La ricetta di Orlando: "garantire i diritti dei detenuti per fermare la Jihad" di Pasquale Raicaldo La Repubblica, 19 agosto 2016 Passeggia tra i padiglioni, nel ventre del carcere. Incrocia i detenuti. Li ascolta. I più intraprendenti lamentano alcune criticità. Lui, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, prende nota. Un’ora in giro per l’istituto penitenziario di Secondigliano, la sua prima volta. È qui anche perché una delle priorità del governo, oggi, è scongiurare il rischio di una radicalizzazione jihadista dei detenuti. Un rischio che esiste, anche in Campania. "Qui come nelle altre carceri d’Italia - spiega - occorre un monitoraggio sulla popolazione a rischio. Guardiamo in particolare ai detenuti di fede musulmana, ma il fenomeno della radicalizzazione può interessare anche persone che non hanno mai espresso un’adesione all’Islam. Abbiamo visto "foreign fighter" partiti dal cuore dell’Europa senza aver professato prima pubblicamente l’adesione ai valori dell’Islam. Ecco, non c’è sovrapposizione tra Islam e radicalizzazione". Strategie? "Per contrastare il rischio di una radicalizzazione nelle carceri del fenomeno jihadista - spiega il Guardasigilli - occorre anzitutto garantire i diritti fondamentali: spesso le violazioni dei diritti sono anche il presupposto affinché in carcere si sviluppi una propaganda d’odio. Poi bisogna monitorare, intercettando segnali che denotino forme di adesione alle parole d’ordine della Jihad. Il nostro sistema penitenziario ha adottato tutti i protocolli per scongiurare il fenomeno e seguire le evoluzioni dei detenuti. Per il resto, vale ciò che vale per tutti gli ospiti delle carceri: evitare il sovraffollamento e garantire condizioni che scongiurino una passività dei soggetti". Un passaggio tranchant sulla polemica del burkini ("Non mi appassiona" ), quindi il punto sui richiedenti asilo: "Abbiamo proposto una via per snellire le procedure dal punto di vista giurisdizionale, ma la questione ha dimensioni ben più grandi. Presto valuteremo come questa nostra proposta si inserisca in una strategia generale". Nel tour per il carcere di Secondigliano -1200 detenuti, inaugurato negli anni 90 per sopperire al sovraffollamento di Poggioreale - lo accompagnano il direttore dell’istituto, Liberato Guerriero, e Giulia Russo, in rappresentanza del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. "Questa - commenta Orlando - è una struttura nella quale si sono prodotti notevoli sforzi per innovare". Era annunciato m prima mattina, all’esterno del centro penitenziario arriva alle 12, salutato da un coreografico picchetto. Attraversa l’orto a chilometro zero, coltivato dai detenuti, e apprende dell’impianto di compostaggio che sarà m grado di soddisfare le esigenze dei quartieri di Scampia e Secondigliano. Quindi, le note dolenti: "Mi sono stati posti alcuni problemi che riguardano il funzionamento della sanità interna (il riferimento è al continuo turn over del personale medico, ndr) e anche il sostegno ulteriore che si può dare ad alcuni progetti di riqualificazione della struttura. Sul primo punto scriverò alla Regione per chiedere una risposta immediata. Sul secondo solleciterò la cassa per le ammende a intervenire per migliorare il funzionamento dell’istituto". Annuisce, il direttore del carcere: "È difficile far integrare al sistema medici e infermieri che lavorano senza continuità nell’istituto: quattro mesi, prima di essere trasferiti". L’inferno delle celle "lisce", da Asti a Catanzaro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 agosto 2016 L’inchiesta giudiziaria sui casi di tortura nel carcere di Poggioreale punta di nuovo i riflettori all’utilizzo della cosiddetta "cella zero" o, nel gergo carcerario, la "cella liscia". Non è un caso isolato, ma è una forma di contenimento - più volte stigmatizzato dai vari organismi internazionali - al limite della tortura. Si chiama "liscia" perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso risulta anche deleterio visto che non sono mancati casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. L’ultimo caso - denunciato da il Dubbio - riguarda la misteriosa morte di Maurilio Pio Morabito, ufficialmente suicidatosi all’interno della cella di isolamento, dove è stato ristretto per due settimane. L’isolamento punitivo non solo fa male. Ma a volte tortura e uccide. A ricordarlo è stato l’associazione Antigone con il suo ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia. Un intero paragrafo è dedicato a questo provvedimento rispetto al quale, scrive l’associazione, "non vi sono dati". Antigone ha però stilato un lungo elenco di casi esemplificativi di quanto questa misura punitiva - a volte "vessatoria, anti-educativa e disumana" - faccia male. Eccolo di seguito. 2004 - Carcere di Asti: due detenuti vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino. Viene loro razionato il cibo e impedito di dormire, sono insultati e sottoposti per giorni a percosse quotidiane. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2015 dichiara ammissibile il loro ricorso per tortura. La sentenza è attesa a breve. 2006 - Carcere di Civitavecchia: H. E., 36 anni, eritreo, si uccide impiccandosi in una cella di isolamento della Casa Circondariale. Il giovane si trovava da circa due mesi rinchiuso nella sezione di Alta Sicurezza. 2007 - Carcere di San Sebastiano (Sa): alcuni agenti di polizia penitenziaria trovano senza vita nella sua cella il detenuto M. E. Era in isolamento, in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. 2008 - Carcere di Marassi (Ge): un ragazzo di soli 22 anni, M. E., viene trovato senza vita riverso per terra, con una bomboletta di gas in mano, nel bagno della sua cella. Qualche giorno prima di morire aveva scritto una lettera alla mamma: "Qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Mi riempiono di psicofarmaci. Sai, mi tengono in isolamento 4 giorni alla settimana". 2009 - Carcere di Venezia: un 28enne di origini marocchine, C. D., si impicca nella cella "di punizione", nella quale era stato trasferito dopo aver tentato il suicidio. Un ispettore della Polizia Penitenziaria è stato condannato a 7 mesi di reclusione per omicidio colposo e abuso di autorità. Non era stata disposta la sorveglianza sul detenuto a rischio. 2010 - Carcere di Foggia: si chiamava R. F. e aveva 41 anni. Si è impiccato trasformando i lembi dei suoi pantaloni in un cappio. Era stato messo in una cella di isolamento "liscia" dopo che aveva mostrato evidenti segni di disagio psichico tentando di darsi fuoco e incendiando la cella che lo ospitava. 2011 - Carcere di Poggioreale (Na): G. R., 50 anni, si impicca facendo a brandelli una coperta mentre era in isolamento in cella singola nel reparto di osservazione. Il suicidio avviene a poche ore dal suo ingresso in carcere. 2012 - Carcere di Trani (Ba): il 34 enne G. D. muore durante la notte di capodanno in una cella del carcere di Trani, in isolamento. A dicembre 2011 l’uomo era stato trasferito d’urgenza nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bisceglie per una crisi epilettica ed era stato tenuto sotto osservazione per 4 giorni. Rientrato in carcere era rimasto in isolamento, non si sa bene per quale motivo, se per la difficile convivenza con altri detenuti o perché punito perché accusato di aver simulato la malattia. 2013 - Carcere di Velletri (Rm): G. M., un uomo di 40 anni si uccide impiccandosi con le lenzuola all’interno della sua cella di isolamento, 8 ore dopo essere arrivato in carcere. 2014 - carcere di Lucera (FG): un 38enne si impicca nella cella d’isolamento. Avrebbe avuto una lite con un agente della Polizia Penitenziaria, e per questo era stato messo "in osservazione". 2014 - carcere di Poggioreale (Na) - A gennaio un ex detenuto sporge la prima denuncia alla Procura di Napoli per i maltrattamenti subiti, segnalando anche la presenza della cosiddetta "cella zero". 2015 - Carcere di Regina Coeli (Rm): due suicidi in meno di 24 ore. Il primo, quello di L. C. Il detenuto era in isolamento e doveva essere tenuto sotto stretta sorveglianza fino all’interrogatorio di garanzia che si sarebbe dovuto svolgere la mattina dopo. Il secondo, quello di T., un ragazzo entrato in carcere a 18 anni e un giorno. Anche il giovane si trovava in isolamento, dapprima in isolamento giudiziario, ma mai trasferito in sezione fino al 20 luglio, quando è avvenuta la morte. Il caso è stato archiviato, ma i legali stanno ripresentando nuova denuncia. 2016 - Carcere di Paola (Cs): il detenuto Maurilio Pio Morabito, in carcere per spaccio di stupefacenti, si suicida nell’aprile scorso nella sua cella, dopo aver trascorso un periodo di isolamento in una cella liscia. Il suo fine pena era imminente. M. sarebbe uscito dal carcere il 30 giugno. Anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma si è occupato di questa realtà. In un suo ultimo rapporto riguardante la visita nel carcere calabrese "Ugo Caridi" di Catanzaro ha denunciato l’esistenza di tale cella nella sezione dedicata all’isolamento. La sua delegazione ha visitato una cella liscia descritta come una stanza con un letto uguale a quello delle altre stanze detentive fissato a terra, con un materasso - alla data della visita in cattive condizioni - e dotata di un gabinetto alla turca. La stanza è stata trovata priva di luce elettrica (per mancanza della lampadina), molto sporca. La delegazione è stata informata che un detenuto eventualmente alloggiato in tale ambiente viene sorvegliato a vista dal personale della Polizia penitenziaria. Il Garante nazionale ha espresso il proprio disappunto sia per le condizioni materiali di tale cella e degli spazi a essa connessi, sia per la previsione in sé di una cella cosiddetta "liscia" all’interno di una sezione detentiva. Pertanto il Garante nazionale ha raccomandato alle autorità dell’Amministrazione centrale di "emanare una chiara indicazione normativa secondaria (direttiva, circolare) al fine di chiarire che le celle lisce nel reparti detentivi, quali luoghi dove alloggiare per periodi temporali superiori a pochi minuti, detenuti in crisi di agitazione potenzialmente etero o auto lesivi, sono inaccettabili e devono essere chiuse". Ancora è in attesa di una risposta da parte del Dap. Carcerati al congresso dei Radicali, per aiutare la giustizia di Sergio D’Elia (Segretario Associazione Nessuno Tocchi Caino) Il Tempo, 19 agosto 2016 Il Partito radicale è connotato da una regola semplice e senza eccezioni: si può iscrivere chiunque e nessuno può essere espulso per nessun motivo. Questa regola lo rende un partito unico, diverso da tutti gli altri partiti nei quali le iscrizioni devono essere vagliate e, semmai, accettate e le espulsioni possono essere decretate senza appello da "probiviri" che giudichino l’iscritto un "infedele" alla linea politica o un "deviante" dalla linea di condotta morale. La tessera del Partito Radicale non può essere negata a nessuno, neanche al condannato all’ergastolo, al quale non chiediamo conto del suo passato, del male arrecato, del bene negato. Non siamo un tribunale della Sharia chiamato a stabilire il "prezzo del sangue" versato, a perseguire i "nemici di Dio" e i "corrotti in terra", a "reprimere il vizio e promuovere la virtù". Quando alla fine degli anni 80, nella campagna di iscrizioni "o lo scegli o lo sciogli" per salvare il Partito Radicale, arrivò l’adesione di Piromalli, molti dirigenti del Partito di allora storsero il naso: sì, va bene, l’accettiamo perché per statuto non la possiamo rifiutare a nessuno, ma non rendiamola pubblica per non creare scandalo. Quando Marco si accorse di questo tentativo di auto censura, andò su tutte le furie e sparse ai quattro venti la notizia dell’iscrizione del vecchio capo della ‘ndrangheta. "Lasciate che i Piromalli vengano a me", disse Marco, nutrendo - credo - la speranza che, in un carcere diverso e più umano, l’uomo della pena possa divenire una persona diversa da quella del delitto e la certezza che, comunque, il Partito Radicale non era un centro di potere e di interessi da spartire. "Spes contra Spem" è stata la cifra della vita di Marco: il dover essere speranza contro l’avere speranza, proprio quando ovunque nel mondo sembrano prevalere disperazione, indifferenza e rassegnazione, a partire dal mondo carcerario dove vige ancora il "fine pena mai" dell’ergastolo senza speranza. Il motto di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani era il titolo del Congresso di Nessuno tocchi Caino tenuto nel dicembre scorso nel Carcere di Opera, l’ultimo a cui ha potuto partecipare Marco ed è anche il titolo del docu-film di Ambrogio Crespi che verrà proiettato al Festival del Cinema di Venezia il 7 settembre prossimo. Racconta le testimonianze degli agenti di polizia penitenziaria del Carcere di Opera, del Direttore Giacinto Siciliano e del Comandante Amerigo Fusco, la presa di posizione - per la prima volta - del Capo del Dap Santi Consolo contro l’ergastolo "ostativo" ma anche le storie di condannati a vita che descrivono il carcere come un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma anche il luogo e il tempo in cui è possibile ritrovarsi per sempre, rinascere a nuova vita. Da alcune testimonianze dei detenuti sembra emergere addirittura un "elogio della galera", perfino del carcere duro. Secondo molti che lo hanno visto in anteprima, il docu-film di Crespi è un vero e proprio Manifesto della lotta alla mafia. Alternativo a Gomorra, la serie televisiva che ha ridotto il libro-denuncia di Saviano sulla camorra nel suo opposto, la mitizzazione del giovane camorrista, criminale, violento, omicida e suicida. Alternativo anche ai proclami emergenzialisti di quelli che Leonardo Sciascia definiva "i professionisti dell’antimafia", in servizio permanente effettivo contro tutto ciò che non rientri perfettamente nel sistema di leggi e carceri speciali, pentitismo e collaborazione attiva con la giustizia, ergastolo ostativo e 41 bis. Il Ministro dell’Interno Alfano in questi giorni ha lanciato l’allarme sul rischio di "radicalizzazione" in atto nelle carceri. Non so quanto sia fondato questo rischio o sia l’ennesima emergenza che ci si candida a governare, in nome della sicurezza, con leggi d’eccezione e armamentari speciali. Quel che so è che Marco Pannella, in tutta la sua vita non ha fatto altro che "radicalizzare" le carceri e i carcerati, convertire ai connotati del Partito Radicale, alla nonviolenza, allo stato di diritto e alla legalità l’intera comunità penitenziaria. Se nelle carceri non vi sono più rivolte, pagliericci bruciati, vi sono meno aggressioni e autolesionismi e più scioperi della fame per far valere i propri diritti, è grazie a Marco Pannella e al Partito Radicale. Questa radicalizzazione positiva e costruttiva continueremo a perseguirla. Abbiamo proposto la partecipazione anche di condannati all’ergastolo al prossimo congresso del Partito Radicale, che si tiene nel carcere di Rebibbia dal 1° al 3 settembre, non solo perché è quello che Marco avrebbe voluto succedesse, ma - soprattutto - per aiutare lo Stato, l’amministrazione penitenziaria e il Ministro della Giustizia Orlando ad avere successo sugli "imprenditori della paura" che alimentano il "populismo penale" in voga nel nostro Paese. "La mafia si combatte con il Diritto, non con la terribilità", ammoniva Sciascia, usando un neologismo poetico eppure significativo. Ci si illude di poter risolvere le emergenze - sconfiggere la mafia, la violenza e il fanatismo - con la "terribilità", contrapponendo al terrore un terrore uguale e contrario, derogando ai principi fondamentali dello Stato di Diritto e di Diritti Umani. Quarantaquattro ergastolani... di Massimo Bordin Il Foglio, 19 agosto 2016 Quarantaquattro ergastolani, in fila per tre col resto di due. Non avrebbero potuto comunque marciare su Rebibbia. Non da soli, almeno. Comunque sarebbe stata necessaria adeguata scorta inevitabilmente costosa e già questo è bastato a fermare lo spostamento. In più ha giocato una certa esagerazione nell’articolo, sul fatto.it, che ha lanciato l’allarme, neanche si trattasse di un tentativo di evasione di massa. Ma si tratta di pericolosi detenuti ristretti secondo le norme del 41 bis, si obiettava da parte del quotidiano, in questo caso on line, cui sono care manette e "fine pena mai". Neanche questo è del tutto vero, come spesso capita su quel quotidiano. Nello stesso articolo veniva data voce alla responsabile del comitato delle vittime della strage di via dei Georgofili, che esponeva indignata il caso di una attenuazione del regime di carcere duro per uno degli ergastolani, iscritto al partito radicale e interessato a partecipare di persona al congresso del suo partito, visto che si svolgeva in un carcere. Ieri si è capito meglio. Non c’è solo quel caso. Altri di quel gruppo non sono più al 41 bis. Una trentina, scrive addirittura Repubblica. "Hanno iniziato un percorso di cambiamento", ha scritto Rita Bernardini, che ha competenze in tema carcerario assai maggiori della media di quelle dei giudici di sorveglianza. Ma non si sono pentiti, obiettano al Fatto. E il ministero, come era prevedibile, ha negato ogni permesso. Dunque i radicali hanno "perso"? Forse no. Hanno almeno permesso, con la loro richiesta, di chiarire cos’è veramente, cioè teoricamente, il 41 bis. Italia più sicura: calano i reati, ma non le pene di Luca Rocca Il Tempo, 19 agosto 2016 Un calo del 7% dei reati commessi sul territorio. Sono i dati forniti dal Viminale e che comprendono il periodo che va dall’1 agosto 2015 al 31 luglio 2016. In 12 mesi arrestati 85 jihadisti, 1.654 mafiosi e 793 scafisti. Diecimila denunce per stalking. Decine di estremisti islamici arrestati, migliaia di mafiosi sbattuti in galera, centinaia di scafisti consegnati alla giustizia e, più in generale, un calo del sette per cento dei reati comuni commessi sul nostro territorio. Sono i dati forniti dal Viminale e che comprendono il periodo che va dall’1 agosto 2015 al 31 luglio 2016. Secondo i numeri ufficiali, dunque, in questo arco di tempo i delitti commessi sono stati 2.416.588. A diminuire sono soprattutto gli omicidi (398, di cui 49 attribuibili alla criminalità organizzata), il che significa un calo dell’11,3 per cento. In discesa anche le rapine (32.192, dunque il 10,6 per cento in meno), e i furti (passati a 1.346.501, con un calo del 9,2 per cento). Si contano, poi, 138 "femminicidi", pari al 32,91 per cento del totale dei delitti commessi. In questo caso, il 92,59 per cento è avvenuto per mano del partner. Le denunce per stalking, invece, hanno toccato quota 10 mila (9.875). Quanto agli incidenti stradali, nello stesso periodo se ne sono verificati 76.407, di cui 1.599 con esito mortale (1.720 le persone decedute, 52.470 rimaste ferite). Le manette ai polsi sono scattate per 1.654 mafiosi, mentre 64 sono i latitanti di rilievo catturati, di cui 10 considerati di altissima pericolosità. I beni sequestrati sono stati pari a 1.878 milioni di euro (976 dei quali nel Lazio, pari a 193 milioni di euro), e quelli confiscati hanno toccato la cifra di 1.916 milioni (412 nel Lazio, per un valore di 178 milioni). Più nello specifico, Cosa nostra si è vista sottrarre dallo Stato 6.865 beni. Quanto al terrorismo, sono stati arrestati 85 estremisti islamici legati ai network internazionali, 109 le persone espulse per motivi di sicurezza, di cui 9 imam, e 110 i "foreign fighters", combattenti stranieri, tenuti sotto controllo. Va anche segnalato che sono stati monitorati 406mila contenuti web, 527 dei quali oscurati dalle forze dell’ordine. Dietro le sbarre sono finiti anche 793 scafisti, mentre i clandestini approdati sulle nostre coste sono stati 154.047. Il 67 per cento degli sbarchi si è verificato in Sicilia, il 20 in Calabria, il 7 in Puglia, il 5 in Sardegna. Aumentate le richieste d’asilo (da 71.539 a 105.867). Infine, il Daspo. Ci sono in vigore 5.456 divieti di accesso ai luoghi dove si tengono manifestazioni sportive, e di questi 5.281 riguardano il calcio. Per 88 volte in queste occasioni si sono verificati disordini, e i feriti sono stati 211. Numeri, quelli appena elencati, che in alcuni casi sono anche il prodotto delle recenti leggi varate. Diminuiti i reati, ma le nuove leggi non hanno prodotto i risultati sperati di Francesco Petrelli Il Tempo, 19 agosto 2016 Furti e rapine in diminuzione, e in diminuzione (stando ai dati diffusi dal Viminale, anche gli omicidi che scendono complessivamente da 449 a 398. Scende in particolare, secondo la stessa fonte, da 49 a 29 con riferimento al medesimo periodo dell’anno il numero degli omicidi attribuiti alla criminalità organizzata. Per quanto riguarda furti e rapine dovremmo credere a un improbabile "effetto annuncio", perché gli aumenti di pena "minacciati" dal Ddl del governo sono ancora lungi dall’entrare in vigore. Sono invece entrate in vigore dal marzo di questo anno le nuove norme sull’omicidio stradale che, come è noto, prevedono importanti aumenti di pena per gli autori di questi delitti. La legge, emanata sotto la spinta evidentissima dell’emotività suscitata da altrettanti fatti di cronaca, come è altresì noto, non solo non ha dunque, prodotto alcun effetto in termini di diminuzione di questo genere di reati, ma ha indotto un sensibile aumento del numero delle "fughe" degli autori dei sinistri. Si ripropone, dunque, con forza, il tema della utilità degli interventi legislativi in materia penale fondati esclusivamente su indiscriminati aumenti di pena, al di fuori di ogni (comprensibilmente più impegnativo) investimento nell’ambito degli strumenti "sussidiari". Per quanto è dato constatare, risulta evidente l’indipendenza delle riduzioni e degli aumenti dei diversi fenomeni criminali dalla "dosimetria delle pene detentive". Non solo perché è ingenuo pensare che reati di natura del tutto disomogenea, fondati sulla colpa piuttosto che sul dolo, o illeciti motivati da ragioni economiche piuttosto che passionali, possano rispondere allo stesso modo a quell’unico volgare strumento costituito dall’aumento, spesso parossistico, delle pene. Lo dimostrano, ancora una volta, i dati relativi ai "femminicidi", il cui numero, nonostante gli interventi legislativi "repressivi" oramai risalenti nel tempo, non ha subito alcuna flessione. Quanto simili fenomeni, rispondenti con evidenza ad impulsi "culturali" e a distorte motivazioni "passionali", siano insensibili a rimedi puramente "penali" operati in chiave sanzionatoria, appare piuttosto evidente. Come segnalano tutti gli osservatori più attenti sono spesso i cd. "reati sentinella" a dover essere utilizzati in chiave di prevenzione nell’ambito di un serio contrasto a questo genere di reati. E se è pur vero che solo 1 su 5 dei femminicidi "risulta" essere anticipato da atti di violenza, è allora anche evidente come, nell’ambito di questo genere di reati, non può essere la minaccia della condanna ad agire quale deterrente, essendo necessaria un’opera complessiva di impegno culturale e un accurato investimento sulla prevenzione. Questo ci conduce ancora una volta a ritenere che il "populismo penale" sia una strada che se paga nei termini della produzione di un consenso immediato, non produce nel tempo alcun risultato utile. I dati che sono emersi nel tempo nell’ambito della lotta alla corruzione confermano anch’essi come non sia affatto questa la strada da seguire. Come non molto tempo fa osservava Luciano Violante, "nella recente legge sulla corruzione (legge 27 maggio 2015, n. 69) non c’è una sola norma diretta alla prevenzione del delitto, ma abbondano le misure di carattere penale". Quanto poco rilevino gli aumenti di pena anche in questa delicata materia lo dimostra il fatto che l’intervento voluto in tal senso già dal Ministro Severino nel 2012 non sembra aver dato alcun risultato. Insistere su questa strada anche per altri reati, pur contro i dati forniti dal ministro dell’Interno. dimostrerebbe una incapacità di rivedere una cultura della repressione che ha condotto a scelte decisamente errate, in virtù della quale si sono introdotte sanzioni detentive in alcuni casi certamente incostituzionali in termini di proporzione e di ragionevolezza, e di governare invece secondo ragione i delicati meccanismi del diritto penale. Ripensare il reato di omicidio stradale, una legge inutile e controproducente di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 agosto 2016 I dati sugli incidenti stradali mortali non cambiano, nonostante l’entrata in vigore della nuova legge che introduce lo specifico reato di omicidio stradale. Tra la fine di marzo e quella di luglio si sono contati 235 incidenti mortali, mentre nello stesso periodo dell’anno scorso erano stati 280. Le omissioni di soccorso negli incidenti con feriti o deceduti, cioè i casi di pirateria stradale che erano stati all’origine delle proteste che hanno poi portato a emanare la nuova normativa, sono addirittura aumentati (556 casi contro i 484 dello stesso periodo dell’anno scorso). Così si conferma che i dubbi avanzati da chi (compreso questo foglio) temeva che l’introduzione di pene più pesanti avrebbe indotto ancora di più a cercare di sottrarsi alle proprie responsabilità con la fuga. Invece che un deterrente, la legge sembra si sia dimostrata, nel migliore dei casi, inutile, nel peggiore dannosa. Probabilmente se si fosse agito in modo esattamente opposto a quello che si è scelto sotto un’ondata emotiva, se cioè si fossero previste attenuanti robuste per chi presta soccorso immediato alle vittime dell’incidente che ha causato, l’effetto sarebbe stato diverso. Non si tratta di buonismo ma di buon senso. Gli incidenti stradali sono un fenomeno che ha dimensioni tali da richiedere interventi complessi, dal maggiore controllo sia dei guidatori sia dei mezzi sia delle sedi stradali, alla educazione stradale, alla lotta contro i fenomeni legati all’alcolismo e alla droga. Scavalcare tutto questo con una norma demagogica e inefficace, dimostra superficialità e cedimento a pressioni comprensibili ma controproducenti. Mettere in carcere prima del giudizio invece che dopo i pochi pirati che si riescono a trovare non riduce il fenomeno criminale, anzi lo aumenta. Così si manca quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale, ridurre i casi in cui un incidente che potrebbe non essere mortale invece lo diventa per il comportamento dell’investitore. L’idea che una procedura più severa e pene più pesanti fossero in grado di ottenere questo risultato era evidentemente infondata fin dall’inizio. Purtroppo i dati confermano questa previsione, il che dovrebbe indurre il legislatore a rivedere una normativa sbagliata, ma non c’è da sperarci. Quando si cede demagogicamente allo spirito vendicativo abbandonando le cautele della prevenzione, è quasi impossibile tornare indietro. A chi servono le intercettazioni? a giornali e televisioni di Piero Sansonetti Il Dubbio, 19 agosto 2016 Un Centro studi che si chiama "Demoskopika" ha elaborato i dati forniti dal Ministero della Giustizia sulle intercettazioni telefoniche. I risultati sono molto interessanti. Negli ultimi sei anni sono stati spiati 3 milioni di italiani, cioè circa il 7 per cento della popolazione compresa tra i 18 e gli 80 anni. Vuol dire che se entri in un ristorante a caso, anche piccolo, dove stanno pranzando una trentina di persone, almeno un paio di loro ha il telefono sotto controllo oppure ce lo ha avuto (e magari uno sei proprio tu...). Non esiste nessun altro paese al mondo con livelli così alti di spionaggio sulla vita privata della popolazione. Su base annua, i telefoni intercettati sono circa 140 mila (ma le persone intercettate molto di più: circa mezzo milione). In Gran Bretagna (paese con un indice di criminalità decisamente superiore al nostro) i telefoni intercettati sono circa 3000 (circa il 2 per cento, rispetto al dato italiano). Naturalmente i costi di questa attività sono altissimi. Nel lasso di tempo esaminato da "Demoskopika" sono stati spesi 1 miliardo e 400 milioni di euro. Ho fatto questo calcolo: se portassimo le intercettazioni a livello britannico avremmo un risparmio del 98 per cento, più o meno, che sui sei anni vuol dire un miliardo e 370 milioni, e dunque su base annua vuol dire circa 228 milioni. Questi 228 milioni basterebbero per assumere 2000 magistrati (se li calcoliamo al costo medio della categoria: in realtà appena assunti costano meno, quindi se ne potrebbero assumere anche 3 o 4 mila). Cioè si aumenterebbe almeno di un quarto il numero dei magistrati (oggi sono 8000) e si suppone che si porrebbe fine a tutte le sofferenze di carenza del personale delle quali speso l’Anm si lamenta. L’obiezione riguarda l’efficienza del sistema. Si tratta di stabilire questo: la Giustizia deve essere una macchina potente in grado di indagare, cercare prove e indizi, verificare, investigare sui delitti, oppure deve essere un apparato burocratico che presiede un sistema di intercettazioni "a strascico", da Grande Fratello, e quando trova qualcosa che non va arresta e usa l’intercettazione come prova? Sono due modelli non solo di giustizia, ma di società, completamente diversi. Nel primo c’è un grado di libertà molto alto e la libertà è il valore fondante del patto sociale e civile; nel secondo il grado di libertà è molto più contenuto, c’è una forte dose di autoritarismo, la privatezza è un disvalore, e probabilmente il grado di sicurezza è leggermente più alto. Qui in Italia però ci troviamo in una situazione paradossale. Perché la Costituzione e le leggi dello Stato hanno scelto il primo modello, quello della libertà, ma il funzionamento reale della giustizia investigativa - spesso in modo illegale - risponde quasi sempre al secondo modello. Molte volte abbiamo polemizzato sull’illegalità degli arresti preventivi (che violano quasi tutti il codice di procedura), ma anche le intercettazione a "strascico", come si dice in gergo, violano la legge. La quale prevede che si possa intercettare un telefono solo se già esistono robusti indizi di colpevolezza. Ora, ragioniamo un attimo sui dati di Demoskopika: tre milioni di persone spiate e tra queste 827 mila "bersagli" (la differenza tra le due cifre sta nel fatto che gli 827 mila sono intercettazione autorizzate, tutte le altre sono casuali e avvengono perché una qualunque persona parla col "bersaglio"). È chiaro che nessuno può credere che contro queste 827 mila persone già esistessero seri indizi di colpevolezza. E la dimostrazione che non esistevano sta nel fatto che il 99 per cento dei mandati di cattura si basa esclusivamente sulle intercettazioni, senza nessun altro indizio. Dunque in realtà basterebbe rispettare la legge per "decimare" le intercettazioni. E allora perché non si riducono? Perché sono il tesoretto sul quale è stato siglato l’accordo tra informazione e magistratura. Le intercettazioni sono il carburante, ormai, del grande giornalismo italiano, e, senza di loro, i giornali non sopravvivono. Diciamo la verità: quel miliardo e 400 milioni è il vero costo del finanziamento pubblico dei giornali. Intercettazioni: tre milioni di italiani sotto controllo di Simona Musco Il Dubbio, 19 agosto 2016 Gli spioni di Stato ci sono costati 1,5 miliardi in 6 anni. Ottocento ventisette mila intercettazioni in sei anni, per una spesa di quasi un miliardo e 400mila euro: è questo il dato che emerge dal report "Il Grande Orecchio della giustizia in Italia", stilato da Demoskopika, che ha analizzato i numeri degli anni 2009-2014. Nel mirino delle procure italiane la criminalità organizzata ma anche il terrorismo, con oltre 4mila telefoni sotto controllo, prevalentemente in Lombardia, con un incremento del 30,4% nell’ultimo biennio. Cinque le regioni più spiate, dove si concentrano circa 2 milioni di cittadini sotto controllo: 490mila sono in Campania, 395mila in Lombardia, 360mila in Sicilia, 305mila nel Lazio e 250mila in Calabria. I dati oscillano poi dai 170mila utenti spiati in Piemonte agli 8mila del Molise. Numeri che rappresentano un incremento pari al 4,1 per cento rispetto al periodo precedente. Dai dati forniti dal ministero della Giustizia emerge anche la mappa dei distretti "più caldi", nei quali si concentra il 70 per cento delle intercettazioni: Napoli con 127.240 intercettazioni pari al 15,4% sul dato complessivo, Roma con 85.544 intercettazioni (10,3%), Milano con 85.008 casi (10,3%), Palermo con 54.346 bersagli (6,6%), Reggio Calabria con 52.340 osservazioni (6,3%), Torino con 45.759 (5,5%), Firenze con 40.863 (4,9%), Bologna con 40.200 (4,9%) e Catania con 34.678 (4,2%). Ma come funziona il mercato delle intercettazioni? Ciascuna persona posta sotto controllo implica l’intercettazione di cinque "bersagli", ognuno dei quali, in media, parla con almeno altre venti persone. Da qui una rete di "spie" che costa 1.358 milioni di euro, costi ancora troppo elevati, ha sottolineato il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio, dati da sensibili differenze tra una procura e l’altra. "Sarebbe auspicabile accelerare l’attuazione normativa per attuare una riduzione delle spese ? ha spiegato. Risultati da raggiungere attraverso la revisione dei prezzi e l’adozione di un tariffario per prestazioni in base al costo medio per poi, successivamente, approdare alla realizzazione concreta di un sistema unico nazionale delle intercettazioni". La media attuale è di circa 226 milioni annui, con una progressiva riduzione dal 2009 ad oggi di 50 milioni di euro. A spendere di più sono i distretti di Palermo, con 228,9 milioni di euro (16,9 per cento), Milano, con 182 milioni di euro (13,4%), Reggio Calabria, con 171,2 milioni di euro (12,6%) e Napoli con 155,3 milioni di euro (11,4%). Cannabis. Cantone: sì alla legalizzazione intelligente, ma non totale di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 "Fino a poco tempo fa ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione perché non mi convincevano gran parte degli argomenti, che servisse cioé per sconfiggere la criminalità organizzata, perché le droghe leggere sono una parte insignificante degli utili della criminalità organizzata, o che servisse per evitare una serie di problemi di salute dei ragazzi. Adesso ho un po’ cambiato posizione. Credo soprattutto che una legalizzazione intelligente possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità". Lo ha detto a Radio Radicale il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, interpellato sulla proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis all’esame della Camera dei deputati per iniziativa dell’intergruppo parlamentare promosso dal sottosegretario agli esteri Benedetto Della Vedova. Contrario a una legalizzazione totale - "Sarei contrario - ha detto Cantone - a una legalizzazione totale. Le droghe leggere rappresentano introiti insignificanti per la mafia, e credo che le droghe pesanti che rendono soldi non si potranno mai legalizzare. Ma c’è questo argomento, evitare contatti di giovani con ambienti della criminalità organizzata e l’altro aspetto è che droghe leggere controllate probabilmente evitano interventi chimici che stanno portando anche alla tendenza all’assuefazione o al vizio. Questi due argomenti oggi mi fanno essere su questa proposta di legge molto più laico e per molti aspetti favorevole". Per Cantone ci sono "cose su cui la proibizione resta indispensabile. Il proibizionismo sulle droghe pesanti è giusto, mentre sulle droghe leggere ci sono questi due argomenti, cioè evitare i contatti con la criminalità organizzata e consentire l’uso di droghe leggere controllate che siano il meno possibile trattate chimicamente e che quindi facciano meno male possibile. Questi possono essere argomenti che con una vendita controllata e quindi in qualche modo limitata potrebbero dare un senso" alla proposta. Della Vedova: bene Cantone. Scotto (Sel): parole condivisibili - "Mi fa davvero piacere che una persona di grande competenza e autorevolezza come Raffaele Cantone abbia espresso il suo parere favorevole a una ‘legalizzazione intelligentè della cannabis", ha commentato Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Affari Esteri e tra i primi sostenitori della proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis. "Il nostro obiettivo, come intergruppo cannabislegale - spiega Della Vedova -, è proprio quello di arrivare a legalizzare la cannabis nel modo migliore possibile, valutando in modo pragmatico e non ideologica tutti gli aspetti della questione e facendo tesoro delle esperienze in corso, in particolare negli Stati Uniti". Arturo Scotto, capogruppo di Si alla Camera dei deputati, su Twitter scrive: "Condivisibili le parole di Raffaele Cantone su #cannabislegale. È un formidabile strumento antimafia. Ne prenda atto chi la blocca da mesi". Affidato a Twitter anche il commento di Pippo Civati, deputato di Possibile: "Ottimo Cantone su legalizzazione: cambia posizione e sceglie laicamente #cannabislegale". Siulp d’accordo: legalizzare conviene - "Sono pienamente d’accordo con Raffaele Cantone", ha dichiarato Felice Romano, segretario generale del Sindacato italiano unitario lavoratori polizia, ricordando che si "tratta di sostanze che oggi sono utilizzate anche con finalità terapeutiche, tanto che la cannabis viene coltivata negli stabilimenti dell’Esercito italiano". Per il segretario del Siulp "la legalizzazione intelligente di cui parla Cantone garantirebbe almeno tre effetti positivi: assicureremmo la tutela della salute di chi ne fa uso, attraverso un maggiore controllo medico; non alimenteremmo la criminalità organizzata, che reinveste i proventi del traffico anche infiltrando attività illegali; alleggeriremmo il lavoro delle forze di polizie e dei tribunali che oggi sono soffocati dalla necessità di perseguire reati che alla fine non producono nemmeno condanne". Diversa la posizione del Sap, il Sindacato autonomo di Polizia. "Utile nella lotta al fenomeno ma "eticamente inopportuna" e, soprattutto, "rischiosa" per i giovani, secondo Gianni Tonelli, segretario generale del Sap. Tonelli confessa di condividere solo in parte l’apertura di Raffaele Cantone: "potrebbe ridurre lo spaccio", ma per i ragazzi "sarebbe pericoloso togliere ogni censura morale a comportamenti che poi rischiano di essere senza ritorno". Gasparri: affermazioni irresponsabili. Giovanardi: assurdità - Immediati i commenti. Per il senatore Maurizio Gasparri (Fi), "Cantone dimostra incompetenza e irresponsabilità. Per fortuna che Borsellino e i Gratteri dicono cose chiare in materia di lotta alla droga, mentre Cantone si iscrive al partito delle sciocchezze". All’attacco anche Carlo Giovanardi, senatore di Gal: "Cantone sostiene una cosa assolutamente non condivisibile, assurda. Legalizzare le droghe leggere significa fare un grande favore alla criminalità organizzata". Raffaele Cantone: "legalizzare la cannabis è l’unica soluzione intelligente" di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 agosto 2016 Cambia idea il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e in un’intervista a Radio Radicale ammette: "Bisogna evitare danni peggiori". A settembre riprende in commissione l’esame della proposta di legge sottoscritta da 220 deputati. Dopo la Direzione nazionale antimafia, anche il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione esprime parere favorevole alla legalizzazione della cannabis. Una posizione, quella che Raffaele Cantone ha riportato ai microfoni di Radio Radicale, tanto più significativa perché, come ha spiegato egli stesso, presa in seguito ad un ripensamento profondo. "Fino a poco tempo fa ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione perché non mi convincevano gran parte degli argomenti, che servisse cioè per sconfiggere la criminalità organizzata, perché le droghe leggere sono una parte insignificante degli utili della criminalità organizzata, o che servisse per evitare una serie di problemi di salute dei ragazzi. Adesso ho un po’ cambiato posizione", ha risposto alla giornalista che lo interpellava sulla proposta di legge sottoscritta da 220 deputati di ogni gruppo parlamentare, su iniziativa del sottosegretario agli Esteri Benedetto della Vedova, che tornerà all’esame delle commissioni a settembre. Parole che, per il ruolo e la visibilità di Cantone, hanno suscitato molte reazioni e polemiche: da un lato le proteste del fronte proibizionista e del ministro con delega alla Famiglia, l’Ncd Enrico Costa (che dice no ai "magistrati che alzano bandiera bianca"), dall’altro però si è levato anche per la prima volta il plauso del sindacato di polizia Siulp, favorevole alla legalizzazione perché oltretutto "alleggerirebbe il lavoro delle forze di polizie e dei tribunali", come ha spiegato il segretario Felice Romano. "Credo soprattutto che una legalizzazione intelligente possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità - ha argomentato Cantone - Inoltre, il controllo delle droghe leggere evita interventi chimici che stanno portando anche alla tendenza all’assuefazione o al vizio. Questi due argomenti mi portano ad essere molto più laico". Il presidente dell’Anticorruzione ha precisato anche che sarebbe "assolutamente contrario alla legalizzazione delle droghe pesanti", che peraltro, sostiene, sono quelle che "rendono più soldi alle mafie". Nulla di rivoluzionario: la Dna lo ha detto e ribadito perfino con una lettera ad hoc indirizzata ai deputati, ma la sua posizione è stata quasi insabbiata, al pari della dettagliata relazione al parlamento depositata nel marzo 2015 dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Grande eco invece le parole del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che alle "dichiarazioni di principio", ha opposto: "I dati dicono che su 100 tossicodipendenti, 5 fanno uso di hashish e marijuana e solo il 25% di questi ultimi è maggiorenne, mentre il restante 75% è minorenne", è l’argomento usato chissà perché a favore del proibizionismo. "Sono molto felice della posizione di Cantone - commenta il sottosegretario radicale Benedetto della Vedova - soprattutto per la sua onestà intellettuale perché ammette di aver cambiato idea. Dovrebbe far riflettere i proibizionisti la cui posizione è identica da 30 anni senza che possano rivendicare alcun successo. Io credo invece che alzi un’intollerabile bandiera bianca - dice rispondendo al ministro Costa - chi fa la faccia feroce ma poi lascia che milioni di italiani ogni giorno compiano reati, per un consumo nocivo come alcol e tabacco, ed entrino in contatto con la criminalità". A settembre, assicura, in commissione si ricomincerà con l’iter della legge. Depositati oltre duemila emendamenti: "Se è legittimo l’ostruzionismo, sarà legittimo muoversi in ogni modo per superarlo", assicura. "Non ci faremo spaventare, anche se la battaglia sarà dura, la partita è apertissima: vogliamo arrivare fino in fondo, fino al dibattito in Aula e al voto pubblico". A sostegno dell’azione dell’intergruppo si muovono l’Associazione Luca Coscioni e i Radicali Italiani che hanno già raccolto circa 26 mila firme sulle 50.000 necessarie per una proposta di legge di iniziativa popolare che prevede tra l’altro, come spiegano Filomena Gallo e Marco Perduca, "la depenalizzazione totale dell’uso personale di tutte le sostanze proibite, nonché la liberazione dei detenuti per condotte non più penalmente sanzionabili". Intanto la vicina Zurigo si prepara a mettere in vendita, da oggi, legalmente la cannabis. Chiunque abbia più di 18 anni può comprare un sacchetto di 10 grammi di marijuana coltivata in loco al costo di 24 franchi svizzeri (circa 22 euro). Unica condizione è che il Thc contenuto sia inferiore all’1% ogni grammo. E dagli Stati uniti arriva la notizia che la Food and drugs administration ha sdoganato per l’uso farmacologico la ketamina, un sedativo per cavalli usato come allucinogeno soprattutto nei rave e nelle discoteche, indicandolo come "terapia innovativa per la depressione maggiore". Un segno inequivocabile della morte del proibizionismo, nato negli Usa. Allarme cyber-attacchi "La rete italiana nel mirino" di Emanuele Bonini La Stampa, 19 agosto 2016 Il Consiglio europeo: tra gli obiettivi ci sono i siti dello Stato. L’Unione europea ha chiesto ai principali server stranieri di cooperare ma per ora la richiesta non è stata accolta. Gli assalti informatici aumentano. E prima vista sembra che, in lungo e in largo per la nostra penisola, la sicurezza nazionale online sia diminuita nonostante l’impegno e la determinazione assunti dal governo. Il giudizio europeo è chiaro. Secondo il gruppo Genval per le questioni generali - lo speciale organismo del Consiglio Ue per il coordinamento delle misure di prevenzione e contrasto della criminalità organizzata - l’Italia è sempre più bersaglio di attacchi terroristici, anche di matrice jihadista. E quanto fatto fin qui non basta a garantire la piena tenuta dello spazio cibernetico. Nel complesso la nostra amministrazione "si è impegnata" a stringere le maglie delle rete informatica, con azioni di rilievo prese per raggiungere l’obiettivo di una maggiore sicurezza. Un rapporto di 73 pagine diffuso al Consiglio europeo rileva tuttavia che, al netto degli sforzi profusi, "permangono aree dove ulteriori progressi si rendono necessari". Solo a titolo d’esempio i soli reati di accesso non autorizzato a sistemi informatici sono passati dai 6.310 casi del 2012 ai 9.490 del 2014. Crimini per cui la mole di arresti è diminuita (da 1.097 a 883). Ancora, tra il 2013 e il 2014 è aumentato il numero di danni procurati a programmi informatici usati dalla pubblica amministrazione (da 86 a 96). Proprio la rete informatica di Stato è una dei principali motivi di preoccupazione, perché la tendenza a colpire qui è in crescita. Il rapporto del gruppo Genval mette nero su bianco che "in Italia attacchi cibernetici sempre più sofisticati aumentano contro infrastrutture critiche, siti governativi, settori economici e bancari, a cui si aggiungono attacchi informatici terroristi condotti, in particolare, da jihadisti". I radicalizzati corrono evidentemente sul web. Qui reclutano e agiscono. Per correre ai ripari la Commissione Ue ha previsto azioni mirate nelle proprie agende digitale e anti-terrorismo. Il rapporto sull’Italia non fa che confermare la dimensione virtuale ma al tempo stesso reale di un fenomeno che l’Europa e i Ventotto Stati membri intendono contrastare con la collaborazione dei principali operatori internet. A Twitter, Facebook, Skype e tutte le piattaforme "social" l’Ue ha chiesto di cooperare per oscurare messaggi di odio e collaborare nella lotta al terrore. Una richiesta che, almeno nel caso italiano, non sembra essere stata accolta. Uno degli ostacoli a una piena risposta ai cyber attack è proprio la condotta recalcitrante dei server stranieri, i gestori cioè del traffico di informazioni su internet. Le autorità nazionali rimproverano in particolare a Google, Microsoft, Yahoo e Facebook (tutti statunitensi) "la difficoltà di ottenere informazioni in modo rapido". E quando vengono fornite, accade che i dati siano limitati e, di conseguenza, "spesso inutili per scopi investigativi". Un problema da risolvere, e probabilmente non solo a livello nazionale ma con un’azione comunitaria di più ampio respiro. In attesa di eventuali passi in tal senso, restano comunque compiti da fare a casa. Gli esperti del gruppo Genval contestano "notevoli divergenze sui dati" statistici forniti dalla polizia e quelli della procura. C’è in sostanza confusione, dovuta probabilmente a "l’esistenza di diversi database tra più soggetti, gestito secondo criteri diversi criteri". Servono uniformità e chiarezza. Questo vale anche per la strategia nazionale di cybersecurity, dove non ci sono azioni chiare né risorse. L’Italia ha risposto a fine dicembre 2015, con una legge che stanzia 150 milioni di euro per il settore. Il 10% di queste risorse andrà direttamente alla Polizia postale. Un primo passo. Bancarotta per distrazione anche per la cessione della nuda proprietà degli immobili di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 34991/2016. È bancarotta per distrazione la cessione della nuda proprietà di beni immobili in favore dei figli, tra l’altro senza alcuna prova di un debito contratto con loro dal genitore. Questo quanto sancito con la sentenza numero 34991, depositata ieri, dalla Corte di cassazione. Due gli imputati della vicenda, entrambi condannati in primo e secondo grado per bancarotta semplice documentale; uno dei due anche per bancarotta fraudolenta per distrazione. Tra le motivazioni della condanna, l’aver appunto distratto una nuda proprietà della quota di beni immobili della società, a estinzione di parte di un debito che l’imputata asseriva di aveva contratto nei confronti dei figli, in comune con l’altro imputato, e verso un amico e socio, in tal modo alterando la par condicio creditorum. Nel merito, il Tribunale di Trento aveva, a tal proposito, accertato che l’operazione di cessione dei diritti reali sugli immobili concretizzava in realtà una sorta di spartizione delle spoglie della società, posta in essere per organizzare la sottrazione dei beni della società (che evidentemente già allora versava in grave situazione di dissesto) alla garanzia dei creditori.?I giudici di merito pervenivano a tali conclusioni perché i debiti nei confronti del socio traevano origine da arbitrari prelievi di somme delle casse di altre società diverse da quella oggetto di bancarotta - fatto ammesso dall’imputato e peraltro per necessità di carattere del tutto personale -, mentre i debiti nei confronti dei figli erano fondati solo su scritture private che non garantiscono alcuna certezza di autenticità, né rispetto al contenuto né sull’epoca della formazione. ? Per tutto ciò, la Corte di cassazione ha ribadito che, nonostante la decisione isolata presa con sentenza 47502/2012, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo a dolo generico, per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, (sentenze 3229/2013 e 232/2013). Bancarotta, distratti i contanti versati al manager di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35000/2016. La condanna per bancarotta fraudolenta per distrazione scatta nei confronti dell’amministratore che non versa nelle casse della società il denaro pagato dai fornitori. Anche se questo gli è stato dato in contanti, violando la normativa antiriciclaggio. La Cassazione (sentenza 35000 depositata ieri) respinge il ricorso contro la condanna dell’amministratore-liquidatore di una società dichiarata fallita, condannato per aver distratto oltre 205mila euro, relativi a pagamenti effettuati dai clienti ai quali la società aveva fornito legname. Secondo la tesi del ricorrente, non si era invece verificata alcuna distrazione, perché le somme erano state versate nelle sue mani dai debitori della società, contravvenendo al divieto sancito dalla legge 197/1991. Per questa ragione, i pagamenti non si sarebbero potuti considerare una forma legittima di adempimento delle obbligazioni nei confronti della fallita. A parere della difesa, si era in realtà instaurato, con il passaggio del denaro "brevi manu" un rapporto fiduciario tra la persona fisica dell’amministratore e i clienti, che sfociava nel patto di non richiedere le somme (pactum de non petendo), di cui era garante chi aveva incassato le somme. In base a questa ricostruzione, avrebbe sbagliato la Corte d’appello ad affermare che le somme erano entrate nel patrimonio della società, perché questo non si era mai modificato, come dimostrato dal dato oggettivo che i crediti risultavano ancora esposti nel bilancio. Un altro errore il ricorrente lo individua nel danno ai creditori, desunto dalla circostanza che il curatore aveva ritenuto legittima l’opposizione dei debitori alla richiesta di pagamento fondata sull’esibizione delle quietanze rilasciate dal manager. Infatti, secondo l’assunto della difesa, le quietanze non sarebbero opponibili al fallimento, ma destinate solo ad avere effetto nel rapporto amministratore-solventi. La Cassazione non è d’accordo. Il denaro versato in contanti all’amministratore per forniture regolarmente fatturate era entrato a pieno a titolo nel patrimonio sociale e non poteva essere distratto, essendo destinato alla soddisfazione dei creditori. Priva di fondamento anche l’affermazione della difesa secondo la quale l’adempimento dell’obbligazione civilistica non era valido per la violazione delle norme sul riciclaggio. I giudici ricordano che l’intera materia sulla circolazione del denaro contante (Dl 143/1991) è stata nuovamente disciplinata dal Dlgs 231/2007. La norma rinnovata prevede una sanzione amministrativa pecuniaria (dall’ 1% al 40% dell’importo trasferito) per chi non rispetta i divieti ma lascia intatti, sul piano civilistico, gli effetti dei pagamenti effettuati. Una regola che, ovviamente, pesa sul caso esaminato. La Cassazione ricorda inoltre che, in generale, la bancarotta fraudolenta non è esclusa dal fatto che i beni distratti o dissipati derivino da un’attività contraria alla legge: una volta entrati nel patrimonio i beni diventano cespiti sui quali i creditori possono soddisfare le loro ragioni. Chiarita dunque l’efficacia dei pagamenti, la Cassazione bolla come un mero artificio contabile che i crediti siano stati iscritti a bilancio malgrado fossero stati soddisfatti. E, anche se i credito fossero stati azionati con successo dal curatore, in assenza di opposizione dei debitori (che invece c’era stata), l’attività distrattiva c’era comunque stata, perché consumata nel momento dell’illecita appropriazione. Per i giornalisti l’accesso agli atti non è automatico di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Sentenza Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 agosto 2016 n. 3631. Resta difficile il diritto di accesso agli atti per i giornalisti. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato 12 agosto 2016, n. 3631, non basta al redattore di una testata specializzata, invocare il diritto di cronaca per ottenere dal ministero dell’Economia copia dei contratti derivati stipulati dallo Stato con 19 istituti di credito stranieri. O, quanto meno, non basta al giornalista invocare la legge 241/1990 ed il generico diritto di accesso ivi previsto. Rimangono così riservati i contratti sottoscritti (per oltre 150 miliardi) dallo Stato per proteggersi dalle oscillazioni di valute e tassi d’interesse. Secondo i giudici, non esiste un rapporto tra diritto d’accesso (legge 241/1990) e libertà di informare. Se il giornalista adopera lo strumento del diritto di accesso previsto dalla legge 241 (articoli 22 e seguenti) invocando la sua "libertà di informarsi per informare", deve rispettare le regole di tale legge e quindi i limiti che essa pone alle richieste di dati. La Costituzione (articolo 21) configura la libertà di cronaca e quella d’informare, la libertà di opinione e quella di stampa, ma il Consiglio di Stato distingue due profili: attivo e passivo. Il primo coincide con la libertà d’informare (comunicare e diffondere idee e notizie); il diritto di stampa e di opinione, nell’aspetto passivo, attiene invece ai destinatari dell’informazione e consiste nelle libertà di esser informati. Ma un conto è la libertà d’informare, altro è quella di accedere alle informazioni. La libertà d’informazione, come libertà di informarsi per informare, consiste nell’interesse a ricevere le notizie in circolazione e non coperte da segreto o da riservatezza e a monte ha l’interesse a ricercare le notizie. C’è quindi una relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato, ma il diritto ad essere informati non può accrescere il diritto di accesso di chi informa, né nei contenuti né nel risultato. I giudici ritengono quindi insufficiente il richiamo a legge 241 ed esercizio dell’attività giornalistic. Ma la sentenza sottolineare che è in corso un’evoluzione normativa sulla trasparenza: la direttiva 2003/98/Ce sull’informazione nel settore pubblico, il Dlgs 33/2013 (sull’accesso civico) con obbligo di pubblicazione sull’uso delle risorse pubbliche e il Dlgs 97/2016 (detto Foia, Freedom of information act) con un sito denominato "Soldi pubblici" sono forme diffuse di controllo. E la direttiva 2014/24 sugli appalti pubblici amplia la legittimazione dei cittadini in qualità di contribuenti a un corretto svolgimento dell’attività amministrativa. Del resto, pochi giorni fa il Tar Lazio (sentenza 8755/2016, si veda il Sole 24 Ore del 9 agosto) ha ammesso l’accesso su atti del protocollo diplomatico per la vicenda dei Rolex arabi e il Tar Veneto (sentenza 9 agosto 2016, n. 952) ha consentito la verifica dei contributi concessi per una tromba d’aria. Connotazione dell’associazione di tipo mafioso rispetto a quella per delinquere Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazione di tipo mafioso - Presupposti e tratti distintivi. Ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416 bis cod. pen., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale, oppure dall’esteriorizzazione "in loco" di condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416 bis, comma terzo, cod. pen. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015 n. 34147 Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazione di tipo mafioso - Differenze. L’associazione di tipo mafioso si connota rispetto all’associazione per delinquere per la sua capacità di proiettarsi verso l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, per l’assoggettamento e l’omertà che è in grado di determinare diffusivamente nella collettività insediata nell’area di operatività del sodalizio, collettività nella quale la presenza associativa deve possedere la capacità di diffondere un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice e intimidatrice del gruppo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 18 settembre 2012 n. 35627. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazione di tipo mafioso - Differenze. Poiché l’associazione di tipo mafioso si connota rispetto all’associazione per delinquere per la sua tendenza a proiettarsi verso l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, i caratteri suoi propri, dell’assoggettamento e dell’omertà, devono essere riferiti ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, in quanto essi vengono a trovarsi, per effetto della convinzione di essere esposti al pericolo senza alcuna possibilità di difesa, in stato di soggezione psicologica e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione. Pertanto, la diffusività di tale forza intimidatrice non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale e quindi manifestarsi concretamente, con il compimento di atti concreti, sì che è necessario che di essa l’associazione si avvalga in concreto nei confronti della comunità in cui è radicata. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 29 luglio 2010 n. 29924. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazioni di tipo mafioso - Tratti distintivi tra le due figure delittuose. Carattere fondamentale dell’associazione per delinquere di tipo mafioso va individuato nella forza intimidatrice che da essa promana: la consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, a esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione. Essa rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione. È, pertanto, necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al fine di realizzare il loro programma criminoso. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 febbraio 2000 n. 1612. Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - Associazione di tipo mafioso - Discrimen tra le due figure delittuose. La figura delittuosa prevista dall’art. 416 bis c.p. si distingue da quella di cui all’art. 416 c.p., oltre che per l’eterogeneità degli scopi che l’associazione mira a realizzare, e quindi dell’oggetto del programma criminoso, per il ricorso alla forza di intimidazione dell’associazione per il conseguimento dei fini propri della medesima. Tale forza di intimidazione del vincolo associativo è un elemento strumentale, e non già una modalità della condotta associativa, e non necessariamente deve essere utilizzata dai singoli associati né estrinsecarsi di volta in volta in atti di violenza fisica e morale per il raggiungimento dei fini alternativamente previsti dalla disposizione incriminatrice, in quanto ciò che caratterizza l’associazione di tipo mafioso e le altre a questa assimilate è la condizione di assoggettamento e di omertà che da detta forza intimidatrice, quale effetto, deriva per il singolo sia all’esterno che all’interno dell’associazione. Al riguardo, si è esplicitato che l’insorgere nei terzi della situazione di soggezione può derivare anche soltanto dalla conoscenza della pericolosità di tale sodalizio. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 19 marzo 1992 n. 3223. Napoli: Orlando in visita a Secondigliano, dove metà dei detenuti lavora a progetti sociali di Federica Urzo Roma, 19 agosto 2016 Nella Casa circondariale ci sono 1.300 reclusi, il 90% sono della categoria di alta sicurezza. Ore 11:59 si aprono i cancelli della Casa Circondariale di Secondigliano per far entrare il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri si è recato all’istituto penitenziario per una visita di routine. Il guardasigilli viene accolto dalle forze dell’ordine con un picchetto d’onore e poi accompagnato all’interno dal direttore dell’istituto, Liberato Guerriero, e da Giulia Russo in rappresentanza del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Nel suo tour il ministro Orlando ha così visitato per la prima volta il carcere di Secondigliano ed in particolare l’ufficio matricola, il reparto infermeria e il padiglione "Adriatico". "È una visita che faccio alla stregua di altre effettuate in diverse sedi penitenziarie italiane" spiega il ministro Orlando ai giornalisti e prosegue "Secondigliano è stata una realtà che nel corso di questi anni ha fatto passi avanti significativi e credo che meriti anche la nostra attenzione". Il guardasigilli si pronuncia poi sulla questione dei migranti nelle carceri italiani dichiarando: "abbiamo proposto una via per snellirle le procedure per quanto concerne l’aspetto giurisdizionale anche se è solo un piccolo pezzo del problema. La questione ha dimensioni molti più grandi quindi alla ripresa dovremmo poi valutare come questa proposta s’inserisca in una strategia di carattere generale". Sui rischi di espansione di radicalizzazione islamica afferma invece che occorre intervenire "garantendo anzitutto i diritti fondamentali poiché spesso le violazioni dei diritti sono il principale presupposto che permette di sviluppare condizioni di propaganda d’odio all’interno degli istituti. Inoltre occorre anche monitorare e verificare se ci sono segnali che denotano una forma di adesione alle parole d’ordini jihadiste". Questo della radicalizzazione islamica è un tema discusso anche "a livello del consiglio dei ministri della giustizia europei e si sta lavorando insieme affinché si trovi un modello comune nella gestione della radicalizzazione. Perché il fenomeno riguarda tutti..." ha dichiarato. Al termine della visita durata circa un’ora il ministro dice: "Mi pare che quello di Secondigliano sia un carcere nel quale si sono fatti sforzi per produrre elementi di innovazione. Mi sono stati posti alcuni problemi che riguardano il funzionamento della sanità interna e anche il sostegno ulteriore che si può dare ad alcuni progetti di riqualificazione. Ne ho preso nota, farò un passo lunedì nei confronti della Regione per chiedere una risposta sul primo punto e sul secondo solleciterò la Cassa per le ammende a dare una risposta rapida ad alcuni interventi che credo possano ulteriormente migliorare le condizioni e il funzionamento dell’istituto". Il direttore Guerriero Liberato invece spiega che l’istituto penitenziario di Secondigliano gode di buona salute difatti non ha mai vissuto realmente il problema del sovraffollamento ed ha inoltre registrato importanti progressi grazie a progetti che mirano all’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti del penitenziario. "Il carcere di Secondigliano ospita due detenuti per ogni camera e ne conta in tutto circa 1.300. Il 90% di questi detenuti sono appartenenti alla categoria dell’alta sicurezza ovvero i reati associativi (come i reati di associazione di stampo mafioso)". Tra i progetti in corso ci sono anzitutto quelli riguardanti la sfera educativa: "Abbiamo un corso di scuola media superiore nell’Istituto Tecno Commerciale Caruso di Napoli, indirizzo classico dalla I alla V. All’inizio dell’anno scolastico si sono iscritti circa 350 detenuti" spiega Guerriero Liberato. Le attività che svolgono invece all’interno dell’istituto penitenziario sono differenti come ad esempio le attività agricole. I detenuti lavorano un terreno agricolo gestito da una cooperativa sociale chiamata "l’uomo e il legno". All’esterno invece la stessa cooperativa gestisce un altro progetto chiamato "trasformazioni" dove si produce e si trasforma il prodotto che dal campo va al consumatore. Un’altra azione collegata a questo progetto è quella riguardante la falegnameria. Si tratta cioè di un recupero di arredi dismessi, in particolare quelli scolastici, per consentirne il riuso tramite la loro rigenerazione attraverso il lavoro dei laboratori di falegnameria. Prosegue con successo anche il progetto per il riciclaggio dei rifiuti che ha dato origine nei mesi scorsi ad un vero e proprio eco-distretto all’interno della struttura per la gestione dei rifiuti di Napoli Nord. "Attualmente oltre il 50% dei detenuti è impegnato in queste attività con l’auspicio di coinvolgerne sempre di più" conclude Liberato Guerriero. Napoli: i Verdi; una passerella non basta, a Secondigliano 500 detenuti oltre la capienza di Marco Maffongelli Cronache di Napoli, 19 agosto 2016 Ieri il ministro Orlando al penitenziario di Secondigliano: ma di riforme nemmeno l’ombra. I Verdi hanno segnalato all’esponente di Governo i disagi relativi al personale medico e alla riqualificazione. Il mese di agosto si avvia alla conclusione e ancora una volta si deve registrare l’incapacità del Governo di risolvere le problematiche relative al sovraffollamento degli istituti di pena. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha a visitato il Centro penitenziario di Secondigliano per appurare le condizioni dei detenuti. Sebbene si tratti di un carcere recente, inaugurato all’inizio degli anni Novanta, è accomunato agli altri penitenziari d’Italia dal fenomeno del sovraffollamento. Sono circa 500 i detenuti ospitati oltre il numero di quelli che la struttura ne potrebbe e dovrebbe contenere. Per un sovraffollamento superiore al 50%. Ancora una volta il ministro ha evitato di parlare di riforma del sistema carcerario che più volte ha visto l’Italia essere condannata dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani, a causa delle condizioni "infernali" nelle quali sono costretti a vivere gli ospiti dell’istituto di pena. Solita passerella di un esponente del Governo, con tante promesse ma zero fatti. Nella sua visita Orlando è stato accompagnato dal direttore della struttura. Liberato Guerriero, e da Giulia Russo, in rappresentanza del Provveditorato regionale all’amministrazione penitenziaria. Il Guardasigilli ha fatto un breve giro visitando l’ufficio matricola, il reparto infermeria e il padiglione Adriatico: "Mi pare che quello di Secondigliano sia un carcere nel quale sono stati fatti sforzi per produrre elementi di innovazione". Al ministro sono state evidenziate alcune criticità come il continuo turnover del personale medico e la necessità di sostegno per progetti di riqualificazione. "Ne ho preso nota - ha ribadito Orlando - e lunedì chiederò alla Regione una risposta sulla questione dei medici, mentre sull’altra vicenda solleciterò chi di dovere a dare riscontri rapidi". Risposte rapide che vorrebbero anche i detenuti, visto che pure quest’anno sono stati costretti a trascorrere il periodo estivo in situazione di estremo disagio. Letizia (Radicali): da decenni Pannella denuncia la situazione criminale delle carceri Sulla questione relativa alle problematiche degli istituti di pena interviene Domenico Letizia, esponente del Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino, nonché membro della Lega italiana per i diritti dell’uomo e componente del Comitato italiano Helsinki per i diritti umani. Letizia evidenzia come il compianto "Marco Pannella per decenni ha denunciato la situazione criminale delle nostre strutture penitenziarie. La soluzione resta ribadire i fondamenti dello Stato di diritto e delle convenzioni internazionali sui diritti umani a partire proprio dalla scottante situazione irrisolta della giustizia e delle carceri nella nostra Penisola. Va dato atto al ministro Orlando di lavorare almeno nel combattere il populismo delle destre L’esponente del Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino avverte: "Attenzione al fanatismo terrorista" e l’arroganza della magistratura, ma non basta. Di tutto ciò si parlerà a! prossimo Congresso del Partito Radicale Nonviolento che si terrà dall’1 al 3 settembre proprio m una struttura penitenziaria, quella di Rebibbia. Letizia poi evidenzia un altro aspetto sul quale bisogna ragionare e che andrebbe tenuto sotto maggiore osservazione da parie delle istituzioni: "Un fattore da affrontare seriamente è quello dell’indottrinamento al fanatismo terrorista ali ‘interno delle strutture penitenziarie, problematica non più rinviabile". Reggio Calabria: Ferragosto in carcere per il Garante dei detenuti Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2016 Nota stampa del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, avv. Agostino Siviglia, che in occasione del Ferragosto e della festività dell’Assunta, si è recato in visita agli istituti penitenziari di Reggio Calabria, Arghillà e "G. Panzera". "Ho sentito il dovere istituzionale, oltre che umano e personale, di recarmi presso gli istituti penitenziari di Reggio Calabria, Arghillà e "Panzera", per i quali sono competente in ragione delle funzioni che esercito quale garante comunale dei diritti dei detenuti, al fine di dare un segno della presenza, e della non dimenticanza, istituzionale e funzionale dell’Ufficio del Garante a quanti si trovano ristretti nei due istituti penitenziari reggini. Quella delle visite in carcere nel giorno di ferragosto è peraltro una consuetudine oramai consolidata in seno al coordinamento nazionale dei garanti territoriali, sulla scorta delle iniziative promosse dai radicali ed in particolare da Marco Pannella, a cui va oggi un particolare e sentito ricordo per le innumerevoli battaglie sostenute sul fronte dei diritti dei detenuti. Ringrazio, innanzitutto, il personale di sorveglianza penitenziario di Arghillà e del "Panzera" che mi ha accompagnato durante le visite carcerarie, nelle persone degli Ispettori di Polizia Penitenziaria Maria Ferrara e Daniela Iriti e dell’Assistente Capo Bruno Serra. Mi ha colpito il silenzio assordante ed il senso di vuoto ed isolamento che nella giornata di ferragosto ho potuto respirare in entrambi gli istituti di pena, anche perché non erano previsti colloqui con i familiari, dal che quella del garante e di qualche volontario oltre che dei sacerdoti che officiavano la messa in occasione della festività dell’Assunta hanno finito per essere l’unico segnale tangibile della presenza della comunità esterna. Eppure la legislazione penitenziaria sancisce la indispensabilità di una interazione "ufficiale" fra il "mondo ufficiale" ed il "mondo del carcere": tanto ancora dovrà farsi su questo fronte, non senza esprimere un sentito encomio per quanti prestano gratuitamente il proprio servizio nelle carceri reggine. La visita ufficiale del Garante, in questo senso, ha voluto informarsi, sopra di ogni altra cosa, del significato di un gesto di umanità, nel solco beninteso di quel "senso di umanità" sancito all’art. 27 della Costituzione, che i padri costituenti ritennero di riservare proprio alla esecuzione delle pene. Ed evidentemente non è un caso che la parola "umanità" viene usata solo una volta nella Costituzione repubblicana, allorquando si sancisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Certo le diverse tipologie di detenuti ristretti nei due differenti istituti reggini meritano un approfondimento di analisi e di possibilità di intervento sul fronte della individualizzazione del trattamento rieducativo che, evidentemente, non possono trovare compiutezza in questa sede. Tuttavia anche durante queste due visite ferragostane l’occasione è stata utile per raccogliere e focalizzare una serie di istanze, per vero già note all’Ufficio del Garante, prima fra tutte quella relativa alla carenza di personale di polizia penitenziaria che si riverbera negativamente sul fronte del trattamento rieducativo e conseguentemente su quello dell’abbattimento della recidiva del reato. Pur se paiono oramai superati i periodi cronici del sovraffollamento carcerario (ad Arghillà sono presenti 292 detenuti su una capienza di 350 ed al "Panzera" 149 su un capienza regolamentare di 160) permangono le sfide in tema di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e dei soggetti in misura alternativa alla detenzione, oltre che alcune strutturali carenze, in specie relative all’istituto di Arghillà, ancora privo di un campo da calcio, di una cappella e di uno spazio teatro, come già in altre occasioni questo Ufficio non ha mancato di segnalare, e continuerà a segnalare, ai Dirigenti apicali dell’Amministrazione Penitenziaria. Per converso, entro la fine del mese di agosto o al massimo entro i primi giorni del mese di settembre si avvieranno i lavori di pubblica utilità dei detenuti dello stesso carcere di Arghillà che svolgeranno lavori volontari e gratuiti in favore della collettività, in una prima fase occupandosi della manutenzione del verde pubblico. Per vero, non senza qualche ritardo burocratico-amministrativo, considerato che il Protocollo fra carcere, comune, tribunale di sorveglianza e uepe è stato sottoscritto lo scorso 7 giugno, appaiono oramai superati gli ultimi adempimenti necessari all’imminente avvio e quindi all’implementazione sistemica di queste e di ulteriori attività in tema di "giustizia riparativa", mediante lavori volontari e gratuiti in favore della collettività, sia esterni che interni al carcere. In ultimo, una particolare attenzione merita la visita riservata alla sezione femminile del "Panzera", una delle due sezioni femminili insieme a Castrovillari di tutta la Calabria, per la evidente specificità del trattamento rieducativo relativo alle donne detenute. Alcune positive iniziative sono state già realizzate negli scorsi anni ma di certo la possibilità di "occupare" le donne detenute, anche e soprattutto con attività interne al carcere, risulta non solo doverosa ma anche strategica nell’ottica della individualizzazione trattamentale e della positiva partecipazione della comunità esterna. In definitiva, il segno di una presenza istituzionale in un giorno caldo e silente di festa per chi si trova ristretto, si colma di senso se davvero si coglie l’importanza dei gesti simbolici, sia per quanti il carcere lo vivono da reclusi perché possono vedere una testimonianza positiva di attenzione, sia per quanti dall’esterno il carcere lo vivono come un "pianeta" a parte, che non li riguarda, magari perché possono cominciare a chiedersi se il carcere sia davvero una società a parte o piuttosto sia una parte della società. Alle nostre latitudini risulta perciò cruciale vincere la sfida della rieducazione penale, offrendo opportunità di scelta di vita alternativa, e ciò non solo per innescare positivi processi di cambiamento per il singolo detenuto ma ancor più per realizzare effettivi avvenimenti di cambiamento sociale per l’intera comunità. Roma: la proposta di Frongia: "usiamo i detenuti per pulire la città" Dire, 19 agosto 2016 Il vicesindaco di Roma, Daniele Frongia, oggi sarà alla casa circondariale femminile di Rebibbia. "È una visita a cui tengo molto, perché ho già lavorato come volontario lì. Ci sono già dei progetti in cantiere molto concreti", ha spiegato dopo avere portato alcuni giochi ai bimbi dell’ospedale Bambino Gesù, ricordando poi che "tre anni fa, con i detenuti, è stato fatto un progetto per pulire l’intera passeggiata del Gianicolo. È stato un ottimo intervento ma poco pubblicizzato, a volte pare che non interessino queste opere di riqualificazione". Ora il progetto sarà esteso: "Se a Roma utilizzeremo i detenuti per pulire la città? Dopo l’incontro con il direttore, con il garante, dopo aver verificato alcune cose, tutti insieme comunicheremo questo" ha concluso Frongia. Campobasso: "Liberi di Cantare", inizia il progetto musicale rivolto ai detenuti di Pierpaolo Tanno cblive.it, 19 agosto 2016 È stato presentato nella Sala Giunta di Palazzo Magno il progetto musicale "Liberi di Cantare", sostenuto dalla Provincia di Campobasso, attivato dall’Associazione Culturale "Molise inCanto", dagli Istituti Penitenziari di Campobasso e Larino e patrocinato dal Comune di Campobasso. "Abbiamo voluto sostenere - ha dichiarato il presidente De Matteis - questo progetto certi dell’alto valore sociale che è in grado di veicolare. La musica è in grado di alleviare le sofferenze delle tante persone che purtroppo stanno scontando le loro pene all’interno delle carceri. La Provincia da subito si è attivata per creare la rete partenariale, riscontrando subito grande interesse dagli enti e associazioni, e finanziando il progetto con residui di vecchi progetti". "Liberi di Cantare" nasce da un’idea di Sabina Mascia, direttore artistico dell’associazione "Molise Incanto", associazione interamente molisana, impegnata fin dalla sua nascita nella diffusione della cultura e nella sensibilizzazione musicale di coloro che non hanno avuto modo di approfondire lo studio del canto. Da anni musicalmente attiva sul territorio, l’associazione si è concentrata in quest’ultimo periodo su progetti che hanno coinvolto le fasce più deboli della società; il progetto "Liberi Di Cantare" si rivolge, infatti, ai detenuti degli Istituti Penitenziari di Campobasso e Larino, ed è uno dei tanti percorsi che l’Associazione sta portando avanti con soddisfazione ed orgoglio. "I laboratori musicali - ha dichiarato la direttrice Artistica Sabina Mascia - sono già iniziati a Larino il 26 luglio e a Campobasso il 5 agosto e avranno la durata di sei mesi per ogni istituto coinvolto duranti i quali impartirò lezioni di canto, allo scopo di creare un coro all’interno delle due case circondariali molisane. Le lezioni si terranno in due incontri settimanali per ogni istituto, nel periodo estivo e poi si concorderanno nuove giornate e nuovi orari. I detenuti coinvolti sono ventidue a Larino e altrettanti a Campobasso ma, visto l’interesse che il corso sta suscitando, non è escluso che se ne possano aggiungere degli altri. Inizialmente le lezioni si concentreranno sulla tecnica vocale per aiutare i detenuti a scoprire le proprie abilità canore; si sfrutterà anche la conoscenza musicale che qualche detenuto ha di alcuni strumenti musicali; successivamente si creerà un repertorio sacro e profano che terrà conto dei diversi credo e delle diverse etnie presenti nella realtà carceraria molisana. A fine corso organizzeremo un concerto finale, rispettivamente a Campobasso e a Larino, che concluderà questa prima sperimentazione di un laboratorio canoro in un istituto penitenziario molisano, che si spera potrà continuare e ripetersi anche in futuro. I detenuti hanno apprezzato tantissimo l’iniziativa e si sono subito mostrati interessati all’idea di sperimentarsi, mettersi in gioco e collaborare tra di loro scoprendo, insieme all’insegnante, i propri talenti artistici". Soddisfazione piena per l’iniziativa è stata espressa anche dalla direttrice delle due case circondariali Rosa La Ginestra. "In questi anni stiamo lavorando per favorire il reinserimento dei detenuti nella società. La musica rappresenta un mezzo importante per aggregare le persone e creare un gruppo, così come metaforicamente è un coro musicale, e allo stesso tempo risulta necessaria per socializzare e imparare ad ascoltare l’altro. Tutti i detenuti che ospitiamo ascoltano musica quotidianamente e questo è importante per il loro benessere psicofisico". Presente alla conferenza anche l’assessore alle Politiche Sociale del Comune di Campobasso, Alessandra Salvatore, apprezzando le forme di fusione dell’arte nelle attività sociali, ha già previsto di inserire lo spettacolo canoro finale nel programma degli eventi natalizi del capoluogo di regione. Terrorismo. Ancora l’Isis dopo l’Isis? Se il Califfato sopravvivrà alla propria sconfitta di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Davanti al suo drappo nero si sono sciolti come neve al sole interi eserciti come quello iracheno, e la sua barbarie aveva spinto alla fuga o sottomesso milioni di arabi, curdi, cristiani, sciiti, yezidi. Questo è davvero l’inizio della fine dell’Isis e quale sarà la strategia del Califfato per sopravvivere? Era il 2 giugno del 2014 quando venne avvistata per la prima volta la bandiera nera sulla via di Damasco. Qualche settimana dopo, il 29 giugno, il suo capo Abu Baqr alBaghdadi avrebbe proclamato il Califfato da Mosul, seconda città irachena. Fu una delle rare apparizioni pubbliche di questo ex prigioniero del carcere di Camp Bucca, inspiegabilmente liberato dagli americani nel 2009. "Quello è Daesh, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che voi chiamate Isis", disse il generale siriano Suhayl puntando il binocolo verso l’estrema periferia di Douma, una delle roccaforti dei ribelli anti-Assad. Spazientito e nervoso il generale aggiunse che l’Isis aveva appena sloggiato alNusra, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda con il quale i siriani del regime stavano trattando. Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia (non più la Sirte) ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Qaeda di Osama Bin Laden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa. L’incrocio tra l’Isis e alQaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove i jihadisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di Stati in disgregazione. Il Fronte alNusra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da alQaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione "rispettabile" contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al Califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più "ragionevoli" verranno riciclati tra i jihadisti "buoni", quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare i jihadisti anti-Assad anche in chiave anti-iraniana e tenere sotto pressione la Russia. In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo Realpolitik. Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce al-Adnani. Abu Mohamed al-Adnani è una sorta di "ministro" degli attentati, supervisore del fronte esterno coordina i combattenti in Occidente ma finora non ha neppure dovuto preoccuparsi della segretezza. Anzi, all’opposto. Più è trasparente e più è facile per chi ascolta mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-Adnani inizia a pensare a quando l’Isis potrebbe essere sconfitto, ovvero studia come creare una quinta colonna in Europa. E i jihadisti potrebbero usare il nord-est della Siria come area di addestramento, un "ponte" sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il "nostro" Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Usa: taglia la strada verso Raqqa, capitale del Califfato, ma anche la via di fuga dei jihadisti in direzione della Turchia. È scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con Assad, iraniani ed Hezbollah. Ma la sua caduta non sarà la fine della storia. Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il Califfato di alBaghdadi potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihadismo e al successo della sua propaganda. La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddam non termina adesso. Lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddam che avevano con i jihadisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. Al-Baghdadi, militante di AlQaeda e seguace del giordano Abu Musab Zarqawi, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Baghdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, Paese a maggioranza sunnita dominato con pugno di ferro dalla minoranza alauita degli Assad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del Califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente. Terrorismo. Espellere gli islamisti non risolve il problema, anzi... di Alberto Cisterna Il Dubbio, 19 agosto 2016 L’espulsione di potenziali terroristi: è mettere la polvere sotto il tappeto. E se ci fosse qualcosa di sbagliato? Se l’espulsione dal territorio nazionale di dozzine di fanatici islamici non fosse la soluzione, ma il germe o la causa di guai molto più grossi? Il ministro Alfano ha ricordato, con una certa soddisfazione, che sono 107, dal 2015, gli stranieri espulsi dall’Italia per sospetti di collegamenti con cellule terroristiche. Una logica di prevenzione in apparenza lineare. Vogliamo evitare attentati in Italia e ci sbarazziamo dei più pericolosi. Tuttavia. Tuttavia due considerazioni dovrebbero indurre a prudenza. Partiamo dall’ultimo comunicato del Viminale: "in seguito ad una attenta e approfondita attività investigativa, sono stati allontanati dal territorio nazionale con un volo partito da Catania e diretto a Tunisi, per motivi di sicurezza dello Stato, due cittadini di nazionalità tunisina. A loro carico, sono stati accertati legami con movimenti terroristici oltre a vari elementi che li hanno tratteggiati come soggetti socialmente pericolosi". Il 18 marzo 2015 a Tunisi, nel museo del Bardo, sono state uccise 24 persone e 45 sono rimaste ferite. Molte vittime erano italiane. La minaccia del terrore è globale non c’è dubbio, ma allora che senso ha sbarazzarsi in Italia di manipoli di fanatici che, poi, vengono restituiti ai paesi di origine e probabilmente alle organizzazioni estremistiche di appartenenza. Certo possiamo immaginare che le autorità tunisine, con metodi tunisini, affronteranno la questione e si prenderanno cura dei due fanatici. Ad occhio e croce nulla di diverso dal clamoroso caso di Abu Omar prelevato - con altri mezzi - in Italia e consegnato (via Cia) al nativo Egitto. Allora una legge sulla rendition non esisteva, dal 2015 l’Italia ne ha una molto efficiente e la sta applicando con evidenti risultati. Si badi bene non è (solo) un problema di garanzie, di assetto dello Stato di diritto, ma con una certa dose di pragmatismo si deve discutere delle pura "utilità" nel progettare operazioni di questo genere. In Tunisia, per restare al caso più recente, l’Italia ha interessi importanti, investimenti cospicui, cittadini al lavoro. Spedire lì un paio di assatanati del terrore non sembra proprio un colpo di genio. Quei 107 espulsi sono, potrebbero essere, altrettante fonti di odio e risentimento contro l’Italia, potrebbero aizzare azioni violente, fare proselitismo contro il nostro paese da una posizione privilegiata. E nessuno può pensare o auspicare che, in loco, le autorità nordafricane risolvano la cosa in modi più spicci. La seconda riflessione. Non serve leggere Bauman (L’etica in un mondo di consumatori, Laterza, 2008) per comprendere che la società liquida delle migrazioni e della globalizzazione predilige le tecniche di esclusione in luogo di quelle di confinamento e sorveglianza. Ma per il terrorismo internazionale non sembra una buona soluzione. La solidarietà tra Stati imporrebbe di sorvegliare e controllare i sospetti entro i propri confini con tutti i rischi che questo comporta (v. la Francia o il Belgio), spedire fuori dall’Italia i fanatici può forse mitigare il rischio imminente, ma non garantisce da attacchi futuri. Anzi. La soluzione italica mostra, come spesso accade, le stimmate di quella furbizia che tante volte ci è stata rimproverata dagli alleati: spinge la polvere sotto lo zerbino e la mette davanti all’uscio del vicino. Ma non può essere la strada maestra della prevenzione antiterrorismo che esige, piuttosto, che gli estremisti siano permanentemente monitorati e sorvegliati li dove operano anche se si tratta di cada nostra. Si coglie, ma può essere una svista, come l’impressione che gli espulsi siano dei "mancati arrestati" per i quali cioé non siano state raccolte prove sufficienti per ammanettarli. Se così fosse non si tratterebbe della tanto decantata prevenzione, ma di una cripto-repressione, altro vizio italico. Migranti. Profughi ai lavori utili? Fa bene a loro e alle città di Marco Birolini Avvenire, 19 agosto 2016 "Non c’è cosa più triste di entrare in un centro d’accoglienza a mezzogiorno e vedere ancora tutti a letto, perché non hanno nulla da fare". Cristopher Hein, consigliere strategico del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, condivide in pieno la proposta del prefetto Mario Morcone di impegnare i richiedenti asilo in lavori socialmente utili nei comuni che li ospitano. "Coinvolgiamo i migranti nel lavoro - ha detto il capo del dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno in un’intervista rilasciata al Corriere - non possiamo più lasciare queste persone appese in attesa di un destino che cada dall’alto, né che si abbruttiscano passando la giornata ad attendere il pranzo e la cena". Il dibattito si è acceso immediatamente. Il titolare del Viminale Angelino Alfano ha precisato: "Occorre che i profughi diano una mano nelle città in cui vivono, attraverso convenzioni con associazioni di volontariato e realizzando risultati che possano essere di utilità sociale. Ma la regola è che nei lavori si dà sempre e comunque precedenza agli italiani". Un tasto su cui batte forte Matteo Salvini. Su Facebook, il leader leghista liquida così la proposta di Morcone: "Vallo a spiegare a uno dei 4 milioni di italiani disoccupati... Questo è fuori, io lo licenzierei e lo metterei su un barcone!". Va giù duro anche il senatore FI Maurizio Gasparri: "Le proposte del governo segnalano una grande confusione. Dal Viminale Morcone ci fa sapere che vorrebbe assumere tutti i clandestini in Italia invece di dare occupazione ai nostri connazionali. Più che il ministero dell’Interno, con Morcone, sembra il ministero dell’Africa". Ci pensa monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes, a spazzare via i luoghi comuni. "Finiamola con il discorso del migrante che porta via il posto all’italiano. Sappiamo benissimo che ci sono lavori che nessun italiano svolge più. L’anno scorso per trovare dei panettieri si è dovuti andare fino in Kosovo. La verità è che i migranti sono risorse aggiuntive cui attingere per favorire lo sviluppo: lo hanno detto di recente anche gli industriali". La vera novità della proposta Morcone, secondo Perego, è però un’altra. "Il prefetto ha aperto all’ipotesi di concedere il permesso umanitario a chi si impegna nel volontariato o in lavori utili. Questa è la via giusta, perché rimedierebbe al problema del diniego alla richiesta di asilo: oggi il 60% delle domande viene respinto, e questo vanifica tutti gli sforzi fatti per favorire l’integrazione. Significa buttare via quasi due anni di investimenti economici, sociali e culturali. Chi si sente dire no finisce in clandestinità e rischia di finire vittima di sfruttamento e lavoro nero. Invece le commissioni dovrebbero tener conto dell’impegno dimostrato dal migrante e adottare una logica premiale". Bisognerebbe anche sfruttare al meglio "gli strumenti che già ci sono: pochi ad esempio sanno che in base a una direttiva europea recepita a febbraio un richiedente asilo può firmare un contratto dopo due mesi". A dire il vero, anche l’idea del volontariato non è nuova. Già nel 2014 Alfano firmò una circolare che prevedeva questa possibilità. Ma in molti hanno fatto orecchie da mercante. "Credo proprio che Morcone abbia voluto rinfrescare la memoria a tutti quei sindaci, e sono tanti, che non hanno fatto nulla per impegnare i richiedenti asilo - sottolinea Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana -. Lasciarli lì a tirar sera non ha senso e genera in loro un senso di pretesa verso i servizi che gli offriamo. È diseducativo nei loro confronti, considerato che molti sono giovanissimi. L’accoglienza è un gesto gratuito, ma è bene che chi ne beneficia dia un contributo. Ciò permetterebbe anche di ridurre almeno in parte i costi della stessa accoglienza: penso ad esempio a un migrante che aiuta a fare le pulizie della struttura dove è ospitato". Facile prevedere anche ricadute positive sull’opinione pubblica. "Se un migrante si impegna non è più percepito come mantenuto - aggiunge monsignor Perego -, la gente è più disposta ad ascoltare la sua storia e i suoi problemi. Dirò di più: darei la possibilità ai richiedenti asilo di svolgere anche il servizio civile". Va bene tutto, purché non si resti con le mani in mano. "L’importante è non lasciarli nell’ozio - chiosa Hein - perché nuoce alla loro salute non solo psichica, ma anche fisica. Impegnarsi in un’attività, inoltre, permette di uscire dal centro d’accoglienza e conoscere meglio il territorio. Meglio ancora se c’è la possibilità di lavorare insieme agli italiani. A una condizione, però: che non ci siano imposizioni e che le regole di impiego siano chiare e uguali per tutti". Migranti. Con l’impiego dei rifugiati benefici anche per il Pil di Giorgio Barba Navaretti Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Ha ragione il prefetto Mario Morcone a proporre che i rifugiati inizino a lavorare nelle città. Un’integrazione rapida nel mercato del lavoro ha effetti benefici sia per la comunità di immigrati che per chi li accoglie: aumenta il reddito prodotto, riduce gli oneri fiscali e il rischio di criminalità. Potrebbe apparire insensato per paesi come il nostro, visto che gran parte dei rifugiati sono o vorrebbero essere in transito verso altre destinazioni. Che senso avrebbe, ad esempio, far lavorare i rifugiati di Ventimiglia che tentano di raggiungere a nuoto gli scogli francesi? Eppure proprio per paesi come il nostro e proprio perché i rifugiati vorrebbero andarsene avrebbe senso adottare politiche attive di rapido inserimento nel mercato del lavoro. Per capirlo bisogna rovesciare la prospettiva e riflettere sul fatto che gli immigrati sono in molti casi una risorsa. Certamente per chi richiede asilo prevalgono considerazioni umanitarie e la necessità di mettere in atto reti di protezione per i più deboli. Ma molti di loro hanno energie e competenze per lavorare. Energie di cui un paese come l’Italia, con un profilo demografico in rapido invecchiamento ed un’economia al rallentatore avrebbe davvero bisogno. Il fatto che gli immigrati percepiscano l’Italia unicamente come una piattaforma di transito riflette una questione più ampia. I flussi di lavoratori sono un naturale processo di aggiustamento macroeconomico in un’area monetaria come quella dell’euro. Questi si spostano verso le aree più ricche e a maggior crescita. Soprattutto i lavoratori altamente qualificati. Se l’Italia e la Spagna erano le destinazioni preferite degli immigrati prima dello scoppio della grande crisi economica, questo ruolo in Europa ora ce l’ha la Germania. Paradossalmente nell’Europa a 28 gli italiani rappresentano il terzo contingente per numerosità tra gli emigrati intraeuropei dopo ungheresi e polacchi. Dunque, come è ben noto, non solo gli stranieri ma anche gli italiani vanno a lavorare oltre confine. Che senso avrebbe, penserà qualcuno, sostituire gli italiani che se ne vanno all’estero, giovani e altamente qualificati, con i rifugiati, certo meno compatibili con il mercato del lavoro nazionale? E per di più con una disoccupazione oltre al 10%? Ha senso perché i tre gruppi di lavoratori (giovani italiani emigrati, disoccupati italiani, rifugiati) spesso non sono in concorrenza tra loro. Il paese ha bisogno di politiche attive che in senso lato aumentino il tasso di occupazione della popolazione presente sul territorio nazionale. Così come l’Italia beneficerebbe enormemente da interventi che favoriscano la permanenza dei nostri cervelli in Italia e l’arrivo di più e nuovi cervelli dall’estero; così come sta beneficiando di riforme del mercato del lavoro come il Jobs act, che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lungo termine; allo stesso modo beneficerebbe di interventi che accelerino l’inserimento dei rifugiati, che sarebbero a quel punto anche meno incentivati ad andarsene altrove. Un bel rapporto recente del Fondo monetario internazionale sugli effetti economici del boom di rifugiati in Europa (https://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2016/sdn1602.pdf), stima che in presenza di politiche attive l’impatto positivo dei rifugiati sul livello del Pil nell’Europa nel suo complesso entro il 2020 sarà di un quarto di punto circa. L’effetto sarà soprattutto forte nei principali paesi di destinazione, Germania, Austria e Svezia (fino a 1,1% sul livello del Pil). Ma sarà notevolmente inferiore senza un rapido inserimento sul mercato del lavoro. Ecco allora due buoni motivi per attivarsi per far lavorare i rifugiati: intercettarne i flussi che invece andrebbero altrove; rafforzare l’impatto positivo del loro lavoro sul Pil italiano. Insomma, l’Italia deve continuare ad essere un paese di immigrazione ed evitare in ogni modo di tornare ad essere terra di emigrazione. Con buona pace di coloro che predicano strategicamente l’ottusità anti-migratoria e un populismo di pancia nefasto al paese. Migranti. Profughi ai lavori socialmente utili. Freddi i sindaci: meglio il volontariato Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2016 Tante perplessità, qualche dissenso, molti distinguo. Non entusiasma i sindaci la proposta del capo dipartimento immigrazione del Viminale, Mario Morcone, di far lavorare i profughi con una retribuzione ridotta. Meglio il volontariato, la formazione, il sostegno all’inserimento lavorativo, come avviene ora. Scontato il "no" dei primi cittadini di centrodestra, che alzano il tiro sull’intero fronte: ieri è scoppiato il caso Bondeno (Ferrara), dove il sindaco leghista Fabio Bergamini ha fatto cancellare dall’albo pretorio del comune gli avvisi per organizzare l’accoglienza. Pordenone e Vicenza levano gli scudi invocando "massima severità". Il presidente Anci Piero Fassino cerca di placare gli animi sollecitando un Piano nazionale profughi "che vada oltre l’emergenza e sia incardinato sul ruolo centrale dei comuni", riconoscendo centralità a Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati costituito dalla rete degli enti locali che con progetti di integrazione accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. È atteso a giorni in Gazzetta Ufficiale il Dpcm che semplifica l’adesione alla rete con liste sempre aperte, senza bisogno di indire bandi. Ma Fassino chiede al governo anche la convocazione del tavolo immigrazione che dovrà decidere le ulteriori misure, a partire dagli incentivi ai comuni virtuosi. Sulla questione lavoro, il responsabile welfare e immigrazione di Anci, Luca Pacini, difende il modello Sprar: "Da 15 anni i comuni coinvolti sono impegnati in progetti per garantire ai rifugiati l’apprendimento dell’italiano, il volontariato nelle associazioni, la formazione e l’inserimento lavorativo". "Con regole e modalità che valgono per tutti, nell’ambito del diritto". L’unico atto adottato sin qui è la circolare 14290/2014 inviata dal ministero dell’Interno ai prefetti per coinvolgere i migranti nel volontariato. Il polverone che si sollevò quasi due anni fa ricalca quello odierno: i richiedenti asilo vanno pagati? Se no, si può configurare sfruttamento? "Un piano nazionale gestito dall’Inps potrebbe dare buoni risultati", suggerisce il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Il primo cittadino di Catania, Enzo Bianco, avverte: "La realizzazione potrebbe rivelarsi complessa". Mentre il suo collega dem di Bari, Antonio Decaro, si dice contrario al lavoro retribuito. Di fatto, la retribuzione è cosa rara. È successo ad Asti, nel 2015, grazie a un accordo tra la onlus Piam e l’Ente Parchi. Accade nella locride, modello Riace, ma con una moneta locale che viene convertita in euro dai negozianti. Nella stragrande maggioranza dei casi - da Torino a Napoli, da Bari a Pistoia, da Firenze a Bolzano - i migranti sono impiegati come volontari in servizi come il decoro urbano e la manutenzione del verde. Prevedere di più - corsie preferenziali a diritti attenuati - fa storcere il naso anche a sinistra. Migranti. "Pensiamo prima ai disoccupati italiani". Il centrodestra insorge di Francesca Musacchio Il Tempo, 19 agosto 2016 Dopo la proposta di Morcone di affidare ai profughi lavori socialmente utili. Coinvolgere i migranti nei lavori utili con un rimborso spese per pagare l’assistenza. Una sorta di piano per l’occupazione con l’obiettivo di responsabilizzarli e integrarli nel tentativo di ridurre anche i costi. È la proposta lanciata dal prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno, in un’intervista al Corriere della Sera, che ha scatenato la polemica. "Alcuni sindaci hanno già attivato progetti di volontariato che vedono i migranti protagonisti. È ora di fare un passo in avanti", ha detto Morcone che non si riferisce a tutti i migranti, ma solo a "quelli che sono legittimamente sul nostro suolo: i rifugiati o chi ha già presentato la richiesta di asilo". "Nessun obbligo", ha chiarito il prefetto sottolineando che si potrebbe "pensare a un meccanismo premiale". Tanto è bastato, però, per innescare la miccia. Tra i primi a scendere in campo è stato il leghista Roberto Calderoli che ha definito la proposta "folle e inaccettabile". In un Paese "dove la disoccupazione generale è oltre l’11% e quella giovanile si aggira sul 35% - ha detto - la priorità deve essere dare lavoro ai nostri disoccupati e ai nostri giovani e non a chi, nel 90% dei casi, è qui da irregolare e verrà espulso al termine dell’iter burocratico della sua domanda di protezione". Secondo il vice presidente del Senato, inoltre, "è ancora più folle e inaccettabile la proposta di voler premiare questi immigrati che si impegneranno nei lavori socialmente utili con una sorta di corsia preferenziale ad hoc estendendo loro lo strumento della protezione per fini umanitari, da riservare a soggetti deboli, come bambini, donne o malati: questo sarebbe il cavallo di Troia per far restare qui tutti i richiedenti asilo. Assurdo". Per Morcone, però, "questa emergenza si può trasformare in un’occasione di sviluppo". E riguardo ai lavori che potrebbero svolgere i profughi, "ci sono settori che hanno bisogno: l’agricoltura, le costruzioni, l’assistenza agli anziani", ha chiarito. Per il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, che ha parlato ai microfoni di Sky TG24, la proposta del prefetto "riguarderebbe il 30% dei migranti, tra rifugiati e protezione temporanea si arriva a queste percentuali. C’è un 70% di soggetti che invece deve essere immediatamente rimpatriato, perché non ha nessun titolo per rimanere nel nostro Paese". A volte, ha spiegato ancora Stucchi, "vengono arrestati degli scafisti, perché si dice portino clandestini, quindi sono trafficanti di uomini verso l’Europa. Se questi soggetti vengono arrestati perché trasportano clandestini, non trasportano profughi o rifugiati. Se trasportassero profughi o rifugiati al posto di arrestarli dovremmo dargli una medaglia". Sulla vicenda è sceso in campo anche il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che ha precisato: "Per noi la regola è prima gli italiani. Altra cosa è volontariato che permetta a profughi di darsi da fare. Bene lavoro volontario in convenzioni con comuni e associazioni di volontariato, mai attività che possa dire "prima i profughi poi gli italiani". Dura anche Giorgia Meloni, il presidente di Fratelli d’Italia, che ha lanciato un appello a tutti i sindaci italiani: "Fate sentire la vostra voce e ribellatevi a questa ennesima follia. Un governo non eletto da nessuno - ha detto - non ha alcun diritto di imporre a chi è stato eletto dai cittadini e risponde ai cittadini delle scelte che vanno contro il loro interesse. Farebbe bene Piero Fassino a dimostrare autonomia da Renzi nel suo ruolo di presidente dell’Anci e a indire una consultazione tra i sindaci per sapere cosa pensano della gestione dell’accoglienza e del trattamento che il Governo sta riservando loro. Scoprirebbe - ha concluso - che ci sono decine di casi Capalbio sparsi in tutta Italia". Monaco, Utoya, Columbine e i videogiochi: i perché di un legame complesso di Federico Cella Corriere della Sera, 19 agosto 2016 Ali David Sonboly, l’autore-suicida della strage di Monaco al McDonald’s, e i videogiochi. Come Anders Breivik, quasi esattamente cinque ani prima a Utoya in Norvegia, cultore di World of Warcraft e utilizzatore di Call of Duty per "allenarsi" al massacro. Andando ancora più indietro, si arriva a Columbine, il suicidio di Eric Harris e Dylan Klebold che nel 1999 portarono con sé 12 compagni di scuola e un insegnante. Allora ci fu una denuncia formale, al tribunale di Denver, da parte di alcune famiglie vittime del massacro, contro "i videogiochi super-violenti che rendono i bambini dipendenti dalla violenza e li trasformano in killer senz’anima", diceva nel 2001 John DeCamp, il legale che assisteva le famiglie contro i colossi del settore, dalla Warner a Sony Computer. Nella mancanza di studi che definiscono una correlazione tra certi comportamenti violenti - che sfociano in drammatici suicidi "spettacolari" o "allargati" - e i videogiochi, succede che diversi commentatori puntano il dito verso l’interazione in ambienti digitali dove l’uccisione è scopo del gioco, in articoli dove il videogioco diventa "palestra virtuale di violenza e assassinio" (Corriere della Sera) oppure "simulatore di scorribande, rapine e sparatorie in città" da cui prendere spunto (Il Messaggero). Gli articoli vanno poi oltre alle singole definizioni e dimostrano consapevolezza di un realtà ben più complessa di quella sintetizzata dai titoli. Ma qual è questa realtà dove si coltivano, e a volte realizzano, trappole social destinate alla vendetta-evento contro i propri coetanei e destinate alla fine da prima pagina di chi le mette in scena? Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, 51 anni, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro di Milano, autore del libro "Adolescenti navigati - Come sostenere la crescita dei nativi digitali" (Erickson, 2015). Questi avvenimenti originano dal fatto che si decide di suicidarsi, non è un’azione di guerra: il giovane si trova di fronte a realtà di sviluppo che non riesce ad affrontare. E dove c’è una cultura grazie a Dio diversa dalla nostra in Italia, una cultura delle armi, questo può sfociare in "suicidi indimenticabili", così come è successo a Columbine: si è deciso di morire e si vuole farlo nel modo in cui la nostra società massmediatica può permetterlo, cioè facendolo diventare un evento. Dirette social, video in tempo reale. E quindi processi imitativi difficili da fermare. Sono ragazzi che a un certo punto non intravedono un futuro. E la forte promozione dell’immagine crea situazioni a rischio: si pensa di poter dare un senso alla propria fine, una vendetta contro i soprusi subiti che non è però una guerra da cui si è deciso di uscire vincenti. La stampa non dovrebbe darne risalto, ma in casi come Monaco non può non parlarne. A questo punto non si può dare colpa ai media, così come non si può ridurre il tutto all’influenza dei videogiochi o della televisione. Tutti questi però possono diventare fattori precipitanti. In che senso? Qual è il ruolo che i videogiochi possono avere? È inutile negare che se qualcuno vuole allenarsi a una strage può farlo virtualmente. Anche Isis ha rivisto alcuni videogame in chiave di simulatori di attentati. Ma non possiamo dire che Isis fa attentati perché esistono i videogiochi. Il videogioco è uno spazio dove gli adolescenti sperimentano aree di sé, così come succedeva nelle strade e a i giardini sotto casa nelle generazioni precedenti. Ma ora il "fuori" è considerato pericoloso: una volta a 8-9 anni si tornava a scuola da soli, oggi non è più pensabile. C’è il traffico, ci sono gli stranieri, ci sono fattori considerati a rischio che portano i genitori a voler tenere i figli a casa, sotto controllo, e a chiudere gli spazi di socializzazione. È un cambiamento della società, una virtualizzazione dei rapporti, a cui abbiamo contribuito noi adulti: il telefonino viene regalato ai bambini alle Elementari per parlare con la famiglia. Dunque non si fanno più i giochi di guerra in strada, e la sperimentazione fisica diventa virtuale. Magari attraverso i cosiddetti "videogiochi violenti". La parità di genere non deve portare a non fare differenze di genere, tra maschi e femmine esistono problematiche differenti, e i corpi che cambiano lo fanno per funzioni diverse. I maschi giocavano di più con cerbottane e pistole Oklahoma, e ora certi tipi di videogiochi sono più utilizzati dai maschi. Ed è vero che sono diventati una palestra, un ambiente dove confrontarsi con i propri coetanei, è una necessità evolutiva che prima trovava il proprio sfogo in strada. Così aumentano i cosiddetti "ritirati sociali", fenomeno degli hikikomori in Giappone ora in grande espansione in Italia. Sono ragazzi che vanno in una sorta di auto-isolamento, volontario, si ritirano dalla scuola. E sono quelli che più utilizzano i videogiochi. Ora, non sappiamo se in assenza dei giochi elettronici, o meglio parliamo più in generale della Rete, questo fenomeno ci sarebbe stato e così in espansione. Il fenomeno è tra i più studiati del momento. Di certo possiamo dire che Internet non è la causa del ritiro ma invece è un ambiente che consente a questi ragazzi di mantenere processi di comunicazione, attraverso soprattutto i videogiochi multiplayer. Che non sono quindi strumenti di cattura ma che permettono di mantenere contatti con la realtà. Non si può però immaginare che il Web e i giochi di massa online non abbiano contribuito alla fuga. Andiamo con ordine. Le problematiche adolescenziali di oggi sono molto più sul proprio corpo che di natura edipica, cioè contro l’autorità paterna che non c’è più. E lo stesso ritiro sociale è sul proprio corpo, che viene segnato, anche dai disturbi alimentari. Che esistono solo in una società opulenta, dove domina la cultura dell’immagine, e Internet come tutto il resto ha contribuito a una società del narcisismo, anche se è una rete democratica ha contribuito alla competizione. La popolarità e il successo a scuola sono ricerche serrate che portano in alcuni soggetti al crollo dell’ideale infantile inoculato da un nuovo modello di famiglia. Che sostiene per esempio il successo dei figli fin da piccoli e lo misura nel numero di amici che si hanno. In termini tecnici si dice "precocizzazione dell’infanzia" e "infantilizzazione dell’adolescenza". E i social network sono una conseguenza, e così molti videogiochi: prodotti strutturati sulle nuove esigenze. È una società che gli adulti stanno costruendo, un mondo dove siamo collegati 24 ore al giorno. E non l’hanno scelto loro, i nativi digitali. Bisogna dunque lavorare su una nuova educazione, che costruisce per gli adolescenti strumenti per poter gestire questa vita. Non nuove forme di controllo ma ripensare le città per riconsegnare il corpo dei ragazzi agli spazi esterni. E allo stesso tempo un’industria ricca come quella dei videogiochi deve contribuire, pensando ai propri prodotti anche con finalità educative, come momenti creativi e non solo di fruizione. È un modo per lavorare sulla prevenzione e non tramite censura o controllo. Così torniamo da dove eravamo partiti: cosa fare con i "videogiochi violenti"? È impossibile scrivere sulla confezione di un videogioco che fa male alla salute, non esistono ricerche che ci dicono questo. Per arrivare a scriverlo sui pacchetti di sigarette o sugli alcolici ci sono voluti anni di studi certi. Non è questa la strada. Bisogna creare consapevolezza spingendo sulle parti creative dell’adolescenza, non sul suo controllo. Stati Uniti: il Dipartimento di Giustizia "abusi e razzismo diffuso nelle prigioni" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 agosto 2016 Un nuovo rapporto redatto dal ministero della giustizia americano ha stabilito che la polizia di Baltimora discrimina abitualmente gli afroamericani, presi costantemente di mira dagli agenti che ricorrono ad un uso eccessivo della forza nei loro confronti. Questo è il risultato dell’inchiesta aperta dopo la morte del nero Freddie Gray, scomparso ad aprile del 2015 mentre era sotto custodia della polizia, per le ferite riportate mentre veniva sbalzato da un lato all’altro dentro un cellulare della polizia. La sindaca di Baltimora, l’afroamericana Stephanie Rawlings Blake, ha confessato di aver sofferto e di aver provato vergogna nel leggere dei comportamenti inammissibili dei suoi agenti. Neri fermati con frequenza molto superiore ai cittadini delle altre etnie anche quando non ci sono sospetti, mancato rispetto dei diritti civili, trattamento brutale anche dei testimoni col risultato che molti di quelli che all’inizio si erano rivolti alla polizia per denunciare un reato, alla fine si tirano indietro. Tra i vari episodi riportati dal rapporto del ministero della giustizia c’è un caso come quello del professionista cinquantacinquenne, un nero incensurato, fermato più di 30 volte dalla polizia senza motivo. Quindi non solo violenze fisiche, ma anche persecuzioni psicologiche. Il dossier non parla di poche "mele marce", ma indica un problema sistemico. L’addestramento è carente e viene data carta bianca agli agenti di applicare la "tolleranza zero". Non è il primo dossier contro gli abusi della polizia. L’anno scorso il ministero della giustizia aveva accusato la polizia e i magistrati per la loro condotta ingiusta nei confronti degli afroamericani. Secondo il guardasigilli americano, la polizia è sistematicamente influenzata e condizionata da considerazioni a sfondo razziale. Si era riferito soprattutto alla condotta tenuta dalla polizia di Ferguson, la località del Missouri dove lo scorso agosto un agente bianco uccise a colpi di arma da fuoco il diciottenne di colore Michael Brown, malgrado fosse disarmato. Dall’esame di oltre 35mila pagine di documenti ufficiali della polizia è emerso che, stando sempre a fonti riservate del dicastero, a Ferguson il 93% degli arresti riguardano afro-americani, nonostante costituiscano soltanto il 67% della popolazione complessiva. Il rapporto aveva messo anche in evidenza una propensione generalizzata al razzismo da parte della polizia di Ferguson, con scherzi e barzellette sugli afroamericani rinvenuti nelle caselle mail di alcuni funzionari. Tra questi uno attacca il presidente Barack Obama, definendolo uno scimpanzé. Stati Uniti: crollano i titoli delle prigioni private, Obama le vuole chiudere di Luca Pagni La Repubblica, 19 agosto 2016 L’amministrazione Usa fa retromarcia sulle privatizzazioni dei carceri. Una commissione ha stabilito che sono meno sicure e meno efficienti. A Wall Street perdono fino al 50% le azioni delle società che si occupano del "business". L’amministrazione Obama ste per dare addio a una delle privatizzazioni più discusse della storia degli Stati Uniti: l’affidamento a società privare della gestione delle carceri. Una indiscrezioni riportata dal Washington Post che ha avuto come immediata conseguenza il crollo verticale a Wall Street di due società quotate che si occupano del Business penitenziario: sia "Correction Corp of America" che "Geo Group", sono state sospese più volte al ribasso e sono arrivare a perdere fino al 50% della loro capitalizzazione. Per i fanatici di della serie tv "Orange is a new black" il tema è assolutamente familiare. Il carcere femminile in cui si trova la protagonista Piper Chapman a un certo punto viene dato in gestione a un gruppo privato, il cui obiettivo è tagliare i costi. Esattamente come avevano previsti i più critici nei confronti della decisione di affidare ai privati la gestione delle prigioni. Del resto, l’amministrazione Usa lo aveva deciso proprio per tagliare il budget pubblico in presenza di una popolazione carceraria che è tra le più alte del mondo occidentale per numero di abitanti. Non a caso, il Washington Post riferisce che i funzionari del governo americano hanno concluso che i centri di detenzione non pubblici sono meno sicuri e meno efficaci di quelli gestiti dal governo. Il quotidiano riferisce di un memo firmato da Sally Yates, vice segretario alla giustizia, e inviato a tutti i dipendenti del ministero. Nel documento, a quanto riferisce l’articolo, si fa presente di non rinnovare i contratti con i gestori di prigioni private quando giungeranno a scadenza o di "ridurre notevolmente" la portata di quei contratti. L’obiettivo è "ridurre e alla fine terminare il nostro uso di carceri gestite privatamente". Siria: l’Onu blocca riunioni per gli aiuti. La Russia: "pronti a una tregua di 48 ore" di Federico Thoman Corriere della Sera, 19 agosto 2016 Per Amnesty International nelle prigioni di Assad in 5 anni sono morti 17.723 detenuti. E nel frattempo de Mistura annulla i meeting della task force per il soccorso ad Aleppo. L’inviato Onu ha invitato a compiere "un gesto di umanità" per permettere l’assistenza. L’inviato speciale dell’Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha interrotto a Ginevra dopo pochi minuti la riunione della task force per gli aiuti umanitaria visto il protrarsi dei combattimenti che nelle aree sotto assedio impedisce l’arrivo degli aiuti. "Tutto quello che sentiamo dalla Siria - ha affermato un de Mistura visibilmente irritato - è solo combattimenti, bombardamenti, offensive, controffensive, razzi, napalm, cloro, cecchini, barili bomba, attentatori suicidi. E in un mese non un singolo convoglio umanitario ha potuto raggiungere le aree assediate". Un cessate il fuoco di almeno 48 ore permetterebbe agli operatori di portare aiuti e assistenza alle circa 300 mila persone rimaste ad Aleppo, città sotto assedio in cui si combatte la battaglia forse decisiva tra le forze governative di Assad e quelle ribelli. Il primo Stato a rispondere all’appello delle Nazioni Unite è la Russia. Il generale Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, ha fatto sapere che Mosca è pronta a sostenere la proposta di una tregua di 48 ore su base settimanale ad Aleppo per consentire l’invio di aiuti umanitari nella città assediata. Si dovrebbe iniziare la prossima settimana. Intanto anche l’Ue, con l’Alto rappresentante Federica Mogherini, "condanna fortemente l’escalation della violenza ad Aleppo" e chiede "uno stop immediato ai combattimenti". L’inferno in terra delle prigioni siriane - Dieci morti al giorno. Trecento al mese. 17.723 in oltre cinque anni. Queste le vittime delle carceri siriane durante il regime di terrore di Bashar Assad al tempo della guerra civile in Siria. Oltre a bombe e ai proiettili, che nel conflitto più sanguinoso dei nostri tempi in cui ci sarebbero almeno 200 mila morti, in Siria si muore anche dentro a una cella. E se non si muore, si è di sicuro oggetto di indicibili torture. Stupri, pestaggi ed elettroshock inclusi. A finire in prigione ex membri dell’esercito ma soprattutto civili: medici, elettricisti, avvocati, contabili, infermieri, giornalisti. Chi è sospettato di essere in qualche modo legato o favorevole ai ribelli, finisce in cella alla mercé pressoché assoluta dei servizi segreti (militari e civili) del regime di Assad. A denunciarlo un rapporto di Amnesty International, l’organizzazione non governativa internazionale che lotta per il rispetto dei diritti umani nel mondo. Amnesty ha intervistato 65 persone sopravvissute alle prigioni di Assad: 54 uomini e 11 donne. Una di queste, al momento dell’arresto, aveva meno di 18 anni. Ognuno di loro ha raccontato di aver udito o avuto certezza della morte di un compagno o di una compagna. E di aver subito violenze e umiliazioni di diabolica crudeltà. Le "feste di benvenuto" a sprangate - Samer al-Ahmed è un avvocato. Nel febbraio 2012 è stato arrestato vicino a Hama: la sua colpa, secondo quanto ha raccontato ad Amnesty International, è stata quella di portare aiuti umanitari, soprattutto cibo per infanti, da un’area controllata dalle forze lealiste a una in mano ai ribelli. Samer ha descritto quelle che definisce le "botte di benvenuto" quando si arriva in carcere. Nel suo caso, ha parlato dell’arrivo nel centro detentivo gestito dai servizi dell’aeronautica militare al-Mezzeh vicino a Damasco: "Appena ti fanno scendere dal mezzo che ti ha portato lì e i tuoi piedi toccano terra, inizia la "festa di benvenuto". Ero in compagnia di 50 uomini, e ci hanno picchiato selvaggiamente nel cortile usando sbarre di plastica e spranghe in metallo, o anche cavi elettrici. Ci colpivano dappertutto, testa inclusa. E nel mentre di questa "festa di accoglienza" ci registravano e ci toglievano tutti i vestiti e gli effetti personali, facendoci marciare nudi all’interno dell’edificio. Non risparmiavano nessuno: ho visto picchiare un uomo anziano in modo anche più crudele rispetto agli altri".E una volta dentro, le cose non sono che peggiorate. Samer ha parlato di una piccola cella con una specie di porticina rettangolare alla base della porta in cui passava a malapena la testa di un essere umano. Le guardie carcerarie e gli agenti dei servizi governativi lo costringevano ad appoggiare la propria gola sul bordo di questa fessura. A quel punto, a turno, saltavano con tutto il peso del loro corpo sulla testa di Samer. Finché sangue e vomito non lo stavano quasi per soffocare. Quell’odore di tortura nelle prigioni siriane di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 agosto 2016 "Quando mi hanno portato a Saydnaya, ho sentito l’odore della tortura: un odore specifico, un misto di umidità, sangue e sudore. Lo riconosci: è l’odore della tortura". Saydnaya è il famigerato carcere militare alla periferia di Damasco, la capitale siriana. Quell’odore Salam, un avvocato di Aleppo, lo ha sentito per due anni. Un giorno, racconta Salam le guardie hanno picchiato a morte un istruttore di arti marziali dopo aver scoperto che allenava i compagni di cella: "Hanno picchiato a morte l’istruttore e altri cinque detenuti, poi hanno proseguito con gli altri 14. Nel giro di una settimana erano tutti morti. Vedevamo il sangue scorrere via dalla cella". Omar S. ha raccontato invece di una volta in cui una guardia ha obbligato due uomini a denudarsi e poi ha obbligato uno a stuprare l’altro, minacciandolo di morte se non l’avesse fatto. Queste e altre testimonianze, 65 in tutto, sono contenute in un agghiacciante rapporto diffuso oggi da Amnesty International sulla tortura e le condizioni inumane delle strutture detentive gestite dai vari servizi di sicurezza del governo siriano. I 65 sopravvissuti (54 uomini e 11 donne) intervistati individualmente da Amnesty International vivono tutti attualmente all’estero. Uno di loro ha realizzato una serie di disegni molto eloquenti che accompagnano il rapporto. Uno di questi raffigura la tecnica di tortura del bisat al-rih, il "tappeto volante": la vittima è legata faccia in su a una struttura pieghevole, la cui parte inferiore viene pressata su quella superiore. Il rapporto è corredato da una ricostruzione virtuale di Saydnaya, resa possibile dall’alleanza tra la memoria dei testimoni e la tecnologia tridimensionale e realizzata da Architettura forense. Ha collaborato anche il Gruppo di analisi sui dati relativi ai diritti umani (Hrdag), un’organizzazione che usa un approccio scientifico per analizzare le violazioni dei diritti umani. Le conclusioni: tra marzo 2011 e dicembre 2015 nelle prigioni siriane sarebbero morte 17.723 persone (in questo documento in bozza viene descritta la metodologia impiegata per arrivare al dato parziale di 15.000 vittime). Di padre in figlio, in Siria la tortura ha costituito da decenni a questa parte uno degli strumenti di potere e di terrore della famiglia Assad. Negli anni Ottanta, Amnesty International aveva diffuso un rapporto in cui erano descritti quasi 40 metodi di tortura. Ma negli scorsi decenni, i decessi in carcere registrati ogni anno erano più o meno 45, tre o quattro al mese. Dallo scoppio della crisi, ossia negli ultimi cinque anni, la media è di 300 al mese. Ma non solo di tortura si muore nelle carceri siriane. Gli ex detenuti hanno raccontato che l’accesso al cibo, all’acqua e ai servizi igienico-sanitari viene spesso limitato. La maggior parte di loro ha riferito di non aver mai potuto lavarsi adeguatamente. In questo ambiente, scabbia, pidocchi e altre infezioni proliferano. Poiché alla maggior parte dei detenuti vengono negate cure mediche adeguate, in molti casi i detenuti ricorrono a medicamenti rudimentali, ciò che ha contribuito al drammatico aumento dei decessi in carcere dal 2011. La maggior parte dei sopravvissuti alla tortura e alle condizioni detentive è stata annichilita, fisicamente e psicologicamente, dall’incubo attraverso cui è passata. Molti di loro sono fuggiti all’estero dopo il rilascio e fanno parte degli oltre 11 milioni di siriani costretti a lasciare le loro case, in cerca di un luogo in cui trovare una cura per il fisico e per la mente. Haiti: l’Onu e il colera, un mea culpa in ritardo per i liquami scaricati nel fiume di Michele Farina Corriere della Sera, 19 agosto 2016 Il rapporto interno con tutte le prove, 19 pagine che saranno presentate ufficialmente a settembre, è già arrivato sul tavolo del Segretario Generale Ban Ki-moon. Lo sanno tutti a Haiti: furono i Caschi Blu a portare il colera, dopo il terremoto nel 2010. Scaricando i loro liquami contaminati nel fiume Meille dove la gente andava a prendere l’acqua. Dopo diecimila morti e quasi sei anni di no, anche l’Onu deve (quasi) ammetterlo. Il rapporto interno con tutte le prove, 19 pagine che saranno presentate ufficialmente a settembre, è già arrivato sul tavolo del Segretario Generale Ban Ki-moon e nella posta di un giornalista del New York Times che ne ha diffuso il contenuto. L’autore del rapporto, Philip Alston, esperto consigliere Onu sui diritti umani, è durissimo con la politica adottata dall’organizzazione: "moralmente deplorevole, legalmente indifendibile", politicamente suicida. Aver negato l’evidenza e chiuso ogni dialogo con gli haitiani, ha minato la credibilità e ingigantito la questione legale. I familiari di 5mila vittime sono andati a chiedere giustizia (e 40 miliardi di danni) a New York, facendo causa a Ban e compagni presso una corte federale Usa (di cui si attende il responso). L’ufficio legale del Palazzo di Vetro ha sempre rifiutato ogni contatto, ogni prospettiva di accordo, trincerandosi dietro lo scudo dell’immunità. Naturalmente 40 miliardi di danni sono una richiesta impossibile (quattro volte il budget di tutte le operazioni di peacekeeping nel mondo). Ma l’Onu se l’è cercata, lascia intendere Alston. "Come si fa a esigere dagli Stati membri il rispetto dei diritti umani e il principio di responsabilità, quando poi si è i primi a infischiarsene?". Un portavoce di Ban, Farhan Haq, in una mail al New York Times ha ammesso che l’Onu ha avuto "un ruolo" nello scoppio iniziale dell’epidemia. Anche se non arriva a riconoscere per intero la "colpa". Ma la cosa più grave, scrive Alston, è il fallimento del piano anti-colera. Il tasso dei contagi e il numero delle vittime è in crescita dal 2014. I progetti Onu per acqua potabile e fognature a Haiti si sono arenati (pochi fondi). Ci sono almeno diecimila motivi (il numero delle vittime ufficiali) per portarli a termine.