Intervista ad Alessio Scandurra (Antigone): "torna il sovraffollamento nelle carceri" Radio Vaticana, 1 agosto 2016 La popolazione carceraria è tornata a crescere, nonostante le misure contro il sovraffollamento. Secondo il pre-rapporto di Antigone, si hanno 1.318 persone in più rispetto al 2015, il numero globale dei detenuti al 30 giugno 2016 è salito a 54.072. Si tratta sicuramente di un numero inferiore rispetto al passato, quando il 30 novembre del 2010 l’Italia raggiunse il massimo storico della popolazione detenuta ovvero 69.155 unità, ma pur sempre in sovraffollamento, infatti, secondo il Ministero della Giustizia, la capienza regolamentare è di 49.701 posti. Secondo l’Associazione, la spiegazione va ricercata nell’aumento dei "presunti innocenti", soprattutto stranieri detenuti in fase di primo giudizio. Inoltre, lo spopolamento delle carceri deve fare i conti con i tempi di attesa dei processi italiani, ancora troppo lenti. L’opinione di Alessio Scandurra, dell’Associazione Antigone, intervistato da Michele Ungolo. R. - La situazione odierna è incomparabilmente diversa rispetto al 2010, al 2011, ovvero agli anni del massimo sovraffollamento che ha vissuto il sistema penitenziario italiano. Ci sono molti detenuti in meno, i servizi a disposizione, pur se limitati, sono destinati a un numero più ridotto di detenuti. Quindi, la situazione è decisamente migliorata. L’elemento di allarme è che per la prima volta da diversi anni i numeri tornano a crescere. È una crescita piccola, lenta, però inizia sempre così: quando la popolazione detenuta inizia a crescere, se non si pongono argini, rimedi, è solo questione di tempo e il sistema torna a scoppiare. Quindi, bisogna prenderne atto, bisogna fare attenzione e mettere in campo tutti gli strumenti per evitare che si torni alla situazione degli anni passati. D. - Perché il numero dei detenuti è in crescita? R. - Probabilmente, la ragione principale riguarda la percezione generale: si pensa che sia terminata l’emergenza sovraffollamento, che tutti i problemi siano risolti e quindi si ricorre anche più a cuor leggero alla custodia cautelare. Qualche anno fa, chi mandava un imputato in custodia cautelare sapeva di mandarlo in strutture sovraffollatissime: è un sistema penitenziario in grande difficoltà, il personale è in grande difficoltà… Oggi questa consapevolezza non c’è più e si ricorre più a cuor leggero a questa misura. Rimane il fatto che l’Italia è uno dei Paesi in cui il tasso di custodia cautelare è il più alto tra i Paesi europei, quindi comunque questa decisone non andrebbe presa così alla leggera. D. - Ogni anno aumenta il numero dei detenuti nelle carceri italiane, ma a crescere sono soprattutto le percentuali degli stranieri… R. - Purtroppo, è un dato collegato al precedente. Per gli stranieri è più facile che per gli italiani finire in custodia cautelare a parità di reato, perché si presume che non abbiano lavori stabili, che non abbiano abitazioni idonee per gli arresti domiciliari ad esempio. I dati che riguardano la percentuale di persone in custodia cautelare e la percentuale degli stranieri detenuti di solito crescono insieme. D. - Secondo il Ministero della giustizia, la capienza regolamentare è inferiore al numero dei detenuti che oggi risiedono nelle carceri. Questo sovraffollamento cosa comporta? R. - Può capitare che una cella, magari pensata per due persone, sia occupata da tre. Il carcere non è pensato come un luogo dove c’è abbondanza di spazi, quindi un carcere sovraffollato non è come un appartamento sovraffollato. È uno spazio ideato per due persone e che poi bisogna dividere per tre. È una situazione molto difficile perché si protrae per giorni, settimane, mesi. È una convivenza forzata difficile e rende ancora più complicato quello che già è un compito complicato, cioè accompagnare il ritorno alla società, ma anche il ritorno alla legalità di persone che hanno storie di devianza. D. - Un altro dato allarmante arriva anche dalle morti che avvengono tra le mura delle carceri… R. - Il suicidio è sempre un gesto in qualche modo inspiegabile. È sempre una reazione estrema ed è un gesto su cui è difficile fare generalizzazioni, così come per il reato. Anche questo spesso è un gesto di disperazione. Il carcere è un luogo di disperazione, un luogo dove i livelli di povertà materiale delle persone detenute e delle loro famiglie sono estremi. È un luogo dove le percentuali di malattie sono enormemente più alte rispetto a fuori, il disagio mentale è altissimo. Si tratta di una popolazione molto fragile rispetto alla media della popolazione libera che vive una situazione di disagio, di stress, di ansia, di paura per il futuro come si può immaginare. D. - Per quanto riguarda il numero dei detenuti in custodia cautelare, urgono delle riforme urgenti… R. - La nostra legislazione è molto esplicita nel dire che la custodia cautelare deve essere una misura estrema, eccezionale. La persona sospettata di aver commesso un reato ha diritto in linea di massima, di principio e di regola a fare il proprio processo in libertà, quindi attendere che si arrivi aduna condanna da libero. La custodia cautelare dovrebbe essere una misura eccezionale e la legge prevede questo in maniera anche piuttosto rigorosa. Altri Paesi con una legislazione meno restrittiva della nostra hanno percentuali più basse di persone in custodia cautelare. L’altro problema è ovviamente la durata dei processi. In Italia durano molto tempo, quindi ci vuole tanto tempo per avere una condanna definitiva e questo comporta che chi si trova in custodia cautelare si trova in carcere più a lungo. Inoltre, il giudice potrebbe anche aver paura di lasciare in libertà un imputato per un periodo così lungo e quindi preferisce ricorrere a questa misura. Indubbiamente ci guadagneremmo tutti da processi più brevi. Alessandro Margara. La Giustizia e il senso di Umanità camerepenali.it, 1 agosto 2016 L’Unione delle Camere Penali e l’Osservatorio Carcere piangono la scomparsa del Dott. Alessandro Margara. La scomparsa di Alessandro Margara è di quelle che lasciano un vuoto incolmabile. Nel momento del commiato, l’Unione delle Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere, oltre al doveroso omaggio, gli rivolgono un commosso ringraziamento, condividendolo idealmente con i tanti uomini e le tante donne che, da reclusi, hanno attinto dalla sua pacata ed attenta considerazione motivo di speranza e di conforto. La scomparsa di Alessandro Margara è di quelle che lasciano un vuoto incolmabile. Per oltre mezzo secolo, il suo impegno pubblico, in commissioni istituzionali, nella vasta produzione saggistica, nelle relazioni convegnistiche e soprattutto nelle migliaia di provvedimenti giurisdizionali adottati da Magistrato di Sorveglianza, ha accompagnato la lenta e faticosa evoluzione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale italiana verso un modello che, in linea con i valori costituzionali, riuscisse a coniugare Giustizia e Umanità (come recita il titolo della recente raccolta dei suoi scritti edita dalla Società della Ragione, "La Giustizia e il senso di Umanità"). Decisivo è stato il suo apporto per tutta la produzione normativa più illuminata del settore, la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e la "Legge Gozzini", per citare solo le più significative; preziosissimo il suo esempio per tutti gli operatori, Magistrati ed Avvocati anzitutto (ma non solo), che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nel corso delle loro esperienze professionali. Nel momento del commiato, l’Unione delle Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere, oltre al doveroso omaggio, gli rivolgono un commosso ringraziamento, condividendolo idealmente con i tanti uomini e le tante donne che, da reclusi, hanno attinto dalla sua pacata ed attenta considerazione motivo di speranza e di conforto. Leggi speciali anti jihad? La maggioranza dei magistrati è contraria di Luca Fazzo Il Giornale, 1 agosto 2016 Un Patriot Act all’italiana, una legge speciale come quella che negli Stati Uniti, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, mise da parte alcune garanzie costituzionali in nome della lotta al terrorismo. Di fronte alla sequenza inarrestabile di attentati sul suolo europeo, nel giro di due giorni sulle prima pagine del Giornale e del Corriere della Sera sono state invocate nuove norme che consentano di usare le maniere forti contro militanti e fiancheggiatori della jihad. Come era inevitabile, l’idea fa discutere, e divide gli addetti ai lavori. Sia nella parte in cui Alessandro Sallusti indica come precedente di riferimento le norme varate negli anni di piombo contro i terroristi nostrani, "chi veniva sospettato di eversione armata perdeva alcuni diritti in essere per altre tipologie di criminali"; sia quando sul Corriere Ernesto Galli della Loggia lancia addirittura l’idea di mettere una taglia sulla testa dei terroristi. All’interno della magistratura, continua ad essere ampiamente prevalente la linea di chi ritiene che le norme attuali siano più che sufficienti. Dice Armando Spataro, procuratore della Repubblica a Torino: "Si tratta di una tendenza che ciclicamente compare in Italia di fronte ad ogni emergenza. Ritorna l’immagine della zona grigia in cui i diritti sono sospesi in nome della sicurezza. Spesso - aggiunge Spataro - tra l’altro ci si imbatte in evidenti imprecisioni. Nell’intervento di Galli della Loggia, ad esempio, si invocano premi per la delazione (è questo il significato che lo stesso autore attribuisce al termine taglia da lui utilizzato, altrimenti non commentabile) e trasformazione del reato di favoreggiamento in partecipazione a banda armata per i fiancheggiatori dei terroristi. Ma evidentemente si dimentica che già esistono incisive leggi che premiano i collaboratori. Ma sorprende anche l’evocazione da parte del direttore Sallusti delle leggi eccezionali che furono approvate durante gli anni di piombo: trascura il direttore che quelle leggi inclusa quella per i pentiti - non furono affatto eccezionali ma si limitarono a favorire il contrasto specialistico di quel terrorismo (sconfitto nelle aule di giustizia e non negli stadi, come disse Pertini), senza ledere alcun diritto degli imputati. E si dimentica, soprattutto, che quelle leggi sono quasi tutte ancora in vigore, e sono state anzi rinforzate, contro il terrorismo internazionale". Ma alcuni segnali raccontano che anche tra le toghe sta facendo breccia la convinzione che una sospensione di alcune garanzie sia inevitabile. "Il problema - racconta un magistrato milanese a patto di non essere nominato - è che in questo momento bisognerebbe mettere in discussione anche alcuni passaggi della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma se osi accennarlo, i miei colleghi ti sbranano". E però c’è anche chi con nome e cognome si spinge fino a un punto impensabile fino a poco tempo fa: spezzare una lancia a favore d Gunther Jakobs, il giurista tedesco che ha lanciato l’idea di utilizzare contro i terroristi un "diritto penale del nemico", diverso dal diritto applicato al cittadino. Chi non accetta di far parte della collettività, sostiene in sostanza Jakobs, non deve poterne condividere le garanzie: una rivoluzione copernicana contro cui si sono scagliati in blocco garantisti italiani ed esteri. Ma a prendere le difese di Jakobs è ora un magistrato italiano, Giovanni Tartaglia Polcini, pm a Benevento, "prestato" nel 2014 al governo. "È il tempo delle risposte, è il momento di reagire - scrive sulla rivista dell’Eurispes - non è seriamente possibile proporre di risocializzare un estremista islamico che predica e pratica lo stragismo". E i poliziotti? Per Andrea Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di polizia, non ci sono dubbi: "Serve più determinazione servono norme più incisive. E nel frattempo servirebbe smettere di mentire spudoratamente agli italiani come fa il ministro Alfano, quando dice che 65mila poliziotti hanno auto corsi di aggiornamento antiterrorismo". Casellario giudiziario: il legislatore attua le decisioni Ue sullo scambio delle informazioni di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2016 I tre decreti legislativi rilasciati dal Governo (Dlgs 12 maggio 2016 n. 73, 74 e 75) conferiscono attuazione ad altrettanti decisioni quadro dell’Unione europea in materia di procedimenti penali. La massiccia opera di armonizzazione che le istituzioni comunitarie stanno svolgendo in direzione del processo penale e delle sue garanzie - sia sul versante dell’imputato che della parte offesa - sta obbligando il legislatore nazionale a un’ampia opera di adeguamento dell’ordinamento interno. Spiace constatare che, troppe volte, il recepimento delle indicazioni europee sia circoscritto a meri adempimenti formali (addirittura burocratici) che nulla apportano al gradiente di effettività delle guarentigie processuali. Così, ad esempio, i warning previsti per la persona sottoposta alle indagini (Dlgs 101/2014) o per la parte offesa (Dlgs 212/2015) si sono risolti i formulari e moduli da confezionare, senza che tali nuove prassi riescano ad avere un’adeguata incidenza sul tasso di equità del processo. Se qualcosa di nuovo sta davvero ribaltando il processo penale italiano sul versante sovranazionale, questo è piuttosto la giurisprudenza della Cedu, capace di un impatto decisivo (Cassazione, sezioni Unite 28 aprile 2016 sull’overturning in appello). L’obiettivo dei tre decreti attuativi - Il cluster dei nuovi decreti tende a favorire la circolazione dei provvedimenti giurisdizionali tra i paesi della Unione e della cartolarizzazione delle decisioni, rappresentate dai casellari giudiziari con le relative annotazioni. In uno spazio giuridico comune sarebbe, infatti, incongruo il riconoscimento delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari in un paese (quando gli effetti esondino dall’ambito di uno Stato in direzione di un altro) e non sostenere tale procedura con la valorizzazione delle decisioni ai fini, ad esempio, della quantificazione della pena. Così se ha senso riconoscere e conferire efficacia in Italia alla sentenza di condanna o di confisca adottata da un paese Ue, parimenti è logico tener conto delle annotazioni di condanna o di confisca quando il soggetto sia stato giudicato in più Stati. Uno spazio comune sulle sentenze di condanna di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2016 Decreto legislativo 12 maggio 2016 n. 73. Il primo decreto, il Dlgs 73/2016, attua la decisione quadro 2008/675/Gai, relativa alla "considerazione delle decisioni di condanna" tra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un nuovo procedimento penale. In attuazione della legge di delegazione europea 2014, il Governo ha dettato le regole principali per l’implementazione della decisione, con la precisazione che vengono in rilievo solo i reati commessi da "una persona fisica" (articolo 2). Circostanza abbastanza singolare in un sistema comunitario che conosce, quasi ovunque, il tema scottante della responsabilità delle persone giuridiche. La considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri - La regola di "considerazione" voluta dalla decisione quadro è espressa dall’articolo 3 secondo cui le condanne pronunciate per fatti diversi da quelli per i quali procede l’autorità giudiziaria italiana - e acquisite nell’ambito delle procedure di assistenza giudiziaria o di scambi di dati estratti dai casellari giudiziali - sono valutate, anche in assenza di riconoscimento e purché non contrastanti con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato, per ogni determinazione sulla pena, per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere. Se la regola di acquisizione avesse connotati di esclusività resterebbero fuori dal perimetro di valutazione le sentenze di condanna (o di assoluzione) prodotte dalla difesa dell’imputato o della parte offesa. Per fortuna non v’è traccia di una tale exclusionary rule, per cui v’è da ritenere che anche la sentenza di condanna proveniente dalle difese (ad esempio per ottenere il riconoscimento della continuazione ex articolo 81 cpv del Cpo per attenuare/incrementare, a seconda dei casi, la pena da infliggere) possa trovare ingresso nel processo di merito, ovvero "nella fase delle indagini preliminari e nella fase dell’esecuzione della pena" (articolo 3, comma 2). Quanto alle sentenze di assoluzione v’è da pensare che nulla osti a una tale circolazione, con l’ovvio limite che deriva dalla loro mancata annotazione nel casellario giudiziale. Il richiamo al casellario lascia intendere che deve trattarsi di decisioni comunque definitive. Resta da stabilire: 1. se, rispetto a questa previsione, possa ancora trovare spazio una giurisprudenza di legittimità secondo cui "la prognosi non favorevole alla concessione della sospensione condizionale della pena può fondarsi sui precedenti di polizia, poiché nessuna disposizione ne prevede l’inutilizzabilità, e anzi l’articolo 9 della legge n. 121 del 1981 prevede espressamente la possibilità di accesso dell’Autorità Giudiziaria a essi, "ai fini degli accertamenti necessari per i procedimenti in corso e nei limiti stabiliti dal codice di procedura penale"" (Cassazione sezione II, 5 maggio 2010 n. 18189, m. 247469), atteso l’irrigidimento del passaggio in giudicato previsto per le sentenze di altri Stati Ue; 2. se possa trovare applicazione, per le sentenze emesse in altri Stati, l’articolo 238-bis del Cpp che assegna alle sentenze passate in cosa giudicata la forza di provare l’esistenza di un fatto. "Quei bulli vadano nelle scuole a dire perché è morta la mia Carolina" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 1 agosto 2016 Parla il papà di Carolina, suicida a 14 anni dopo un video postato sul web. "Se la giustizia fosse davvero giusta questi ragazzi dovrebbero andare nelle scuole per anni a spiegare quanto male hanno fatto con i loro video, i loro messaggi, le loro parole. Questo per me vuol dire metterli alla prova. Io non urlo, non chiedo galera a vita o punizioni esemplari. Ma pretendo che almeno capiscano fino in fondo la gravità del loro comportamento. Che almeno spieghino ai ragazzini quanti rischi e quali mostri può creare Internet". Non c’è rabbia nelle parole di quest’uomo. "A che servirebbe?" chiede lui prima che la domanda venga fatta. "Tanto non sarà la rabbia a riportare indietro mia figlia. Se ripenso a quella sera...". Silenzio, occhi bassi. La mente mette a fuoco il ricordo. "Alle tre del mattino chiamarono i carabinieri. Una voce mi chiese: lei è il papà di Carolina Picchio? Sì, gli ho risposto. Dov’è sua figlia? E io: sta dormendo in camera sua...". Paolo si ferma, ha le lacrime agli occhi. "Mi scusi, è che ogni volta che penso a quella notte non riesco a raccontare tutto fino in fondo. Non ce la faccio". "Tutto" è Carolina che si butta dalla finestra della sua stanza al terzo piano. È qualcuno che parcheggiando la vede per terra e chiama i soccorsi, è la corsa precipitosa di questo padre giù dalle scale, con il cuore che praticamente non batteva più. Successe la notte fra il 4 e il 5 gennaio del 2013, l’ultima di Carolina "e in qualche modo l’ultima anche per me che da allora respiro ma non vivo" dice Paolo, "vivere è un’altra cosa". Prima di lanciarsi nel vuoto Carolina scrisse due pagine. Ecco l’incipit: "Volevo solo dare un ultimo saluto. Perché questo? Beh, il bullismo, tutto qui. Le parole fanno più male delle botte, cavolo se fanno male..". Più avanti un passaggio per i bulli: "A voi cosa viene in tasca oltre a farmi soffrire?". Il secondo foglio dice: "Grazie per il vostro bullismo ragazzi, ottimo lavoro". E fa i nomi di chi la tormentava. Paolo prova a leggere la parte che lo riguarda ("Papà sei la persona più buona di questo mondo") ma deve fermarsi ancora una volta ad asciugare il pianto. Cambia discorso. "Parliamo di questi ragazzi", dice, cioè il gruppo che prese di mira Carolina, i sei minorenni e il maggiorenne che un giorno di dicembre del 2012 la fecero bere fino a renderla incosciente per poi riprenderla (col telefonino) mentre vomitava e mentre loro si esibivano in uno spettacolo a sfondo sessuale. "Mia figlia ha lasciato una specie di testamento, non ci è voluto molto a risalire a chi le ha reso la vita impossibile per mesi e mesi, chi l’ha additata con ogni genere di parolacce facendola sentire una nullità. Per un po’ ho creduto che fosse stata una questione di crudeltà espressa a parole. Poi è saltato fuori il video... L’hanno messo in rete... più di duemila visualizzazioni in pochissimo tempo... Chissà quanto deve aver sofferto la mia Carolina". Il primo processo per cyberbullismo nel nostro Paese. Uno dei ragazzi era maggiorenne all’epoca dei fatti e ha patteggiato la pena seguendo un percorso penale a parte. Gli altri sei erano tutti minorenni: uno sotto i 14 anni quindi non imputabile, gli altri finiti come imputati davanti al tribunale dei minori. Che ha deciso per loro dai 15 ai 27 mesi di "messa alla prova", cioè la sospensione del procedimento penale e l’affidamento a una struttura esterna che metta a punto trattamenti obbligatori per un programma di recupero. Quali trattamenti si stabilirà a ottobre. Ed è proprio su questo che Paolo vorrebbe far sentire la sua voce. "Magari potrebbero assistere anziani o disabili ma più di tutto mi aspetterei che diventassero paladini dell’anti-bullismo - dice. Lo devono a Carolina. Avrei voluto che in questi anni mi scrivessero almeno due righe per chiedere perdono. Non l’hanno fatto e non credo che abbiano capito davvero quanto sono responsabili. Nel branco si pensa sempre che a fare il peggio sia stato l’altro...". Il fidanzatino di Carolina, uno degli autori del video, l’anno scorso è rimasto paralizzato alle braccia e alle gambe dopo un tuffo al mare. Paolo l’ha visto sulla sedia a rotelle, in tribunale. "Mi dispiace che gli sia andata così ma io ho perso mia figlia, non posso perdonare né lui né gli altri". Quei ragazzini imperdonabili si scambiavano messaggi come questo: "Hai sentito che Carolina s’è ammazzata?" Risposta: "Sì, ho sentito. Quasi quasi vado all’obitorio a vedere per l’ultima volta quella faccia di m...". Il castigo inesistente per i falsi e le bugie di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 agosto 2016 L’autocertificazione va abolita? No. In un Paese dove il cittadino annaspa tra le scartoffie, va addirittura rilanciata. Purché, proprio per salvaguardare le persone perbene, gli imbroglioni vengano colpiti duro. Con pene esemplari. Così fan tutti. È questa la motivazione della sentenza d’appello che condanna a pene ridicole gli imbroglioni (bidelli, mezzemaniche, agenti di custodia…) che con un’autocertificazione falsa dove giuravano d’aver fatto i magistrati o di avere una laurea, erano riusciti a farsi inserire nel Cda dell’Asi di Agrigento ottenendo così i preziosi trasferimenti vicino a casa e altri benefit ai danni dei colleghi. Due settimane di cella o 3.750 euro di multa. Il minimo del minimo del minimo. Testuale: "Tenuto conto del contesto in cui tale falsa dichiarazione venne sottoscritta, della pregressa situazione di acquiescenza da parte della Pubblica Amministrazione a una situazione caratterizzata da mancato rispetto delle fonti normative". Insomma, chi aveva mai rispettato la legge? In I° grado il Gip era andato oltre. Assolvendo gli impostori: non avevano dichiarato il falso con "scritture autonomamente predisposte dagli interessati, frutto di personale meditata elaborazione, ma previa sottoscrizione acritica di modelli prestampati". Disonesti, ma sovrappensiero. La Procura generale di Palermo ha fatto ricorso. Bene. Ma non basta. Quei verdetti, che con il loro lassismo stupefacente incoraggiano tutti i truffatori a provarci, sono solo l’ultima prova dell’assoluta necessità di cambiare le regole. E in fretta. Nata sotto i migliori auspici nel 1997 ("Addio file negli uffici pubblici: autocertificazioni e meno burocrazia", titolò il Corriere), quella legge nelle intenzioni sacrosanta per sveltire pratiche affondate nelle scartoffie ha mostrato infatti negli anni, purtroppo, limiti enormi. Ricordate? Quasi due universitari ogni tre beccati negli atenei romani per essersi dichiarati falsamente nullatenenti, tra i quali la figlia del proprietario d’una villa con piscina che girava in Ferrari. Illeciti di massa alla Bicocca dove, citiamo il direttore generale, "circa 5000 matricole nel 2012 non pagavano la seconda rata". L’anno dopo, saputo delle ispezioni, "il numero degli esenti è sceso a cinquecento: un crollo del 90%". E falsi medici al lavoro nelle strutture pubbliche con una laurea solo auto-certificata. E poi avvocati per anni ciondolanti in causa in causa nei tribunali senza esser mai diventati dottori in giurisprudenza. Fino ai casi estremi come quello di Lesina, in Puglia, dove un paio di anni fa si scoprirono cinquantasei false "docenti di sostegno" sparpagliate come supplenti per mezza Italia a fare quel lavoro delicatissimo con bimbi e ragazzi disabili grazie a decine di autocertificazioni false accompagnate da altri documenti manomessi. Indimenticabile una deposizione: "Ero stanca di fare la pizzaiola... Così ho dato alla organizzatrice 14 mila euro e lei mi ha dato la laurea. I moduli? Erano già compilati, bastava presentarli". Ma come dimenticare le autocertificazioni di decine di milanesi che nel 2014 per non pagar l’ingresso all’area C dichiararono nuove residenze anagrafiche in centro tra cui (spiritosoni…) piazza della Scala 2, cioè Palazzo Marino, sede del Comune? E gli allevatori sardi che dichiarando d’aver 910 cavalli (ne possedevano 8) riuscirono a farsi dare "in uso civico" 1.500 ettari di terreni pubblici? E le 73 palazzine senza fondamenta e totalmente abusive a Casalnuovo di Napoli vendute dal notaio sulla base di un’autocertificazione falsa che garantiva fosse tutto in ordine per il condono? E le migliaia di "buoni-bebè" (354 pratiche truffaldine su 430 solo a Voghera) date a chi non ne aveva diritto? E i 321 dipendenti comunali di Napoli (seguiti da tanti altri a Taranto) che si erano auto-aumentati la busta paga auto-certificando di avere a carico nonni, zie e cugini? E i 96 tassisti romani che dichiararono il falso per avere il rinnovo della licenza nonostante la fedina non candida? Sono 906 i casi di autocertificazioni false ai quali l’Ansa ha dedicato, negli anni, articoli. Novecento sei. E in certi casi, come le esenzioni sui ticket sanitari, si citano centinaia di dichiarazioni truffaldine. Al punto che nel 2011 la stessa agenzia citava stime impressionanti: un miliardo di euro l’anno di evasione. Con casi indecenti come quello d’una padovana che viveva in una villa con piscina e aveva 14 immobili affittati in nero e aveva chiesto al Comune il sostegno per gli indigenti. Lo stesso scandalo della "carica dei 104" (l’abuso d’una norma giusta come la legge 104 che offre agevolazioni ai parenti "per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti" dei disabili) ha origine spesso da dichiarazioni dove il furbo sostiene di essere costretto ad assistere un figlio, una sorella, un suocero non autosufficiente. Poi, come spiegò mesi fa l’inchiesta agrigentina aperta da Ignazio Fonzo arrestando dieci medici, seguono pratiche e complicità ulteriori. Il primo passo, però, è quella dichiarazione falsa. E qui è il guaio: chi mente non viene mai punito in modo adeguato. Mai. Una prova? A dispetto delle inchieste e degli accertamenti, un comunicato degli "Insegnanti in movimento" accusava proprio ieri: nella provincia girgentina 53 su 53 degli spostamenti nelle "primarie", appena comunicati dalle autorità scolastiche, sono avvenuti usando ancora la 104. "Questa legge non è fatta per noi", dice uno dei protagonisti del racconto "La rivolta dei topi d’ufficio" scritto nel ‘99 da Andrea Camilleri che ironizzava sui burocrati proprio a sostegno dell’autocertificazione. "Può funzionare in Svezia o in Germania, dove se qualcuno dice una cosa, quella è Vangelo. Ma qui da noi, come fai a fidarti della parola di uno sconosciuto?" Tema: l’autocertificazione va abolita? No. In un Paese dove il cittadino annaspa tra le scartoffie, va addirittura rilanciata. Purché, proprio per salvaguardare le persone perbene, gli imbroglioni vengano colpiti duro. Con pene esemplari. Sei secoli fa la "Carta de Logu" di Eleonora d’Arborea concedeva ai sudditi di presentare agli uffici giudiziari "carte bollate e non bollate" e "altre scritture autentiche, registrate o non registrate". Se una carta fosse risultata falsa e "usata fraudolentemente sapendo che è falsa", però, l’autore doveva essere "arrestato e messo in prigione". Quanto all’amanuense che aveva prodotto il documento, doveva pagare entro un mese una multa stratosferica. E se non la pagava? "Gli sia amputata la mano destra". Per carità, era troppo. Anche il lassismo però. Toscana: la Cisl-Fns contraria alla trasformazione del carcere di Empoli in Rems gonews.it, 1 agosto 2016 Di seguito la lettera inoltrata al Ministro della Giustizia, ai vertici del Dap, ai Parlamentari eletti in Toscana (Camera e Senato), al Consiglio Regionale dal Cisl-Fns Toscana in merito alle Rems. Quanto accade in Toscana è non solo irrituale ma fuori da ogni regolarità giuridica, amministrativa e contabile prevista dalle norme dello Stato e dalla norma Costituzionale. La Regione Toscana è stata tra le promotrici e sostenitrici della legge n. 81 del 2014, che ha previsto una disapplicazione del Codice Penale Italiano, che prevede l’internamento delle persone non imputabili per vizi di mente in Opg, andando a stabilire (ad invarianza dl legge per il Codice Penale appunto) che la misura di restrizione della libertà personale dell’individuo autore di reati non sia più nelle competenze del Ministero della Giustizia bensì del Ssn, tramite le Regioni (con la creazione delle Rems ed altro). Sul tema la Regione stessa è stata poi Commissariata per non aver provveduto a realizzare nei termini di legge (la stessa che la Toscana promuoveva) le Rems. Già nel 2014 l’ipotesi di usare Empoli per farne una Rems era stata palesata ma poi, rispetto a pareri tecnici di cui mai siamo stati resi partecipi formalmente, tale ipotesi venne poi scartata. Poche settimane fa però, di fronte alle pressioni del Commissario straordinario (nonché Garante per i diritti dei detenuti) di trovare una non più rinviabile soluzione per terminare lo sfollamento degli Internati dall’Opg, la Regione dichiarò alla stampa di aver "deciso" di chiedere al Demanio la cessione della Casa Circondariale di Empoli per realizzare la nuova Rems, anche perché a loro dire il carcere di Empoli è vuoto. E così, dalla sera alla mattina, non valgono più pareri tecnici, non vale più il valore dell’attività svolta a Empoli, non valgono i soldi pubblici spesi per ristrutturare Montelupo, non vale niente il destino di oltre 100 famiglie di lavoratori che dovranno trasferirsi, magari vendere le case che avevano acquistato, annullare le iscrizioni a scuola dei loro figli, licenziarsi dal lavoro i loro familiari per seguire i coniugi in altre realtà della toscana. Vale solo l’incoerenza e l’ipocrisia della politica, incapace di chiedere al Demanio una delle tantissime Strutture dismesse ed abbandonate dalla Stato in questi anni. Vale abbandonare anche l’idea di realizzare la Rems a Pescia (Pt) dove anni prima, sempre con soldi pubblici, era stata costruita una Struttura che avrebbe dovuto integrare/sostituire l’Opg, per poi lasciarla lì vuota come tante "cattedrali nel deserto" che vengono costruite in Italia (a dimostrazione che cose del genere non accadono solo nel bistrattato Sud). Politici nazionali, regionali e locali, che vergognosamente non si occupano più (e con loro il garante dei detenuti) di che fine farà il progetto Empoli, la qualificata attività di un progetto nazionale apprezzato in tutto il Paese… che importa, serve per fare altro oggi e quindi anche quelle detenute - come i Lavoratori Penitenziari - diventano numeri, solo numeri. Una Amministrazione, quella Penitenziaria, che programma invece spese per la creazione nei carceri di Reparti per "detenuti con problemi psichiatrici", dei "mini Opg" dove circoscrivere la detenzione di certe persone dal resto dei detenuti. E anche di questo, le Associazioni che si battevano perché non avvenisse ciò con la chiusura degli Opg, le stesse Regioni, dove sono finite? La Regione che favorisce in ogni modo attività con detenuti sull’isola di Pianosa, con il Ministero della Giustizia che accetta di spendere d’accordo con la Regione soldi pubblici su soldi pubblici per un carcere che "non esiste", visto che a Pianosa c’è un presidio penitenziario "abusivo", senza alcun decreto attuativo, senza nessuna regola concordata con nessuno, senza selezione alcuna dei Lavoratori da inviarci, senza Strutture che siano censite per ospitare decine di persone tra Personale Penitenziario e Detenuti. Insomma una gestione fuori da ogni regola, della quale sono Tutti informati, dalla Politica, all’Amministrazione Penitenziaria, al Ministro della Giustizia, agli Organi di Controllo Contabile e non solo. E in tutto questo il garante non dice una parola, in tutto questo nessuna delle tante Associazioni che scendevano costantemente in piazza per difendere diritti pare più interessata a tali aspetti, tutti annichiliti da questa politica cialtrona che viviamo. Intanto 100 famiglie di appartenenti ad una Forza di Polizia, al Corpo di Polizia penitenziaria, dovranno ricominciare da zero, magari dopo 20 e più anni di domande di trasferimento respinte, dopo aver deciso di organizzarsi la vita nell’Empolese acquistando casa e consolidando la loro presenza civica di Cittadini sul territorio. Per loro nessun Gonfalone Cittadino per le proteste di diritti loro negati, nessun problema di delocalizzazione del lavoro come per altri Lavoratori vicini ai quali - invece - almeno certe Istituzioni a volte si mostrano. Noi ci batteremo sindacalmente per quanto ci sarà possibile, valutando l’opportunità di ogni azione consentita. La prima però è già chiara, netta: chiederemo anche alle Segreterie Nazionali di chiedere le dimissioni di un Capo della Polizia Penitenziaria (il Capo del Dap) inesistente, pronto ad abbandonare al loro destino decine di Uomini e Donne per volontà politiche più generali. Ed insieme al Capo del Dap meriterebbero identica richiesta molti dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, ma anche degli Uffici di via Arenula a Roma dove hanno ceduto ad una Regione la gestione delle scelte politiche di programmazione e progettazione di questo Settore che invece rientra nella competenza di Organo dello Stato. Chiediamo ancora che i Cittadini, la Associazioni e anche la politica - se ne ha voglia - diano un segnale di coerenza e di giustizia, pronunciandosi ed impegnandosi perché questi sprechi e questi situazioni terminino. Firenze: delegazione di Sinistra Italiana in visita ispettiva al carcere di Sollicciano gonews.it, 1 agosto 2016 Una delegazione di Sinistra Italiana e di Sì - Toscana a sinistra ha visitato ieri il carcere fiorentino di Sollicciano. La senatrice Alessia Petraglia, la deputata Marisa Nicchi, i consiglieri comunali Donella Verdi e Tommaso Grassi e il consigliere regionale Tommaso Fattori hanno incontrato personale e detenuti, verificando lo stato dell’istituto penitenziario. Una situazione oggetto da anni, da parte di Sinistra Italiana, di verifiche, controlli e denunce. I parlamentari ed i consiglieri hanno potuto constatare che sono partiti i lavori di ristrutturazione, da 6 milioni di euro, con un finanziamento straordinario del ministero. A svolgere i lavori, tranne quelli impiantistici, sono per lo più gli stessi detenuti guidati dallo straordinario impegno degli agenti di polizia penitenziaria, anche loro impegnati direttamente nel cantiere. Una buona notizia: peccato, però, denunciano i rappresentanti di Sinistra italiana e di Sì - Toscana a Sinistra "che per la manutenzione ordinaria sono previste cifre ridicole, pari a 12 mila euro l’anno, neanche una mancia per una struttura del genere". Ora "si sta intervenendo nella caserma di polizia penitenziaria: finalmente gli agenti fuori sede saranno messi in condizione di vivere decentemente. Finora vivevano in stanze diverse dalle celle dei detenuti solo per l’ampiezza delle finestre. Rimarranno in una condizione simile, ma finiti i lavori avranno almeno le docce personali" ricordano Petraglia, Nicchi, Fattori, Verdi e Grassi. Permane il problema della vivibilità delle celle, in questi giorni arroventate da un caldo insopportabile tanto quanto il freddo in inverno. Purtroppo Sollicciano pagherà anche altre scelte sbagliate da parte del Ministero. "I lavori - proseguono - riguardano infatti anche l’ex reparto di cura e custodia dove si sta ristrutturando per poter ospitare il reparto di osservazione psichiatrica maschile. Praticamente, il ministero ha chiuso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo per aprirne uno in carcere: non era questo lo spirito della legge. E se avviene così in tutta Italia significa che il ministero sta tradendo la legge voluta da questo parlamento. Si rischia che l’impegno di anni finisca al vento. E, oltre a questa scelta sbagliata, temiamo che non arriverà personale sanitario qualificato e non verrà fatta formazione agli agenti che vanno tutelati: non si può esporre questo personale a situazioni a cui non sono preparati. Personale che si impegna moltissimo, nonostante la bassa retribuzione che prendono, come tutti gli agenti di polizia penitenziaria". "Abbiamo visitato l’asilo nido del carcere - insistono Petraglia, Nicchi, Verdi, Grassi e Fattori- ed abbiamo appreso che verrà chiuso. Al suo posto, l’amministrazione penitenziaria regionale ha deciso di realizzare il reparto di Osservazione psichiatrica femminile. Di fatto, Sollicciano sta diventando, nelle intenzioni del governo, anche un vero e proprio ospedale psichiatrico giudiziario: ma in una fase in cui non sappiamo se e quando sarà aperta l’Icam (l’istituto a detenzione attenuata per le donne detenute con figli) in Toscana, la chiusura del nido di Sollicciano comporterà che le detenute residenti in Toscana con figli saranno assegnate al carcere di Perugia, in barba al principio della vicinanza della detenzione al luogo di residenza, ai legami familiari e amicali, fondamentali perché il tempo passato in carcere serva alla rieducazione e reinserimento sociale, come prevede la nostra Costituzione". E concludono: "Abbiamo trovato un clima di grande collaborazione all’interno del carcere tra la dirigenza e il personale, un fatto sicuramente positivo che segna un cambiamento importante per il futuro di Sollicciano. Ma tutto questo non basta, se si fanno scelte sbagliate da Roma su cosa sarà il nostro istituto penitenziario". "Noi continueremo a tenere alta l’attenzione sulle condizioni delle carceri toscane seguendo gli insegnamenti e l’impegno di Alessandro Margara, dal quale abbiamo imparato che in carcere non può esserci una sospensione dello stato di diritto né per i detenuti né per chi ci lavora". Cuneo: Taricco (Pd) visita Casa Circondariale di Alba per capire il progetto di riapertura targatocn.it, 1 agosto 2016 Il deputato Pd Mino Taricco ha effettuato una visita presso la Casa Circondariale Giuseppe Montalto di Alba, chiusa dal mese di gennaio 2016 a causa di un’epidemia di legionellosi. Insieme a lui, il Garante dei diritti dei detenuti della regione Piemonte Bruno Mellano, il deputato Mariano Rabino e il garante dei diritti dei detenuti di Alba, Alessandro Prandi. A seguito dell’interrogazione presentata a giugno con primo firmatario Mino Taricco, insieme ai colleghi Giuseppe Romanini, Maria Amato, Francesco Prina e Nicodemo Nazzareno e successivamente al question time presentato dal deputato Rabino, la sottosegretaria Federica Chiavaroli ha confermato lo stanziamento di 2 milioni di euro per i lavori messi a progetto. Si stima che la conclusione dei lavori possa avvenire verso la fine del 2017. Chiarisce Mino Taricco: "Il carcere si trova tutt’ora in stato di chiusura, anche se a questo punto potrebbero essere imminenti l’avvio dei procedimenti previsti per gli interventi in programma. Ho già sottolineato come vi sia la necessità di ridurre al minimo i tempi per la rimessa in funzione della struttura, anche per non compromettere la rete sociale nella quale era inserita la struttura carceraria, dai volontari alle attività con i percorsi formativi e lavorativi, aspetti fondamentali del percorso di rieducazione volto al reinserimento sociale dei detenuti. Aspetti importanti, ai quali si aggiunge il disagio vissuto da buona parte del personale". Durante la visita si è potuto prendere visione dello stato dei locali e degli interventi necessari per ricreare le condizioni per una piena attività in sicurezza di questo istituto. Continua Taricco: "Le informazioni pervenute, sia formali che informali, danno per imminente l’avvio dell’intervento, anche per valorizzare nel minor tempo possibile la parte di struttura che è stata recentemente oggetto di un intervento importante di adeguamento e ammodernamento. Abbiamo comunque ritenuto indispensabile verificare sul campo la necessità del progetto, anche con un sopralluogo della struttura, visionando gli spazi e le strutture e confrontandoci sulle tempistiche". Obiettivo necessario per tutti è che la Città di Alba veda riaperto e riattivato un carcere moderno e sicuro per tutti gli operatori, riannodando così il filo di attività e percorsi messi in atto negli anni, che tanto di buono hanno generato sul territorio e per la comunità locale. Viterbo: detenuto morto in cella nel 2008, nuove indagini sul presunto suicidio catanzaroinforma.it, 1 agosto 2016 Claudio Tomaino fu trovato senza vita nel 2008 nel carcere di Viterbo dove era detenuto. La tesi del suicidio ancora non convince del tutto. È stata nuovamente rigettata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Viterbo la richiesta di archiviazione per le indagini sulla morte del giovane lametino Claudio Tomaino avvenuta otto anni fa nel carcere della città laziale in cui era detenuto. La notizia è riportata dall’edizione online del Quotidiano del Sud. Tomaino nel marzo 2006 in una zona di campagna di Caraffa aveva ucciso due zii l’infermiere Camillo Pane e la moglie, Annamaria e due cugini Maria, figlia diciottenne della coppia con il fratello Eugenio. Il giovane avrebbe sparato per un movente legato ad un debito contratto e mai saldato allo zio. Tomaino fu trovato morto soffocato il 18 gennaio 2008 pochi giorni prima dell’udienza davanti alla Corte d’assise di Catanzaro in cui avrebbe dovuto essere depositata la perizia psichiatrica che avrebbe determinato l’esito del processo. La tesi del suicidio ancora oggi non convince da qui il rigetto della richiesta di archiviazione. Chieti: Melilla (Si) incontra detenuto in carcere perché coltivava cannabis per curarsi abruzzoweb.it, 1 agosto 2016 Incontro in carcere, ieri a Chieti, del deputato di Sinistra Italiana Gianni Melilla con Fabrizio Pellegrini il pianista 47 malato di fibromialgia detenuto da oltre un mese per aver coltivato alcune piante di cannabis per curarsi. "L’incontro - dice Melilla - per sincerarsi dello suo stato di saluto e portare la solidarietà del Partito a tutti i livelli. "Sono ormai 50 giorni che Fabrizio è detenuto e non ha accesso a nessun tipo di cura palliativa: questa situazione rischia di compromettere l’articolazione del braccio e della mano che gli consentono di lavorare dato che è un pianista ed un insegnante di musica. Pellegrini si cura con medicinali a base di cannabinoidi - spiega Melilla - perché sono l’unico rimedio efficace per la sua patologia in quanto non può assumere medicinali a base di oppiacei per intolleranza. Chiedo al ministro della Giustizia Andrea Orlando di intervenire con urgenza. Non si può aspettare oltre. La situazione di Pellegrini, ma anche di molti altri malati, va risolta". Intanto, aumentano le adesioni all’appello "Una firma e un digiuno per Fabrizio Pellegrini e per tutte le vittime del proibizionismo", promosso dai Radicali. Ai digiunatori, a staffetta, si sono aggiunti in queste ore il segretario di Possibile Pippo Civati, che sulla vicenda di Pellegrini ha anche presentato un’interrogazione parlamentare, Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani del Senato e di A Buon Diritto, Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, Leonardo Fiorentini, tesoriere della Società della Ragione, e il cantante reggae Zakalicius. A lanciare il digiuno, dirigenti e militanti radicali che hanno aderito all’iniziativa nonviolenta di Andrea Trisciuoglio, segretario dell’associazione LaPiantiAmo e malato di sclerosi multipla, il quale a sostegno di Fabrizio Pellegrini ha deciso di sospendere la propria terapia a base di cannabinoidi, e dei radicali foggiani dell’Associazione Mariateresa Di Lascia. Secondo la legge promulgata in Abruzzo nel gennaio 2014, ma per la quale da allora non sono stati emanati i regolamenti attuativi, in base al piano terapeutico redatto da un medico specialista, i cannabinoidi possono essere prescritti anche dai medici di base. La legge prevede inoltre che la Giunta regionale possa stabilire convenzioni con centri attrezzati per la produzione e la preparazione dei farmaci, nonché la possibilità di trattamento domiciliare. L’alleanza per isolare i jihadisti di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 1 agosto 2016 È una cosa importantissima quella che è successa ieri con musulmani che pregano nelle chiese, segno di grande speranza che non può che renderci felici. Il susseguirsi drammatico degli attentati quasi non ci permette di riflettere. Siamo sostanzialmente travolti dalle emozioni. Immagini, preoccupazioni, sdegno, rabbia, grande dolore. Isis o non Isis è evidente che sono musulmani gli autori degli attentati. L’Oms chiede cautela ai media nel trattare i suicidi, per il pericolo accertato di indurre ad emulazione. L’Isis gioca molto sull’effetto emulazione, anche se non sei un soldato dell’Isis, ma uno sbandato, va bene lo stesso. E in effetti l’ emulazione c’è stata. Creare panico e terrore vuol dire costringerci a limitare le nostre vite, a limitare la nostra felicità. Dobbiamo saper reagire adeguatamente, noi e i musulmani che vivono nel nostro Paese e non si riconoscono in questi atti. E questo è stato un primo grande segnale. Nel 2016, secondo l’Ismu, i musulmani nel nostro Paese sono 1 milione 400 mila, ma di nazionalità diverse da quelle che vivono in Germania o in Francia. Da noi sono fondamentalmente di origine marocchina (424 mila) e albanese (214 mila), seguiti da Bangladesh, Pakistan, Tunisia, Egitto, ciascuno intorno ai 100 mila e poi un po’ meno Senegal e Macedonia. Tra gli stranieri che vivono in Italia, i musulmani si caratterizzano nel dare, più degli altri, un peso elevato alla religione. Il dialogo interreligioso è, quindi, fondamentale, ma non basta per costruire ponti. Noi li accogliamo con grande rispetto, loro a loro volta devono rispettare le regole del vivere civile, fatte di diritti e doveri di uomini e donne del nostro Paese, fatto anche di libertà femminile. INSIEME potremo sconfiggere un comune nemico, perché di questo si tratta. Insieme dobbiamo anche saper alzare il livello di guardia. La miglior difesa, ricordiamocelo, è quella informale, se tutti facciamo attenzione ai particolari, tante cose possono essere evitate o prevenute. Ciò non vuol dire stare permanentemente con l’ansia, ma abituarsi a vivere maggiormente come comunità, che sa difendersi da terrorismo e barbarie, insieme. Non sarà piacevole, ma bisogna essere tutti più vigili, per rendere più estesa e più sicura la rete pubblica di sicurezza. E quando dico tutti, intendo tutti, anche e soprattutto i musulmani, che più di noi possono entrare in contatto con situazioni critiche. È necessaria una grande alleanza, tra i musulmani che rigettano la violenza, l’odio, il terrorismo, e noi tutti. Perché solo questa alleanza può aiutare a battere il terrorismo, le intolleranze, e a migliorare la qualità della vita di tutti. L’organizzazione della preghiera dei musulmani all’interno delle chiese in città francesi e italiane è una bellissima risposta che dobbiamo salutare come un ottimo inizio di percorso, di grande potere simbolico. Essere visibili come musulmani nel rigetto di queste forme di violenza, come anche il poeta e scrittore Tahar Ben Jelloun ha sostenuto, facendo appello a tutti i musulmani, è il modo migliore per raggiungere una adeguata convivenza civile e per fare proprio quello che l’Isis non vuole, creare ponti. Farsi conoscere di più, nelle proprie usanze e cultura può aiutare a rimuovere ostilità e a superare pregiudizi, ad abbattere barriere e a rendere sempre meno possibile, per chiunque, operare con atti terroristi. Ma questo non riguarda solo i musulmani, riguarda noi in primis che dobbiamo saper costruire percorsi di integrazione con politiche adeguate, tenendo conto delle esperienze degli altri Paesi, sia in positivo che in negativo. "Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo", diceva sempre Tahar Ben Jelloun. Il che vuol dire che proprio questa azione comune può diventare elemento che difende tutti dal terrorismo sì, ma anche dallo sviluppo del razzismo nelle nostre società. Qualche anno fa partecipai ad un dibattito all’"Arte della Felicità", bellissima manifestazione che si tiene a Napoli ogni anno. Parlava Dervish Burhanuddin, maestro sufi. Lui gira il mondo, invitando la gente a risvegliarsi al senso e allo scopo della propria vita, ricordando loro l’elevata origine e destinazione che li attende, per aiutarli a vivere una vita del cuore pacifica, felice e riconoscente. Anche questo è essere musulmani. Ne rimasi affascinata, ma se lo aveste sentito, sareste rimasti affascinati anche voi. Il Garante Ue: inutile limitare la privacy, prima deve migliorare l’antiterrorismo di Marco Zatterin La Stampa, 1 agosto 2016 Buttarelli: "Una volta quando non si voleva affrontare un problema si creava una commissione d’inchiesta, adesso si istituisce una nuova banca dati". Il garante Ue Giovanni Buttarelli assicura che non ha senso limitare la libertà dei cittadini nel nome di una maggiore sicurezza quando, in molti Paesi, i jihadisti sfruttano i buchi nell’attività investigativa. "Prima di adottare misure d’emergenza che abbiano impatto anche su chi non ha nulla a che fare con il crimine - ammette il responsabile Ue per la tutela della Privacy, sarebbe meglio collegare in modo efficace le banche dati, intensificare la condivisione e l’analisi delle informazioni, quindi migliorare le capacità tecnologiche degli inquirenti". Senza questi quattro passi, assicura, si rischia di non arrivare a nulla. "Possiamo installare tutte le telecamere del mondo e monitorare ogni chiamata o messaggio - avverte, ma se poi non siamo in grado di capire e studiare insieme gli elementi raccolti, lo sforzo diventa inutile". Senza contare che "rischia di minare la fiducia dei singoli nell’integrità delle comunicazione e dei sistemi". Non ci siamo. Le regole europee affermano che la Privacy di ogni uomo e donna che vive nell’Unione possa essere limitata a patto che si rispettino i principi di "necessità" e "proporzionalità". Invece Buttarelli - 59 anni, magistrato, garante europeo dal 2014 - fa trasparire la convinzione che la stretta sui diritti personali sia frequentemente figlia dell’inefficienza dei governi e delle loro Intelligence. Ha la voce seria quando dice che "una volta quando non si voleva affrontare un problema, si creava una commissione d’inchiesta, mentre ora si istituisce una banca dati". In effetti ce ne sono tante. Il Sis su cui gira Schengen, il Vis che raccoglie i visti concessi, Eurodac per le impronte digitali, il sistema Europol e quello di Eurojust, solo per citare le principali. Troppa roba, a dire il vero. Che possiamo fare, dottor Buttarelli? "Le banche dati Ue sono piattaforme pensate in tempi diversi che hanno creato un mondo in cui le interconnessioni, e i soggetti legittimati a controllarle, sono disomogenei. Spesso sono nate come intese intergovernative e il tempo le ha "comunitarizzate". E allora? "Se il crimine parla una sola lingua, dobbiamo fare altrettanto. Bisogna ragionare sull’interoperabilità delle piattaforme, su come costruirne una sola. La lotta al terrorismo impone una risposta tecnologica che parte dall’uniformità d’accesso ai dati raccolti dalla collettività". Molti dicono che nell’Ue non si condividono a sufficienza i dati, che c’è sfiducia fra le amministrazioni. Vero? "Non sta bene criticare chi è nell’emergenza. Però Paesi come Francia, Germania e Belgio hanno dimostrato evidenti défaillance nell’antiterrorismo, nell’analisi delle informazioni e nella loro condivisione. Errori sono sempre possibili. Ma tutti i movimenti dei criminali coinvolti negli attentati dopo Charlie Hebdo erano già ampiamente esaminati. Occorrono misure di polizia, di prevenzione. Più risorse. Anche una "profilazione" più incisiva, ma per gruppi determinati di persone. Non per tutti". Vuol partire dalle banche dati che non dialogano. Poi? "C’è la condivisione delle informazioni. Fuori dall’Italia è straordinariamente inefficace, se non inesistente. Il Belgio non era pronto per il 22 marzo. È stato uno choc di cui spero si faccia tesoro. Anche francesi e tedeschi avrebbero di che riflettere. I due fratelli degli attacchi a Bruxelles erano stati fermati dalla polizia belga e olandese, gli è stato chiesto di dar conto dei loro comportamenti, eppure non si è verificata a dovere la debolezza delle risposte. Lo scambio con altri amministrazioni sarebbe stato utile". Abbiamo anche un problema di analisi dei dati? "L’Italia è un esempio virtuoso. È stata efficiente nella valutazione "umana" delle informazioni. Ci differenziamo dagli anglosassoni che raccolgono il più possibile in vista di un utilizzo successivo. Sarebbe importante che in Europa si avesse una capacità diffusa di leggere i segnali di cui si viene in possesso". La scarsa formazione tecnologica è un ostacolo? "Anche. Si è visto che i francesi non leggevano adeguatamente le informazioni che i terroristi scambiavano su Telegram. Dobbiamo lavorare insieme sull’abilità di accedere e decifrare ogni rete". Questo suo poker di suggerimenti richiede esborsi elevati? "Certo sono investimenti maggiori degli attuali, però daranno frutti. Chiediamoci quanto costa la paura. A Bruxelles la gente esce meno, l’economia ha subito gli effetti indiretti degli attacchi di marzo. L’ansia impone un conto salato". Dobbiamo pagare un prezzo in termini di Privacy per facilitare la guerra al terrorismo? "Non ne vedo l’utilità. La Corte di Giustizia ha bocciato diverse misure che hanno violato i dati personali perché non erano necessarie, l’ultima volta è stata con lo Scudo americano. I garanti della privacy non sono dei "Signor no" però sulla base dell’esperienza possiamo dire che ci sono altre soluzioni. Abbiamo tutti gli strumenti per fare un salto in avanti, è su questi che possiamo fare la differenza. A cominciare dalle banche dati". Il Dio amoroso di Francesco e gli dei cruenti di guerra e di potere di Eugenio Scalfari La Repubblica, 1 agosto 2016 Il temporalismo che il Papa combatte senza tregua è in aumento e Bergoglio ne è pienamente consapevole. Le notizie che si accavallano una con l’altra sono innumerevoli, tutte drammatiche, tutte dolorose e frustranti; ma quella che tocca più profondamente delle altre il cuore e la mente delle persone consapevoli viene da Cracovia e da Birkenau e riguarda l’incontro di papa Francesco con i giovani di tutto il mondo e con i campi di sterminio di 75 anni fa. Riguarda le memorie, il sangue versato, la barbara ricomparsa del terrore che ripropone il tema delle religioni e del loro uso sanguinolento in nome di un Dio cruento d’odio anziché di amore. Francesco ha passato tre giorni tra Cracovia e Birkenau, tre giorni decisivi per il suo pontificato e - oso dirlo da non credente - per l’anima del mondo. La Shoah voluta dalla Germania nazista non sarà mai scordata ma, sia pure con caratteristiche molto diverse è nuovamente attuale, soprattutto nella discussione su Dio. Questa volta i suoi accoliti lo evocano come Allah Akbar, Allah è grande; ma l’eccidio in corso guidato dal Califfo trova un corrispettivo nella storia del mondo e delle religioni: l’Islam, i Cattolici, i Protestanti, i Tartari. Ovunque gli Dei sono stati simboli branditi per guerre e per stragi effettuate in loro nome. E poiché guerre e stragi hanno come reale motivazione il potere, gli Dei in lotta tra loro sono stati sempre e dovunque identificati con il potere. Allah Akbar è oggi il più orribilmente disumano, ma eccita tutti gli altri a rispondere analogamente. Dunque guerre di religione e opinioni pubbliche che le condividono e le sostengono. Salvo un solo uomo e chi è con lui: Jorge Mario Bergoglio che non a caso viene "dalla fine del mondo" come egli stesso disse quando tre anni fa fu eletto Papa. Nonostante il titolo che il Conclave gli conferì, Bergoglio non è il padrone della Chiesa. Vedendolo operare, i contrasti interni sono aumentati e compaiono ormai allo scoperto. La Chiesa è divisa e non lo nasconde. Tornano in mente le Crociate e non soltanto quelle. Il temporalismo che Bergoglio combatte senza tregua è in aumento e papa Francesco ne è pienamente consapevole. Le giornate di Cracovia e di Birkenau sono avvenute a pochi giorni di distanza dagli eccidi di Nizza e di Ansbach, hanno acuito il conflitto interno della Chiesa. Bergoglio esclude con crescente consapevolezza che sia in corso una guerra di religione. Il Califfato e il Califfo in prima persona lottano per il potere, personale e di gruppo. Il Califfo si sente Dio, è lui che detta la legge e getta i suoi soldati contro l’Islam del Corano, colpiti numericamente molto di più dei cristiani. Francesco lo dice ormai chiaramente: il terrorismo del Califfo è un’arma di potere e non ha nulla a che fare con la religione. Questa affermazione del Papa cattolico è motivata da una verità talmente ovvia da essere sconvolgente: per chi crede in Dio ce n’è uno solo e unico. Le religioni del mondo sono molte, ma la loro differenza è soltanto nelle dottrine, nelle Sacre Scritture e nella liturgia, ma il Dio è unico, unico è il Creatore dell’universo che non può che amare le sue creature. Questa è la verità di papa Francesco, che lo spinge a riunire tutti i cristiani come primo passo avanti e nel contempo a predicare l’affratellamento con le altre religioni, cominciando da quelle monoteistiche ma non soltanto. Ecco perché Dio non può essere vendicativo, Dio perdona ed è soprattutto misericordioso. Perdona i peccati ma dona la misericordia. Non a caso il Giubileo indetto da papa Francesco è incentrato alla misericordia. "Dove è Dio se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dove è Dio quando persone innocenti muoiono a causa delle violenze, del terrorismo, delle guerre? Questa è la domanda che per un cristiano trova risposta solo nella Croce: il dono di sé, anche della vita, a imitazione di Cristo". Per un cristiano Cristo è Amore ma questo è vero per l’unico Dio, del quale Cristo è un’articolazione che c’è anche nel Dio di Mosè e in quello di Allah, nel Brahma, nel Buddha, nel Tao, in tutte le divinità che sono una soltanto, plasmata dalla storia degli uomini che la pensano. Questo predica Francesco. Dopo Paolo, i padri dei primi trecento anni di storia cristiana e dopo Agostino di Ippona, non c’era stato altro Papa cattolico che innalzasse il pensiero religioso fino a queste altezze. Tutto il resto è guerra e potere, la Chiesa come lui predica è pace e amore. Questo dice quanto sia difficile la sua dottrina, la sua fede, la sua predicazione e quanto sia necessario per la vita degli uomini e perfino per la politica che dovrebbe combattere le diseguaglianze e perseguire la misericordia sociale e la pace. Troppe leggi nel mondo sull’intolleranza religiosa di Danilo Taino Corriere della Sera, 1 agosto 2016 Uno studio realizzato da Pew Research Center ha calcolato che il 26% dei Paesi ha norme che puniscono la blasfemia, il 13% regole che criminalizzano l’apostasia. L’intolleranza a base religiosa rimane un fenomeno diffuso nel mondo, non solo nei comportamenti ma spesso anche nelle leggi. Uno studio realizzato da Pew Research Center ha calcolato che il 26% dei Paesi ha norme che puniscono la blasfemia, il 13% regole che criminalizzano l’apostasia (dati al 2014). Le sanzioni vanno dalla multa alla pena di morte. Lo scorso dicembre, ad esempio, in Sudan 25 uomini sono stati accusati di apostasia, cioè di avere abbandonato la religione ufficiale, e rischiano la pena capitale. Pew Research cita anche il caso di un cristiano che in Pakistan è attualmente accusato di blasfemia perché avrebbe spedito una poesia che, dice l’accusa, bestemmiava contro Allah. È una mappa preoccupante che mette nelle mani di governi autoritari e integralisti uno strumento di repressione, spesso incontrollabile, a sostegno dell’ideologia e del potere dominanti. In numerosi casi si tratta di leggi che di fatto danno una copertura di Stato alla violenza contro idee e fedi diverse da quelle ufficiali. E non aiuta a frenare il terrorismo che si ispira all’Islam. In Medio Oriente e Africa del Nord, su 20 Paesi, 18 hanno leggi che criminalizzano la blasfemia e 14 che criminalizzano l’apostasia. Leggi contro quest’ultima (la possibilità di uscire da una religione è considerato un diritto umano dalle Nazioni Unite) non ci sono in Europa e nelle Americhe ma se ne trovano nell’Africa subsahariana e in Asia (ad esempio in Nigeria, in Somalia, in Malaysia, in India). In tutto, 25 Paesi puniscono l’abbandono o il cambio della religione ufficiale. Molto più diffuse le norme contro la blasfemia, anch’essa usata a scopo di repressione ideologica: in Birmania, ad esempio, tre uomini sono stati condannati a due anni e mezzo di prigione per avere fatto pubblicità a un bar mettendo gli auricolari a un’immagine del Buddah. In Europa, su 45 Paesi sette hanno leggi al riguardo: tra questi, l’Italia, in compagnia di Danimarca, Polonia, Irlanda, Grecia, Malta, Turchia (anche la Russia ha norme punitive al riguardo). Nelle Americhe, su 35 Paesi dieci hanno leggi contro la bestemmia, soprattutto nei Caraibi. Gli Stati Uniti non hanno norme federali sul tema ma alcuni Stati sì, ad esempio Massachusetts e Michigan: il Primo emendamento della costituzione americana, però, esclude che qualcuno possa essere condannato per reati d’opinione. Legalizzazione cannabis, al traguardo per sei voti solo se M5S sta col Pd di Silvio Buzzanca La Repubblica, 1 agosto 2016 Studio Openpolis. Con il previsto no dei centristi la legge non può passare. L’unica possibilità è che si crei un’alleanza "anomala". La proposta di legge sulla cannabis è stata rinviata in commissione e chissà se riuscirà mai a tornare nell’aula di Montecitorio. Il suo percorso, infatti, è a rischio. Molto a rischio: percorre un sentiero strettissimo. Lo conferma uno studio di Openpolis, l’associazione indipendente che fra le altre cose monitora e documenta il lavoro del Parlamento, che è andata a verificare nelle pieghe dei lavori parlamentari come per arrivare all’approvazione finale il progetto di legge dovrebbe superare molti ostacoli. Il primo, quello fondamentale, è trovare i voti necessari per arrivare al via libera. Il testo, infatti, è stato preparato dall’intergruppo per la legalizzazione della cannabis guidato dal sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova ed è stato firmato da 222 deputati e 71 senatori appartenenti a vari gruppi. Alla Camera le firme arrivano per il 39 per cento dal M5S (87 deputati) e per il 38 per cento (85) dal Pd. Sel ha contribuito per il 12 per cento con 28 deputati. Queste adesioni sono però lontane dal costituire una maggioranza utile per l’approvazione. Openpolis ha provato allora a disegnare alcuni scenari possibili. Il primo prevede che il progetto venga fatto proprio e votato dall’attuale maggioranza di governo. Ma Alleanza popolare, il gruppo dei centristi, ha già detto che farà le barricate contro la legge. Anche così alla Camera il Pd e il resto degli alleati di governo avrebbero 333 voti, più che sufficienti per approvare il testo. Ma al Senato invece, nella migliore delle ipotesi, senza Ap i voti si fermano a quota 133, molto lontani dall’asticella dei 161. Si passa allora alla seconda ipotesi studiata da Openpolis: un voto comune fra Pd, M5S e Sinistra italiana-Sel. I numeri ci sarebbero: 167 al Senato, 444 alla Camera. Ad una condizione: il Pd dovrebbe essere compatto. Ma alla Camera sicuri per il sì sono solo 85 i deputati che hanno sottoscritto il testo. Apertamente contrari sono i 40 deputati che fanno capo ad Alfredo Bazoli, già attivi contro la stepchild adoption, più una cinquantina di franceschiniani e i popolari dem di Fioroni. Inoltre questo scenario prevedrebbe l’approvazione di una legge con una maggioranza alternativa a quella di governo. Ipotesi fino ad oggi mai diventata realtà. Alla Camera sono passate 20 leggi con il voto favorevole di tutti i gruppi, 16 siglate dalla sola maggioranza, una sola con voto favorevole di maggioranza e Sel: zero con il sì di maggioranza di governo più grillini. Il quadro è più o meno simile al Senato: 17 leggi bipartisan, 15 approvate dalla sola maggioranza, una sola votata dalla maggioranza più M5S. Infine, sul cammino della legge pesa anche il silenzio di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio, infatti, non ha parlato di legalizzazione della cannabis nel suo discorso programmatico e non lo ha fatto neanche quando si è recato in Parlamento per illustrare il "programma dei mille giorni". Sull’atteggiamento del Pd pesa anche il fatto che la legalizzazione della cannabis non era prevista neanche nel programma comune di Pd e Sel alle elezioni del 2013. Non a caso l’ex segretario Bersani ha detto che non ha "obiezioni di principio", ma vuole essere sicuro che il sì "non si trasformi in un’autostrada per i furbi". Renzi: su Regeni troppi silenzi, Cambridge collabori di Giuliano Foschini La Repubblica, 1 agosto 2016 "Ho chiesto al premier Theresa May di intervenire. Inspiegabile il comportamento dei professori". Non più soltanto Italia-Egitto. La morte di Giulio Regeni apre un nuovo caso diplomatico con la Gran Bretagna. E lo fa direttamente con le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi che con Repubblica definisce "inspiegabile" la poca collaborazione dei docenti di Cambridge con le autorità giudiziarie italiane. "Ho chiesto al Primo Ministro inglese Theresa May, mercoledì scorso - dice Renzi - di spendere la sua autorevolezza nel chiedere ai docenti di Cambridge di collaborare con le autorità giudiziarie italiane. Non capisco per quale motivo i professori di una così prestigiosa università globale pensino che l’Italia possa accettare il loro silenzio, che mi sembra inspiegabile. È morto un ragazzo italiano, torturato. Dobbiamo alla sua famiglia la verità. E chiunque ne possieda anche solo un pezzetto ci deve aiutare, subito". Il caso è quello scoppiato a metà giugno quando Sergio Colaiocco, il sostituto procuratore che conduce le indagini sulla morte del ricercatore italiano al Cairo, volò proprio a Cambridge insieme con i genitori di Giulio. Avevano chiesto ai professori che seguivano Regeni collaborazione, non ottenendola. In particolare la tutor, Maha Abdrerrahman, si rifiutò di rispondere alle domande inviando poi alcuni giorni dopo una mail ai magistrati italiani con risposte però "assolutamente insoddisfacenti" a detta degli investigatori. Non è un particolare di poco conto. Perché la Abdrerrahman può conoscere particolari fondamentali per ricostruire in quale buco nero sia caduto Giulio. È lei infatti che gli aveva commissionato la ricerca. È lei che gli aveva fornito i contatti in loco (la docente è di origine egiziana); lei che l’aveva indirizzato sul lavoro nel campo con i sindacati; lei che lo guidava seppur a distanza. Lei, infine, che lo aveva messo in contatto con Rabab El Mahadi, docente dell’università americana del Cairo. Che aveva raccontato, nei giorni immediatamente successivi alla morte di Giulio, una bugia. "Non aveva ancora materiale, non aveva fatto nulla di concreto". Dall’analisi dei computer e degli appunti di Giulio emerge però qualcosa di diverso: i dubbi del ricercatore sul metodo delle due docenti e soprattutto ci sono incontri continui con la El Mahadi. Giulio, cioè, la informava in tempo reale del suo lavoro. Detto questo, Cambridge è soltanto un tassello del problema. Perché il centro, secondo gli investigatori, è l’Egitto. Giulio è morto lì, torturato, vittima probabilmente di una guerra tra apparati. Ed è dall’Egitto che continuano ad arrivare tutti i depistaggi: la morte dei cinque banditi durante un conflitto a fuoco, con il ritrovamento dei documenti di Regeni a casa di uno loro, è stata, dicono Carabinieri e Polizia, una messa in scena per sviare le indagini. "Ma il Presidente Al Sisi si è impegnato a dare riscontri precisi su alcuni temi, da padre prima ancora che da politico. Confidiamo ancora di riuscire a ottenere ciò che abbiamo chiesto" dice sempre a Repubblica, il presidente Renzi. Che dovrà decidere nelle prossime settimane se inviare il nuovo ambasciatore in Egitto, ipotesi che certamente non farebbe piacere alla famiglia di Giulio che nei giorni scorsi, al contrario, aveva chiesto alle istituzioni che "alle parole seguissero i fatti", con l’inserimento dell’Egitto nella black list e lo stop agli accordi commerciali. Le ultime parole di Renzi apriranno però un problema con Cambridge, che già aveva duramente protestato contro il vice ministro degli Esteri Mario Giro che li aveva accusati di non collaborare. " L’università ha esercitato pressione sulle autorità egiziane e abbiamo invitato il governo britannico a sostenere gli sforzi del governo italiano per accertare la verità. Per essere chiari - avevano detto - le autorità centrali dell’Università non hanno ricevuto alcuna richiesta di aiuto da parte dei pm italiani e rimangono disponibili a rispondere rapidamente a qualsiasi richiesta di collaborazione. Soltanto un professore di Cambridge ha ricevuto una richiesta di informazioni e ha già risposto a tutte le domande. Giulio era un ricercatore esperto che utilizzava metodi accademici standard per studiare le organizzazioni sindacali in Egitto. Una speculazione selvaggia e infondata mina gli sforzi di portare dinanzi alla giustizia coloro che lo hanno ucciso". La folla in piazza a Colonia, un problema Turchia per l’Ue di Davide Casati Corriere della Sera, 1 agosto 2016 L’Europa ha di fronte a sé un dilemma al quale il fallito golpe ha reso estremamente difficile rispondere. Quella di ieri, giocata tra Ankara, Colonia e Bruxelles, è stata l’ennesima giornata di un imbarazzo che la notte del 15 luglio ha ravvivato, non creato. Decine di migliaia di turchi sono scesi in piazza, in Germania, per urlare il loro supporto al presidente Erdogan. Non hanno potuto vederlo in video, come previsto, perché la Corte costituzionale tedesca lo aveva vietato. Da Ankara è arrivata prima l’ira del portavoce del presidente, poi un’intervista in cui il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu dava un ultimatum all’Europa: visti liberi per i nostri cittadini entro ottobre, o a saltare sarà l’accordo sui profughi. La replica della Commissione europea, che richiamava Ankara al rispetto dei parametri, non era che la maschera burocratica messa a un problema politico sempre più complesso da nascondere. L’Europa ha di fronte a sé un dilemma al quale il fallito golpe in Turchia ha reso estremamente difficile rispondere. Il governo turco democraticamente eletto, partner chiave per frenare il flusso di profughi in arrivo da Iraq e Siria, alleato Nato, perno fondamentale nel quadrante mediorientale, sta reagendo - in modo "comprensibile", secondo Merkel - a un tentativo di golpe; ma lo sta facendo con modalità talmente vaste e opache da rendere le linee rosse fissate dalla diplomazia europea, in qualche modo, fuori fuoco. A complicare il quadro è una popolarità - quella per Erdogan - vasta non solo in patria, e che i fatti del 15 luglio - ancora una volta - hanno cementato. Ogni mossa per svincolarsi dal nodo sembra stringerlo: le parole del ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, ieri, se esprimevano il timore di un’esportazione in Germania delle tensioni interne turche, spostavano e non risolvevano il problema. Occorreranno scelte complesse, e delicate. Ma anche rapide: perché la pressione dei cinquantamila di Colonia monta sotto le accuse, sempre più affilate, di Erdogan. Turchia: giornalisti in carcere, il Sultano sfida il mondo "fatevi gli affari vostri" di Simone Pieranni Il Manifesto, 1 agosto 2016 17 giornalisti arrestati sui 21 accusati di far parte della "rete" di Gulen. Erdogan ora punta la sua macchina repressiva contro i kurdi: uccisi 35 esponenti del Pkk. I media governativi: operazione dell’esercito dopo un tentativo di assalto a una base militare. Secondo fonti militari turche almeno 35 persone appartenenti al Pkk sarebbero state uccise da un raid aereo, dopo un tentativo di attacco ad una base nella provincia sudorientale di Hakkari, al confine con l’Iraq. Poche ore dopo, altri ribelli curdi hanno tentato di assaltare una base militare nella stessa zona. Negli scontri che ne sono conseguiti, sarebbero rimasti feriti almeno 25 soldati. Tornano dunque gli scontri nel Kurdistan dopo gli eventi che hanno portato al tentato golpe e alla risposta da parte di Erdogan. La Turchia, paese Nato, di comune accordo con gli Usa, ha messo da tempo il Pkk tra le "organizzazioni terroristiche" e benché un anno fa sia stato raggiungo un cessate il fuoco, da tempo nelle regioni sud orientali del paese si è tornati a sparare. Il clima nel paese resta di massima tensione. Ieri un tribunale di Istanbul ha convalidato l’arresto di 17 dei 21 giornalisti turchi fermati dopo che lunedì era stato diramato un mandato di cattura per 42 reporter sospettati di far parte di quello che diventata la giustificazione di tutto da parte di Erdogan, ovvero di appartenere in qualche modo alla "rete" di Fethullah Gulen, accusato da Ankara del fallito golpe. Le immagini dei reporter in manette, in marcia sotto gli occhi vigili dei poliziotti hanno fatto il giro del mondo. Gli altri 21 per cui è stato chiesto il fermo risultano ancora ricercati. Tra gli arrestati, con l’accusa di "far parte dell’organizzazione terroristica" di Gulen, c’è anche la reporter ed ex deputata Nazli Ilicak, 72 anni. È stato invece rilasciato l’ex responsabile dei contenuti digitali di Hurriyet, Bulent Mumay. E proprio Nazli Ilicak, veterana del mondo giornalistico nazionale e già "firma" riconosciuta e prestigiosa di quotidiani ed emittenti televisive, avrebbe dichiarato di non avere alcun rapporto con i seguaci di Fethullah Gulen; una presa di distanza che non le ha evitato il carcere. A proposito di arresti: ieri Ankara ha deciso il rilascio di 758 delle 989 reclute militari arrestate in relazione al tentativo di golpe. E per capire che aria tiri nel paese bastino le parole del vice premier - Numan Kurtulmus - secondo il quale, membri dell’organizzazione di Gulen si anniderebbero anche all’interno dell’Akp il partito del presidente. Un segnale della paranoia e della volontà di fare piazza pulita una volta per tutte da parte del "Sultano atlantico": sull’eventualità che alcuni gulenisti possano essersi infiltrati nel partito, il vice primo ministro - che a sua volta fa parte dell’Akp - ha dichiarato in un’intervista al quotidiano Hurriyet che "è possibile perché per molti anni ci sono state persone che appartenevano a questa organizzazione e che erano nell’establishment dell’Akp". "Purtroppo - ha aggiunto - sono stati tollerati. Hanno avuto anche dei ministri". Kurtulmus ha infine annunciato che i gulenisti saranno rimossi dall’Akp come lo sono stati dalle alte sfere dello stato, dalla magistratura all’esercito. Su questo argomento non si è espresso Erdogan, che ieri si è dedicato invece alle critiche che arrivano dal mondo occidentale. L’Unione europea e gli Usa - ha detto il presidente - non devono dare consigli alla Turchia, bensì "occuparsi degli affari loro". Erdogan ha così commentato con i giornalisti ad Ankara i timori espressi dall’Occidente per le epurazioni che hanno seguito il fallito golpe militare del 15 luglio. Ieri il ministro dell’interno turco, Efkan Ala, ha annunciato che sono state arrestate 18.044 persone dal fallito colpo di Stato e che per 9.677 di loro è stata confermata la misura del carcere. "Alcune persone ci danno consigli. Dicono che sono preoccupate. Fatevi gli affari vostri! Guardate le vostre azioni", ha affermato Erdogan, citato dai media locali. "Non una singola persona ci ha fatto le condoglianze e poi dicono che Erdogan è così arrabbiato". Il presidente ha inoltre annunciato di aver ritirato le denunce contro "chi mi ha insultato". Il rischio discriminazione nel sistema legale degli Usa di Serena Danna Corriere della Sera, 1 agosto 2016 Gli attivisti temono che la nuova legge approvata in Louisiana crei un nuovo motivo di tensione all’interno delle comunità afroamericane, che continuano a sentirsi discriminate e oppresse dalla Giustizia. Domani entra in vigore in Louisiana una legge che equipara i crimini contro la polizia a quelli d’odio: le forze dell’ordine - insieme a pompieri e medici di pronto soccorso - saranno considerate alla stregua delle vittime di violenze per razza, etnia, religione o identità sessuale. Il provvedimento - battezzato dai suoi fautori repubblicani Blue Lives Matter Bill in risposta a Black Lives Matter, il movimento per i diritti degli afroamericani - va ad accrescere, aumentando il peso della condanna, le tutele di una categoria già "protetta" dal sistema penale con il sistema delle aggravanti. Il rischio, paventato dagli attivisti, è quello di un nuovo motivo di tensione all’interno delle comunità afroamericane, che continuano a sentirsi discriminate e oppresse dalla Giustizia. Secondo Philip Stinson, ex poliziotto oggi criminologo della Bowling Green State University, la legge - in discussione anche in Wisconsin, Florida e Kentucky - potrebbero portare a "un inasprimento delle relazioni razziali e l’aumento della segregazione". Stinson è il creatore di un database sui poliziotti fermati per omicidio: "Dal 2005 a oggi - illustra al Corriere della Sera - su diecimila arrestati solo 74 hanno ricevuto una condanna effettiva". I dati sugli afroamericani raccontano un’altra storia: pur essendo meno del 15% dell’intera popolazione, i neri rappresentano quasi il 40% di quella carceraria. Nel libro The New Jim Crow, Michelle Alexander definisce l’incarcerazione di massa degli afroamericani una strategia portata avanti dalla Giustizia americana nella guerra alla droga avviata dal presidente Nixon. Come le prigioni, anche le politiche di "tolleranza zero" che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento hanno avuto i neri come target privilegiato. Eppure, ci sono due verità inequivocabili in quella che sta assumendo sempre di più le sembianze di una nuova "guerra civile" tra neri disagiati e poliziotti d’America: gli afroamericani commettono più crimini violenti dei bianchi (il 40% in più secondo l’Fbi), ma numerosi studi hanno provato l’esistenza di stereotipi razziali nelle forze dell’ordine. Secondo un’indagine condotta a Savannah, Georgia, dal centro di ricerca del Dipartimento di giustizia nel 2002, il 71% delle persone che hanno indotto sospetti nei poliziotti - e per questo sono state fermate - appartenevano a minoranze etniche. Un pregiudizio aumentato negli anni, se è vero che - come conferma l’Università del North Carolina - mentre nel 2002 i neri che venivano fermati erano il 70% in più rispetto ai bianchi, la percentuale è salita al 140% nel 2013. Tuttavia, secondo Elliott Currie, docente di criminologia a Berkeley e autore del popolare Crime and Punishment in America è semplicistico ridurre il problema ai pregiudizi: "Abbiamo dato alle prigioni e ai poliziotti il compito di mettere un coperchio sui disordini di secoli di discriminazione e privazione". La statistica ha fatto il resto: il sistema CompStat, inventato dal capo della polizia di New York Bill Bratton, obbliga le forze dell’ordine a riportare periodicamente il numero di ricercati, arresti, fermi. Più alto è il numero, maggiori saranno i riconoscimenti ai poliziotti. È questa la logica che governa diverse città americane, a cominciare da New York, a partire dagli anni Ottanta. "Molte comunità afroamericane soffrono la disoccupazione, l’assenza di opportunità, le pessime scuole, lo scarso peso politico. Fino a quando questi problemi persisteranno - conclude Currie, la polizia verrà sempre vista come un esercito che occupa le loro strade". Marocco: grazia reale per 1.272 detenuti in occasione della festa del trono Nova, 1 agosto 2016 È stato emanato oggi un decreto di grazia da parte del re del Marocco, Mohammed VI, che ha portato alla fine della pena detentiva per 1.272 persone. Secondo quanto riporta l’agenzia d stampa marocchina "Map", la grazia reale è stata concessa in occasione della festa del trono, a 17 anni dall’ascesa al trono del giovane re marocchino. I beneficiari della grazia reale sono tra i detenuti che erano in carcere al momento del decreto, distribuiti nelle carceri di tutto il paese. Ogni anno il monarca di Rabat emana una grazia reale per scarcerare i detenuti a fine pena o commutare le pene all’ergastolo a pene detentive di 30 anni o per trasformare alcune pene detentive di lieve entità nel pagamento di un’ammenda. Bahrain: oppositore della monarchia torturato e ucciso in carcere La Repubblica, 1 agosto 2016 Un dissidente politico è stato ucciso sotto tortura nelle carceri del regno del Bahrain. Secondo la rete tv araba Lualua, si tratta del giovane Hassan Hayki, morto domenica nella capitale del Bahrain, nel centro ospedaliero Salmaniya Medical Complex. Secondo la famiglia, il giovane, colpevole di aver partecipato alle proteste pacifiche contro la monarchia, era stato arrestato 20 giorni fa e picchiato duramente al punto da perdere la capacità di parlare e di muoversi; il giovane era stato "appeso dalle braccia" per 5 giorni e ripetutamente colpito alla testa ed ai genitali durante la sua detenzione. Secondo il ministero dell’interno del Bahrain, il giovane sarebbe morto per cause naturali. La famiglia Hayki ricorda che Hassan era in piena salute prima del suo arresto. Il Bahrain è un piccolo regno a sud del Golfo Persico che però ha una posizione strategica. La maggior parte della popolazione è di fede sciita ma la casa reale degli Ale Khalifa è sunnita e da decenni impone discriminazioni nella società del paese. Dal 2011, la società civile del Bahrain ha iniziato a ribellarsi chiedendo la fine della monarchia e l’istituzione di una Repubblica con proteste pacifiche che sono state represse con la forza dai soldati della monarchia. L’Arabia Saudita, gli Emirati ed il Kuwait hanno inviato nel paese loro militari per aiutare la monarchia del Bahrain a reprimere le dimostrazioni. Secondo AI sono almeno 80 i dissidenti assassinati dalla monarchia nella nazione e centinaia i desaparecidos. L’unico partito di opposizione della nazione, al Wefaq, è stato proclamato fuorilegge dalla monarchia proprio alcune settimane fa e il leader degli sciiti, lo sceicco Issa Qassem, si trova praticamente agli arresti domiciliari, dopo la revoca della sua cittadinanza. L’Iran, altro paese a maggioranza sciita, ha più volte fatto appello alla stessa monarchia del Bahrain ed all’Onu per cercare di preservare i diritti della popolazione di questo paese, in gran parte di origini iraniane, ma la monarchia definisce ‘ingerenzè tali appelli. La questione del Bahrain ha difficoltà a trovare un posto nei notiziari occidentali, anche se la situazione nella nazione è drammatica. Il Bahrain ospita la base della quinta flotta navale degli Stati Uniti nel Golfo Persico. Rodrigo Duterte e le malsane prigioni delle Filippine di Armando Suma blastingnews.com, 1 agosto 2016 La guerra spietata di Rodrigo Duterte contro i criminali e le droghe è appena iniziata: già centinaia di morti e prigioni gremite. Rodrigo Duterte ha assunto l’incarico di presidente delle Filippine un mese fa, dopo aver ottenuto una netta vittoria alle elezioni con quasi il 40% dei voti a suo favore. Durante la campagna elettorale ha promesso un programma politico tanto semplice quanto sinistro: la guerra ad oltranza contro la criminalità, specialmente quella che si occupa dello spaccio di droghe. Visto così sembrerebbe un progetto apprezzabile; il problema è che, a ben vedere, le modalità attraverso cui Rodrigo Duterte ambisce a realizzarlo hanno destato nelle organizzazioni per i diritti umani profonde preoccupazioni, che sono diventate paura dopo appena un mese dalla proclamazione presidenziale. Prima di vincere le elezioni, il nuovo presidente filippino si era infatti reso protagonista di dichiarazioni molti forti: tra le tante, ha fatto particolare scalpore quella secondo cui "Il paese ha bisogno di essere ripulito. Per fare ciò dovrà scorrere del sangue". Duterte si riferiva alla crescente criminalità ed in particolare all’espansione del mercato delle droghe nelle principali città delle Filippine. "Mio Dio, odio le droghe. Devo uccidere delle persone perché queste droghe le odio" - ha detto ad un forum tenuto a gennaio presso l’università di Manila. Il tutto in nome di una restaurazione dell’ordine pubblico e della "pace", che Duterte ha garantito sarà raggiunta entro sei mesi dall’inizio del suo mandato. Finora l’ex sindaco di Davao, dove già passò agli onori della cronaca dopo che gli fu riservato il simpatico soprannome "The Punisher" da parte del Time Magazine, finora ha già fatto numerose proposte per "salvare" le Filippine, come la reintroduzione della pena capitale e l’imposizione di un coprifuoco nelle ore notturne per i minori d’età. Un mese con Rodrigo Duterte: 420 morti - Secondo la Kill List, aggiornata costantemente dal The Philppines Daily Inquirer, da quando Rodrigo Duterte ha assunto l’incarico presidenziale almeno 420 persone sospettate di spacciare droga sono state uccise in varie località del paese: di queste, 122 sono decedute in seguito ad aggressioni di individui non identificati, mentre le morti restanti sono da attribuire alle attività delle forze dell’ordine. Numeri che parlano da soli, se si considera che tra l’1 gennaio e l’8 maggio (il giorno precedente alla vittoria delle elezioni) sono state uccise soltanto 39 persone in totale. Questa lista è però presumibilmente "Molto, molto più lunga di quanto abbiamo riportato" - ha detto Sara Pacia, corrispondente del Daily Inquirer, in un’intervista a Vice News, facendo capire di non poter controllare tutto quello che succede. Le idee di Rodrigo Duterte hanno trovato terreno fertile in un paese come le Filippine, che sulla base di un’indagine svolta dal Centro di Ricerca sulla Giustizia dell’Università delle Americhe risulta essere il primo paese al mondo per impunità dei criminali, superando da questo punto di vista stati come il Messico e la Colombia. Considerata questa tendenza, il nuovo presidente la sfrutterà al massimo per proseguire la guerra alla criminalità nei prossimi mesi: il che vuol dire che dobbiamo aspettarci un aumento nel tasso degli omicidi. Carceri stracolme - Le Filippine hanno da tempo un problema con le strutture penitenziarie, spesso non adatte ad accogliere i detenuti. Insieme agli omicidi, la presidenza di Rodrigo Duterte è accompagnata anche da un aumento degli arresti, che sono stati migliaia nell’ultimo mese. Il South China Morning Post ha pubblicato una serie di foto impressionanti che mostrano le malsane condizioni dei detenuti nelle carceri filippine: in certe prigioni si possono trovare fino a 3.800 detenuti, nonostante queste abbiano una capacità massima di appena 800. Le testimonianze raccolte dal sito cinese mostrano spazi ristrettissimi con centinaia di detenuti ammassati uno sull’altro; a quanto si dice, certi individui non reggono e impazziscono. Alcuni attivisti nelle Filippine già parlano di crisi umanitaria a tutti gli effetti. Paraguay: narcotrafficante brasiliano detenuto in cella arredata come suite di lusso droghe.aduc.it, 1 agosto 2016 Un narcotrafficante brasiliano aveva organizzato la propria cella come se fosse una suite di lusso. Divisa in tre parti, sala di riunioni, cucina con tutto l’occorrente, schermo tv grande al plasma. Nel cuore di una della prigioni tra le più super-popolate del Paraguay, un narcotrafficante brasiliano, fan del barone della droga Pablo Escobar, aveva organizzato la sua cella come una suite degna di un albergo di lusso. La scoperta, martedì scorso, di una potente bomba all’interno del centro penitenziario di Tacumbu ad Asuncion, la capitale del Paraguay, ha fatto scoprire i vantaggi di cui beneficiava Jarvis Chimenes Pavao fin dal 2009, con la complicità di alcuni alti funzionari. "Sei o sette ministri della Giustizia e sei o sette direttori della prigione", hanno beneficiato della situazione, ha detto alla stampa Laura Acasuso, il suo avvocato, durante una visita organizzata. In questa "cella VIP", che si trova al centro della biblioteca, è stata trovata la versione integrale di una serie televisiva del suo idolo, Pablo Escobar, il famoso barone della droga colombiana, ucciso dalla polizia a dicembre del 1993. "Ora demoliremo la cella e prenderemo dei provvedimenti contro i direttori che hanno autorizzato questi privilegi perché siano condannati", ha dichiarato il nuovo ministro della Giustizia Ever Martinez, che è entrato in carica giovedì scorso 28 luglio. Il suo predecessore, Carla Bagicalupo, è stata destituita dopo questa scoperta. Chimenes Pavao, considerato come uno dei narcos più pericolosi della regione, è accusato di essere all’origine dell’assassinio dell’industriale Jorge Rafaat, nello scorso giugno, alla frontiera col Brasile, luogo di notevoli traffici di tutti i tipi. Dopo la scoperta dello scandalo, è stato trasferito nella caserma della forze speciali del Paraguay. Tra i circa 3.500 detenuti (il doppio della capacità ricettiva delle carceri), numerosi sono coloro che rimpiangono il brasiliano, condannato a 8 anni di prigione per riciclaggio di denaro e di cui il Brasile, dove è ricercato per traffico di droghe, ha chiesto l’estradizione. "Non so cosa diventeremo senza di lui", dice una dei suo compagni di detenzione che ha voluto restare anonimo. Quest’ultimo dice che Chimenes Pavao si mostrava generoso e donava soldi per sistemare il campo di calcio e la cappella della prigione, e pagava anche per la propria sicurezza. Mentre, un altro detenuto brasiliano, nella stessa prigione, "vive nella miseria". "Era l’uomo più amato della prigione", confida Antonio Gonzalez, un altro condannato. "Non aveva mai sostenuto di essere un santo, ma scontava la sua pena e partecipava con i soldi guadagnati legalmente attraverso le sue aziende", ha detto il suo avvocato. Secondo cui, il trafficante, che "ha 1.200 impiegati", ha notoriamente partecipato alla costruzione degli alloggi per i direttori della prigione, i bagni per le guardie, l’ammodernamento della biblioteca, e pagava anche lo stipendio ai cuochi. Come nella maggior parte delle prigioni latino-americane, a Tacumbu, i detenuti dormono su dei cartoni messi in terra, al freddo, non mangiano a sufficienza e le rivolte sono molto frequenti. "Due detenuti sono morti di fame e di freddo" nello scorso giugno, dice un altro detenuto brasiliano. I detenuti fortunati che vogliono essere trasferiti nel padiglione molto esclusivo del narco brasiliano, dovevano pagare 5.000 dollari (4.500 euro) e una retta settimanale di 600 dollari (540 euro), ha dichiarato alla televisione un ex-condannato, l’ingegnere Osvaldo Arias. In cambio essi avevano il diritto alle visite ad ogni ora, all’uso del telefonino e l’accesso ad Internet.