Il congresso radicale a Rebibbia, una sfida contro il populismo penale di Sergio D’Elia Il Dubbio, 20 agosto 2016 La partecipazione anche di condannati all’ergastolo al prossimo congresso del Partito Radicale, che si tiene nel carcere di Rebibbia dal 1° al 3 settembre, non solo perché è quello che Marco avrebbe voluto succedesse, ma - soprattutto - per aiutare lo Stato, l’amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia Orlando ad avere successo sugli "imprenditori della paura" che alimentano il "populismo penale" in voga nel nostro Paese. Il Partito radicale è connotato da una regola semplice e senza eccezioni: si può iscrivere chiunque e nessuno può essere espulso per nessun motivo. Questa regola lo rende un partito unico, diverso da tutti gli altri partiti nei quali le iscrizioni devono essere vagliate e, semmai, accettate e le espulsioni possono essere decretate senza appello da "probiviri" che giudichino l’iscritto un "infedele" alla linea politica o un "deviante" dalla linea di condotta morale. La tessera del Partito Radicale non può essere negata a nessuno, neanche al condannato all’ergastolo, al quale non chiediamo conto del suo passato, del male arrecato, del bene negato. Non siamo un tribunale della Sharia chiamato a stabilire il "prezzo del sangue" versato, a perseguire i "nemici di Dio" e i "corrotti in terra", a "reprimere il vizio e promuovere la virtù". Quando alla fine degli anni 80, nella campagna di iscrizioni "o lo scegli o lo sciogli" per salvare il Partito Radicale, arrivò l’adesione di Piromalli, molti dirigenti del Partito di allora storsero il naso: sì, va bene, l’accettiamo perché per statuto non la possiamo rifiutare a nessuno, ma non rendiamola pubblica per non creare scandalo. Quando Marco si accorse di questo tentativo di autocensura, andò su tutte le furie e sparse ai quattro venti la notizia dell’iscrizione del vecchio capo della ‘ndrangheta. "Lasciate che i Piromalli vengano a me", disse Marco, nutrendo - credo - la speranza che, in un carcere diverso e più umano, l’uomo della pena possa divenire una persona diversa da quella del delitto e la certezza che, comunque, il Partito Radicale non era un centro di potere e di interessi da spartire. "Spes contra Spem" è stata la cifra della vita di Marco: il dover essere speranza contro l’avere speranza, proprio quando ovunque nel mondo sembrano prevalere disperazione, indifferenza e rassegnazione, a partire dal mondo carcerario dove vige ancora il "fine pena mai" dell’ergastolo senza speranza. Il motto di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani era il titolo del Congresso di Nessuno tocchi Caino tenuto nel dicembre scorso nel Carcere di Opera, l’ultimo a cui ha potuto partecipare Marco ed è anche il titolo del docufilm di Ambrogio Crespi che verrà proiettato al Festival del Cinema di Venezia il 7 settembre prossimo. Racconta le testimonianze degli agenti di polizia penitenziaria del Carcere di Opera, del Direttore Giacinto Siciliano e del Comandante Amerigo Fusco, la presa di posizione ? per la prima volta ? del Capo del Dap Santi Consolo contro l’ergastolo "ostativo", ma anche le storie di condannati a vita che descrivono il carcere come un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma anche il luogo e il tempo in cui è possibile ritrovarsi per sempre, rinascere a nuova vita. Da alcune testimonianze dei detenuti sembra emergere addirittura un "elogio della galera", perfino del carcere duro. Secondo molti che lo hanno visto in anteprima, il docufilm di Crespi è un vero e proprio Manifesto della lotta alla mafia. Alternativo a Gomorra, la serie televisiva che ha ridotto il libro-denuncia di Saviano sulla camorra nel suo opposto, la mitizzazione del giovane camorrista, criminale, violento, omicida e suicida. Alternativo anche ai proclami emergenzialisti di quelli che Leonardo Sciascia definiva "i professionisti dell’antimafia", in servizio permanente effettivo contro tutto ciò che non rientri perfettamente nel sistema di leggi e carceri speciali, pentitismo e collaborazione attiva con la giustizia, ergastolo ostativo e 41 bis. Il ministro dell’Interno Alfano in questi giorni ha lanciato l’allarme sul rischio di "radicalizzazione" in atto nelle carceri. Non so quanto sia fondato questo rischio o sia l’ennesima emergenza che ci si candida a governare, in nome della sicurezza, con leggi d’eccezione e armamentari speciali. Quel che so è che Marco Pannella, in tutta la sua vita non ha fatto altro che "radicalizzare" le carceri e i carcerati, convertire ai connotati del Partito Radicale, alla nonviolenza, allo stato di diritto e alla legalità l’intera comunità penitenziaria. Se nelle carceri non vi sono più rivolte, pagliericci bruciati, vi sono meno aggressioni e autolesionismi e più scioperi della fame per far valere i propri diritti, è grazie a Marco Pannella e al Partito Radicale. Questa radicalizzazione positiva e costruttiva continueremo a perseguirla. Abbiamo proposto la partecipazione anche di condannati all’ergastolo al prossimo congresso del Partito Radicale, che si tiene nel carcere di Rebibbia dal 1° al 3 settembre, non solo perché è quello che Marco avrebbe voluto succedesse, ma - soprattutto - per aiutare lo Stato, l’amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia Orlando ad avere successo sugli "imprenditori della paura" che alimentano il "populismo penale" in voga nel nostro Paese. "La mafia si combatte con il Diritto, non con la terribilità", ammoniva Sciascia, usando un neologismo poetico eppure significativo. Ci si illude di poter risolvere le emergenze ? sconfiggere la mafia, la violenza e il fanatismo ? con la "terribilità", contrapponendo al terrore un terrore uguale e contrario, derogando ai principi fondamentali dello Stato di Diritto e di Diritti Umani. Il "41bis", tra giusta prevenzione ed afflizione gratuita di Massimo Bordin Il Foglio, 20 agosto 2016 In sostanza la questione del "41 bis" ruota intorno a due problemi che sono inevitabilmente collegati fra loro rendendo complicata qualsiasi discussione in merito. La modifica delle condizioni di detenzione, principalmente per i mafiosi, nasceva da una esigenza incontestabile: impedire che dal carcere gli affiliati potessero continuare a indirizzare le attività criminali. Il problema andava risolto nell’unico modo possibile: un controllo più efficace. La pratica però ha portato a effetti diversi dalla motivazione originaria. Valga l’esempio dei colloqui con i familiari. Che senso ha limitarne pesantemente il numero quando sono colloqui che avvengono per citofono attraverso un vetro e sono registrati? Si passa da una giusta prevenzione a una afflizione gratuita, così come per altri aspetti della detenzione che non c’entrano con la possibilità di trasmettere o scambiare notizie. Comprensibili le limitazioni della socialità fra detenuti ma come definire, per esempio, la limitazione di ricevere libri, naturalmente passati al controllo di censura, se non una gratuita vessazione? Si slitta così da norme che vogliono impedire la continuazione di gravi reati a pratiche che sottopongono il corpo e la mente di un detenuto a pressioni unicamente volte a ottenere confessioni pur di ottenerne la fine. Anche se non vengono usati i tratti di corda e i ferri arroventati, la definizione tecnica di un metodo del genere non può non dirsi tortura. Ma questo, per usare una parola cara al procuratore Scarpinato, è "indicibile". Unità e migranti, i richiami di Mattarella di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2016 Al Paese che alza i toni e si spacca, alla vigilia del referendum sulle riforme costituzionali che pure non cita mai, ricorda che "i momenti di unità sono decisivi nella vita di una nazione, e talvolta sono anche doverosi". All’Italia impaurita dall’immigrazione rimarca l’importanza del "noi" contro l’"io", della solidarietà contro l’egoismo, dei ponti contro i muri. Alla nazione più vecchia d’Europa rammenta la necessità di "dare spazio alla visione dei giovani, senza farci vincere dalle paure", senza ricorrere a soluzioni vecchie per questioni completamente inedite. Allo Stato nel mirino dei fondamentalisti, al pari del resto dell’Occidente, garantisce: "Con la nostra civiltà, e senza rinunciare a essa, sconfiggeremo i terroristi". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto ieri a inaugurare la 37esima edizione del Meeting dell’Amicizia tra i popoli, traccia la cornice ideale che dovrebbe guidare la politica alla ripresa dopo la pausa estiva. Un test cruciale, quello dei prossimi mesi, per la "giovane" Repubblica italiana, che ha appena compiuto 70 anni, che ha già affrontato "prove impegnative" e che adesso "per diventare più forte ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide". Davanti ai tantissimi ragazzi riuniti al Meeting e a un parterre di molti imprenditori (tra gli altri l’ad di Eni Claudio Descalzi, il collega di Leonardo-Finmeccanica Mauro Moretti e il filantropo bolognese Marino Golinelli), Mattarella sottolinea che "l’attitudine dei giovani a diventare protagonisti della propria storia costituisce l’energia vitale di un Paese: questa spinta vale più di qualunque indice economico o di borsa". Sono le nuove generazioni la risorsa principale, e la difficoltà di accedere al mondo del lavoro "forse il problema più grande" dell’Italia di oggi. Se con la lectio degasperiana di giovedì il presidente aveva elogiato "la virtù della pazienza" in democrazia, adesso approfondisce il ragionamento ed esorta a non lasciare che la discussione pubblica, compresa quella politica, sia dominata dal presente: "Passare dall’io al noi ci permette di guardare più lontano". E che cos’è il "noi"? "È la comunità. È anche la storia. È la democrazia". Rifugiandosi nell’egoismo che "non genera riscatto civile", "tutta la società diventa più debole e meno creativa", mentre "il futuro si costruisce insieme". Senza illudersi che "il mondo appartenga soltanto a chi la pensa come noi, riversando spesso su chi la pensa diversamente soltanto astio e livore". Risuona forte l’appello all’unità del Paese: "Dobbiamo lavorare con impegno per ricomporre le ferite e rendere l’Italia più robusta, più solidale, più competitiva, più importante per la costruzione europea". Come? Mattarella elenca i fattori attraverso cui passa l’unità, che è conquista "mai acquisita una volta per tutte": la crescita del Sud, il lavoro per i giovani, il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze, l’occupazione femminile, la conciliazione dei tempi di cura e di lavoro, lo sviluppo delle reti sociali e comunitarie, per consolidare il welfare "senza privarlo del suo carattere universalistico". Nel riferimento alla fondazione della Repubblica c’è in filigrana l’invito a considerare la consultazione d’autunno sulle riforme come occasione non per distruggere ma per ripartire: "La Repubblica è nata da un referendum, e dunque da un confronto democratico. La divisione degli orientamenti, però, è stata tradotta in una straordinaria forza unitaria". Merito delle classi dirigenti democratiche "che hanno saputo capire ciò che le univa, al di là dei legittimi contrasti". Mattarella difende il valore del cambiamento: le democrazie "hanno sempre bisogno di accogliere nelle loro istituzioni le innovazioni e le forze vive". Basta che la lezione del passato sia tenuta sempre a mente, che il "faro" siano i "principi della nostra Costituzione, contenuti nella sua prima parte". Quella che, va ricordato, non sarà toccata dal referendum. Il bagaglio di valori con cui affrontare "con serietà e senso di responsabilità" il fenomeno migratorio. Senza illudersi che possa risolversi con il cartello "vietato l’ingresso" o con "improbabili trincee". Cedere alle paure, antiche e nuove, ammonisce il capo dello Stato, è uno sbaglio foriero di altri vizi: "Attenti a non cadere nell’errore di ritenere nuove false soluzioni già vissute e fallite nel breve Novecento. Non ci difenderemo alzando muri verso l’esterno o creando barriere divisorie al nostro interno. Al contrario". La via giusta è quella opposta: "Ricominciare a costruire ponti e percorsi di coesione e sviluppo". L’apprensione "comprensibile" per l’ondata migratoria non deve dunque portare a snaturare "le nostre conquiste, la nostra civiltà, i nostri valori". Anche perché sono proprio queste, per Mattarella, insieme al dialogo tra le fedi, le nostre armi contro il terrorismo. Salvini attacca il Colle, la difesa di Boldrini e Pd di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2016 No a nuovi divieti, in Italia una legge esiste già e quindi non c’è spazio per altri interventi. In un’Europa che discute di burkini e di una stretta per proibire il velo islamico integrale, e il giorno in cui il leader della Lega attacca il Colle per le sue parole sull’accoglienza dei migranti, la linea del Governo resta ferma: applicare le norme scritte nel ‘75 che impediscono l’uso di qualunque "mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico". La strada, dunque, per il Viminale deve essere quella del buonsenso. Con le forze di polizia, impegnate ad ampio raggio nell’antiterrorismo, a impedire la circolazione in modo "travisato", soprattutto nel caso del velo integrale. In attesa che arrivi il prima possibile al traguardo la nuova legge sulla sicurezza urbana, il cui perimetro era stato già definito nell’autunno dello scorso tra ministero dell’Interno, Anci e sindaci delle città metropolitane. E che ora - è l’auspicio del ministro Angelino Alfano - dovrebbe essere calendarizzato a settembre in uno dei primi Consigli dei ministri dopo la pausa estiva. Un testo di una ventina di articoli inizialmente scritti nel contenitore di un Ddl che ora potrebbero anche essere veicolati in un decreto legge. Le norme rafforzano tra l’altro il potere di ordinanza di sindaci ampliando gli ambiti di intervento previsti dal testo unico degli enti locali. Intanto le parole del capo dello Stato al Meeting di Rimini che invitano all’accoglienza alimentano la polemica politica di questi mesi sulla gestione dell’emergenza migranti. Immediata la reazione del segretario della Lega Matteo Salvini, che su twitter attacca il presidente della Repubblica lanciando l’hashtag #mattarellaclandestino: "Predica ancora accoglienza, invita a costruire ponti, dice che non si può vietare l’ingresso agli immigrati. Buono? No, complice di scafisti, sfruttatori e schiavisti". "Parole in libertà", le bolla il sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano. "Il solito istigatore che fomenta l’odio solo per conquistare titoli sui giornali ha superato i limiti", dice il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato. "Semina zizzania senza accorgersi che raccoglierà il M5S, non certo lui", avverte Pier Ferdinando Casini. E la presidente della Camera, Laura Boldrini, bersaglio privilegiato di Salvini, esprime tutta la sua solidarietà al presidente: "Le posizioni del leader della Lega vanno isolate. Le sue quotidiane esternazioni sono sempre più prive di freni e si pongono ben oltre ogni forma di dialettica politica". Mentre dalle fila del Carroccio "non commenta i commenti" Roberto Maroni. "Mattarella ha detto delle cose condivisibili - sottolinea il presidente della Lombardia - che secondo me sono una denuncia dell’inefficienza del sistema europeo e italiano di gestione dell’immigrazione clandestina". Maurizio Gasparri (Fi), pur non entrando nella querelle di oggi, si schiera invece con le posizioni del segretario della Lega: "Con tutto il rispetto per le massime autorità dello Stato, la parola d’ordine in materia di immigrazione deve essere espellere, non accogliere". Intanto il Viminale risponde indirettamente alle polemiche con i dati aggiornati sugli sbarchi da gennaio a oggi: 101.851 sbarcati, il 2,81% in meno dello stesso periodo dell’anno scorso, quando ne erano arrivati 104.800. I migranti accolti nel nostro Paese sono in totale 146.336 (a fronte dei 103.792 del 2015). La Regione che accoglie il maggior numero di migranti (14% del totale) resta la Lombardia, davanti a Sicilia (9%), Lazio e Veneto (8% Roma: la proposta del vicesindaco Frongia: "detenuti in strada per pulire la città" www.interris.it, 20 agosto 2016 Pulizia della città, riduzione degli sprechi di denaro, Roma 2024. Sono i temi affrontati dal vice sindaco dell’Urbe, Daniele Frongia, in un’intervista a "Il Fatto Quotidiano", spiegando la linea dei 5 Stelle sui conti pubblici, che scongiura ogni rischio default. Per quanto riguarda i Giochi Olimpici, per il momento la strategia è "non parlare di Olimpiadi. Dopo i Giochi di Rio, ci sarà il modo per affrontare il tema con il presidente del Coni, Giovanni Malagò". Ma dalle parole di Frangia trapela un certo dissenso sul dossier olimpico per la Capitale. Sulla scrivania del numero due del Campidoglio c’è, invece, il dossier Euro 2020, gli Europei di calcio che in via straordinaria saranno ospitati in 13 città europee. Infatti, la Federcalcio ha chiesto la disponibilità di Roma e la Giunta capitolina è favorevole. "Gli Europei non sono le Olimpiadi. Gli impianti già ci sono e non sono richiesti interventi pesanti. Si possono fare. E senza sprechi". Un mantra, questo, che caratterizza l’ex presidente della Commissione spending review e autore di un libro sui costi eccessivi dell’amministrazione della Capitale. Il vice sindaco, inoltre, replica alle polemiche sui compensi dello staff, assicura che la Giunta Raggi spenderà meno di tutti e verranno colpiti altri sprechi: "Stiamo intervenendo sia sulle briciole che sulla montagne. Abbiamo già tagliato l’uso delle auto di servizio e i regali del sindaco. Era uso che il sindaco facesse doni, anche molto costosi, in occasioni istituzionali: in un caso siamo scesi da 5 mila a 200 euro". "Abbiamo chiamato gente onesta e competente e, in complesso, spendiamo meno di tutte le giunte precedenti. Anche della Giunta Marino. Secondo le mie stime arriveremo a risparmiare almeno un milione su 5, e già ora ci attestiamo sui 300 mila euro di risparmi. Sono altri gli sprechi che strangolano Roma. I romani spendono 200 milioni l’anno per spedire l’immondizia al centro-nord e arricchire le aziende che la recuperano e la smaltiscono. Una follia". Altra questione al centro dell’agenda capitolina a cinque stelle, è quella dei rifiuti, che rappresenta uno dei problemi principali di Roma. La promessa di una Capitale pulita il 20 agosto non sarà raggiunta. "Quella sparata, a dire la verità, non l’ha fatta Virginia Raggi, ma Daniele Fortini, ex presidente di Ama. Siamo ancora ben lontani dalla normalità. Tutti dobbiamo fare la nostra parte, compresi quei cittadini finora tenuti ai margini: i detenuti. Vogliamo farli partecipare a progetti di pubblica utilità. E vogliamo partire proprio da pulizia e decoro". Non solo. Frangia smentisce il crac economico dell’Urbe: "Smentisco le voci che ci davano in pre-dissesto. Il saldo di finanza è positivo. E grazie anche al nuovo assestamento di bilancio, previsto per settembre, abbiamo iniziato una pulizia straordinaria dei conti". Ascoli: troppi in cella, sovraffollato il carcere di Marino del Tronto di Roberto Guidotti lanuovariviera.it, 20 agosto 2016 Nei penitenziari italiani, un problema serio di cui si dibatte da anni è quello del sovraffollamento della popolazione carceraria. La capienza regolamentare è di 49.659 detenuti. In realtà, il numero effettivo al 31 luglio 2016 è di 53.850, oltre 4.000 reclusi in più. Questa è la situazione nelle Marche e nell’unico carcere del Piceno quello a Marino del Tronto. Nella regione gli istituti penitenziario sono sette e la popolazione carceraria è di 814 detenuti. Sono solo due gli istituti in sovraffollamento: la Casa Circondariale di Pesaro dove i presenti sono 216 per una capienza di 167 e poi proprio quello di Marino del Tronto dove i reclusi sono 130 a fronte di una capienza di soli 104 posti. Il criterio per calcolare i posti da parte del Ministero di Giustizia, è di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni. Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Un ultimo dato interessante è relativo agli stranieri; nella Casa Circondariale di Ascoli sono 28, quindi il 21% del totale. In Italia sono 18.091, il 33% di tutti i reclusi. Modena: detenuti e poliziotti al Pronto Soccorso, ancora violenza in carcere modenatoday.it, 20 agosto 2016 Al Sant’Anna si è assistito a tre nuovi episodi critici in altrettanti giorni. Ricovero d’urgenza per un nordafricano che ha ingerito lamette e viti, tre invece gli agenti della Penitenziaria medicati dopo l’ennesima aggressione. Animi sempre molto tesi nel carcere modenese di Sant’Anna. Alla mobilitazione sindacale in corso da ormai molte settimane, fanno seguito costanti episodi violenti che hanno trasformato la struttura in luogo ad altissimo rischio, sia per la salute degli agenti di Polizia Penitenziaria, sia per l’incolumità stessa dei detenuti, i cui gesti autolesionistici si moltiplicano. I giorni di Ferragosto non hanno fatto eccezione. Lunedì 15, infatti, un detenuto extracomunitario ha minacciato un ispettore e l’agente di servizio in infermeria brandendo una lametta per poi utilizzarla sul suo corpo provocandosi diversi tagli. È quindi andata in scena una vera e propria trattativa per far gettare l’arma tagliente ed evitare che lo straniero si procurasse lesioni più serie. Dopo aver ricevuto le cure del caso, il detenuto ha poi deciso di barricarsi in infermeria, facendosi scudo con le sedie e il lettino, costringendo gli operatori penitenziari ad immobilizzarlo e, a fatica, accompagnarlo in isolamento precauzionale. Nella stessa serata altro detenuto magrebino ha ingerito quattro viti e tre lamette in quanto non sopportava il reparto a custodia chiusa e pretendeva di cambiare sezione. Poco dopo è stato accompagnato d’urgenza al pronto soccorso, rifiutando il ricovero ed anche la dimissione. Ancor più gravi gli ultimi episodi risalenti alla serata di ieri, 18 agosto, allorquando è andata in scena l’ennesima vicenda con protagonista (in negativo) un detenuto extracomunitario che ha opposto condotte violente per evitare il trasferimento nella sua camera di un altro ristretto. L’uomo ha aggredito il personale intervenuto e sono serviti tre poliziotti penitenziari per bloccarlo e riportare la calma nel reparto: a seguito delle botte ricevute i tre agenti sono stati medicati e refertati con sette giorni di prognosi a testa. "La confusione che attualmente regna all’interno della struttura modenese è rappresentata anche da alcune dinamiche che investono procedure di ubicazione al reparto "accoglienza" - spiegano i sindacati di Polizia Penitenziaria Sappe, Osapp, Uilpa, Cgil, Cisl, Uspp e Cnpp - con tutta una serie di provvedimenti che riflettono una discutibilissima gestione della popolazione detenuta". I sindacati hanno chiesto l’avvicendamento dei vertici della struttura (direttore e comandante), lo hanno ribadito a chiare lettere anche alla massima Autorità Amministrativa Regionale (il Provveditore), hanno comunicato l’intera situazione, con copiosa corrispondenza, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, invocando quel senso di responsabilità che dovrebbe sempre contraddistinguere la dirigenza di una Pubblica Amministrazione. Milano: scappa al controllo della polizia, 40enne muore dopo la sparatoria Corriere della Sera, 20 agosto 2016 La vittima è uno straniero. Ancora da chiarire la dinamica della tragedia accaduta alle 6 di sabato. Pare che il giovane sia caduto nella fuga e un colpo sia partito dalla sua pistola, ferendolo mortalmente. Uno straniero è morto dopo un inseguimento a piedi e una sparatoria a Peschiera Borromeo. La vittima, pare un 40enne di cui ancora non si conosce l’identità, stava cercando di rubare un’auto in sosta, ma è stato visto dalla polizia ed ha cercato di scappare: quindi ha sparato contro polizia e carabinieri che lo inseguivano. Nella fuga però è caduto e un colpo è partito dalla sua pistola: un colpo fatale che lo ha centrato in pieno volto. La tragica sparatoria è accaduta sabato mattina, verso le 6, a Peschiera Borromeo. Lo straniero è stato notato in zona Idroscalo, mentre stava per cercare di forzare la portiera di un’auto per rubarla. Una pattuglia della polizia, in servizio di controllo antidroga e anti alcol, lo ha notato e gli ha intimato di fermarsi. Il 40enne, per tutta risposta, è scappato a piedi lungo la vecchia Paullese in direzione di Peschiera Borromeo. Dopo un lungo inseguimento, a cui ai poliziotti si erano aggiunti anche i carabinieri, arrivato all’altezza del bar Pit Stop della frazione di Mezzate, l’uomo ha iniziato a sparare: almeno tre o quattro colpi contro gli inseguitori. Nella concitazione della fuga - secondo la versione fornita al momento dalle forze dell’ordine - l’immigrato è inciampato e nella caduta è partito un colpo di pistola che lo ha centrato sotto il mento uccidendolo all’istante. Quando i soccorsi sono arrivati infatti per il 40enne non c’era più nulla da fare. Ora sulla tragedia è stata aperta un’inchiesta per chiarire la dinamica dell’accaduto, mentre l’intera zona è stata isolata per i rilievi di legge. Terrorismo. Tensione e crisi permanente come strumenti di governo di Diego Fusaro Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2016 A uno sguardo non condizionato dalla narrazione egemonica, il nesso che connette tra loro crisi e terrorismo risulta più robusto di quanto non possa apparire a prima vista. Si tratta, in entrambi i casi, di coerenti estrinsecazioni del paradigma del vivre dangereusement individuato da Foucault come cifra del sistema neoliberista. A contraddistinguere la crisi e il terrorismo sono le figure tra loro connesse della precarietà, dell’instabilità, dell’incertezza e del rischio. Il loro comun denominatore è la destabilizzazione, la messa in pericolo e il rovesciamento della normalità della situazione. Più precisamente, il terrorismo figura come il versante politico dell’emergenzialità di cui la crisi è il côté economico. In entrambi i casi, la regolarità e la certezza, la sicurezza e l’ordine regolare sono sospesi e sostituiti da una condizione strutturalmente instabile e precaria, soggetta a eventuali rovesci imprevedibili e dagli effetti sconvolgenti. Ne scaturisce una condizione letteralmente inabitabile, centrata su una strategia della tensione globalizzata. L’esistenza diventa pura sopravvivenza sempre a rischio. La progettualità dell’esserci come base di un’esistenza stabile e consolidata nella forma della piena occupazione del presente e della prospettiva futura è dissolta e sostituita dalla nuova figura dell’"esserci-ancora-appena" evocata da Anders in L’uomo è antiquato. La crisi è terrorismo economico e governamentale, proprio come il terrorismo si configura come una crisi della stabilità politica ed esistenziale. Ciascuno dei due poli si rovescia dialetticamente nell’altro: la crisi è terrorismo, e il terrorismo è crisi. Entrambi, nella loro relazione biunivoca, si presentano come coerenti espressioni della "società del rischio" (U. Beck). In tutti e due i casi, la paura generalizzata legata all’insicurezza del futuro più prossimo si rivela un efficace strumento di governo: rende ancora più fragile e più instabile il servo precarizzato, giacché lo induce ad accettare, pur di sopravvivere, ciò che palesemente nuoce alla sua già svantaggiata condizione. Anche da questa prospettiva emerge come la paura figuri sempre più come un metodo di governo, che rende docili e remissivi i sudditi e, dunque, più facili da disciplinare e da amministrare in forme che mettono in discussione gli stessi assetti democratici. In questa prospettiva, l’analogia tra la crisi come governamentalità terroristica e il terrorismo come crisi permanente risulta lampante. In termini generali, il paradigma governamentale della crisi come metodo di governo si ridispone in forma geopolitica mediante la figura concettuale del terrorismo. Migranti. Dall’inizio del 2016 in Italia oltre 100mila arrivi via mare di Alessia Tripodi Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2016 Dall’inizio del 2016 sono 266.026 i migranti o rifugiati giunti in Europa via mare, in Italia (101.507) e in Grecia (162.015) in particolare. Nello stesso periodo (1 gennaio - 17 agosto 2016), il numero di decessi di migranti e rifugiati nel Mediterraneo è salito a 3.15. Sono i dati diffusi oggi dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che considera "fondamentale per l’integrazione" la proposta avanzata ieri dal prefetto Mario Morcone di dare opportunità di lavoro ai migranti. Decessi in aumento - Secondo l’Oim, il totale degli arrivi nel 2016 è inferiore al dato registrato nei primi otto mesi del 2015 (354.618 a fine agosto, la maggioranza dei quali dalla Turchia alla Grecia), ma il dato sui decessi è più alto. Il totale di 3.156 decessi è pari a 800 morti in più rispetto al dato registrato per lo stesso periodo del 2015, quando il Progetto Missing Migrant aveva registrato 2.333 decessi (dal primo gennaio al 18 agosto 2015). Ieri altri sbarchi nello stretto di Sicilia - Sono complessivamente 534 i migranti tratti ieri in salvo dalla Guardia Costiera nel corso corso di 11 operazioni di soccorso, durante le quali sono stati recuperati anche 5 corpi senza vita. I migranti, riferiscono le autorità in una nota, si trovavano a bordo di 2 gommoni e 9 piccole imbarcazioni. Orlando: contatti tra chi gestisce flussi e jihad - Sulla questione delle possibili infiltrazioni di jihadisti tra migranti economici e profughi in fuga è tornato oggi il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Non ho mai detto che i barconi saranno usati per portare terroristi" ha puntualizzato il Guardasigilli, che ha aggiunto, chiarendo il senso di alcune dichiarazioni fatte giorni fa di fronte alla commissione parlamentare Schengen:?"Ho detto che dalle indagini emergono contatti tra alcune persone che gestiscono questi flussi e le organizzazioni jihadiste". "Lavoro ai migranti non danneggia italiani" - Per l’Oim il lavoro ai migranti darebbe "opportunità di incontro e confronto con la società italiana" e le obiezioni, sollevate da più parti, sul presunto danno che questo comporterebbe per l’occupazione dei cittadini italiani, non hanno "alcun fondamento". Cosi l’Oim interviene nel dibattito sul lavoro ai profughi: "Il prefetto Morcone, nel presentare la proposta, ha fatto riferimento ai cittadini stranieri richiedenti o titolari protezione internazionale, e dunque in una condizione di presenza regolare in Italia" dice il direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, Federico Soda, sottolineando come "lo svolgimento di un’attività economica sia fondamentale per dar vita a processi di integrazione virtuosi". Per Soda "l’impatto di politiche di inclusione di questo tipo" aiuterebbe anche l’opinione pubblica "a diventare più consapevole del contributo positivo della migrazione per lo sviluppo sociale, culturale ed economico del Paese". Un processo nel quale, secondo l’Oim, le regioni e i comuni dovrebbero avere un ruolo fondamentale, con la supervisione del governo. Salvini e Maroni: bene il sindaco ferrarese "disobbediente" - Matteo Salvini lancia l’hashtag #iostoconfabio per sostenere Fabio Bergamini, il sindaco leghista di Bondeno (Ferrara) che per scoraggiare l’accoglienza degli immigrati nel territorio del Comune, dopo aver diffidato i suoi concittadini a ospitarli, ha fatto cancellare dall’albo pretorio l’avviso di manifestazione di interesse emanato dal prefetto di Ferrara. Sul suo profilo Facebook, il leader della Lega esalta la decisione del primo cittadino riportando anche le parole con cui Bergamini ha annunciato la sua disobbedienza: "Il mio è un gesto di civiltà, ci sono ancora 634 terremotati fuori dalle loro case". "Bravo!" il commento di Salvini, che dunque "sta con Fabio" e invita il popolo dei suoi follower a fare altrettanto. Lo stesso fa il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, che "condivide in pieno" la decisione del sindaco di Bondeno: "Il sindaco deve poter governare il suo territorio - ha detto Maroni a margine del meeeting di Cl a Rimini - altrimenti è inutile che faccia il sindaco". Droghe. Cantone insiste: "le politiche proibizioniste sono fallite" di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 agosto 2016 Ha pronunciato due parole di troppo, parlando di cannabis di questi tempi, anzi tre: "legalizzazione", "laicità" e "intelligenza". E ha scatenato un putiferio che ancora ieri non accennava a placarsi. Anche se il ministro di Giustizia Andrea Orlando si augura di vedere trasferito il dibattito in Parlamento: "Lo seguirò con grande attenzione", ha detto ieri. Il più duro è il forzista Maurizio Gasparri che conia il refrain subito adottato da tutto l’arco proibizionista: "È fuori dalle sue competenze", declinato pure in "invasione di campo della magistratura nella politica": "A distanza di 24 ore emerge ancora di più la pericolosità e la pochezza di Raffaele Cantone", dice il vicepresidente del Senato chiedendo le dimissioni del presidente dell’Anticorruzione. Sì, perché Cantone ieri è tornato a spiegare perché ha cambiato idea ("quando i miei figli sono cresciuti", ha detto al Corriere della Sera) sulla legalizzazione della cannabis, mettendo "in discussione quella che per me era una certezza, senza se e senza ma": "C’è un dato che nessuno riesce a mettere in discussione: le politiche proibizioniste non sono riuscite assolutamente a sradicare il fenomeno", ha affermato, aggiungendo a mo’ di esempio la notizia comparsa ieri sul manifesto riguardante l’avvio della vendita legalizzata e controllata di marijuana a Zurigo. I dubbi restano, dice Cantone, soprattutto quello sulla "tutela della salute", "io mi sono limitato a esprimerli perché su questa questione bisogna evitare il dibattito ideologico e trovare una legislazione che possa ridurre il danno, trovare meccanismi che evitino che i ragazzi si avvicinino alle droghe e soprattutto che comincino a utilizzare droghe ben peggiori". Una posizione "amorale e devastante", secondo Gasparri che la contrappone a quella di "un magistrato ben più valoroso e serio come il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che da massimo esperto nella lotta al narcotraffico ha ribadito quanto sarebbe illusorio e sbagliato legalizzare la cannabis perché non scalfirebbe i guadagni della criminalità". Aspettando di toccare con mano i risultati delle grandi lotte al narcotraffico, è il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, promotore dell’intergruppo Cannabis Legale, a rispondere via Fb al procuratore di Catanzaro. "Gratteri afferma che la quota del giro d’affari della cannabis sarebbe "ridicola", intorno al 5% del totale del traffico. Possiamo sapere quale sia la fonte di questi dati? - scrive Della Vedova - Perché a noi, che cerchiamo di studiare al meglio la questione da qualche decennio risultano dati assai diversi. Come quelli forniti dalla Dna, ad esempio". O dallo "studio di Carla Rossi (pubblicato su Current Drugs Abuse Reviews, 2013) in cui si stima in 22,5 miliardi il mercato complessivo degli stupefacenti in Italia, di cui 12 miliardi di cocaina e 7,1 miliardi di cannabis: un terzo del totale". Un mercato peraltro in aumento, e tutt’altro che "ridicolo", che "alimenta la corruzione e inquina l’economia legale". Della Vedova, ricordando che "a novembre in cinque stati Usa, tra cui la California, si terrà un referendum sulla legalizzazione della cannabis - come riferisce al manifesto - e che in caso di vittoria salirà a un quarto, la popolazione statunitense che vive con una legislazione antiproibizionista", chiede a Gratteri: "Stati Uniti, Canada o Svizzera non sono forse democrazie compiute?" Droghe. Lorenzin: cannabis, da madre dico no. Spieghiamo nelle scuole che fa male di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 20 agosto 2016 Il ministro della Salute contro Cantone: "Fumare danneggia il cervello dei giovani. I ragazzi bevono e si drogano per sballarsi, hanno perso il gusto per la vita" Beatrice Lorenzin lei è ministro della Salute: che cosa pensa della proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis? "Sono contraria, ma prima che da ministro vorrei parlare da mamma". Ma lei ha due gemelli piccini... "Non è mai troppo presto per occuparsi di questi problemi". Cosa vuol dire? "Che purtroppo oggi i tempi sono cambiati: i bambini già ad undici anni si avvicinano all’alcol, alle sigarette e, purtroppo, anche alle droghe". Raffaele Cantone, magistrato e presidente dell’Anticorruzione, dice che lui da papà preferisce la legalizzazione della cannabis per evitare i contatti tra i ragazzini e la criminalità organizzata, che dice? "Mi sembra una questione mal posta". Cioè? "Oggi in Italia è proibito ai minorenni comprare alcol e sigarette. Immagino che si proibirebbe anche l’acquisto della cannabis, qualora diventasse una sostanza legale. E allora i ragazzini per procurarsela dovrebbero comunque andare a comprarla illegalmente". Ma lei perché è contraria alla legalizzazione della cannabis? "Ora parlo da ministro della Salute e dico che scientificamente è provato che la cannabis fa male. È una sostanza psicotropa e fa male a tutti i consumatori. Ai più giovani, poi, fa malissimo poiché influisce sul completamento della formazione cerebrale. E questo lo testimonia la letteratura scientifica, che raccoglie studi da almeno quarant’anni". Non pensa che con la legalizzazione della cannabis si potrebbe avere un controllo del consumo? "Ah sì? Partiamo intanto da un assunto: nei Paesi dove la cannabis è stata legalizzata il consumo è aumentato del 50 per cento. Basta vedere alcune aree degli Stati Uniti d’America: aumenta l’offerta e aumenta la domanda. E poi...". Poi? "Come potremmo fare per controllare il consumo di cannabis da parte di categorie sensibili? Parlo di piloti o autisti, poliziotti o carabinieri, medici". Ma per questo vale lo stesso discorso del consumo dell’alcol. "Infatti. Sono decenni che stiamo facendo una grande fatica per far diminuire il consumo dell’alcol e anche delle sigarette. Guardiamo le campagne che proprio adesso ci sono sui pacchetti di sigarette. Pensiamo a quanta fatica si fa per usare l’etilometro. E adesso invece che cosa facciamo?". Cosa facciamo? "Vogliamo mettere una droga legale sul mercato e troviamo gli strumenti per misurare il consumo di cannabis? Penso che legalizzare la cannabis sia un messaggio devastante per tutta la popolazione e i giovani in particolare". Legalizzando la cannabis si sottrae una fetta di mercato alla criminalità organizzata... "Non voglio esprimermi su questo argomento, lo stanno facendo già magistrati esperti, con pareri tra loro contrastanti. Io parlo di quello che so. E quello che so è che la cannabis fa male e che dal punto di vista sociale invece di preoccuparci di legalizzarla, dovremmo occuparci di fare campagne per i più giovani che partano dalla scuola e arrivino a coinvolgere le famiglie". Che tipo di campagne? "Campagne che siano un inno alla vita. Oggi i giovani stanno in compagnia per sballarsi. Bevono per sballarsi. Si drogano per sballarsi. Hanno perso il gusto della vita. E in questo dobbiamo stare vicino alle famiglie che troppo spesso non hanno strumenti". Come le farebbe queste campagne? "Usando le parole che userò presto con i miei figli". Ovvero? "Che non c’è bisogno della bottiglia per innamorarsi. Né della cannabis per ballare freneticamente in discoteca. C’è una vita piena di sole oltre la plastica delle droghe". Droghe. Aumento dei consumatori ma risparmi per 3 miliardi, quanto vale l’erba di Stato di Maurizio Ricci La Repubblica, 20 agosto 2016 Una conseguenza immediata si registrerebbe sulla popolazione carceraria: oggi in Italia un terzo dei detenuti per reati di droga. Per frenare l’uso fra i minorenni bisognerebbe quadruplicare il prezzo. Solo così si potrebbe scoraggiarne l’utilizzo. "Due grammi d’erba, per favore". "Uhm, è un po’ di più: che faccio, dottò, lascio?". "Ma sì, mi farò uno spinello di più". Il giorno in cui, dal tabaccaio, si svolgerà questa conversazione è lontano e, forse, non arriverà mai. Ma, dal 25 luglio, la legalizzazione della marijuana è, ufficialmente, materia di discussione nel Parlamento italiano. In Uruguay, è già legale. Gli Stati Uniti procedono a tentoni, uno stato dopo l’altro, nella stessa direzione. Magistrati e poliziotti non vedono l’ora, convinti che prosciugherebbe il brodo di coltura di molta criminalità organizzata. Ma la discussione sullo spinello libero, che i baby boomers lasciano in eredità a figli e nipoti, gira in tondo intorno a tre domande. Legalizzare significa aumentare l’uso? Ci sarebbe un boom fra gli adolescenti? Con gli incassi delle tasse si potrebbe limare l’Irpef? Le risposte sono: sì, sì, un po’. I consumatori di spinelli, aumenterebbero del 50 per cento: dove ce n’erano due ce ne sarebbero tre. Per frenare l’uso fra i minorenni della marijuana legale bisognerebbe quadruplicare il prezzo. E una stima verosimile dei risparmi va dai 2 ai 3 miliardi di euro, come privatizzare ogni anno le Poste. Sono i risultati a cui arriva il primo tentativo di applicare un modello econometrico alla legalizzazione degli spinelli. Lo studio è uscito in questi giorni su una rivista seriosa e autorevole, la American Economic Review. Titolo: "Marijuana on Main Street" (marijuana all’angolo). Autrici: una economista australiana, Liana Jacobi, e una tedesca, Michelle Sovinsky. Nel proliferare di equazioni e derivate, il punto chiave - e la novità, rispetto alle tante simulazioni già in giro - è lo sforzo di calcolare l’impatto dell’accessibilità della marijuana sulle dimensioni del mercato. Ovvero: se è legale e facile da trovare, quanta gente in più la fumerebbe? Il 50 per cento in più, dicono Jacobi e Sovinsky, estrapolando da dati e sondaggi, soprattutto australiani. Negli Usa, dove, in base ad un sondaggio appena realizzato dalla Gallup, il 13 per cento degli adulti dichiarano di usare marijuana, si passerebbe al 20 per cento. I fumatori, più o meno regolari, di spinelli, su 240 milioni di adulti over 18 diventerebbero una cinquantina di milioni. In Italia, dove a dichiarare di utilizzare marijuana è appena meno del 10 per cento, si arriverebbe al 15 per cento: su una popolazione oltre i 14 anni di 50 milioni di persone, un po’ più di 7 milioni di candidati. Ma fissare questi dati in una istantanea rischia di falsare l’immagine. L’esperienza dice che il ricorso allo spinello diminuisce con l’età. Se il baby boomer lo fuma solo a Capodanno e a Ferragosto, quando si ritrova con vecchi amici, è probabile che suo nipote ci dia dentro molto di più. Jacobi e Sovinsky calcolano che per scoraggiare davvero un adolescente, il prezzo dovrebbe quadruplicare: per l’Italia sarebbe circa 40 euro al grammo. Il problema è che un aumento di queste dimensioni lascerebbe nuovamente spazio al mercato nero come oggi. Applicare, invece, una tassa del 25 per cento sull’attuale prezzo di mercato, secondo l’American Economic Review, avrebbe qualche effetto, ma limitato: scoraggerebbe un minorenne potenziale fumatore su tre (quasi sempre le ragazze, indicano i sondaggi). Ma quanti adolescenti fumerebbero spinelli? Oggi, secondo i dati di Jacobi e Sovinsky, sono uno su quattro. Diventerebbero, con la legalizzazione, uno su tre. Lo studio parla di una tassa del 25 per cento, perché questa è l’aliquota che si applica in America, ad esempio, in Colorado. Su questa base, le autrici ipotizzano, nel caso di una legalizzazione estesa a tutti gli Usa e con l’ampliarsi fino al 50 per cento della platea dei consumatori, incassi fiscali da un minimo di 4 ad un massimo di 12 miliardi di dollari. Il calcolo è più difficile per l’Italia, dove le tasse su alcool e tabacco arrivano al 75 per cento: un simile ricarico ridarebbe spazio agli acquisti clandestini. Mentre solo il 25 per cento in più potrebbe convincere i consumatori che l’acquisto sicuro e legale sia, alla fine, più conveniente. Applicando gli stessi parametri che Jacobi e Sovinsky utilizzano per gli Usa, l’introito per il fisco italiano (con una tassa limitata al 25 per cento) oscillerebbe da mezzo miliardo di euro a un massimo di un miliardo e mezzo. È però un calcolo da contabile dell’Agenzia delle entrate, per l’Italia come per gli Usa. L’effetto più profondo di una legalizzazione delle droghe leggere, come ripetono esperti, magistrati e poliziotti, è sulla criminalità e sul sistema giudiziario. In America, secondo l’Fbi, nel 2014 sono state arrestate 620 mila persone per possesso di marijuana. In Italia, ci sono attualmente in carcere oltre 18 mila persone per reati di droga. In pratica, un terzo delle sovraffollate carceri italiane è occupato da persone legate allo spaccio (la detenzione per le droghe leggere è stata decriminalizzata). E metà del mercato degli stupefacenti, in Italia, è quello della marijuana. Gli economisti che se ne sono occupati (Piero David, Ferdinando Ofria, Jeffrey Miron, Katherine Waldock) stimano che il risparmio che una legalizzazione degli spinelli porterebbe per polizia e carceri vada da 1,5 a 2 miliardi. In tutto, insomma, spinello libero, se guardiamo ai risparmi, può valere, per l’Italia, fino a 3 miliardi di euro l’anno. Pena di morte. Nessuno Tocchi Caino: esecuzioni in Vietnam e Arabia Saudita La Repubblica, 20 agosto 2016 Il regime di Riyad ha deciso per la decapitazione di un minorenne, che ha subìto già 5 mesi di detenzione in isolamento, oltre che percosse e torture in cella. Minacciati anche i suoi familiari e il suo legale. Dal rapporto periodico di "Nessuno Tocchi Caino" si apprende che il tribunale di Lang Son, in Vietnem, ha condannato a morte nove uomini e altri due all’ergastolo per il traffico di complessivi 280 kg di eroina dalla provincia settentrionale vietnamita in Cina, nel 2013 e 2014. I fratelli Chu Dinh Tuyen, 39 anni, e Chu Van Vien, 33, capi della banda, sono tra i condannati a morte insieme ai loro sette complici, di età compresa tra 31 e 38 anni. Nong Thi Chang, 25, e Chu Duc Figlio, 38, sono i due imputati condannati all’ergastolo. Agenti del Ministero della Pubblica Sicurezza nel 2014 catturarono due membri della gang. Successive indagini portarono all’arresto degli altri. La banda avrebbe confessato di aver trafficato un totale di 280 kg di eroina dalla provincia nord-occidentale in Cina in 22 occasioni, guadagnando più di 10 miliardi di dollari vietnamiti (456.000 dollari Usa). Diciannove persone coinvolte. Un totale di 19 persone sono state coinvolte, compresi altri quattro vietnamiti ancora a piede libero, un cinese non identificato che è stato arrestato in Cina e un vietnamita deceduto. Il Vietnam ha una delle leggi sulla droga più severe del mondo. La produzione o la vendita di 100 g di eroina o di 300 g di altre sostanze stupefacenti illegali è punibile con la morte. Anche gli imputati riconosciuti colpevoli di possesso o traffico di più di 600 g di eroina o più di 2,5 kg di metanfetamine possono essere condannati a morte. Arabia Saudita - il Tribunale Penale Speciale in Arabia Saudita ha emesso il suo verdetto iniziale, condannando a morte il minorenne sciita Abdulkareem Al Hawaj. La condanna a morte di Al Hawaj è in aggiunta a quelle emesse contro altri detenuti che sono in pericolo di esecuzione, stabilite al termine di processi che non sono in accordo con i principi internazionali di equità. Al Hawaj si aggiunge alla lista di altri nove minori sciiti che sono stati condannati a morte in Arabia Saudita e che sono in attesa di esecuzione. Al Hawaj, che è nato il 19 novembre 1995, è stato arrestato il 16 gennaio 2014 da uomini in abiti civili, ritenuti legati alla Direzione Generale di Investigazione. Gli uomini hanno fermato Abdulkareem mentre era sulla via del ritorno dal lavoro, ad un Check Point su Al Hadaleh Street ad Al Awamia, Qatif. Cinque mesi in isolamento. Gli hanno puntato le armi in faccia e lo hanno arrestato, senza presentare alcun mandato d’arresto, e lo hanno portato, insieme alla sua auto, in un luogo segreto. Questi uomini non hanno informato la sua famiglia circa l’ubicazione del ragazzo, tuttavia alcuni giorni dopo la scomparsa, la famiglia è venuta a sapere della sua ubicazione tramite fonti non ufficiali, che hanno informato i familiari sull’arresto operato dalle autorità. Abdulkareem è stato arrestato per cinque mesi, periodo in cui è stato messo in isolamento, senza il permesso di comunicare con il mondo esterno o con altre persone, compresi i membri della famiglia. Torturato in cella. È stato sottoposto a tortura durante l’indagine, al fine di costringerlo a confessare false accuse contro di lui. Durante le torture è stato picchiato con bastoni e fili elettrici e preso a calci. Le sue mani sono state incatenate in alto per più di 12 ore e gli è stato impedito di usare il bagno in questo lasso di tempo. Oltre alla tortura fisica, è stato anche insultato, minacciato dell’uccisione dei suoi genitori e dell’asportazione delle unghie. Ad Abdulkareem è stato proibito il contatto con qualsiasi avvocato durante il periodo dell’inchiesta, tuttavia dopo due anni, all’inizio della sessione del tribunale, la sua famiglia ha potuto incaricare un avvocato. I familiari e l’avvocato sono stati sottoposti a maltrattamenti durante le visite e il tribunale non ha risposto alle legittime richieste dell’avvocato. Le accuse. Abdulkareem è stato accusato di reati non-violenti quando era minorenne, e le confessioni gli sono state estorte tramite tortura. Nonostante questo, il tribunale lo ha condannato a morte. Le accuse contro Al Hawaj non sono considerate come ‘i più gravi dei crimini’ e molte delle imputazioni nei suoi confronti riguardano la libertà di opinione e di espressione. Le accuse sono: coinvolgimento in una sparatoria contro poliziotti in cui è stato ferito, coinvolgimento in alcune marce e manifestazioni, aver dato fuoco a pneumatici, preparazione di alcuni cartelli con slogan contro il Regno, lancio di bombe molotov, partecipazione a social media, uso di ‘WhatsApp’ & ‘Zilo’ per individuare i posti di blocco, simpatia per l’Opposizione in Bahrain. Stati Uniti. Obama "stop alle prigioni private" di Luca Celada Il Manifesto, 20 agosto 2016 Obama ha annunciato la riduzione e poi la definitiva sospensione del "business detentivo". Gli Usa escono dal settore della carcerazione a scopo di lucro. La deputy attorney general Sally Yates ha annunciato che il dipartimento di giustizia ha deciso di diminuire e poi porre fine agli appalti federali verso le società che negli ultimi anni sono state protagoniste e beneficiarie di un boom carcerario impressionate. A partire dagli anni 80 le private prisons hanno acquisito una fetta consistente di una popolazione che negli Usa è giunta a oltre 2,3 milioni di detenuti, un quarto di tutti i detenuti del mondo. Una mass incarceration effetto di una deriva giustizialista che dagli anni 70 e 80 ha visto emergere la "lotta alla criminalità" come slogan obbligatori di una lunga onda conservatrice. Per effetto del proibizionismo inaugurato dalla war on drugs di Richard Nixon, e poi della stretta autoritaria di Reagan e dei Bush (ma anche si Bill Clinton)le carceri sono emerse come strumento privilegiato di controllo sociale. Uno strumento calibrato asimmetricamente contro le classi subalterne e di colore per cui neri ed ispanici sono finiti in carcere ad un tasso sei volte quello dei bianchi. La detenzione di massa ha fatto scricchiolare l’infrastruttura esistente. Mentre le potenti lobby delle guardie carcerarie spingevano per la continuata severità delle pene che garantiva agli agenti sicurezza di lavoro, le prigioni sono state ben presto sopraffatte. Quando gli istituti di pena non sono più riusciti a fare fronte alla "domanda" è entrata in scena "l’offerta" delle aziende private, capaci di costruire rapidamente centri di detenzione e vincere lauti appalti dagli stati per ospitare l’eccedenza che le patrie galere non erano in grado di gestire; un business di miliardi basato sulla massiccia disponibilità di "materia prima" garantita dalla politica. Non sorprende cioè che il maggiore conglomerato del settore, la Corrections Corporation of America sia stato fondato da Thomas Beasley, esponente del partito repubblicano. Negli ultimi 30 anni le prigioni private sono divenute parte integrante del "complesso penale industriale" giungendo a ospitare 130.000 detenuti. Un’obliterazione di un confine morale che non ha preoccupato i numerosi investitori istituzionali che a Wall street hanno brindato a un business model apparentemente imbattibile e in sinergica sintonia con il corporativismo rampante dei tempi. Contro la finanziarizzazione della giustizia si sono invece battuti per anni attivisti del movimento per i diritti dei detenuti che hanno rilevato nella privatizzazione il metodo sicuro per peggiorare un sistema già equivoco creando un parastato particolarmente sinistro. Quando vi feci visita una dozzina la prigione della Cca a Florence Arizona ospitava un migliaio di detenuti "appaltati" dall’Alaska che passavano l’ora d’aria ciondolando nei 40 gradi del cortile sotto il sole a picco del deserto. L’addetto alle pubbliche relazioni indicava la pulizia esemplare dei locali ma per l’azienda i detenuti spediti in questo strano confino, a migliaia di chilometri dalle proprie famiglie, rappresentavano soprattutto unità di fatturato pagato a 63 dollari cada per notte dallo stato d’origine. Le prigioni private sono venute a rappresentare una fonte di sviluppo economico per settori sociali esautorati e molte regioni deindustrializzate, l’ultima spiaggia per generare posti di lavoro ai margini di una malformazione sociale. Non si può dunque sottovalutare l’annuncio di questa settimana. L’obbrobrio morale delle prigioni private sono state un cavallo di battaglia della campagna di Bernie Sanders (che ha ottenuto che la loro chiusura fosse inserita nel programma politico di Hillary). Ma sullo sfondo del giustizialismo arcigno reiterato oggi dal trumpismo, è stato Obama a muoversi d’anticipo. Il primo presidente americano a visitare un carcere federale era già intervenuto su questo terreno denunciando per bocca del suo precedente ministro di giustizia, Eric Holder, i costi "umani e morali del circolo vizioso di povertà, criminalizzazione e incarcerazione che in trappola troppi americani" "il sistema giudiziario (che) ha esacerbato invece di alleviare" i conflitti sociali. La presa di posizione netta sulla privatizzazione, acclamata da molti attivisti del settore, è un ulteriore importante segnale riformista di fine mandato con cui Obama tenta di costruire una legacy sociale progressista. Siria. "Così il carcere di Assad annienta l’essere umano" di Joshua Evangelista Il Dubbio, 20 agosto 2016 Intervista a Faraj Bayrakdar scrittore siriano in esilio. Dalla "festa di benvenuto", la haflet al-istiqbal, inizia una lenta agonia che molto spesso porta alla morte. Il rapporto di Amnesty International uscito pochi giorni fa racconta come si vive, e si muore, nelle carceri di Assad. Da decenni il regime siriano usa la tortura per stroncare gli oppositori, o presunti tali. Come è successo al poeta Faraj Bayrakdar, che ha passato 13 anni dietro le sbarre, dal 1987 al 2000. "Tra un anno o due, dieci o venti la libertà si metterà la minigonna e mi accoglierà", scriveva in cella sul cartoncino delle sigarette, sperando di non essere visto dalle guardie. Oggi, rifugiato politico in Svezia, gira il mondo raccontando l’efferatezza del regime baathista, prima che la spettacolarizzazione della violenza plastica dei militanti dell’Isis renda definitivamente sopportabile le ingiustizie della dittatura all’opinione pubblica. "La memoria collettiva degli occidentali è piena di buchi e il regime è riuscito a trovare qualcuno peggiore per ripulirsi l’immagine. Così si dimenticano i passaggi che hanno portato a questa tragedia e si insiste con la retorica del male minore. È come se a un killer togli il pugnale insanguinato, gli dai una pacca sulla spalla e gli chiedi gentilmente di non farlo più". Non ritiene inevitabile che l’attenzione sia concentrata sulla minaccia dell’Isis, soprattutto dopo gli ultimi attentati in Europa? Nessuno può battere Isis, Jabhat al Nusra o le altre fazioni di matrice fondamentalista. Almeno finché non si rovescia Assad, che è l’altra faccia della medaglia. Mentre il mondo chiude gli occhi e sotto banco tratta con i terroristi, i media dimenticano che i massacri non vengono perpetuati solo dall’Isis. Nel frattempo la guerra contro Isis sembra ben lontana dalla fine. Potrebbero toglierli di mezzo subito, ma non conviene. Costa troppo. E chi paga? Arabia Saudita o Qatar? Prima che la guerra finisca si arriverà a un collasso totale. A quel punto il popolo tornerà alla vita di tutti i giorni, ma sarà una calma apparente. Non si dimenticherà cosa ha fatto il regime per mezzo secolo e come si è arrivati a questa spirale di fanatismo. Milioni di persone ogni notte incontrano nei loro incubi i propri morti e questo non è un problema che risolvi in venti anni. Gli incubi si tramandano di generazione in generazione. Incubi che accompagnano i siriani anche nei disperati tentativi di raggiungere l’Europa. L’Europa sta totalmente perdendo il controllo dei flussi migratori. Eppure tutti sapevano che rimuovendo il regime di Assad nel 2011 ciò non sarebbe accaduto. Ma evidentemente è più conveniente tenere milioni di disperati alle porte del continente. Come siamo arrivati a questo? Due settimane prima delle rivolte del 2011 ho scritto una lettera aperta all’Europa in cui criticavo Bruxelles per aver deciso di sostenere i "nostri" dittatori a discapito dei diritti umani. Erano le premesse per un’invasione di persone disperate, dissi. Così fu. Non posso non ricordare i silenzi che hanno accompagnato i primi mesi della rivoluzione, quando centinaia di migliaia di persone laiche marciavano nelle strade chiedendo più diritti. Poi sono arrivate le bombe. E cosa hanno fatto gli occidentali? Invece di sostenere i giovani che sognavano una Siria libera, hanno destinato i propri soldi ai movimenti fondamentalisti: armi, cibo e medicine solo per loro. Eppure molti di quei giovani hanno deciso di unirsi proprio ai quei movimenti. È normale: sono i movimenti più ricchi. A Idlib conosco persone totalmente laiche che hanno deciso di combattere per l’Isis. Succede quando devi provvedere alla tua famiglia e gli altri non hanno nemmeno i soldi per darti un po’ di pane. E le potenze cosa fanno? Sostengono coloro che sono funzionali ai loro interessi, a occhi chiusi. Non pensa che sia colpa anche di alleanze e scelte strategiche quanto meno discutibili da parte del fronte anti-assadiano? Anche se i nostri rivoluzionari non fossero incappati in così tanti errori strategici, il risultato non sarebbe cambiato. Era stato già tutto deciso. Del resto anche il regime ha fatto tanti errori, eppure è lì, sempre forte. A Stoccolma lei è un punto di riferimento per i migranti che riescono a raggiungere la Svezia. Vede in loro lo stesso popolo che ha dovuto lasciare dodici anni fa? Quasi tutti i siriano che arrivano qui hanno il mio numero e ricevo molte chiamate da chi è stato in prigione, hanno bisogno di parlare con qualcuno che ha vissuto lo stesso dramma. Non sono più gli stessi. Vedo nei loro occhi solo dolore e sofferenza, fatico a identificarli come siriani. Ma non vale solo per loro, dopo il 2011 tutti siamo cambiati in peggio. Anche la Svezia non è più la stessa rispetto a quando sono arrivato io. E lei come è cambiato dopo 13 anni di segregazione e torture? In carcere ero stato annullato e per questo motivo avevo dimenticato molte abitudini del vivere in comunità. Una volta uscito non sapevo più vestirmi, mi dimenticavo di salutare. Soprattutto: non sapevo più ridere. Non mi riesce bene nemmeno ora. Quando lo faccio mi sento graffiare la gola. C’è un filo conduttore tra la sofferenza di allora e quella che prova ogni giorno vedendo il suo popolo sotto assedio? No. È come se avessi sofferto per niente. Tutte le umiliazioni e le torture che ho subito sono nulla rispetto a quello che vive oggi il mio popolo. Mentre i miei aguzzini volevano vedermi agonizzante, sapevo che fuori da quelle mura c’era una famiglia che nonostante tutto sarebbe sopravvissuta. Oggi non è così. Tutti sanno che da un momento all’altro chiunque potrà ammazzarli. Ha ancora senso fare poesia di fronte a una tragedia di queste dimensioni? Alcuni miei colleghi riescono a produrre sulla Siria anche tre poesie al giorno. Io no. Negli ultimi cinque anni ho scritto pochi versi. E tra questi solo alcuni sulla Siria. In prigione avevo 24 ore al giorno per comporre. Ho pubblicato sette antologie, per intenderci. Lì c’era un tentativo continuo di cancellare il tuo significato come essere umano e creare versi o fare sculture con pezzetti di legno raccattati nella cella erano dei modi per dare un senso alla nostra esistenza. E oggi come dà senso all’esistenza? Dopo il 2011 la mia situazione è diventata ben più complicata. Perché la rivoluzione "impegna". Passo le giornate sui social network per capire come sta il mio popolo. Inoltre ritengo che il mio ruolo di autore sia cambiato. In carcere scrivevo per me, cercavo la forma, una qualità di scrittura che appagasse la mia tribolazione. Oggi invece serve una dialettica semplice, devo raggiungere il popolo. Meglio fare video, postare foto sui social e rinunciare a un arabo ricercato. Ho scritto una canzone nel dialetto di Homs, su YouTube ha avuto tantissime visualizzazioni e al Jazeera ha fatto un documentario su di me che ha raggiunto milioni di persone. La gente è disinformata, il mio nuovo ruolo è creare consapevolezza. È un modo per non rendere vano il sacrificio dei 400 mila sognatori che nel 2011 erano scesi in piazza a Homs. O dei 600 mila di Hama. A questo punto della mia vita non ho più pretese personali. Mi basta sapere che sto facendo qualcosa per aiutare il mio popolo. Iraq. Crisi umanitaria acuta mentre si avvicina la battaglia per Mosul di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 agosto 2016 In Iraq quasi tre milioni e mezzo di persone sono state costrette a lasciare le loro terre e le loro case per salvarsi dal terrore dello Stato islamico o evitare di rimanere in trappola nei combattimenti conseguenti alle operazioni militari del governo e dei suoi alleati per riconquistare i territori persi. Con l’imminente battaglia per strappare allo Stato islamico Mosul, la seconda città dell’Iraq, il rischio è che altre centinaia di migliaia di sfollati si aggiungano a quella cifra, dando luogo a una gravissima crisi umanitaria. A meno che la fornitura di aiuti non sia adeguatamente finanziata e portata a termine in modo efficace e privo di ostacoli. Ipotesi, purtroppo, attualmente lontana dalla realtà se si pensa che le Nazioni Unite hanno appena reso noto che il programma di risposta alla crisi umanitaria in Iraq è stato finanziato per meno della metà del necessario. La crisi degli sfollati iracheni è completamente ignorata dal mondo, tutto teso a sostenere gli sforzi militari contro lo Stato islamico, qui e in Siria, ma indifferente all’infinita sofferenza umana che quel gruppo armato ha prodotto. Anche il governo di Baghdad se ne cura poco: la maggior parte di queste persone è abbandonata in campi di fortuna o ha trovato riparo in strutture abbandonate o in costruzione nel nord dell’Iraq, priva di aiuti e di cure mediche. La storia di Ahmad, sfollato dalla provincia di Ninive coi suoi sette figli, è drammaticamente emblematica. Cinque settimane dopo essere arrivati in un campo per sfollati alla periferia della città di Dibega, non hanno ancora ricevuto una tenda. "La sera provo ad addormentarmi col terrore di cosa accadrà il mattino dopo: non ho niente da dare ai miei figli, non ho neanche la forza di guardarli negli occhi". Il campo di Dibega è ormai diventato una piccola città di oltre 30.000 persone. Donne e bambini sono ammassati, oltre 50 per aula, nella scuola del campo profughi. Gli uomini si adattano all’aria aperta, in messo a tonnellate di rifiuti. Non c’è modo di conservare il poco cibo disponibile che, con le temperature che toccano i 50 gradi centigradi, va subito a male. Nella provincia di Anbar la situazione è ugualmente terribile. I campi improvvisati nel deserto ospitano quasi 90.000 profughi, fuggiti da Falluja dalla fine di maggio, quando l’esercito iracheno ha avviato la vittoriosa offensiva per riprenderla dalle mani dello Stato islamico. A peggiorare le cose, sono le misure di sicurezza e le estenuanti procedure burocratiche cui sono sottoposti gli sfollati, specialmente nelle cosiddette "aree contese" controllate dai gruppi paramilitari sciiti o dalle forze di sicurezza del Governo regionale curdo. Tutti gli uomini tra 15 e 65 anni, considerati in età da combattimento, vengono separati dai loro familiari e interrogati a lungo, anche per mesi, in squallidi centri di transito o improvvisate strutture detentive. Il sospetto, alimentato dal fatto che sono musulmani sunniti, è che si possa trattare di sostenitori dello Stato islamico fuggiti dai territori riconquistati dalle forze governative. Sempre per asseriti motivi di sicurezza, a molti sfollati non viene permesso di uscire dai campi e neanche di tornare nelle loro città liberate. Riassume perfettamente questa situazione lo sfogo amaro di Alì, un agricoltore incontrato da Amnesty International nel campo per sfollati di Guermawa: "Nel mio villaggio abbiamo la terra. Potrei coltivarla e dar da mangiare ai miei bambini, invece di stare qui in mezzo alla polvere a dipendere dagli aiuti umanitari. Se e quando arrivano". Egitto. Il consulente dei Regeni Abdallah picchiato in carcere Il Manifesto, 20 agosto 2016 In carcere dal 25 aprile, senza mai andare a processo, Ahmed Abdallah è sottoposto a dure pressioni: due giorni fa è stato aggredito da funzionari della Sicurezza Nazionale, che gli hanno poi confiscato i libri. Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e consulente della famiglia Regeni, è stato aggredito e picchiato in carcere. Lo ha riportato il suo avvocato, Mohamed Hanafi: due funzionari della Sicurezza Nazionale sono entrati nella sua cella, lo hanno sbattuto a terra e lo hanno preso a pugni. E poi hanno confiscato tutti i suoi effetti personali, compresi i libri. Abdallah è in prigione dal 25 aprile, il giorno in cui si tenne una protesta di massa contro la decisione del governo egiziano di cedere le isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Nonostante l’Alta Corte abbia dichiarato illegittima la cessione, centinaia di persone arrestate in quei giorni restano in carcere. Tra loro Abdallah, che si vede rinnovare costantemente l’ordine di detenzione senza che si vada mai processo. E mentre cala il silenzio sulla repressione di Stato, pochi giorni fa Il Cairo ha ufficialmente ottenuto dal Fondo Monetario Internazionale i 12 miliardi di prestito in tre anni promessi. In cambio dovrà promuovere riforme economiche: nessun riferimento al rispetto dei diritti umani. Dubai. Australiano in carcere per un post di beneficenza su Facebook di Veronica Di Norcia La Repubblica, 20 agosto 2016 Scott Richards, 42 anni, arrestato per aver condiviso una raccolta fondi per i profughi. Le leggi degli Emirati vietano donazioni o campagne senza autorizzazione del governo. Incarcerato a causa della beneficenza. È accaduto a Scott Richards, australiano di 42 anni residente a Dubai. Il 28 luglio, Richards ha pubblicato un post su Facebook in cui sponsorizzava il crowd-funding di un’associazione non profit che gestisce un campo profughi in Afghanistan. Le autorità di Dubai hanno fatto irruzione nella sua abitazione e lo hanno arrestato e portato nel carcere di Al Muraqqabat accusandolo di aver avviato una raccolta fondi senza permesso. Gli Emirati hanno approvato l’anno scorso leggi che vietano donazioni o campagne pubblicitarie di beneficenza senza una preventiva autorizzazione scritta da parte degli Affari islamici e del Dipartimento per le attività caritatevoli di Dubai. Le sanzioni per la violazione della legge comprendono una pena detentiva da tre mesi ad un anno e una multa fino a 100 mila dirham (24 mila euro). Scott Richards si trova in prigione da 22 giorni. Può cambiarsi d’abito solo una volta a settimana e può avere bottiglie d’acqua e cibo solo pagando. Alla moglie è concesso di vederlo solo il giorno del cambio dei vestiti. L’australiano, che ha vissuto ad Adelaide ed è padre di due bambini, attualmente lavora come consulente per lo sviluppo economico di Dubai. Il post incriminato dice "La campagna di crowd-funding cerca $ 35.000 per nuovi teloni, coperte, vestiti caldi e calzini, e sacchi a pelo per i piccoli ospitati nel campo profughi Chahari Qambar alla periferia di Kabul". Chahari Qambar, è tristemente noto perché a causa del freddo, 4 anni fa, vi morirono 100 bambini. "Il signor Richards non ha un avvocato perché non ha ancora ricevuto un’accusa ufficiale dal tribunale - precisa Radha Stirling, attivista per i diritti dei detenuti stranieri a Dubai - e per questo può restare bloccato nel carcere senza un processo per molti mesi, a meno che non venga pagata una cauzione. Siamo di fronte a una grave violazione degli standard internazionali sui diritti umani". Secondo il rapporto della Stirling sul carcere di Al Muraqqabat, i prigionieri non possono aver accesso neanche a materassi e coperte a causa del sovraffollamento.