ogni azione è solo giustizialismo. Difatti in questa mostra delle carceri brasiliane il detenuto viene definito, giustamente, "recuperando". "La misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà" (Papa Francesco). - Un ruolo importante lo svolge la possibilità di lavoro che l’esperienza Apac favorisce per ogni recuperando. Le statistiche dicono che quando c’è la possibilità di un lavoro, o all’interno del carcere, o all’esterno, quando è come è possibile, i detenuti recidivanti scendono da 90 al 2 per cento dal 90 al 2 per cento. Segno evidente che un detenuto no può semplicemente essere p archeggiato in una cella, casomai sovraffollata, ma dargli, offrirli una possibilità di esprimersi lavorativamente, per farlo uscire dalla spirale delinquenziale e immetterlo nel flusso positivo e produttivo della società dopo aver recuperato se stesso. "Con la misericordia e il perdono Dio va oltre la giustizia, la ingloba e la supera in un evento superiore, nel quale si sperimenta l’amore, che è a fondamento di una vera giustizia. (…) con la misericordia la giustizia è più giusta, realizza davvero. Se stessa. Questo non significa essere di manica larga, nel senso di spalancare le porte delle carceri a chi si ne macchiato di. Reati gravi. significa che dobbiamo aiutare a non rimanere a terra coloro che sono caduti. È’ difficile metterlo in pratica, perché a volte preferiamo rinchiudere qualcuno in carcere per tutta la. Vita, piuttosto che cercare di recuperarlo, aiutandolo a reinserirsi nella società. (Papa Francesco, il nome di Dio è misericordia, 2016). Ancora una volta la voce del Papa, per chi glielo permette, illumina il cammino, orienta le coscienze, stimola le azioni ispirate alla sensibilità umana prima ancora che religiosa. Piacenza: agente aggredito nella Sezione per "detenuti violenti", prognosi di 20 giorni Ansa, 22 agosto 2016 "Considerato che le cose non cambiano e le autorità penitenziarie non pongono in essere nessun intervento, così come richiesto da tempo per gli istituti di Piacenza, Modena e Reggio Emilia, a settembre faremo una manifestazione regionale davanti al provveditorato, a Bologna, ed altri sit-in a Piacenza, Modena e Reggio". Lo hanno reso noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale, dopo l’ultima aggressione nel carcere di Piacenza, dove un agente è stato aggredito da un detenuto della Sezione A, quella destinata ai reclusi più violenti e dove dovrebbero prestare servizio almeno due agenti per turno. L’agente è stato medicato all’ospedale e giudicato guaribile in 20 giorni. "Tra l’altro - affermano i dirigenti del sindacato della polizia penitenziaria - la sezione, che ospita 16 detenuti, è priva di telecamere, perché da quando è stata quasi distrutta da un detenuto a maggio non sono state ancora ripristinate". Como: il trekking in montagna che aiuta i detenuti valori.it, 22 agosto 2016 Il 2016 è l’ Anno dei cammini d’Italia e da qualche giorno fare trekking e passeggiate per i sentieri del Bel Paese può raccontare una storia in più. Da qualche mese infatti, l’ ùEnte Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste (Ersaf) della Regione Lombardia ha attivato una collaborazione con la Casa Circondariale di Como per la produzione di bastoni da passeggio ad opera dei detenuti, utilizzando legname di nocciolo certificato secondo lo standard Pefc per la gestione forestale sostenibile, proveniente dalla foresta regionale di "Corni di Canzo". Per formare i detenuti, Ersaf ha organizzato all’interno del carcere sette giornate di corso base di intaglio a cui hanno partecipato cinque allievi interessati, istruiti anche su sicurezza, gestione forestale sostenibile, standard di certificazione Pefc, produzione di manufatti certificati. Da novembre è partito il corso di intaglio artistico articolato in cinque lezioni di sei ore l’una, realizzato dall’associazione "la Maschera" di Schignano e viste le capacità e l’interesse degli allievi, l’amministrazione carceraria, che nel frattempo grazie a vari contributi ha attrezzato un laboratorio dotato di tutta la necessaria attrezzatura, ha effettuato giornate settimanali di laboratorio per incrementare la produzione di bastoni. Ma creare opportunità di lavoro per i detenuti significa anche garantire una filiera commerciale al loro impegno. Assorifugi, associazione che raggruppa i rifugi della montagna lombarda si è quindi attivata per proporre la vendita dei bastoni presso le strutture affiliate. Olbia: mostra dedicata a Gramsci, le opere sono dei detenuti di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 22 agosto 2016 Da oggi nello Spazio Faber la prestigiosa esposizione che ha coinvolto 28 carceri Al primo posto del concorso nazionale si piazza il quadro di un recluso di Nuchis. Da oggi e sino alla fine del mese, nel sotto piano dello Spazio Faber in Piazza Fabrizio De André, Tempio ospiterà la prestigiosa esposizione "Gramsci dietro le sbarre". Una serie di quadri realizzati nell’ambito dell’omonimo concorso di pittura promosso, mesi or sono, dall’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales, riservato ai detenuti delle carceri italiane che la giunta regionale ha voluto inserire a pieno titolo nell’ambito delle manifestazioni dell’Anno Gramsciano che si celebrerà in Sardegna, il prossimo anno, in occasione del 125 esimo anniversario della nascita e dell’80 esimo anniversario della sua morte. La mostra in città, voluta dall’amministrazione comunale - assessorato alla Cultura - si svolgerà, in collaborazione con la Biblioteca Comunale, la Cooperativa Athena e la Casa di Reclusione di Nuchis nell’ambito del Progetto di Servizio Civile "Liberi di Leggere". È sicuramente una occasione da non perdere, per vedere delle belle opere ma anche per capire come i detenuti dell’interno del carcere, vedano la vita e l’opera del grande filosofo e fondatore, assieme ad altri, del Partito Comunista Italiano. Non solo a titolo di cronaca ma a significare l’importanza dell’iniziativa, che ha avuto anche l’encomio del Ministro della Giustizia, occorre dire che al concorso, hanno partecipato 28 carceri italiane. Rebibbia e Regina Coeli a Roma, San Vittore, sezione Maschile e sezione femminile di Milano, Dozza di Bologna, Torino, Girifalco di Cosenza, Santa Bona d Treviso, Mammagialla di Viterbo, Augusta d Siracusa, San Michele di Alessandria. Ed ancora le carceri di Benevento, Monza, Pesaro, Ferrara, Cremona, Potenza, Santo Spirito di Siena, Rossano, di Cosenza, Madonna del Freddo a Chieti, Barcaglione di Ancona, San Gimignano di Siena, Spoleto, Fossano di Cuneo, Capanne di Piacenza e Lecce. In Sardegna hanno partecipato gli istituti di pena di Is Arenas di Arbus e la Casa di reclusione di Nuchis. ll primo premio del valore di 500 euro è stato vinto da Marco Tavoletta, detenuto nel carcere di Nuchis. Il suo quadro, in bianco e nero, raffigura un’affollata manifestazione di piazza, su cui risalta il volto di Antonio Gramsci. La Casa di Reclusione di Nuchis, è da anni al centro dell’attenzione nazionale ed internazionale grazie alle numerose iniziative assunte nell’ambito del percorso di Giustizia Riparativa. La mostra, già oggetto di attenzione e di commenti positivi in molte città italiane, a Tempio nello Spazio Faber, sarà visitabile, gratuitamente da oggi sino al 31 agosto dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 13.00, ad ingresso libero. Volterra (Pi): Compagnia della Fortezza, Amleto sa di essere in carcere di Renato Palazzi Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2016 Forse qualcuno non se n’è accorto, ma il fatto che in un carcere di massima sicurezza vi siano detenuti che recitano brani di varie opere di Shakespeare da loro scelti e assemblati in una nuova composizione drammaturgica, che prende un senso diverso in base al contesto particolare, rappresenta un sovvertimento culturale senza pari. È un sovvertimento dal punto di vista dei detenuti, che scoprono mondi mai neppure sospettati, e li acquisiscono irreversibilmente alla propria coscienza, ma anche da quello di tutto il nostro sapere, di cui ribalta le gerarchie dello studio, della sensibilità letteraria, della preparazione intellettuale. Il lavoro di Armando Punzo a Volterra compie trent’anni, e in questi trent’anni il fenomeno è cresciuto, si è potenziato, ha spostato tanti equilibri del nostro teatro. Quella recitazione "sporca", contaminata dalle asprezze della vita, quei pesanti accenti stranieri o dialettali che costituivano allora un’anomalia, una sfida sono oggi diventati una tendenza diffusa, al punto che è la dizione corretta a essere ormai un’eccezione. Punzo è riuscito a fare di gruppi precariamente assortiti una compagnia dal proprio stile definito, anche al di là del suo forte segno registico. E non sarebbe paradossale il vagheggiato riconoscimento a teatro stabile. Questi elementi di evoluzione si leggono in filigrana anche in Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare, che riprende e prosegue lo "studio" presentato la scorsa estate. Non saprei dire se sia uno spettacolo più bello o meno bello di altri visti negli anni precedenti: sicuramente è l’espressione di una maturità artistica pienamente acquisita. Ci vuole una grande padronanza - specialmente non essendo degli attori professionisti - per trasmettere delle emozioni così alte e profonde attraverso un intervento "a togliere", che sottrae ogni appiglio costringendo a misurarsi con testi smembrati, senza una trama riconoscibile alle spalle. Rispetto alla prima versione è stata rovesciata la scenografia di croci lignee, con l’inversione della posizione degli spettatori. Sono cambiati alcuni brani, e diverso è soprattutto il finale: in un clima apocalittico, da catastrofe epocale, un bambino spingeva un globo terrestre, come tenue segnale di speranza nel futuro. Ora l’Amleto-Shakespeare evocato dallo stesso Punzo esce tenendo il bambino per mano, suggerendo un possibile riscatto dal crollo di ogni certezza nella continuità delle generazioni, nella loro capacità di perpetuarsi l’una nell’altra. Ma sono ovviamente sfumature. Per il resto, la poderosa macchina visiva e sonora costruita dal regista è più o grosso modo la stessa, un labirinto di gesti, uno specchio rotto di parole senza più significato, provenienti da testi difficili da riconoscere, detti da figure dall’ambigua identità. I personaggi sono infatti dei fantasmi shakespeariani che spuntano dalle pagine dei libri infilati intorno al collo come gorgiere, o dai recessi di una memoria frammentata, per aggirarsi negli spazi della vita quotidiana, se vita quotidiana può definirsi la condizione esasperata della reclusione: c’è una ragazza aggrappata al suo fazzoletto, che potrebbe essere Desdemona, un nero poderoso che è insieme Macbeth e Otello e Iago. C’è un uomo che trascina rumorosamente a terra una corazza di latta, un altro che in silenzio fa colare della sabbia in una ciotola. In questo clima di dissoluzione, restano frasi che, dette lì, da quelle persone, sanguinano come ferite aperte: "la tempesta si è abbattuta terribile su di noi, e ha fatto fallire i nostri piani", "il sole è tramontato, finito è il nostro giorno, le nostre azioni sono terminate", "Non c’è un dopo, e il domani era un giorno come oggi". E resta l’immagine dello stesso Punzo che si avvicina agli attori intenti a recitare, li tocca, li stringe in un abbraccio, si fa pronunciare le loro battute all’orecchio. Droghe. Luigi Manconi: "Il proibizionismo ha fallito, è ora di prenderne atto" di Felicia Massocco L’Unità, 22 agosto 2016 Luigi Manconi, senatore Pd, sociologo, presidente dell’associazione "A buon diritto", primo firmatario al Senato del disegno di legge per la legalizzazione della cannabis. Dal sondaggio Swg che pubblichiamo emerge che gli italiani favorevoli alla legalizzazione sono in costante aumento, quest’anno sono al 46%. Si rafforza la spinta aperturista: il legislatore è pronto a raccoglierla? Che succede in Parlamento? "Per la prima volta il Parlamento ha iniziato a discutere della legalizzazione e questo è un risultato politico e culturale di grandissimo rilievo. Da decenni c’è un’approfondita discussione scientifica in tutti i sistemi democratici del mondo e finalmente si apre anche in Italia. Non dimentichiamo che oltre all’iniziativa politica che si deve in primo luogo, va ricordato sempre, alla mobilitazione promossa da Marco Pannella e dai Radicali, c’è stato uno sviluppo di studi giuridici, medici, sociali che hanno affrontato la questione giungendo intanto a una prima conclusione: la constatazione del fallimento dei regimi proibizionistici. Partendo da questo si è giunti alla conclusione dell’opportunità di sperimentare forme di legalizzazione. Questa oggi è una tendenza presente, spesso maggioritaria, in tutti i paesi democratici. Da questo punto di vista si può essere soddisfatti che anche l’Italia oggi abbia un atteggiamento di apertura. Dopodiché dobbiamo per un verso evidenziare che il disegno di legge presentato alla Camera (primo firmatario Roberto Giachetti) e al Senato (primo firmatario Luigi Manconi) ha ottenuto numerosissimi consensi ma, certo, per avere la maggioranza il percorso è ancora lungo e probabilmente molto accidentato". Anche perché ancora oggi in un’intervista la ministra Lorenzin paventa rischi per la salute e sostiene che dove la cannabis è stata legalizzata il consumo è aumentato del 50 per cento. A lei risulta? "A me risulta che un incremento particolarmente elevato del numero dei consumatori di cannabis si è registrato in un Paese di saldo, compatto e antico regime proibizionistico: l’Italia. Qui il numero di consumatori di cannabis è cresciuto in modo costante negli ultimi decenni. Il ministro Lorenzin sembra ignorare, beata innocenza, la falla logica, giuridica e scientifica che costituisce una vera e propria défaillance del suo ragionamento. Uso queste parole con serietà, senza nessuna volontà di insultare, ma partendo dai dati della realtà". Quali? "Né io, né altri firmatari del disegno di legge abbiamo mai detto che la cannabis fa bene, o che non può far male. L’abuso di cannabis in alcune fasce di età può avere conseguenze nocive: l’abuso, cioè un uso intenso e frequente, nella minore età o nell’adolescenza può produrre danni. Ma da qui dovrebbe derivare una conseguenza: se a causa di questo la cannabis va tenuta fuorilegge, analoga sorte devono seguire le sostanze che producono altrettanti o assai più gravi danni come tabacco e alcol. Io penso che la cannabis regolamentata, legalizzata, avrà meno effetti nocivi di quanto ne abbia la cannabis oggi fuorilegge. Questo è il nodo teorico e concreto, normativo e scientifico a cui si sottraggono tutti i proibizionisti". Proprio tutti? "L’unico che con una sorta di parossistica coerenza non sfugge è Nicola Gratteri che infatti dice che metterebbe fuorilegge alcol e tabacco. Forse che il ministro in base ai dati epidemiologici di cui dispone può affermare che la cannabis faccia più male del tabacco e dell’alcol? Può affermare questo? Oppure in base a dati sociologici può affermare che si consuma più cannabis di alcol nell’età adolescenziale? Qualunque verifica empirica ci dice il contrario. L’abuso di alcol è diffusissimo in quella età. Sono convinto che con la cannabis regolamentata sarebbe più facile operare per la dissuasione dagli abusi". Sembra un paradosso. "Non lo è. Il consumo di cannabis regolamentato può produrre meno danni di quanti ne produce oggi. Abbiamo un esempio inequivocabile: in regime di legalità del tabacco le campagne di dissuasione dal suo abuso hanno avuto successo, oggi in Italia i fumatori di sigarette sono molti meno di quanto fossero vent’anni fa. In regime di legalizzazione della cannabis, sarebbero più efficaci le campagne destinate a limitarne il consumo indirizzate alle fasce a rischio". Il 50% del campione Swg e molti commentatori si dicono convinti che la legalizzazione possa togliere terreno alla criminalità. Concorda? "Non sono tra coloro che dicono, a mio avviso un po’ ingenuamente, legalizziamo la cannabis per dare un colpo mortale alle mafie. Dico quello che ha detto nei giorni scorsi Raffaele Cantone, ovvero che oggi una persona, giovane o adulta, che voglia consumare un po’ di derivati della cannabis ha una sola via, ricorrere al sistema di liberalizzazione illegale che oggi garantisce la disponibilità di quella merce. In ogni angolo di ogni strada, in ogni città esiste una rete di esercizi commerciali illegali gestita da un numero assai elevato di "commercianti" che vendono la merce richiesta e che ne offrono di tutti i tipi e qualità. Questo sì, è qualcosa che può essere interrotto attraverso la legalizzazione, il ricorso al mercato clandestino e a sostanze di cui non si conosce la composizione, non controllate, che possono essere manipolate per renderle più appetibili o per incrementare i profitti". L’uso terapeutico. È recente il caso di Fabrizio Pellegrini, malato di fibromialgia, rinchiuso per due mesi in carcere per aver coltivato piante di cannabis per curarsi. Ora è ai domiciliaci, ma il suo avvocato denuncia che è ancora nell’impossibilità di curarsi. Un caso paradigmatico... "Quasi nessuno lo sa, ma già dal 2007 in Italia è legale il ricorso a farmaci a base di cannabis. Una disposizione legislativa del 2011 ha reso più agevole questa possibilità. Detto questo, oggi un paziente che volesse ricorrere a quei farmaci va incontro a un’autentica via crucis: la procedura per averli è lunghissima e contorta con passaggi dal medico curante all’Asl, dall’ospedale al ministero degli Esteri che provvede ad acquistare il farmaco in un Paese straniero, per esempio in Olanda. Il farmaco arriva a distanza di mesi, vi si può ricorrere con un lungo intervallo tra una prescrizione e l’altra ed è circoscritto alla cura di pochissime patologie, quando invece è dimostrato che anche altre ne avrebbero giovamento. Infine, la spesa che deve sostenere il paziente, come nel caso di Pellegrini, è cli circa i 500 euro al mese. Quest’ultima vicenda è significativa, anche perché Pellegrini è di Chieti e l’Abruzzo ha una legge regionale ben fatta che prevede anche un fondo per rimborsare le spese. Peccato che il fondo non sia stato ancora finanziato. Il risultato è che Pellegrini è ricorso all’illegalità. Tutto questo accade perché la questione della cannabis è ancora sottoposta in Italia a un pesantissimo e torvo tabù. Le parole che ripete periodicamente il ministro Lorenzin sono l’espressione più evidente, per certi versi più sincera nella loro sprovvedutezza, di questo tabù. Le leggi ci sono, esiste una dichiarata disponibilità ma se poi resiste quel tabù che considera la cannabis, in quanto droga, "il male", questo produrrà inevitabilmente il fatto che nessuno si adopererà perché quei farmaci siano effettivamente a disposizione delle concrete esigenze del paziente: i medici esiteranno a prescriverli, i farmacisti non li ordineranno, le aziende farmaceutiche non li produrranno. Quel tabù va spezzato". Le minacce degli Stati falliti di Sabino Cassese Corriere della Sera, 22 agosto 2016 I Paesi occidentali hanno l’obbligo morale di considerare le condizioni dei loro vicini. Siria, Iraq, Libia, Yemen diventano di giorno in giorno un problema per il mondo. Questi Paesi fanno parte della categoria degli "Stati falliti". Se si aggiungono gli "Stati fragili", il loro numero ammonta a parecchie decine. Si tratta di costruzioni statali precarie o inesistenti, di governi che non tengono sotto controllo tribù, clan, etnie, gruppi paramilitari; dove il potere pubblico è eroso, ha perduto legittimazione ed efficacia, non controlla il territorio, non è in grado di garantire la sicurezza dei suoi cittadini, è incapace di erogare i servizi pubblici e di interagire con gli altri Stati. In questi Stati i poteri centrali sono fatiscenti, non assicurano l’uso legittimo della forza; i diritti umani sono violati; la popolazione vive in povertà. Questi Stati falliti o fragili esportano gravi problemi in altre parti del mondo, specialmente in quelle vicine: molti loro abitanti fuggono, chiedendo asilo altrove; altri si dedicano al terrorismo internazionale, promuovendolo, facendo proseliti, educando alla violenza. Gli altri Stati, specialmente quelli confinanti, debbono, quindi, darsi carico delle tensioni prodotte dall’emigrazione e della minaccia che deriva dal terrorismo. Non tutte le cause di questa situazione sono interne. Molte dipendono dalle costruzioni artificiali imposte dalle maggiori potenze mondiali prima di lasciare le loro colonie o al termine di conflitti bellici. Oppure da interventi di paesi occidentali, talora diretti allo scopo di abbattere governi autoritari o dittatoriali, che hanno, però, scoperchiato e reso più virulenti conflitti locali. La comunità internazionale, sotto l’egida dell’Onu o di governi regionali come l’Unione europea, deve assicurare assistenza internazionale per favorire o imporre il ripristino delle funzioni di governo? In astratto, è il popolo stesso che deve costituirsi in Stato, agendo dal basso, perché, proprio secondo i dettati della Carta delle Nazioni Unite, ha diritto all’autodeterminazione. Più concretamente, c’è chi dice che gli Stati falliti o fragili vengono usati per interventi esterni, e che si ritorna all’imperialismo ottocentesco. Altri dice che sono meglio dittatori come Saddam, Gheddafi e Mubarak, garanti della stabilità. Dunque, il principio di sovranità popolare escluderebbe interventi esterni, come quello disegnato dalla risoluzione Onu del 14 marzo 2014 per assicurare la transizione alla democrazia in Libia, preparare una nuova costituzione e costruire un governo centrale efficace. Queste posizioni neutraliste sono sbagliate sia storicamente, sia dal punto di vista politico, sia da quello etico. Ignorano che gli Stati moderni non si sono formati in virtù di una volontà costituente del popolo, ma grazie a un processo lento nel quale il centro motore è stato un esecutivo, spesso con l’aiuto di forze esterne, come l’Italia di Cavour grazie alla Francia di Napoleone III. Dimenticano che la condizione di un governo pacifico del mondo è che gli Stati possano cooperare e che, per cooperare, debbono innanzitutto esistere, avere un potere pubblico centrale, non consistere soltanto di territori non governati. Tralasciano l’obbligo morale di tutti gli Stati di considerare le condizioni nelle quali vivono i propri vicini. L’Unione europea ha un problema aggiuntivo, che dipende dal fatto che gran parte di questi Stati deboli o inesistenti sta nell’Africa centrale e nel Vicino Oriente, cioè in zone non lontane. Quindi, ha una responsabilità maggiore (e un maggiore interesse) a darsi carico della promozione di costruzioni statali in questi Paesi. L’Unione europea, così come le Nazioni unite, incontra, però, difficoltà che rendono inefficaci i propri buoni propositi. Si sommano disunione interna, derivante dalla diversità degli obiettivi e delle priorità; assenza di un chiaro mandato degli Stati membri ad affrontare questo tipo di materie; difficoltà nei rapporti con le maggiori potenze mondiali; poca voce nell’Onu, dove l’Unione europea continua a presentarsi divisa; difficoltà finanziarie. Germania. I piloti disobbediscono ai rimpatri forzati di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 22 agosto 2016 La disobbedienza civile di alcuni comandanti di Lufthansa, Air Berlin e Germanwings. Sono oltre 330 le deportazioni fallite nel 2016 perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del "passeggero". Resistenza alla deportazione. Piccola cronaca della disobbedienza civile di chi si oppone al rimpatrio forzato dei migranti. Oltre 600 casi di obiezione fisica e di coscienza inceppano il piano di espulsioni del governo Merkel, con buona pace della campagna elettorale come della "Dichiarazione di Berlino" sulla sicurezza presentata giovedì dai ministri cristiano-democratici. È la "politica della porta aperta" che consente di uscire dall’aereo all’ultimo minuto; il "Ce la facciamo" opposto a Mutti delle associazioni pro-asilo che cominciano a spiegare ai profughi i trucchi per aggirare i rimpatri. La prova che, come sempre, in Germania non tutti sono disposti a obbedire fino in fondo agli ordini delle autorità. A partire dai piloti dell’aviazione. Sul sito Deutsche Welle (Dw) sono di pubblico dominio le "spigolature" della resistenza alla macchina delle espulsioni guidata dal ministro dell’interno Thomas De Maizière (Cdu). Nel primo semestre 2016, nonostante gli annunci del giro di vite sulle espulsioni (100 mila entro dicembre è la tabella di marcia del governo) i rimpatri di migranti si sono limitati a 35 mila casi certificati e non tutti andati a buon fine. Di questi spiccano seicento "abbandonati" perché la polizia non è riuscita a completare la procedura, più che sintomatici dell’inceppo etico-legale alle deportazioni. La situazione tipica è riassunta nella partenza dell’ultimo volo di ritorno per i profughi pronto all’allineamento sulla pista dell’aeroporto di Lipsia-Halle. "Il passeggero viene scortato da due agenti di polizia a bordo dell’aereo. Qualche minuto prima del decollo insieme ad altri rifugiati si rifiuta di partire, quindi inizia a urlare che non vuole allacciare le cinture di sicurezza. Infine spiega ai piloti che non sta viaggiando sotto la propria volontà" riporta Dw puntualmente, e ufficialmente visto che si tratta di un organo di informazione controllato dal governo. A quel punto il comandante comunica all’ufficiale di polizia che si rifiuta di decollare. Oltre 330 deportazioni nel 2016 sono fallite perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del "passeggero" che il foglio di via al migrante espulso della polizia federale. In 160 casi è intervenuto personalmente il comandante a spiegare che "non avrebbe preso a bordo nessuno se non dopo la conferma della volontà dei passeggeri di far ritorno nel "Paese sicuro" di destinazione". Spicca il nein di 46 piloti della compagnia di bandiera Lufthansa ma anche di 23 di Air Berlin e di 20 in servizio a Germanwings. Per ben 108 volte sono riusciti a far abortire il take-off dell’aereo affittato dal governo accogliendo il rifiuto "last-minute" dei profughi al rimpatrio. In maggioranza chi resiste è iracheno, siriano, afghano o somalo ma c’è anche chi ha il passaporto di Eritrea, Gambia, Camerun. A loro il sito w2eu fornisce le dritte per opporsi alla deportazione, una serie di "independent information for refugees" fondamentali per orientarsi nella trincea delle espulsioni: "Di solito basta un sonoro "No" quando si viene fatti sedere nell’aereo. Se non funziona, è utile iniziare gridare, buttarsi sul pavimento dell’aereo o praticare altre forme di disobbedienza passiva". Succede così a Lipsia come a Francoforte, altro hub da cui partono i voli di ritorno dei profughi, e si può fare anche perché sulla polizia "pesa" il caso di un migrante che nel 1999 morì durante la deportazione. Da allora in Germania le forze dell’ordine hanno l’ordine scritto di "rendere il processo trasparente e in linea con i Diritti umani". Per questo il numero di rimpatri non segue l’"accelerazione delle espulsioni" chiesta dal governo quanto dall’opposizione di Alternative für Deutschland. Come se non bastasse, in 37 dei casi abbandonati dalla polizia la deportazione non è riuscita perché "il Paese di origine ha rifiutato l’ingresso al connazionale" riporta sempre Dw. Briciole comunque nel mare di respingimenti che non si ferma. Nonostante i relativamente pochi casi eseguiti, i rimpatri aumentano. Da gennaio a giugno in Germania si è registrato il 50% di "partenze" in più rispetto all’intero 2015. Ai confini della Baviera la polizia di frontiera ha bloccato 13.324 migranti contro gli 8.913 di 12 mesi fa. Siria. Dentro l’inferno delle prigioni di Assad di Eugenio Dacrema, Marta Serafini, Federico Thoman Corriere della Sera, 22 agosto 2016 "Sono stato arrestato il 2 marzo 2012 sul confine tra la Siria e il Libano. Mi hanno riportato a Damasco, alla sede dell’intelligence militare. La filiale 215". Inizia così la storia di Mohamed Mounir Alfakir, uno dei leader delle manifestazioni organizzate nel 2011 contro il regime siriano. Avrebbe dovuto recarsi da Beirut a Istanbul per incontrare i membri dell’opposizione in esilio. Mounir era uno dei due rappresentanti della regione di Damasco. Ma non raggiungerà mai l’aeroporto di Beirut, e nemmeno tornerà a casa. Mounir da quel giorno sparisce per due lunghi anni. Nei mesi successivi i suoi familiari e i suoi amici cercano invano informazioni su quanto gli è accaduto "in ogni ufficio del regime c’è una figura che noi chiamiamo al-miftah, la chiave, un intermediario che prende i contatti e stabilisce il prezzo per le informazioni", spiega al Corriere. I familiari di Mounir pagano, ma le informazioni non arrivano. Ma tutti sanno cosa è successo. Perché è già successo a molti dall’inizio della rivolta nel marzo 2011, e a molti altri succederà negli anni successivi. I perduti, i desaparecidos siriani Le chiamano "sparizioni forzate", in inglese forced disappearance. Non sono normali rapimenti perché sono portati a termine da organi dello Stato, ma non sono nemmeno normali arresti, perché avvengono al di fuori delle ordinarie procedure legali e le vittime spariscono per mesi o anni interi senza che le famiglie vengano informate di ciò che è accaduto loro. Alcuni sono rilasciati dietro un vero e proprio riscatto, altri ricompaiono per essere processati per reati spesso confessati sotto tortura. Altri invece non torneranno mai, nonostante gli sforzi delle famiglie e le tangenti pagate ai funzionari del governo. In Sud America le vittime di tale pratica sono chiamati "desaparecidos". In Siria sono mafqoudoun, i perduti. Le loro storie, o meglio le testimonianze di chi è riuscito a sopravvivere, appaiono anche nel rapporto di Amnesty International pubblicato nei giorni scorsi. Attraverso 65 testimonianze - 54 uomini e 11 donne - la Ong internazionale ha ricostruito le violazioni e le torture subite dai dissidenti siriani. Sono ex membri dell’esercito ma soprattutto civili: medici, elettricisti, avvocati, contabili, infermieri, giornalisti. Nei decenni precedenti al 2011, quando sono iniziate le proteste contro il governo di Assad che poi hanno portato alla guerra civile, la media di decessi riscontrati nelle carceri siriane era di 45 all’anno. Nemmeno quattro al mese. Ora si parla di dieci morti al giorno. Trecento al mese. 17.723 in oltre cinque anni. "Di padre in figlio, in Siria la tortura ha costituito da decenni a questa parte uno degli strumenti di potere e di terrore della famiglia Assad. Negli anni Ottanta, Amnesty International aveva diffuso un rapporto in cui erano descritti quasi 40 metodi di tortura", spiega Riccardo Noury portavoce di Amnesty International in Italia. Oggi chi è sospettato di essere in qualche modo legato o favorevole ai ribelli finisce in cella alla mercé pressoché assoluta dei servizi segreti (militari e civili) del regime di Assad. Secondo le decine di testimonianze raccolte da Amnesty International, gli arresti avvengono in vario modo. Su ordine diretto oppure dopo un semplice fermo, come accaduto a Mounir. Ma nessuno dei fermati passa attraverso il normale iter giudiziario. Per mesi le vittime sono rinchiuse in prigioni militari, al di fuori di qualunque tipo di supervisione civile. Ci sono le sedi dei diversi servizi segreti, contraddistinte da un numero (215, 227, 248, 291 ecc.) o quelle delle forze speciali dell’esercito come la Quarta Divisione. "Durante le prime tre settimane mi hanno interrogato. Volevano sapere del mio ruolo nella rivolta e degli altri attivisti". Mi hanno torturato con uno strumento chiamato la "sedia tedesca" e picchiato con cavi e bastoni racconta Mounir, "alla fine ho parlato". Ottenute confessioni e informazioni i detenuti vengono lasciati ad aspettare che venga deciso il loro destino. Possono rimanere li a tempo indeterminato, o andare incontro a un processo militare. Mounir aspetta quasi sette mesi, poi lui e altri sette vengono portati davanti al tribunale militare, nonostante siano tutti civili. "Non c’è nessuna difesa per gli imputati, nessun avvocato, e nessun appello. Il nostro processo è durato in totale un quarto d’ora". Il giudice scrive la sentenza su un foglio, senza dire niente. "Ancora oggi non so cosa ci fosse scritto". A questo punto i più fortunati sono rilasciati, altri finiscono in una prigione civile, dove le condizioni sono molto più umane. Altri ancora, vanno a Sednaya. L’inferno sulla terra, Sednaya Sednaya è un piccolo villaggio cristiano, noto per un antico monastero e le sue reliquie. Ma per i siriani è altro. Negli anni 80 a Sednaya e Palmira il regime degli Assad ha costruito due prigioni speciali per i nemici politici: attivisti, membri delle minoranze represse come quella curda, e in seguito anche i jihadisti. Le storie su queste prigioni si diffondono velocemente col beneplacito del regime. Racconti che parlano di torture, di celle sotterranee e condizioni disumane. La prigione di Palmira è stata conquistata dall’Isis a metà 2015. I miliziani ne pubblicano le immagini e poi video della demolizione per accreditarsi agli occhi dei siriani e attrarre reclute. Ma se la prigione di Palmira non esiste più, quella di Sednaya funziona ancora. Mounir vi viene mandato dopo il processo, sette mesi dopo il suo arresto. "Quando ci dissero che saremmo andati a Sednaya cominciammo a piangere. E non smettemmo per tutto il tragitto". Appena arrivati lui e i suoi compagni sono fatti denudare e picchiati duramente. Dopodiché sono loro spiegate le poche semplici regole della prigione. "Primo non puoi alzare la testa e guardare i secondini in faccia. Pena la morte. Ho visto molta gente essere uccisa così". L´altra regola è quella del silenzio: i prigionieri non possono parlare tra loro, nemmeno sussurrare. "Per tutto il tempo che ho trascorso lì ho sentito solo silenzio". Dopo questo "benvenuto" Mounir viene rinchiuso in una cella sotterranea da nove persone, grande circa due metri quadrati. Uno dormiva, e gli altri stavano in piedi. "Tutti completamente nudi uno attaccato all’altro". Mounir resta a Sednaya un anno intero. Ma nel frattempo succede qualcosa: dopo aver provato diverse strade e pagato diversi funzionari, la sua famiglia riesce finalmente a scoprire dove si trova e ad accordarsi sul prezzo della sua scarcerazione. "Un giorno ci hanno convocati, me e altri due, era il 22 gennaio 2012. Abbiamo pensato che ci chiamassero per giustiziarci". Ma i tre prigionieri si sbagliavano. "Mi portarono in una stanza e mi diedero i miei averi. Poi mi dissero di sollevare la mia mano destra. Mi dissero di ringraziare il presidente Bashar Al-Assad perché mi perdonava nonostante io meritassi la mia pena. Perché è un uomo buono". Da quel momento in poi Mounir è di nuovo libero. Dopo un mese fuggirà in Giordania, e poi di nuovo in Turchia, dove oggi lavora per l’Omran Center for Strategic Studies. Le foto di "Caesar" Oltre alle centinaia di testimonianze come quella di Mounir, a portare alla ribalta la terribile pratica delle sparizioni forzate in Siria c’è una vicenda in particolare. Nell’agosto 2013 un membro delle forze di sicurezza siriane che lavora per una piccola unità addetta a documentare i decessi che coinvolgono membri dell’esercito o dell’intelligence decide di disertare. Con sé Caesar (come sarà soprannominato per proteggere la sua identità) porta un bagaglio delicato: fotografie. Archiviate dentro chiavette USB e CD masterizzati ci sono infatti circa 55 mila immagini di cadaveri in diverse strutture di detenzione del regime e catalogati con numeri e codici. La maggior parte dei corpi riporta segni di denutrizione, percosse e torture. L’archivio viene analizzato da una commissione apposita formata da tre alti funzionari dei tribunali delle Nazioni Unite: Sir Desmond de Silva, pubblico ministero della Corte Speciale per la Sierra Leone, Sir Geoffrey Nice, pubblico ministero al processo contro Milosevich, e il professor David Crane, che incriminò l’ex presidente della Liberia Charles Taylor. I tre sono ingaggiati da uno studio legale di Londra che lavora per il governo del Qatar. Nonostante i tre prestigiosi membri della commissione abbiano sempre affermato di aver lavorato in piena libertà, il ruolo del Qatar nella vicenda ha dato luogo a molte polemiche. Quando, alla fine del 2014, i giornali hanno iniziato a parlare dell’archivio, il governo siriano ha immediatamente respinto ogni accusa. Nell’aprile 2015 in una intervista per Foreign Affairs lo stesso presidente Bashar al-Assad ha dichiarato l’archivio di Caesar privo di qualunque fondatezza, "È tutto finanziato dal Qatar e dicono che è una fonte anonima. Le foto non sono chiare sulle persone che mostrano. […] Chi può dire che sia stato fatto dal governo o dai ribelli? Chi può dire che siano vittime siriane o qualcun altro?". I dubbi posti dal presidente siriano hanno cominciato a trovare risposta circa un mese più tardi, quando la Syrian Association for Missing and Conscience Detainees ha reso pubbliche circa 5000 foto dell’archivio, suscitando anche critiche. Da allora centinaia di famiglie siriane hanno preso contatto con l´organizzazione dopo aver identificato nelle foto i loro cari scomparsi nelle carceri del regime. Alcune testimonianze sono raccolte in un rapporto stilato da Human Rights Watch e pubblicato a dicembre 2015. Le sparizioni forzate tra semplificazioni e realtà La ricostruzione contenuta nei rapporti pubblicati sul fenomeno è piuttosto semplice: un regime spietato che organizza in modo sistematico rapimenti ed eliminazioni appropriandosi dei riscatti pagati dalle famiglie. Ma secondo Bassam Alahmed, attivista dell’Violation Documentation Center (Vdc), c’è altro oltre agli abusi documentati dalle ong. "All’inizio, le sparizioni forzate avevano un movente politico. Se manifestavi ti arrestavano". Ma con il logoramento delle strutture del regime numerosi corpi d’intelligence i pretesti sono diventati diversi. "Non ci sono ordini sistematici. i singoli ufficiali all’interno agiscono spesso autonomamente". Sono questi ultimi che di solito si appropriano dei soldi pagati dalle famiglie. Molti arrivando ad accumulare vere e proprie fortune. Secondo Bassam in molti casi nel governo sanno cosa accade, ma se ne disinteressano, sapendo di poterci fare poco o nulla. Le sue parole sarebbero confermate anche da Caesar, che in una rara intervista spiega come il lavoro della sua unità serviva proprio a tenere traccia delle attività indipendenti delle varie agenzie, per sapere chi faceva cosa. Bassam sa di cosa parla. Lui stesso è stato un perduto, arrestato all’inizio del 2012 mentre lavora per il Vdc a Damasco. Anche lui ha provato fame e tortura: "la tortura con scosse elettriche era molto popolare presso la Quarta Divisione, e anche il pestaggio con manganelli, tubi e cavi". La sua famiglia non riuscirà ad avere sue notizie per oltre due mesi. Ma è più "fortunato" di Mounir e dopo tre mesi viene rilasciato. Oggi Bassam continua il suo lavoro di documentazione in Turchia. Iraq: impiccati 36 jihadisti condannati per il massacro di Camp Speicher La Repubblica, 22 agosto 2016 La strage era stata compiuta dall’Is nel giugno del 2014 nella base a nord di Tikrit allora in mano al Califfato. Morirono da 1.500 a 1.700 soldati. L’Iraq ha impiccato 36 jihadisti condannati per il massacro dell’Is a Camp Speicher, base militare a nord di Baghdad, compiuto nel 2014. In quell’occasione gli uomini del califfato uccisero oltre 1.500 persone, la gran parte soldati iracheni. Nell’aprile dello scorso anno nella Tikrit liberata furono trovate numerose fosse comuni, otto delle quali all’interno del palazzo di Saddam Hussein che contiene anche i resti dell’ex presidente, e altre fuori città con i cadaveri di centinaia di uomini. Per mesi la città natale di Saddam Hussein era finita nella mani del Califfato e all’indomani della sua riconquista delle truppe di liberazione emersero le atrocità compiute dai militanti jihadisti durante l’occupazione. E proprio a Tikrit era stato ucciso dalle forze regolari Ibrahim Sabawi Hassan, il nipote di Saddam diventato comandante dell’Is. Allora il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, dichiarò che la vendetta non sarebbe stata la strada per gestire la scoperta dei corpi. Le famiglie dei soldati scomparsi si appellarono però al governo iracheno per avere risposte concrete su questo massacro. All’inizio di quest’anno è stata decretata la pena di morte per gli autori del massacro, eseguita oggi per impiccagione nel carcere di Nassiriya , nel sud del paese. Secondo un rapporto dell’Onu che parlava della strage di Camp Speicher circa "1.500-1.700 membri dell’esercito iracheno sono stati sommariamente uccisi il 12 giugno del 2014 dall’Is, presumibilmente dopo essere stati catturati". Turchia. La guerra dove nemici e alleati si confondono di Bernardo Valli La Repubblica, 22 agosto 2016 La guerra turca dove nemici e alleati si confondono. La città della strage si trova nel Sud-Est, vicino alla frontiera siriana. Da quando è cominciata la guerra vi arrivano migliaia di profughi. Non è escluso che il ragazzo "di 12 o 14 anni" fosse uno di loro. Recep Tayyip Erdogan ha indicato l’adolescente come l’autore dell’attentato di sabato sera. Forse si è fatto esplodere da solo, come un kamikaze adulto, forse qualcuno ha azionato un dispositivo a distanza. Gaziantep, dove è avvenuta la strage (51 morti e 69 feriti), è una città abitata da una numerosa comunità curda. Lo è in particolare il distretto di Sahinbey, dove il matrimonio tra Besna e Nurettin Akdogan era ormai stato celebrato all’aperto e gli invitati si stavano disperdendo quando c’è stata l’esplosione. La cerimonia si era svolta secondo la tradizione curda. E benché non sia stato possibile identificare il giovane terrorista, volontario o usato come strumento, perché dilaniato dall’esplosione, le autorità turche, e lo stesso presidente Erdogan, non hanno esitato a indicare lo "stato islamico" come il responsabile, o comunque come il principale sospetto, del più grave attentato avvenuto in Turchia negli ultimi tempi. Le milizie curde combattono in Siria e in Iraq. Sono la fanteria della coalizione contro lo "stato islamico" guidata dagli americani. Si battono nelle vicinanze di Mosul, la seconda città irachena di cui stanno preparando l’assedio per liberarla dall’occupazione; e in Siria sono impegnati nella battaglia di Aleppo e si avvicinano a Raqqa, la capitale dello "stato islamico". Sono insomma i protagonisti a terra della grande offensiva in corso nella Valle del Tigri e dell’Eufrate e che mette in gravi difficoltà il "califfato" terrorista. Il quale si vendica lontano dal teatro di guerra organizzando attentati, destinati a coprire le sconfitte. La strage al matrimonio di sabato sera, nella città turca di Gaziantep, nel Sud-Est del paese, potrebbe avere quell’obiettivo. L’avere scelto quella regione, dove il conflitto tra curdi ed esercito turco continua, può confondere le idee. Può facilmente indurre in errore nell’indicare i responsabili. I dubbi sono costanti. Quello mediorientale non risponde alla logica dei conflitti tradizionali. Alleati e nemici si confondono. Gli alleati possono non avere gli stessi nemici. Oppure le intese si rovesciano. I ruoli cambiano secondo il terreno o il momento. Così i curdi, fanteria degli americani alleati sul campo dei turchi, sono gli avversari di quest’ultimi. E in questi giorni si starebbero confondendo ancor più gli schieramenti. La Turchia in quanto potenza sunnita nemica dell’Iran sciita ha ristabilito rapporti cordiali con la Russia, che usa basi aeree in Iran ed è alleata con Damasco, dove governa Bashar el Assad, nemico di Recep Tayyip Erdogan. Significa che quest’ultimi, Assad e Erdogan, stanno ricucendo le relazioni? La contorta e non sempre comprensibile situazione fa da sfondo al matrimonio di sangue del sabato sera, nella città di Gaziantep, distretto di Sahinbey. Un posto modesto, abitato da gente modesta. Nella guerra tra potenze, non solo regionali, un ragazzo di "dodici- quattordici" anni esplode, o viene fatto esplodere, provocando più di cinquanta vittime in una piccola folla che festeggia le nozze di Besna e Nurettin Akdogan. La sposa, Besna, è stata leggermente ferita. Lo sposo è uscito indenne dall’attentato. A Ankara, nella capitale, si considera che il PKK (il partito dei lavoratori curdi fuori legge) sia all’origine delle tre azioni terroristiche avvenute nel corso della settimana nell’Est e nel Sud-Est del paese con un bilancio di quattordici morti. In quelle zone lo scontro tra esercito e curdi conosce rare tregue. Il governo ha invece aggiudicato allo "stato islamico" la strage avvenuta in giugno, con quarantaquattro morti, all’aeroporto di Istanbul. Questa distinzione tra gli autori di atti di violenza rischia di essere dettata più dalle passioni e dagli interessi politici che dal risultato di inchieste approfondite. Sia perché quegli atti sono frequenti, di diversa intensità e condotti con metodi variabili, sia perché le rivendicazioni sono rare. Il colpo di stato fallito del 15 luglio ha fatto duecentoquaranta vittime e non è stato un semplice attentato, ma nei discorsi ufficiali rientra nel capitolo terrorismo. Di solito solerte nel firmare le stragi organizzate o ispirate in altri paesi, lo "stato islamico" in Turchia resta silenzioso. Non lo è invece il presidente Erdogan che nelle sue denunce accumuna lo "stato islamico", il PKK curdo, e i gulenisti. Quest’ultimi, seguaci del predicatore Fetullah Gulen, sono accusati di avere ordito il putsch di metà luglio: e per questo sono imprigionati, epurati, espopriati. Si calcola che siano state colpite da questi provvedimenti ottantamila persone: piccoli e grandi burocrati, militari, poliziotti, magistrati, imprenditori. La Turchia dà l’impressione di vivere una fase di transizione. Già prima del fallito colpo di Stato c’era stata una lunga fase di incertezza, in cui l’autoritarismo rampante del partito di Erdogan, costante vincitore delle elezioni dal 2002, sembrava insaziabile. Forte della legittimità popolare, il carattere turco-sunnita o nazional- musulmano del regime si imponeva. Il fallito colpo di Stato ha offerto l’opportunità di un qualcosa che assomiglia a un colpo di Stato riuscito. Ma non ancora completato. Appunto in una fase di transizione. Il ripetersi degli attentati è un sintomo. Creano quel clima d’attesa, di cui mi ha parlato, con emozione, un sociologo subito dopo l’attentato nel Sud-Est del paese. Australia. Violenza e intimidazione nelle carceri minorili di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 agosto 2016 Nel 2014 le guardie penitenziarie hanno aizzato un cane contro un ragazzino che minacciava il suicidio; un anno dopo un altro cane, privo di museruola, ha ringhiato a lungo contro una minorenne aborigena impedendole di uscire dalla piscina. Fortunatamente, dopo quell’episodio, quando è stato fatto presente che equivale a una forma di tortura, l’uso dei cani per impaurire i detenuti è cessato. Nel 2012 otto detenuti sono stati posti in isolamento per 10 giorni: i primi due giorni per 24 ore, gli altri otto per 22 ore. Nel 2014 sono stati registrati 20 tentativi di suicidio, saliti a 31 nel 2015. Nel 2010 le tecniche di contenzione hanno determinato quattro casi di frattura ai polsi. Questo e altro emerge dalla lettura di oltre 1.000 pagine di documenti governativi riguardanti due carceri minorili dello stato australiano del Queensland, quelle di Townsville e Brisbane. Periodo di riferimento: dal 2010 al 2015. Amnesty International è entrata in possesso di quelle pagine a seguito di una richiesta di accesso agli atti basata sulla legge sulla libertà d’informazione. Va certamente apprezzato il fatto che la legge australiana consenta di accedere ad atti così importanti e che questi siano minuziosamente compilati e tenuti in archivio. Magari, aggiungerete, di fronte al fatto che c’è persino la piscina, sul resto si potrebbe chiudere un occhio. Resta il fatto che queste 1000 pagine confermano ulteriormente che nei centri di detenzione per rei minorenni dell’Australia la situazione è pessima. Neanche un mese fa, era scoppiato un altro scandalo. Oltre alla violenza fisica, i documenti ufficiali rivelano un pesante clima di intimidazione e di umiliazione. Quale utilità hanno, ad esempio, quei controlli di sicurezza - vietati nelle prigioni per adulti - in cui alle detenute e ai detenuti minorenni è chiesto di accovacciarsi, nudi, sollevando rispettivamente il seno e gli organi genitali? Sullo sfondo, rimane il problema dei problemi: la sproporzione di detenuti aborigeni e delle isole dello stretto di Torres rispetto agli altri, che a Townsville nel 2015 ha raggiunto l’89 per cento. Dopo aver letto questi documenti, Amnesty International ha chiesto al governo australiano di avviare indagini approfondite e trasparenti e, in attesa dell’esito, sospendere le persone sospettate di aver commesso violazioni dei diritti umani ai danni dei detenuti. Le autorità australiane dovrebbero inoltre al più presto ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e istituire un organismo indipendente di monitoraggio sulle prigioni. Stati Uniti. In Texas sospesa l’esecuzione del detenuto che non ha ucciso nessuno globalist.it, 22 agosto 2016 Jeffrey Wood è salvo. Nessuna sedia elettrica o iniezione letale. Doveva essere giustiziato mercoledì prossimo. Una storia assurda la sua: era seduto in un pickup fuori da una stazione di servizio nel gennaio del 1996, quando un suo amico rapinò il negozio e uccise il commesso. La sua storia. Wood, 43 anni, è stato condannato a morte in base a una legge dello Stato secondo cui chiunque sia coinvolto a qualunque titolo in un reato che porti alla morte di una persona viene riconosciuto ugualmente responsabile, a prescindere da coinvolgimento o intenzione. La corte ha accolto il ricorso dei legali dell’uomo, secondo cui il processo sarebbe stato viziato da una falsa testimonianza e da false prove scientifiche. "La corte ha fatto la cosa giusta a sospendere l’esecuzione di Wood - ha detto il suo legale Jared Tyler - non si fa giustizia giustiziando Wood, che era fuori dall’edificio in cui avvennero i fatti e che non aveva precedenti penali". Secondo il legale, Wood, che avrebbe il quoziente intellettivo di un bambino, non sapeva che il suo amico aveva una pistola. Nei giorni scorsi decine di leader evangelici hanno scritto al governatore del Texas per chiedere clemenza. "Non ho mai visto un’esecuzione negli Stati Uniti con un così basso livello di colpevolezza come nel caso di Wood", ha detto un altro legale dell’uomo, Kate Black.