Ergastolani a congresso con i Radicali, Orlando dice no ai trasferimenti L’Unità, 18 agosto 2016 Proposta avanzata da Bernardini e D’Elia. Il Dap: "Niente spostamenti". Nulla in contrario a organizzare il congresso di un partito, quello Radicale, in un carcere, ma un secco "no" all’ipotesi di trasferire per l’occasione oltre 40 detenuti, tra cui numerosi ergastolani, dall’istituto in cui sono rinchiusi a quello scelto per la convention: Rebibbia. Andrea Orlando, ministro della Giustizia, che pure condivide molte delle battaglie dei Radicali a favore dei carcerati e a Pasqua, poche settimane prima che morisse, si recò a trovare Marco Pannella a casa sua insieme a 4 detenuti proprio per dare un segnale, oggi manifesta "stupore" e si dice "nettamente contrario" a un’iniziativa di questo tipo, vista anche la tipologia di detenuti coinvolta. La richiesta in effetti è partita il 9 agosto e ora è nelle mani del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che comunque ha anticipato un no ai trasferimenti. Ad avanzare la proposta sono stati Rita Bernardini e Sergio D’Elia, presidente e segretario di "Nessuno tocchi Caino", associazione che tutela i diritti dei detenuti: "Negli incontri tenuti tra il 4 e il 5 agosto scorsi nelle Case di reclusione di Opera, Voghera e Parma, i sottoelencati detenuti hanno manifestato la loro disponibilità a partecipare, in quanto iscritti, al Congresso del partito radicale" previsto dall’1 al 3 settembre a Rebibbia. Segue l’elenco di 44 nomi, tra cui 34 AS1, "cioè 41 bis declassificati, ergastolani perché in genere di notevole calibro all’interno delle associazioni mafiose", spiega Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, che per primo ha denunciato il caso. Nella lista, tra gli altri, Giovarmi Alfano, condannato per concorso nell’omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa per errore a Napoli nel 1997 in una sparatoria in strada; Giuseppe Lucchese, già killer fedelissimo a Totò Riina; gli appartenenti alla Stidda condannati per l’omicidio di Rosario Livatino, il "giudice ragazzino", Salvatore Calafato, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro; e ancora membri della Sacra corona unita. "Sono certo - afferma Beneduci - che Bernardini e D’Elia sono in buona fede, ma il trasferimento di soggetti, alcuni dei quali non hanno mostrato segni di ravvedimento, sarebbe un precedente pericoloso. Non vorrei che dietro ci fosse anche il tentativo di annacquare il 41 bis. Dodici di quei detenuti, tra l’altro, hanno il divieto di incontrarsi tra di loro". Il Dap ha anticipato un no, anche se il capo Santi Consolo non ha formalizzato una decisione. Ergastolani al congresso dei Radicali nel carcere di Rebibbia, il "no" del ministro di Federica Angeli La Repubblica, 18 agosto 2016 "Mi spiace sia andata a finire così. Le persone in carcere che si erano iscritte al nostro congresso - il primo del Partito Radicale dopo la morte di Marco Pannella - non erano scelte a caso: sono impegnate da anni in un serio percorso su se stesse e di critica profonda rispetto al loro passato". Rita Bernardini, leader dei Radicali, è dispiaciuta. È finita in bufera l’iniziativa di trasferire oltre 40 detenuti, tra cui numerosi ergastolani, alcuni ex 41bis, raccontata due giorni fa sul Fatto Quotidiano, dall’istituto in cui sono rinchiusi a Rebibbia in occasione del convegno che voleva fare il punto sulla riorganizzazione del partito. Nulla in contrario a organizzarlo in un carcere, l’evento infatti si farà dal l’ al 3 settembre, ma un secco "no" all’ipotesi del trasferimento di quei carcerati, detenuti in alta sicurezza, che si erano iscritti. Il primo no è arrivato dal guardasigilli Andrea Orlando che si è detto "nettamente contrario all’iniziativa, vista anche la tipologia di detenuti coinvolta". La richiesta era partita il 9 agosto e dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si aspettava il via libera Che ieri sera ha così chiuso le po lemiche: "Non ci sarà nessun trasferimento". Ad avanzare l’istanza erano stati Rita Bernardini e Sergio D’Ella, presidente e segretario di "Nessuno tocchi Caino". Tra i 44 nomi, tra cui 34 AS1, ovvero "ex 41 bis declassificati, ergastolani di notevole calibro all’interno delle associazioni mafiose", spiega Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, che per primo ha denunciato il caso, c’erano ad esempio Giovanni Alfano, condannato per concorso nell’omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa per errore a Napoli nel 1997 in una sparatoria in strada; Giuseppe Lucchese, già killer fedelissimo a Totò Riina; gli appartenenti alla Stidda condannati per l’omicidio di Rosario Livatino, il giudice ragazzino. "Sono certo - afferma Beneduci - che Bernardini e D’Elia sono in buona fede, ma il trasferimento di soggetti, alcuni dei quali non hanno mostrato segni di ravvedimento, sarebbe un precedente pericoloso". I 44 reclusi si trovano ora a Parma, Voghera e, la quota maggiore, 27, ad Opera. "Paradossalmente - osserva Orlando - si sarebbe potuto fare il congresso li piuttosto che chiedere un trasferimento". La decisione del capo del Dap, Santi Consolo, ha messo la parola fine alla vicenda. Non senza lo sdegno della presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: "Un solo spostamento serve a Calabrò: il ritorno al 41 bis". Ergastolani al congresso dei Radicali? in rivolta la Polizia penitenziaria di Gianluca Corrente Il Secolo d’Italia, 18 agosto 2016 La Polizia penitenziaria si oppone fermamente all’ipotesi di trasferire a Rebibbia alcuni ergastolani per il congresso dei Radicali che si terrà dal primo al 3 settembre. "Sono assolutamente contrario a un’iniziativa di questo tipo, la ritengo pericolosa, anche perché coinvolge soggetti che in gran parte non si sono ravveduti, non hanno dato segni di pentimento. E non vorrei che dietro ci fosse anche il tentativo di annacquare il 41 bis". Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, non ha dubbi, è un’idea da scartare. Era stata proprio l’Osapp a lanciare il sasso, qualche giorno fa, denunciando in un comunicato la possibilità del trasferimento di 44 detenuti ergastolani legata a una richiesta avanzata dai Radicali al Dap. E ora questa possibilità sta facendo discutere. Al congresso dei Radicali - riportava l’Osapp, uno dei sindacati della polizia penitenziaria - sono previsti i saluti del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del Direttore del Dap Santi Consolo e del direttore di Rebibbia Mauro Mariani. "Nulla di male, anzi tutto bene, tenuto conto di quanto l’universo radicale in generale e Marco Pannella in particolare sono stati per decenni e tuttora siano protagonisti e partecipi delle trasformazioni in termini di civiltà, progresso e legalità delle carceri italiane", sottolinea Beneduci. Il problema è legato alla scelta dei 44 detenuti, 34 dei quali - riferisce l’Osapp - sono AS1, cioè "41bis declassificati perché in genere di notevole calibro all’interno delle associazioni criminali di stampo mafioso. E 12 - sottolinea Beneduci - hanno divieto di incontrarsi fra di loro". L’idea sarebbe di trasferirli per qualche giorno a Rebibbia "dove peraltro non c’è posto", sottolinea Beneduci. Dei 44 detenuti, 34 sono ergastolani e tra questi ci sarebbero, Giovanni Alfano, condannato per concorso nell’omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa per errore a Napoli nel 1997 in una sparatoria; Giuseppe Lucchese, già uomo di Totò Riina; gli appartenenti alla Stidda condannati per l’omicidio del giudice Livatino, Salvatore Calafato, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro (quest’ultimo nel giugno scorso ha chiesto perdono), e ancora appartenenti alla Sacra corona unita. I detenuti si trovano ristretti nel carcere milanese di Opera, a Parma e a Voghera. "Trasferirli - sottolinea Beneduci - comporterebbe anche un problema di costi, oltre che di sicurezza. La stessa partecipazione si può assicurare via Skype o via intranet". Nulla in contrario a organizzare il congresso di un partito, quello Radicale, in un carcere, ma un secco "no" all’ipotesi di trasferire per l’occasione oltre 40 detenuti, tra cui numerosi ergastolani, dall’istituto in cui sono rinchiusi a quello scelto per la convention: Rebibbia. Andrea Orlando, ministro della Giustizia, che pure condivide molte delle battaglie dei Radicali a favore dei carcerati e a Pasqua, poche settimane prima che morisse, si recò a trovare Marco Pannella a casa sua insieme a 4 detenuti proprio per dare un segnale, manifesta "stupore" e si dice "nettamente contrario". La carriera serena del Pm, paghe alte e scatti automatici di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 agosto 2016 Dopo le polemiche sugli incarichi, ecco quanto guadagnano per le toghe: fino 7.500 euro netti. "Non faccio beneficenza, sono un giudice, ho diritto a quei soldi. Chi critica il mio stipendio conduce una battaglia contro tutta la magistratura e dovrà vedersela con l’Anm". Queste dichiarazioni di fuoco, rilasciate da Carla Romana Raineri, neo capo di gabinetto del sindaco di Roma, a proposito del suo compenso da 193mila euro l’anno, suscitano fra i comuni mortali la curiosità di conoscere quanto guadagnano effettivamente i magistrati italiani. Diciamo subito che lo stipendio di un giovane magistrato vincitore di concorso, quello che un tempo si chiamava uditore e adesso invece magistrato ordinario in tirocinio, è di circa 2.400 euro netti al mese. Per tredici mensilità. Gli aumenti sono ogni quattro anni, coincidenti con la valutazione di professionalità. Cioè il momento valutativo sull’operato del magistrato compiuto dal Csm. Dopo i primi quattro anni si raggiungono circa 3.600 euro. All’ultima valutazione di professionalità, la settima, quindi dopo 28 anni dalla nomina, si arriva a 6.900 euro netti. Il massimo si raggiunge dopo i 35 anni, con 7.500 euro. Discorso a parte per il primo presidente della Cassazione che ha un emolumento a sé. Cifre importanti, che dovrebbero garantire l’indipendenza del giudice dai condizionamenti esterni. Insomma, non farsi corrompere. Fra i dirigenti pubblici i magistrati sono, dunque, quelli con la busta paga più alta. Più dei prefetti o dei professori universitari, tanto per fare qualche esempio. Il problema, però, non è tanto l’importo in sé dell’emolumento delle toghe, che per i motivi sopra esposti è anche giustificato, ma il criterio con cui questo stipendio viene erogato. Come si è visto, il passaggio da una classe economica a un’altra avviene in maniera automatica. In forza del solo trascorrere del tempo. Le valutazioni di professionalità, infatti, sono positive per il 99,6 per cento delle toghe. Praticamente tutte. Lo stipendio del magistrato rappresenta dunque un importo fisso e invariabile. Non essendo legato in alcun modo alla quantità e qualità delle funzioni svolte o al tempo impiegato a svolgerle. Non contempla neppure lo straordinario, non avendo il magistrato vincoli di orario. Considerando, poi, che i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni, lo stipendio di un giudice del dibattimento è identico a quello del pm, sempre a parità di anzianità e valutazione di professionalità. Ma c’è di più. Lo stipendio, per citare un magistrato conosciuto, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è uguale a quello di un suo sostituto con la sua stessa anzianità di servizio e la medesima valutazione di professionalità. Quindi il dirigente dell’ufficio non ha, come gli altri dirigenti della pubblica amministrazione, un riconoscimento per la particolare funzione svolta. E non ha neppure delle indennità legate al raggiungimento di determinati risultati, ad esempio se ha diminuito l’arretrato o ha pianificato una best practice che permetta un miglior funzionamento dell’ufficio. Trattandosi di un argomento assai delicato, ovviamente, nessuno ha pensato di mettere all’ordine del giorno una riforma di questo meccanismo retributivo. Che andava però bene il secolo scorso. Nell’attuale società, in cui con la riforma Madia del pubblico impiego è previsto anche il licenziamento per i dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, una riflessione sul punto sarebbe opportuna. Anche per valorizzare concretamente chi merita. Può essere comunque utile un raffronto con i medici ospedalieri e la loro retribuzione. Che, per un camice bianco appena assunto, è di circa 2.200, di poco inferiore dunque a quella di un giudice fresco vincitore di concorso. Ma ai 3.600 euro spettanti a un magistrato già dopo i primi 4 anni, un medico Asl ci arriva a stento a metà carriera. E un primario non supererà mai i 4.200 euro netti al mese, neppure col massimo dell’anzianità. Si ferma dunque poco oltre la metà di una toga arrivata al top della retribuzione. Entrambi dipendenti pubblici, entrambi con enormi responsabilità, entrambi con una professionalità molto alta (forse quella di alcuni medici è la più alta professionalità tra tutte le possibili professionalità), ma con regimi stipendiali che sembrano appartenere a due Stati diversi. Forse dipende anche dal fatto che è diverso, molto diverso, il potere che possiedono. Il diritto di cronaca e l’accesso alle fonti: a proposito di una sentenza del Consiglio di Stato di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 agosto 2016 "Non si ravvisa nell’articolo 21 della Costituzione il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che di volta in volta, e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso". Giù la saracinesca. Chi nel giornalismo da tempo propugna l’omeopatia di un sempre maggiore diritto di accesso alle fonti (comprese quelle giudiziarie) come antidoto ai guasti del mercato nero delle notizie in mano altrimenti a chi possieda il potere di aprirne o chiuderne il rubinetto, deve incassare il no che arriva da una interessante pronuncia del Consiglio di Stato. A detta del quale "occorre evitare ogni generalizzazione sul rapporto tra diritto d’accesso" agli atti e "libertà di informare". Perché "il diritto di accesso" non sarebbe "il presupposto necessario della libertà d’informare", ma sarebbe vero "l’esatto opposto: é il riconoscimento giuridico della libertà di informare che, in base alla concreta regolazione del diritto di accesso, diviene il presupposto di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi". L’occasione della fresca sentenza di Ferragosto della quarta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato (presidente l’ex ministro della Funzione pubblica nel governo Monti, Filippo Patroni Griffi, estensore Silvestro Maria Russo), è il no al giornalista di Wired, Guido Romeo, che nel marzo 2015 dal ministero del Tesoro nemmeno aveva ricevuto lo straccio di una risposta alla sua richiesta (in base alla legge 241 del 1990) di visionare 13 contratti di prodotti finanziari derivati tra lo Stato e alcune banche internazionali. Il Consiglio di Stato bacchetta in premessa il Tar del Lazio che, prendendo per buona la difesa del silente Tesoro che paventava danni per il bilancio statale dalla eventuale conoscenza dei contratti, in primo grado aveva addirittura condannato il giornalista a pagare le spese di giudizio instaurato con gli avvocati Ernesto Belisario e Guido Scorza: questo del Tesoro, osserva invece il Consiglio di Stato, è "nulla più che un argomento difensionale" che non può però diventare "inammissibile sostituzione d’un concreto provvedimento di diniego mai emanato". Nel merito, però, il Consiglio di Stato conferma il no del Tar del Lazio, argomentando che non esiste "un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri", ma "un insieme di diversificati sistemi di garanzia per la trasparenza", non attivabili "dalla mera curiosità del dato" ma sottoposti "alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente". Il quale deve cioè "dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti". Interesse come l’essere parte di un procedimento amministrativo, o il doversi difendere in un giudizio. Il diritto di cronaca, invece, in sé non basta: esso "è presupposto fattuale del diritto ad esser informati, ma non è di per sé solo la posizione che legittima chi chiede l’accesso". E allora come la si mette con gli orientamenti europei che, come la direttiva n. 2003/98/CE, aprono invece a "una compiuta evoluzione verso una società dell’informazione e della conoscenza" ? "Enfasi manifestata", la ridimensiona il Consiglio di Stato, "al di là della quale" la direttiva "comunque non esclude, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante". Patrocinio gratuito, reddito calcolato al netto delle deduzioni di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 17 agosto 2016, n. 34935. Il limite del reddito per accedere al patrocinio a spese dello Stato deve intendersi al netto degli oneri deducibili ma non degli oneri detraibili. A precisarlo è la Corte di cassazione, sezione 5 penale, con la sentenza 34935/16 depositata ieri. La Procura della Repubblica ricorreva contro l’assoluzione dal reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico in relazione all’autocertificazione prodotta da un contribuente per accedere al gratuito patrocinio. Il Tribunale, in estrema sintesi, aveva assolto l’imputato ritenendo che il reddito da considerare ai fini dell’agevolazione dovesse essere decurtato dagli oneri deducibili. Di contrario avviso invece la pubblica accusa, secondo cui, citando anche alcune sentenze di legittimità, il reddito in questione era quello calcolato senza gli oneri deducibili. Nella specie la deduzione o meno di tali oneri non era secondaria in quanto veniva superata la soglia di ammissione al beneficio e quindi poteva configurarsi il reato contestato. La Corte di cassazione, dopo aver dato atto dell’esistenza di pronunce anche contrastanti in merito al calcolo o meno degli oneri deducibili ai fini della quantificazione del reddito da autocertificare ai fini dell’accesso al gratuito patrocinio, ha ritenuto più aderente alla lettera della norma l’interpretazione secondo la quale gli oneri deducibili debbano essere considerati a differenza delle detrazioni di imposta. Secondo la sentenza, infatti, le detrazioni di imposta abbattono l’imposta dovuta ma non concorrono alla determinazione del reddito imponibile. Per le deduzioni, invece, occorre tenerne conto perché la norma fa riferimento al reddito imponibile e tale nozione tecnicamente riguarda l’importo del reddito conseguito sottratte le deduzioni. Sul punto la Cassazione segnala che anche l’agenzia delle Entrate, con la risoluzione 15/E del 2008 ha chiarito che in base alle norme tributarie il reddito da computarsi ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è il reddito complessivo al netto degli oneri deducibili. A nulla rileva, secondo i giudici di legittimità, che la normativa non fa solo riferimento al reddito imponibile ai fini dell’imposta personale risultante dall’ultima dichiarazione, ma anche ai redditi che per legge sono esenti dall’Irpef, i quali sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta ovvero ad imposta sostitutiva. Secondo il Collegio gli oneri deducibili individuano la parte dei reddito di cui per ragioni di politica legislativa non si deve tener contro per determinare il livello di contribuzione del singolo alle spese della collettività. Ne consegue l’esclusione anche dalla nozione di reddito imponibile prevista per l’ammissione al gratuito patrocinio. Da qui il rigetto del ricorso della pubblica accusa. La notizia errata non è sempre diffamazione di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Tribunale di Taranto, sentenza 2 maggio 2016, n. 1433. È legittimo l’esercizio del diritto di cronaca solo se il giornalista riporta notizie vere, continenti e di interesse pubblico, senza ricorrere a termini denigratori o comunque non improntati a serena obiettività. Ciò vale anche per la cronaca giudiziaria, come precisa il Tribunale di Taranto, con la sentenza n. 1433 del 2 maggio scorso. A citare in giudizio il direttore responsabile di una rivista, è una società pugliese. Secondo la Srl, operante nella creazione e gestione di residenze per anziani, il titolo apparso on line e sul cartaceo della testata, aveva diffamato l’azienda: si parlava dell’arresto del direttore della struttura, finito ai domiciliari con l’accusa di aver commissionato un’aggressione a due ex soci, probabilmente - scriveva l’articolista - per "interessi legati al controllo del lucroso business delle residenze sanitarie per anziani". L’indagato, però, almeno formalmente, non rivestiva alcun ruolo direttivo o gestionale nella casa di riposo. La rettifica della notizia non era stata sufficiente a salvare la società da un grave danno all’immagine, onore e reputazione. Di qui, la richiesta risarcitoria per pubblicazione di articolo diffamatorio (articoli 2043 e 2059 del Codice civile) con domanda di riparazione pecuniaria nei confronti di direttore ed editore, che però si giustificano: la notizia dell’arresto era stata appresa da un’ordinanza di custodia cautelare e il presunto direttore della srl, nel sottoscrivere un contratto di pubblicizzazione della struttura, si era auto qualificato come tale. Elementi, che avevano convinto il giornale "della veridicità e legittimità della notizia senza colpa o malafede, provenendo la stessa da riscontro personale e da provvedimento giudiziario". Il Tribunale concorda e boccia la domanda di risarcimento danno. Da un’attenta disamina dell’articolo, dei fatti e dei carteggi, il pezzo non poteva definirsi diffamatorio. È legittimo l’esercizio del diritto di cronaca - ricorda il giudice - ove siano rispettate: la verità della notizia (oggettiva o solo putativa, purché frutto di serie ricerche); la continenza, cioè il rispetto dei requisiti minimi di forma che debbono caratterizzare la cronaca (quindi assenza di termini insultanti, dovendo lo scritto rispondere a serena obiettività); la sussistenza di un interesse pubblico all’informazione. Nel caso concreto, quanto alla verità del fatto, era chiaro che con l’attribuzione delle qualifiche di "direttore" o "responsabile" del ricovero l’articolista avesse richiamato non il profilo giuridico-formale ma l’aspetto "sostanziale della titolarità economica o di gestione di fatto" della struttura". Del resto, le accuse che ne motivavano l’arresto si basavano sul ruolo di promotore della realizzazione della residenza. Perciò, seppur il giornalista fosse incorso in inesattezza, si sarebbe configurata la scriminante dell’esercizio putativo del diritto di cronaca per errore scusabile. Anche sulla continenza nessuna violazione: l’esposizione non era "gratuitamente insultante ed arbitraria". ma ricollegabile ai fatti. Articolo non diffamatorio, dunque, siccome frutto di diritto di cronaca giudiziaria legittimamente esercitato. Rigettata, così, la domanda risarcitoria nei confronti di direttore ed editore. L’interdittiva antimafia va motivata in modo preciso di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Consiglio di Giustizia amministrativa, sentenza 3 agosto 2016, n. 257. Le interdittive antimafia negli appalti pubblici devono essere motivate da analisi specifiche sulle situazioni concrete, anche se non sono sanzioni amministrative. Non ci può quindi essere spazio per valutazioni generiche come quelle di tipo "lombrosiano" e quelle basate su vecchie nozioni di famiglia e di frequentazioni. Lo sottolinea la sentenza 3 agosto 2016 n.257 del Consiglio di giustizia amministrativa. Un’interdittiva prefettizia espelle le imprese dal circuito degli appalti in caso di pericolo o di tentativo di infiltrazione mafiosa. Presuppone la valutazione della pericolosità sociale di un individuo, che non può essere desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale o dal suo bagaglio culturale; né dalla mera appartenenza ad un determinato contesto sociale o ad una determinata famiglia. Perché si abbia un pericolo o un tentativo di infiltrazione, occorre invece che un soggetto abbia condanne o pendenze giudiziarie in atto, relative ai "reati-spia" (quali contraffazione, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, turbata libertà degli incanti, truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche) o comunque abbia scelto una condotta di vita contigua a un mafioso. Inoltre, occorrono atti idonei, diretti in modo non equivoco, a conseguire lo scopo di condizionare le decisioni dell’impresa che subisce l’infiltrazione. Non esiste un elenco tassativo delle situazioni di pericolo di infiltrazioni, perché i prefetti possono fondarsi (articolo 10, Dpr 252/1998, articoli 84, 91 e 93 del Codice antimafia 159/2011) su accertamenti su persone (legate all’impresa) condannate per reati strumentali all’attività criminale o su chiunque possa determinare in qualsiasi modo scelte o indirizzi dell’impresa. Nel caso della sentenza in esame, l’interdittiva era basata su frequentazioni di amministratori con soggetti con precedenti penali, ma per reati non specifici della normativa antimafia. E gli incontri erano comunque spiegabili con l’appartenenza alla stessa associazione di categoria, nella ricoprivano anche cariche direttive. Di qui l’annullamento dell’interdittiva, perché essa può sì basarsi su considerazioni induttive o deduttive diverse da quelle che il Codice antimafia individua come "indici presuntivi", ma senza estendere la categoria dei presunti mafiosi (e delle presunzioni destinate ad accompagnarli). Se così non fosse, se ne dovrebbe inferire che chiunque si trovi a negoziare con un imprenditore presunto mafioso dovrebbe (o potrebbe) per ciò stesso - e senza alcun’altra ragione - essere considerato mafioso o presunto tale e trascinato in una "spirale" che può togliergli il diritto di esercitare un’impresa o una professione. Il prefetto non può basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive (pur se probabilmente esatte) non assistite da alcuna evidenza indiziaria; né può derogare a princìpi in tema di obiettiva rilevanza della condotta. Non basta affermare che un soggetto è stato notato accompagnarsi con un malavitoso: occorre precisare la ragione tecnica per la quale quest’ultimo va considerato tale, le circostanze di tempo e luogo in cui è stato identificato e le ragioni logico-giuridiche per le quale si ritiene che sia non un incontro occasionale o sporadico, ma una frequentazione periodica, duratura e costante, volta ad incidere sulle decisioni imprenditoriali. Omicidio stradale: condotta contraria a precetti generali di diligenza e prudenza Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Reato - Omicidio colposo da incidente stradale - Verifica della sussistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l’evento dannoso - Accertata violazione di norme cautelari - Presunzione di sussistenza del rapporto di causalità - Esclusione. In tema di omicidio colposo da incidente stradale, la violazione, da parte di uno dei conducenti dei veicoli coinvolti, di una specifica norma di legge dettata per la disciplina della circolazione stradale non può di per sé far presumere l’esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l’evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 22 aprile 2016 n. 17000. Reato - Responsabilità da sinistri stradali - Rapporto di causalità -Accertata sussistenza della condotta antigiuridica di uno degli utenti della strada - Presunzione dell’esistenza di un nesso causale - Esclusione. In materia di incidenti da circolazione stradale, l’accertata sussistenza di una condotta antigiuridica di uno degli utenti della strada con violazione di specifiche norme di legge o di precetti generali di comune prudenza non può di per sé far presumere l’esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l’evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta o è stato, comunque, determinato esclusivamente da una causa diversa. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 26 giugno 2007 n. 24898. Reato - Responsabilità da sinistri stradali - Rapporto di causalità - Accertata sussistenza della condotta antigiuridica di uno degli utenti della strada - Presunzione dell’esistenza di un nesso causale - Esclusione - Prova necessaria. In tema di incidenti stradali, l’accertata sussistenza di una condotta, contraria ai precetti generali di diligenza e prudenza o a norme specifiche del codice della strada, di uno dei soggetti coinvolti, non è di per sé sufficiente per affermare la responsabilità concorrente di questi per l’evento dannoso verificatosi, se non si dimostra - con dati di fatto ed elementi di certezza e non sulla base di ipotesi e congetture - l’esistenza del nesso causale tra la suddetta condotta violatrice e l’evento. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 18 maggio 1988 n. 5963. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Velocità consentita - Presunzione dell’idoneità dell’osservanza della velocità moderata prescritta ad impedire il verificare dell’evento dannoso - Omissione della cautela prescritta - Presunzione "iuris tantum" che l’evento non si sarebbe prodotto o che avrebbe presentato conseguenze meno gravi. Quando una norma giuridica prescrive una determinata cautela al fine di evitare eventi di danno la prescrizione relativa è basata sulla presunzione che tale cautela sia idonea ad impedire il verificarsi dell’evento stesso. Qualora l’evento di danno si verifichi conseguentemente all’omissione dell’osservanza cautela, sussiste la presunzione "iuris tantum" che l’evento non si sarebbe verificato o quantomeno che avrebbe presentato conseguenze meno gravi se la norma fosse stata osservata. Detta presunzione, su cui si fonda il rapporto di causalità, può essere esclusa o essere posta in dubbio solo che siano adottati elementi concreti idonei allo scopo. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 15 marzo 1995 n. 2648. Sgravi tributari falsi, il commercialista è responsabile assieme al funzionario infedele di Ferruccio Bogetti e Gianni Rota Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Corte di cassazione, sentenza 17 agosto 2016, n. 34912. I falsi provvedimenti di sgravio tributario ottenuti con l’aiuto del funzionario infedele della pubblica amministrazione integrano sempre in capo al commercialista il reato di falso materiale in atto pubblico in concorso. Da un punto di vista soggettivo, intanto, i funzionari della Pa per gli atti da loro emanati ricoprono sempre la veste di pubblico ufficiale. Dal punto di vista oggettivo, poi, il falso provvedimento di sgravio è riconducibile ad un atto pubblico anche laddove l’ente sia dotato di sistemi informatici. Così la sentenza di Cassazione, sezione quinta penale, n. 34912/16 (Pres. Fumo, Rel. De Gregorio) depositata ieri. Una commercialista, dopo avere fatto ottenere dal marzo 2003 al maggio 2005 ai propri clienti, in concorso con un ex dipendente infedele dell’amministrazione finanziaria, falsi provvedimenti di sgravio per i debiti tributari da loro dovuti, viene condannata in primo grado per i reati di truffa informatica, corruzione e falso materiale in atto pubblico in concorso con il funzionario. A seguito di ricorso in appello ottiene il non luogo a procedere per l’intervenuta prescrizione dei primi due capi d’imputazione ma ricorre in Cassazione per vedersi riconoscere la non sussistenza del reato di falso materiale in atto pubblico ascrittole. Secondo la donna, infatti, il coimputato era abilitato all’uso dei sistemi informatici ma non aveva il potere di impegnare la Pa e neppure poteva partecipare alla formazione della sua volontà e dunque il reato non sussiste in quanto i falsi provvedimenti di sgravio non hanno natura di atto pubblico. Poi, non essendo stati emessi all’esito di un procedimento amministrativo, non hanno neppure valore fidefaciente. Ma la Cassazione rigetta in quanto: gli atti emanati dall’agenzia delle Entrate rientrano tra quelli tipici dell’ordinamento statale e i suoi funzionari, che esercitano secondo norme di diritto pubblico contribuendo a formare e manifestare la volontà della Pa, ricoprono sempre la veste di pubblico ufficiale anche nel caso di concorso con il privato in falso materiale in atto pubblico; il provvedimento di sgravio emesso dal funzionario dell’agenzia delle Entrate a ciò deputato è sempre inquadrabile come atto pubblico e nel caso di falso materiale in atto pubblico commesso dal privato ed aggravato sono comunque dotati di fede privilegiata quelli riconducibili ad un pubblico ufficiale autorizzato anche nel caso di enti dotati di sistemi informatici. Cosenza: a Rossano Calabro le celle per jihadisti, ecco la Guantánamo italiana di Antonio Prestifilippo Il Mattino, 18 agosto 2016 Nella struttura calabrese 50 detenuti accusati di terrorismo. Il dottor Giuseppe Carrà, direttore della casa circondariale di Rossano Calabro, allarga le braccia e rimanda il cronista al capo Dipartimento Santi Consolo. Il quale, a sua volta, suggerisce di contattare l’ufficio stampa che però non può, senza una precisa direttiva dall’alto, spiegare perché il penitenziario della cittadina bizantina sia stato ribattezzato la "Guantánamo" italiana. Ma, qua e là, grazie al lavoro di Giuseppe Candido, giornalista, docente ed esponente calabrese del Partito Radicale e del movimento "non molliamo" (che si è recato alla struttura restrittiva a Ferragosto) è stato possibile comprendere meglio la situazione della Casa di reclusione in cui si trovano ventuno detenuti accusati di terrorismo internazionale: quasi tutti integralisti islamici affiliati ad Al Qaeda. Ma c’è anche qualcuno accusato di essere affiliato all’Isis, sussurra un anonimo operatore della struttura. Dopo aver saputo degli attentatati del 13 novembre a Parigi gli agenti della Polizia penitenziaria hanno sentito alcuni di essi esultare al grido "Viva la Francia libera". Ed è anche per questo che il carcere ora è ritenuto ormai un "obiettivo sensibile". Tra l’altro non bisogna sottovalutare i mafiosi che con sentenza definitiva, vengono "ammassati" con altre decine di detenuti speciali. Si tratta di cittadini stranieri, per lo più arabi, arrivati in Italia e accusati di terrorismo. Tra di essi, potrebbe esserci anche Mourad El Ghazzaoui, il 21enne siriano arrestato a Pozzallo (Ragusa) nel dicembre 2015 e ritenuto un pericoloso affiliato dell’Isis. "Ci sono 50 detenuti stranieri accusati di terrorismo che non vengono mischiati con gli altri - racconta ancora Candido. A loro è dedicato un braccio particolare, la polizia penitenziaria ha spiegato che non capiscono quello che i detenuti si dicono e i contenuti della preghiera del venerdì organizzata all’interno di una sala allestita appositamente con un Imam che mi risulta essere uno di essi". A Rossano manca anche inoltre la figura esterna di un mediatore e l’unico che si occupa di tradurre è un detenuto arabo che conosce un po’ di italiano. I carcerati lamentano ancora di non riuscire a comunicare nemmeno con le famiglie. "È un luogo macabro - conclude Candido, in cui non si può dire nemmeno di essere vivi". Costruita nel 2000, la struttura ad oggi ospita 231 detenuti (a fronte di una capienza di 215) e in passato è finita al centro delle denunce dei reclusi per le condizioni delle celle, le presunte torture e maltrattamenti. All’interno dei cubi di cemento di contrada Ciminata si trova anche uno spazio adibito a moschea, destinato agli oltre 70 reclusi di fede musulmana presenti. I presunti terroristi sono confinati invece in una sezione speciale chiamata "Alta Sicurezza 2", supersorvegliati dagli agenti del carcere. Tra di loro c’è anche un terrorista ritenuto appartenente all’Eta, l’organizzazione armata basca. Uno è ritenuto vicino all’Isis. Gli altri 19 sarebbero militanti di Al Qaeda. Tutti con pena definitiva fino a 2026. Nel 2009 il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria da Roma ha cominciato a concentrare a Rossano i terroristi impegnati nella guerra santa islamica arrestati su tutto il territorio nazionale. Fra loro c’è anche l’ ex imam di Zingoia (Bergamo), il pachistano Hafiz Muhammad Zulkifal, arrestato nel 2015 con l’accusa di essere il capo spirituale di una presunta cellula di Al Qaeda con base operativa in Sardegna. Secondo le indagini della Dda di Cagliari, Zulkifal sarebbe anche coinvolto negli attentati di Stoccolma del 2010. Ed era lui il destinatario di una telefonata in cui si parlava della necessità di "pensare al loro Papa". Da qui è passato anche Khalil Jarraya, il 46enne tunisino detto "il colonnello", ex combattente nelle milizie bosniache, ora espulso dopo la condanna per associazione terroristica internazionale. E anche un altro tunisino, Dridi Sabri, condannato per terrorismo internazionale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ora anche lui espulso. Ma secondo Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe), in visita nella sezione speciale del carcere calabrese, "il livello di sicurezza è pari a zero". Roma: scoppia la protesta tra i giovani detenuti, celle devastate a Casal del Marmo di Francesca Mariani Il Tempo, 18 agosto 2016 Per tre giorni minorenni in rivolta. Lenzuola incendiate e maxi risse. Il Sappe: "Siamo sotto organico". Torna alta la tensione nel carcere minorile Casal del Marmo, dove nei giorni a ridosso di Ferragosto si sono verificati numerosi gravi eventi critici tra le celle. La denuncia è del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Sabato scorso, ad esempio, nel reparto giovani adulti 18-25 anni, i detenuti di quattro celle hanno protestato contro gli agenti della Polizia penitenziaria devastando le celle. Poi, due detenuti si sono autolesionati il corpo tagliandosi le vene, ma sono stati prontamente ricoverati in infermeria e grazie all’intervento degli agenti è stato evitato il peggio. Ma non finisce qui. Il giorno successivo, nel reparto femminile, in una cella sono state incendiate lenzuola e materassi. La lista di azioni di protesta non è ancora terminata. Due giorni fa, nel reparto minori, c’è stata una rissa tra detenuti nordafricani: la Polizia penitenziaria ha separato i detenuti e un agente è stato colpito e ferito. Sulla vicenda è intervenuto il segretario Generale del Sappe Donato Capece, che ha rivolto solidarietà e vicinanza al personale di Polizia penitenziaria e ha giudicato "la condotta dei detenuti coinvolti nei vari eventi critici irresponsabile e gravissima. Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti". E ancora: "Avevamo detto che era un errore l’innalzamento dell’età dei presenti nelle carceri minorili: oggi, infatti, possono starvi anche donne e uomini di 25 anni. Da quando sono stati assegnati detenuti adulti, per effetto della legge 11 agosto 2014, n. 117, questi maggiorenni si comportano con il personale di Polizia e con alcuni minorenni ristretti con prepotenza e arroganza, caratterizzando negativamente la quotidianità penitenziaria. E la loro ascendenza criminale condiziona tanti giovani, che li vedono quasi come dei miti". I problemi del carcere, dunque, sono reali, "come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento - spiega Capece - e nonostante la Polizia penitenziaria sia carente di 8mila agenti in organico, necessari anche per adeguare e potenziare i reparti di Polizia delle carceri laziali e di Roma in particolare, la Legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di 800 nuovi agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione. Sempre il sindacato ha sottolineato come è necessario stare attenti a non sottovalutare il "pericolo jihad" tra i detenuti. Il rischio è "il proselitismo fondamentalista all’interno degli istituti penitenziari - afferma il segretario generale del Sappe - la Polizia penitenziaria monitora costantemente, attraverso gruppi selezionati e preparati, la situazione nelle carceri, per adulti e minori, al fine di accertare l’eventuale opera di proselitismo del fondamentalismo islamico". Alessandria: rubano le biciclette dei detenuti semiliberi, arrestati sei giovani di Andrea Morleo Il Giorno, 18 agosto 2016 Se in ballo non ci fossero faccende maledettamente serie come la questione migranti, la sicurezza del nostro Paese e i tantissimi soldi spesi ogni giorno per garantirla, la storia potrebbe anche essere messa in burla. Perché questa volta siamo oltre agli ormai iconici ladri di biciclette, siamo infatti ai "ladri al contrario" che vanno a rubare le biciclette agli stessi detenuti. È la storia allucinante che arriva da Alessandria dove sei individui sono stati arrestati per aver rubato le biciclette usate dai detenuti che beneficiano dei permessi per poter lavorare all’esterno della struttura. Le bici erano parcheggiate nella rastrelliera all’interno della casa circondariale San Michele, ad Alessandria. Per impossessarsene i ladri hanno dovuto scavalcare anche la recinzione. Pensavano di farla franca, ma sono stati bloccati dalle guardie penitenziarie. Sei gli arrestati, tutti giovani, e tra questi anche un keniota Edward Muiruri Kinyanjui, 23 anni, abitante a Bellano e in attesa di asilo politico. Tutto qui? No perché l’aspirante rifugiato era diretto a un "rave party", così giusto per mettere la ciliegina sulla torta a una vicenda che definire assurda è poco. É successo tutto la notte di Ferragosto ma la cosa è trapelata solo in queste ore. I sei si erano incrociati alla stazione di Alessandria. Scesi dal treno, era da poco passata l’una, si sono messi in cammino verso Casale Monferrato, ma la loro intenzione era quella di raggiungere la località Frassineto Po dove era stato organizzato un rave party che si è concluso solo ieri a cui hanno preso parte circa 1.500 giovani provenienti da tutta Italia, grazie al tam tam dei social network. Moltissimi di loro hanno raggiunto le campagne della Lomellina in auto, in furgone, in camper, a piedi e in bicicletta. Come volevano fare i sei arrestati. Quando si sono resi conto non c’era nessuna coincidenza ferroviaria per Casale Monferrato, si sono rassegnati a mettersi in cammino con i loro zaini. E così facendo nel buio della notte sono arrivati nientemeno che davanti al carcere. Hanno notato alcune biciclette sulla rastrelliera situata all’interno. In quel momento, nella garitta all’ingresso del parcheggio del carcere non c’era nessuno. I sei hanno deciso di prendere le bici e si sono avviati verso la statale in direzione di Casale. Ma il loro viaggio è stato bruscamente interrotto dall’arrivo delle Volanti della questura, allertata dal carcere. Ieri mattina i sei giovani sono stati processati per direttissima, il giudice ha convalidato l’arresto e rinviato l’udienza per il patteggiamento e disponendo l’immediata scarcerazione. Tortolì (Og): "Captivi, le mie prigioni", la vita oltre le sbarre negli scatti di Pietro Basoccu di Giusy Ferreli vistanet.it, 18 agosto 2016 Mostra fotografica a Tortolì (Ogliastra). La vita oltre le sbarre è fatta di attimi interminabili, di porte che si aprono e si chiudono, di attese snervanti. E le vite dei detenuti scorrono così, scandite dallo scorrere della pena. Per alcuni, quelli del "fine pena mai", gli ergastolani, lo scorrere del tempo è fine a se stesso. Ed ora, la quotidianità dei detenuti è pronta ad essere restituite all’esterno attraverso la mostra "Captivi, le mie prigioni". Il titolo del lavoro di Pietro Basoccu, è un omaggio all’opera del commediografo latino Plauto, ma anche e soprattutto un resoconto straordinario dalle carceri italiane. L’autore, pediatra ogliastrino con la passione per la fotografia, racconta la sua esperienza con il mezzo che gli è più congeniale: la macchina fotografica. E nei suoi scatti in bianco e nero, oltre che nei suoi appunti di lavoro, frutto della frequentazione di un carcere isolano nel 2010, un non luogo per eccellenza, (in fondo le prigioni cambiano ma la condizione del detenuto è sempre la stessa) affiorano i problemi del sistema carcerario. "I detenuti - scrive Basoccu - sono oltre il limite massimo che può ospitare un carcere, le celle sono sovraffollate, l’organico degli agenti di custodia è sotto il livello minimo, mancano i medici, gli psicologi. Se la funzione del carcere è quella di restituire alla società un individuo riabilitato, è evidente che qualcosa non va". E affiorano pure i problemi legati ad una burocrazia che impone, anche per la lettura di un libro, una richiesta scritta. "Durante le visite nelle varie celle ho notato la scarsa importanza che i detenuti danno ai libri. La biblioteca viene visitata raramente e pur essendo la lettura una risorsa per alleviare la sofferenza e favorire il reinserimento, non viene ne proposta ne incoraggiata dall’Istituzione". Ma il carcere è anche un mondo a se, con le sue regole, incomprensibili ai più. "Ho avuto modo di frequentare il carcere per alcuni mesi e il privilegio di avere vari scambi epistolari con alcuni detenuti, privilegio - spiega - che mi ha consentito una visione più ampia e, spero, senza pregiudizi". E questo sguardo è ora disposizione di tutti nella sede della Caritas diocesana di Tortolì a partire da sabato prossimo. La mostra, tratta da un libro cartonato bilingue (inglese e italiano) di 66 pagine realizzato grazie al patrocinio della Diocesi di Lanusei, verrà inaugurata alle 20 è rimarrà aperta sino al 27. Il vescovo Antonello Mura richiamandosi alle parole di papa Francesco nella sua visita ai detenuti di Ciudad Juàrez, in Messico, spiega le motivazioni del patrocinio. "Le foto di Pietro Basoccu, nostro collaboratore nel mensile diocesano L’Ogliastra, - sottolinea Mura - leggono la vita di persone detenute che, per un tratto della loro esistenza, incontrano il carcere e possono rimanerne redenti o schiacciati. Nell’Anno Santo che stiamo vivendo, la Misericordia entra allora in carcere per riaffermare, con la sensibilità rispettosa del fotografo, che essa vuole lavorare come Grazia di Dio a recuperare storie e rapporti lacerati dal male che la pena, da sola, tenderebbe a rendere permanenti. Più che contrapposizione o reciproca esclusione, pena e misericordia sono chiamate alla coesistenza. La reclusione infatti, quando non arriva a ledere la dignità e l’integrità di una persona, incontra la misericordia - anche attraverso la confessione della propria colpa - senza per questo cadere in un semplicistico perdono". "Gli scatti che compongono questo progetto - spiega infine il curatore, Salvatore Ligios - non svelano i dubbi né offrono tesi accomodanti. Si limitano, com’è nella strategia del regista dell’immagine, ad accompagnare lo spettatore in una visita in punta di piedi, lasciando il compito alle inquadrature di riportare fedelmente spazi, luci, ombre, oggetti, vite solitarie e vite collettive, stati d’animo, atmosfere che aiutano e suggeriscono la leggerezza e la serietà che ognuno di noi deve tenere quando incontra queste persone e guarda questi luoghi". Terrorismo. Alfano: solo imam formati in Italia Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in un’intervista al Corriere della Sera ha chiesto alle comunità islamiche "un contributo per individuare i soggetti che si radicalizzano, anche per intensificare i controlli sui finanziamenti in arrivo dall’estero". Ed ha aggiunto che è necessaria "un’emersione di tutti i luoghi di culto, con pieno rispetto delle regole, per evitare le mini moschee nei garage". Poi ha spiegato: "Stiamo lavorando per agevolare il consolidamento di un modello di imam che abbia una formazione in Italia per poter operare nel nostro Paese". Approccio costituzionale all’Islam - Nei confronti dell’Islam "il mio approccio è costituzionale, perché la nostra Carta garantisce a tutti la libertà di culto; liberale, perché esiste un diritto naturale che precede le leggi e le costituzioni; pragmatico, perché in Italia ci sono un milione mezzo di musulmani che io non posso certo considerare terroristi o fiancheggiatori dei terroristi; severo, perché ho espulso nove imam in quanto c’è una differenza tra pregare e inneggiare all’ odio e alla violenza", spiega Alfano che sulla possibilità di vietare burqa e velo spiega: "il ministro dell’Interno ha la responsabilità di garantire la sicurezza e di scegliere il livello di durezza nelle risposte, che però non diventi mai provocazione potenzialmente capace di attirare attentati". Germania su espulsioni segue modello italiano - Quanto al divieto del burkini a Cannes e a Sisco, in Corsica, "non mi sembra, ahimè, che il modello francese abbia funzionato per il meglio". La Germania, invece, "sotto il profilo delle espulsioni si sta incamminando verso il modello italiano che, purtroppo, negli anni passati non aveva avuto piena applicazione neanche in Italia. Lo strumento delle espulsioni per motivi di sicurezza nazionale - evidenzia il ministro - produce una bonifica del territorio nei confronti di persone radicalizzate". Dai migranti a Brexit, un’agenda fitta per Ventotene di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016 È "l’Europa dei Valori" quella che Matteo Renzi vuole rilanciare da Ventotene lunedì prossimo insieme ad Angela Merkel e François Hollande da bordo della portaelicotteri Garibaldi. Il nuovo incontro del "direttorio" a tre Germania, Francia e Italia segue quello di Berlino di fine giugno subito dopo la Brexit e si prefigge di preparare il terreno dell’incontro a 27 di metà settembre a Bratislava sugli effetti dell’uscita di Londra dall’Unione europea. Il vertice ha in agenda i temi delle grandi sfide dell’Europa oltre alla Brexit: la sicurezza interna ed esterna viste come facce della stessa medaglia, assetti unitari per la difesa europea, lotta al terrorismo, crisi dei migranti e rilancio degli investimenti. Niente affatto casuale la scelta di tenere il vertice e la successiva conferenza stampa a bordo della Garibaldi attualmente la "flagship" della missione europea EunavforMed per la gestione della crisi dei migranti e la lotta agli scafisti. Ma Renzi vorrebbe trasformare l’appuntamento anche in un’occasione di riflessione per rilanciare il progetto europeo proprio nell’isola dove fu concepito il manifesto per l’Europa federalista e dove i tre capi di Stato e di Governo renderanno un breve omaggio alla tomba di Altiero Spinelli. Non è escluso che Merkel e Hollande possano essere ricevuti da Renzi già domenica sera a Napoli ma su questo non si hanno conferme da parte del Governo italiano anche per motivi di sicurezza che hanno imposto misure di "filtraggio" degli arrivi dei turisti a Ventotene e chiusura dello spazio aereo. Ieri Renzi ha avuto colloqui telefonici sia con la Merkel sia con Hollande per una "messa a punto tecnica" del vertice e per un giro d’orizzonte sugli scenari di crisi internazionali (come Libia e Siria) nonché sulla situazione economica europea. Sul primo punto in agenda, ossia la Brexit, tutti vogliono evitare il rischio di emulazione della Gran Bretagna, da parte di altri Stati ma sui tempi per l’uscita definitiva della Gran Bretagna dalla Ue i pareri sono discordi. Mentre Renzi vorrebbe accelerare l’uscita, la Merkel sembra disposta a concedere più tempo agli inglesi. Tutti però sono d’accordo nel serrare le fila. Più nel concreto Renzi cercherà di stringere con Merkel e Hollande un accordo su alcuni punti qualificanti come la crescita e gli investimenti anche per allontanare il rischio dell’Italia torni ad essere guardata di nuovo come "malato della Ue" ossia come viene descritta da alcuni quotidiani inglesi negli ultimi giorni. Si cercherà poi di dare concreto seguito ai tre punti sottoscritti a fine giugno a Berlino ossia: lavoro e giovani con maggiori fondi per creare uno spirito europeo e misure contro la disoccupazione. Sulla sicurezza e difesa c’è il progetto della polizia di frontiera europea, che dovrà essere operativa entro la fine dell’anno. Sulla difesa nessuno si fa grandi illusioni di creare un vero esercito europeo e il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha già fatto circolare negli ultimi tempi un "non paper" per un lavoro coordinato tra un primo gruppo di Paesi Ue che definisca assetti comuni come naturale prosecuzione della European Global Stratgey on Foreign and Security Policy, con la creazione di nuovi meccanismi decisionali a livello europeo per un più efficace contributo alle missioni internazionali e forme di cooperazione più avanzate di lungo termine valorizzando i centri di eccellenza esistenti. Infine il capitolo crescita e investimenti, con il rilancio del piano varato da Juncker e l’adozione di qualche prima misura, forse già a Bratislava. Non si esclude che l’occasione possa essere utilizzata per un confronto a due, fra Renzi e la Merkel e sulla futura manovra finanziaria italiana e la richiesta di maggiori margini di flessibilità. Ma di questi temi Renzi e Merkel parleranno più nel dettaglio (insieme ai ministri economici) il 31 agosto a Maranello nel vertice bilaterale Italia-Germania. Islamismo radicale, perché l’Europa deve fare i conti con Riad di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 18 agosto 2016 Il mondo cambia verso. Ma quel verso si allontana dall’Europa e dall’Occidente. Lo ha capito il presidente del consiglio Matteo Renzi che lunedì accompagnerà a Ventotene Merkel e Hollande, provando ancora a forzare sui tempi per ridare un senso e rianimare questa Unione smarrita. Mentre l’Italia fa i conti con un pagliaccio leghista in divisa e la Francia con il dibattito sul costume da bagno delle giovani musulmane e gli Stati Uniti con il candidato più folle della loro storia, e tutti facciamo il tifo alle Olimpiadi, nella grande macelleria del Grande Medio Oriente si definiscono nuove alleanze e si gettano le basi per qualcosa di epocale: nuovi equilibri di potenza sulle macerie di Stati falliti e il risorgere imperioso di disegni imperiali. Questa non è solo l’estate degli assedi, dei raid aerei, degli ospedali bombardati, di galere riempite di dissidenti. Quella 2016 è l’estate nella quale una nuova governance mondiale sta prendendo corpo, fuori e in competizione con l’Occidente. Una governance che da Mosca si dipana verso Ankara, e da Ankara a Teheran. E al centro di questa trama c’è lui: Vladimir Putin. La sua innegabile qualità diplomatica è pari al suo impareggiabile cinismo: quello che fino a poco tempo fa era il nemico a al quale falla pagare cara - il presidente turco Recep Tayyp Erdogan - ecco diventare un prezioso alleato sul fronte siriano. E la nuova alleanza, supportata ora anche da Pechino, ridà spazio e voce al dittatore che cinque anni fa dichiarò guerra al suo popolo: Bashar al-Assad. L’Occidente è all’angolo, l’Europa politicamente inesistente. La nuova geopolitica guarda ad Oriente. E la sua capitale è Mosca. E dire che per Barack Obama era solo il capo di una potenza di medio profilo, relegata ai margini orientali dell’Europa, sanzionata sul fronte ucraino. Ma le cose non sono andate così. Perché nel domino del Medio Oriente il dominus oggi è lui, "Vladimir d’Arabia". Decisionista il necessario, Putin ha fatto in pochi mesi ciò che in cinque anni l’Occidente non ha saputo, o voluto, fare: usare l’arma militare per una soluzione politica in Siria, neutralizzando le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi e puntellando, fino a quando lo riterrà necessario, il suo protetto di Damasco, Assad. "Non siamo per nulla preoccupati del destino di Assad", ebbe a dire quattro anni fa il capo del Cremlino. Cinico ma sincero. Le sue priorità sono il mantenimento della presenza militare di Mosca nel Mediterraneo ed evitare uno smembramento della Siria come è accaduto in Libia o nello Yemen. Un giorno non lontano del "Califfato" non esisterà più traccia. Ma l’islamismo radicale armato si manifesterà sotto altre sigle e forme. E la storia continuerà fino a quando a Riad regnerà la dinastia Saud e nel Golfo arabico detteranno legge, e finanzieranno i gruppi del radicalismo islamico armato, le petro-monarchie sunnite. Perché il marcio è là. Il marcio è a Riad, è nei miliardi di dollari elargiti dai regnanti sauditi in tutto il mondo islamico per costruire madrase, moschee, centri culturali che hanno preparato il terreno per la realizzazione successiva dei campi di addestramento per generazioni di "mujaheddin". Prima l’indottrinamento, poi l’azione. Con il marchio di fabbrica ben stampato: quello di Muhammad ibn Abd-al Wahhab (il fondatore del wahabbismo). I suoi precetti hanno ispirato sia la dinastia Saud che il fondatore di al- Qaeda: il saudita, e wahhabita Osamabin Laden. Al Wahhab sosteneva che tutti i musulmani dovessero individualmente giurare la propria fedeltà a un singolo leader musulmano (un califfo, quando c’era). E, proclamava, "coloro che non dovessero conformarsi a tale punto di vista dovrebbero essere uccisi, stuprate le loro moglie e le loro figlie, e confiscate le loro proprietà". La lista degli apostati meritevoli di morte includeva sciiti, sufi e altre scuole musulmane, che Abd al Wahhab non riteneva affatto musulmane. Non esiste niente che distingua il wahhabismo dall’Isis. E, dal punto di vista identitario, niente differenzia l’Arabia Saudita dallo Stato islamico. Negarlo significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma questo, è bene sottolinearlo, non è frutto di ignoranza ma di scelte politiche. Nella collaborazione alla gestione del Medio Oriente da parte dei sauditi e dell’Occidente, i leader occidentali hanno privilegiato la loro interpretazione preferita, e di comodo, dell’Arabia Saudita (il benessere, la modernizzazione e l’influenza) scegliendo di ignorarne, colpevolmente, l’impulso wahhabita. "Perché mai avremmo dovuto immaginare che il wahhabismo avrebbe generato dei moderati?". E ancora: "Perché mai avremmo dovuto immaginare che la dottrina di "Un Leader, un’Autorità, una Moschea, sottomettetevi o morirete" potesse in ultima istanza condurre alla moderazione o alla tolleranza?". Le risposte a questi interrogativi avanzati da uno dei maggiori studiosi della storia del wahhabismo, il giornalista e saggista americano Steven Coll, sono semplici e terribilmente inquietanti. L’Occidente, l’Europa non poteva perché non voleva immaginare una cosa che non esiste. Il wahhabismo, e una sua articolazione politico-dottrinaria non meno radicale, il salafismo che ha orientato l’azione della Fratellanza musulmana in Egitto, sono la cellula cancerogena che ha generato le metastasi jihadiste. Se si volesse trovare oggi un comune denominatore ideologico al terrorismo islamico e al jihad diffusisi in molti parti del mondo questo sarebbe soprattutto il wahabismo. Osama Bin Laden, Ayman al-Zahawiri, gli Shabaab somali, i vari movimenti irredentisti che sono apparsi nel nord del Mali, i Boko Haram nigeriani, i talebani afghani sono tutti accomunati da questo comune approccio dottrinale. Nel nome di questa impostazione radicale sono stati perpetrati attentati, uccisioni, colpi di Stato, distruzioni, vendette attraverso fatava e proclami. E non aver voluto fare i conti con la centrale di questo pensiero-azione porta con sé, in condominio con le scellerate "guerre giuste" combattute dall’Occidente in Iraq, Libia, Siria, il proliferare della nebulosa qaedista-Daesh in una sempre più vasta aerea del pianeta. L’Islam radicale evocatore del sogno del grande "der al-Islam" (territorio dell’Islam), da realizzare riunificando l’intera comunità islamica in un unico, immenso Califfato retto da un’unica, ferrea legge: la "sharia". l’Islam radicale come una delle istanze della globalizzazione. È l’Islam più radicale, quello che porta alle punte più estreme, e sanguinarie, il takfirismo, l’anatema lanciato su chi frequenta infedeli, tacciandoli di apostasia. Crimine gravissimo che richiede la pena di morte soprattutto per i musulmani trasgressori. Non sono solo movimenti e gruppi in opposizione. A farne parte sono Paesi retti da regimi confessionali, fondati sulla "sharia" : Qatar, Emirati, Arabia Saudita, Kuwait, Pakistan, l’Afghanistan dei talebani, ecc.) che discriminano le donne (velo, poligamia, i pari diritti tra uomo e donna), che calpestano i diritti umani (lapidazione) e la libertà di fede e di espressione (reato di proselitismo, di apostasia e di blasfemia, la censura della stampa, la repressione del dissenso) che non proteggono i loro cittadini cristiani dalle violenze dei connazionali mussulmani (i cristiani in Pakistan e i copti in Egitto). Il cerchio si chiude e si ritorna alla casa-madre: l’Arabia Saudita. Alla fine, però, l’allievo rischia di superare il maestro. O comunque combatterlo a casa sua. In questo senso c’è un disegno che accomuna il fondatore di al-Qaeda e il "Califfo" del Daesh: la "madre di tutte le sfide", ovvero contendere alla dinastia Saud la leadership del mondo sunnita. C’è questo dietro la scia di attentati condotti contro moschee sciite a Baghdad, Kuwait City e nello stessa terra dei Saud. C’è un messaggio rivolto a Riad: Siamo noi i veri salatiti, i degni eredi e cultori del wahhabismo. Siamo noi quelli capaci di portare fino in fondo il disegno di realizzare la comunità musulmana, per al-Baghdadi a dominazione sunnita, che travalica i confini, spazzandoli via, degli Stati inventati dal colonialismo occidentale. Siamo noi coloro i veri difensori dell’umma sunnita dal nemico sciita iraniano. I vecchi padrini appartengono al passato: l’Arabia Saudita è terra di conquista per il Califfato islamico, o per ciò che rinascerà dalle sue ceneri. Stretta sui profughi: niente appello per chi chiede asilo di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 agosto 2016 Il disegno di legge anticipato dal ministro della Giustizia Orlando: cambiano le regole per stabilire chi ha diritto alla protezione internazionale. Tribunali ingolfati da oltre 3mila ricorsi al mese. Il governo: in caso di rifiuto espulsioni più veloci. Cancellato l’appello. Nessuna udienza per il richiedente asilo. Giudici specializzati in tema di immigrazione e aumento dell’organico nei tribunali caldi. Il Governo ridisegna le procedure giudiziarie per il diritto di asilo. A spiegare il piano, nei giorni scorsi, davanti al Comitato parlamentare che si occupa delle procedure in materia di protezione internazionale, è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha scalettato i nuovi interventi normativi previsti in un decreto legge attualmente al vaglio del Governo. Dinieghi in sei casi su dieci - Oggi un richiedente asilo resta in attesa di una risposta non meno di 24 mesi: i primi 12 vanno via, in media, per istruire la pratica e ottenere risposta alla domanda di protezione presentata alla competente commissione territoriale. In caso di diniego almeno un anno poi trascorre tra il primo e il secondo grado di giudizio, visto che quasi sempre i migranti presentano ricorso contro la decisione sfavorevole. Gli ultimi dati del ministero dicono che nel 2016 circa il 60 per cento delle domande di protezione presentate vengono rigettate. "Questo incremento - spiega Orlando - si è tradotto inevitabilmente in un altrettanto esponenziale aumento del numero delle impugnazioni in sede giurisdizionale. Durante i primi 5 mesi del 2016 nei tribunali sono stati iscritti 15mila ricorsi in materia, con circa 3.500 nuovi ricorsi al mese". Aumentano quindi i dinieghi, e crescono di pari passo i ricorsi in tribunale. Le sedi maggiormente oberate sono Napoli e Milano, seguite da Roma e Venezia. Prima che un ricorso possa essere definito, però, serve del tempo: in questi primi mesi del 2016 soltanto 985 casi sono andati a sentenza e "con una bassissima percentuale di accoglimenti totali". Via un grado di giudizio - In media un procedimento, stando ai dati del 2016, dura poco meno di sei mesi (167 giorni). "Relativamente snello - dice quindi Orlando - se comparato al contenzioso civile" ma comunque troppo lento. Ecco perché, sostiene il ministro, "è necessaria un’ulteriore semplificazione pur nella salvaguardia delle garanzie". Le novità proposte sono due. La prima: "La sospensione dell’appello contro la decisione del tribunale". Dopo il diniego della commissione, quindi, il giudice si esprimerà una sola volta. In caso di un nuovo rifiuto il migrante andrà espulso. Niente più udienza - La seconda novità riguarda invece, parole sempre di Orlando, "la sostituzione dell’attuale rito sommario di cognizione", cioè l’interrogatorio del richiedente asilo, "con un procedimento camerale, di regola senza udienza, che consente l’acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria della videosorveglianza del colloquio davanti alla Commissione". Salta quindi l’udienza, tranne in casi particolari. Un punto che fa dire al professor Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e presidente di Adif, l’Associazione diritti e frontiere, che ci si trova davanti al "forte rischio di un giudizio speciale, con un fortissimo rischio di sommarietà. Piuttosto che guadagnare tempo sui ricorsi giudiziari, il Governo avrebbe fatto bene a garantire risposte più veloci da parte delle commissioni". Ma Orlando, sottolineando come il nuovo rito sarebbe assolutamente conforme al "modello internazionale", sostiene che "le procedure più rapide non mettono affatto in pericolo i diritti: l’attenzione verso la tutela dei diritti costituzionali non può rimanere indietro rispetto alla legittima urgenza delle risposte di controllo. Diritti e sicurezza non sono i capoversi di due soluzioni politiche alternative ma vocaboli nati e cresciuti insieme". Aumentare i giudici ad hoc - Il nuovo testo comporta anche dei cambiamenti di tipo organizzativo. D’accordo con il Csm sono stati già applicati magistrati extra nelle sedi più gravate. "Ci sono già 12 giudici dedicati in via esclusiva ai procedimenti in materia di protezione internazionale" spiega il ministro che annuncia nuove applicazioni a breve. In agenda per velocizzare le procedure, infine, gli scambi telematici di atti tra commissioni territoriali e uffici giudiziari. Il capo dell’Immigrazione Morcone: "Affidare ai profughi lavori utili" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 agosto 2016 L’idea del prefetto Mario Morcone: un piano per occuparli con Comuni e privati. "Avranno un rimborso spese con cui si pagheranno l’assistenza". "Coinvolgiamo nel lavoro i migranti". L’idea viene dal Viminale, dal prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione. Prefetto, cosa intende? "Alcuni sindaci hanno già attivato progetti di volontariato che vedono i migranti protagonisti. È ora di fare un passo in avanti". Sa di affrontare un tema poco popolare? "Sì, ma non possiamo più lasciare queste persone appese in attesa di un destino che cada dall’alto. E che si abbrutiscano passando la giornata ad attendere il pranzo e la cena". Pensa a tutti i migranti? "Solo quelli che sono legittimamente sul nostro suolo: i rifugiati o chi ha già presentato la richiesta di asilo". Possono o devono lavorare? "Possono, nell’interesse loro e della collettività. Per carità, nessun obbligo. Semmai possiamo pensare a un meccanismo premiale". Di che tipo? "Chi mostra buona volontà e capacità di inserirsi nel nostro contesto sociale potrebbe ottenere un’attenzione diversa nell’accoglienza". Una corsia preferenziale? "C’è il permesso umanitario. Attualmente viene dato per motivi di vulnerabilità ai bambini e ai malati. Potremmo usarlo in questo senso. Dopo un anno la verifica servirebbe da incentivo a comportamenti virtuosi". Il lavoro presuppone una paga. O pensa a un volontariato gratuito? "Non penso a una paga con tariffe nazionali. Ma a una retribuzione che potrebbe essere ridotta: la decurtazione servirebbe per recuperare i costi dell’accoglienza". Mira al rientro delle spese o all’integrazione? "Miro a dare loro un futuro e far sì che non siano solo un peso per la comunità: l’inclusione, poi, impedisce la radicalizzazione e giova alla sicurezza. Questa emergenza si può trasformare in un’occasione di sviluppo". Le diranno: e gli italiani che non hanno un lavoro? "Io mi occupo di immigrati. Dei cittadini italiani se ne dovrebbero occupare altri ministeri. Se mi danno l’incarico cercherò soluzioni per quel problema. Attualmente mi piacerebbe che a rompermi la testa non fossi solo io che sono un prefetto". E allora chi? "La soluzione non può essere dirigista con un "super-qualcuno" che decide su tutto e tutti. Ma con chi è sul territorio. Presidenti di Regione e sindaci per primi". La casa ai rifugiati genera proteste. Anche, come anticipato dal Corriere, a Capalbio: lì due cittadini hanno fatto ricorso al Tar. "Né Capalbio né Portofino potranno sottrarsi alle proprie responsabilità perché i sindaci temono di perdere consenso". Ma 50 rifugiati in un comprensorio nel centro storico non è una scelta criticabile? "L’accoglienza diffusa è quella che noi preferiamo. Si poteva prevedere una soluzione diversa". Il sindaco lamenta che è stata imposta dal prefetto. "Se ci fosse un progetto adeguato i prefetti si asterrebbero dal fare bandi di gara. È ovvio che non puoi fare il furbacchione, prendendoti due immigrati e pensando di essere a posto. Altrimenti finisce così: il prefetto, che da qualche parte li deve mandare, trova l’albergo e fa la gara". L’Europa a febbraio aveva sollecitato progetti per impiegare i rifugiati. L’idea nasce da lì? "No. L’Europa è chiusa nelle piccole paure. Servono un salto di qualità e politici coraggiosi". Quali lavori potrebbero svolgere i profughi? "Ci sono settori che hanno bisogno: l’agricoltura, le costruzioni, l’assistenza agli anziani". Come evitare lo sfruttamento e i business criminali? "Ci sono sanzioni penali. C’è un protocollo sulla legalità. Non pensiamo di trattarli come schiavi. Certo, dove c’è il formaggio arrivano i topi. Bisogna tenere lontano affaristi e garantire trasparenza. Ma non possiamo più essere prigionieri dei "no" dei sindaci che mirano più alla caduta di Alfano o di Renzi che a risolvere la situazione". Germania: "sul lavoro ai rifugiati è Merkel in difetto", gli industriali respingono le accuse di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 18 agosto 2016 Parte già azzoppato il "tavolo" di Angela Merkel con gli industriali per varare il nuovo piano-assunzioni di 1,2 milioni di richiedenti asilo registrati in Germania. Il summit per aumentare i posti di lavoro dei profughi nelle imprese tedesche resta fissato per il 14 settembre, mentre la cancelliera accusa i grandi Konzern di "non fare abbastanza per l’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro", ovvero di boicottare la sua "politica di benvenuto". La posizione è esattamente quella espressa a luglio dal ministro dell’economia Sigmar Gabriel (Spd) impegnato proprio come Mutti, ad accelerare l’iter di integrazione (e di espulsione) in vista delle elezioni del Bundestag nel 2017. Ma è una corsa contro il tempo. E, soprattutto, contro gli industriali. Respingono al mittente le accuse di sabotaggio della Wilkommenkultur imposta dalla cancelliera e puntano il dito contro il governo: "La via per l’integrazione è una strada lunga: le imprese fanno la loro parte, ma non basta. Servono dallo Stato federale almeno 5 miliardi in più all’anno. Senza contare che spesso i richiedenti asilo non sanno neppure parlare tedesco…" taglia corto Eric Schweitzer, da tre anni presidente del Dihk, l’ente delle Camere di industria e commercio. Più di una frecciata alla gestione dell’accoglienza e la replica all’" insinuazione" di Merkel e Gabriel "che non tiene conto della realtà". Secondo l’associazione industriali, a luglio risultavano vacanti 170 mila posti nella formazione aziendale a fronte di 150 mila candidati. "In quasi tutte le società mancano gli apprendisti. Questo è drammatico" sottolinea Schweitzer sul Mannheimer Morgen. Tradotto, significa che l’integrazione dei rifugiati non funziona ben prima del mercato del lavoro: i profughi sono disconnessi non solo con l’economia. A riguardo, rimbalzano i dati 2016 del ministero delle finanze di aprile sulla disoccupazione (110 mila nuovi casi, 2,8 milioni in totale) quanto la cifra fornita dal principale quotidiano finanziario tedesco sull’impiego di appena 54 rifugiati nelle 30 aziende nel Dax della Borsa di Francoforte. Ma a dar retta agli industriali "nel 2016 è prevista una crescita dell’1,5%. Se non avessimo avuto prezzo del petrolio e tassi di interesse bassi e l’euro debole, sarebbe solo dello 0,5%". Merito dei consumi in rialzo, molto meno della ripresa industriale e per niente degli effetti della norma che sospende lo stop al lavoro per i profughi in presenza di candidati comunitari, entrata in vigore solo all’inizio di agosto. Mentre resta da verificare quanto resterà del fondo di oltre 6 miliardi per l’emergenza profughi custodito dal ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Giudicato insufficiente dai 16 Land tedeschi ma più che congruo secondo il quotidiano Handelsblatt (che stima addirittura un avanzo), servirà come base di incentivo per il nuovo piano assunzioni dei profughi. Comunque, la cancelliera Merkel ben prima di settembre conta sulla "collaborazione attiva" dei maggiori Konzern: da Siemens a Volkswagen (per il 25% statale, ma sull’orlo del fallimento se verranno confermate le multe miliardarie per lo scandalo emissioni), da Opel a Mercedes, da Rwe a Evonik e Deutsche Post, fino alle multinazionali farmaceutiche e chimiche. Tuttavia è ancora Schweitze a ricordare che se il governo Merkel pretende che l’industria tedesca assorba centinaia di migliaia di richiedenti-asilo, "avrebbe dovuto investire di più per modernizzare le infrastrutture e i trasporti". Francia: la guerra del burkini diventa una crociata di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 18 agosto 2016 Anche il premier francese Valls (applaudito dalla destra) si schiera per la proibizione del costume islamico. Così anche Manuel Valls si unisce alla crociata del sindaco di Cannes David Lisnard e alla famigerata ordinanza che vieta di indossare il burkini sulle spiagge comunali in quanto contrario "al buoncostume e ai valori della laicità". Un divieto che nel corso dei giorni ha conquistato diversi primi cittadini d’oltralpe, dalla Corsica al Nord Pas de Calais e che ora vede nel premier socialista un testimonial d’eccezione di questa nuova polizia dei costumi: "Si tratta di un abbigliamento incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica, è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato chiaramente sull’asservimento della donna. Capisco e sostengo i sindaci che, in questo momento di tensione, tentano di cercare soluzioni ed evitare problemi all’ordine pubblico, dico questo senza alcun retropensiero politico", afferma Valls in un’intervista rilasciata al quotidiano La Provence. C’era da aspettarserlo, d’altra parte Valls non ha mai nascosto il suo laicismo militante; nel 2010 fu uno dei pochi deputati socialisti che votò a favore della legge che vieta di indossare il velo islamico nelle scuole pubbliche e appena poche settimane fa sulle colonne di Libération invitava i musulmani francesi a "vivere la proprie convinzioni religiose con maggiore discrezione e sobrietà". Naturalmente la guerra del burkini sta scatenando violente polemiche, con decine di associazioni di difesa dei diritti civili che insorgono contro un provvedimento che esprime un concezione fanatica della laicità e che sembra un vero e proprio regalo agli estremisti religiosi e ai jihadisti che nell’ultimo anno e mezzo hanno colpito al cuore la Francia per ben tre volte (dall’attentato a Charlie Hebdo al massacro del camion a Nizza, passando per la strage del Bataclan). Se l’obiettivo del terrorismo è seminare paure e divisioni nella comunità che colpisce, le proibizioni dei sindaci vanno proprio in quella direzione: "Nel paese c’è un clima avvelenato, le comunità sono state fomentate le une contro le altre come è successo in Corsica, questo divieto getta olio sul fuoco e cambia la maniera che noi cittadini abbiamo di percepirci gli uni con gli altri, ricorreremo al Consiglio di Stato", tuona Marwan Muhammad, presidente del Collettivo contro l’islamofobia in Francia (Cicif). Muhammad fa riferimento a una rissa avvenuta lo scorso week-end su una spiaggia corsa tra una famiglia musulmana e un gruppo di bagnanti contrari al fatto che le donne indossassero il proprio burkini. Un fatto di cronaca che probabilmente non sarebbe mai accaduto senza l’odioso dibattito che si sta scatenando intorno all’abbigliamento delle musulmane. Valls tuttavia non fa riferimento a una legge dello Stato perché i dubbi sulla costituzionalità del divieto sono più di uno, come sottolioneano decine e decine di giuristi. Per il momento il premier sostiene i sindaci proibizionisti e incassa gli applausi dell’opposizone neogollista e persino dell’estrema destra di Marine Le Pen, la quale giudica "positivamente" la presa di posizione di Valls contro "queste lugubri Belfagor delle spiagge" (sic). E invoca il principio di "sicurezza" per appoggiare la crociata. Oltre al cortocircuito culturale che nasce nell’associare "laicità e buoncostume", far slittare la questione della libertà di abbigliamento nella sfera dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini può avere degli effetti sociali dirompenti. In tal senso fanno davvero impressione le motivazioni addotte dal Tribunale di Nizza che ha reputato legittima l’ordinanza emessa da Lisnard, poiché "concepita nella cornice dello Stato di emergenza". Se lo Stato di emergenza e i suoi corollari giuridici d’eccezione sono gli strumenti contundenti per legittimare una discriminazione nei confronti di una specifica comunità religiosa anche il tanto invocato principio di laicità non è più un mezzo per difendere l’autonomia dei cittadini ma il suo esatto contrario. E l’Italia che fa? Per ora non sembra seguire il clima vento isterico che soffia oltre le Alpi. Ieri sulla questione è intervenuto il ministro dell’Interno Angelino Alfano il quale ha escluso che il nostro Paese possa vietare l’uso del burkini nei litorali: "Sarebbe una provocazione verso il milione e mezzo di musulmani che vive in Italia" Escludendo il leghista Salvini per fisologica propaganda, nessuna forza politica ha voglia di invischiarsi in un dibattito così melmoso. Fa eccezione una femminista smarrita come Lorella Zanardo (autrice del documentario Il Corpo delle donne) per la quale "interdire il burkini è un gesto di sinistra". Anche se si tratta di una libera scelta? "Conosco donne che lo sostengono di indossarlo. Ma in questi casi penso a quella volta che mia nonna, che è del 1910, mi ha detto: "Sai Lorella, noi ci tenevamo proprio a sposarci vergini". Burkini, un divieto sul corpo delle donne di Valentina Brinis Il Manifesto, 18 agosto 2016 Francia. Il provvedimento non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Come si comporteranno i Comuni francesi che hanno vietato il burkini sulla spiaggia, con chi indossa la muta da sub? O con le donne che per varie ragioni non possono esporsi interamente al sole e si presentano al mare con un abito che le copre interamente, testa inclusa? È vero che quelle ordinanze - adottate proprio dove qualche decennio fa era stato inventato il bikini - parlano chiaro, e si riferiscono al burkini come simbolo religioso più che all’abito in quanto tale. Ma è immaginando l’applicazione di un simile dispositivo che emergono le contraddizioni, oltre che la difficoltà di distinguere tra chi indossa un abbigliamento coprente per motivi religiosi e chi lo fa per altre ragioni. Gli addetti al controllo delle spiagge avranno probabilmente delle linee guida e sarebbe interessante sapere se si limitano all’identificazione dei trasgressori attraverso le caratteristiche fisiche, o se è prevista un’intervista (due domande, due) in grado di mettere in evidenza se le ragioni di tale abbigliamento siano o meno religiose. Se quest’ultima parte verrà trascurata, quale atteggiamento assumeranno con i fedeli di altri culti che prevedono un costume simile? Possibile che sia solo il burkini a creare problemi di ordine pubblico, e non per esempio i borsoni da spiaggia, le già citate mute da sub o i copri costume extra-large? Il burkini, poi, rende chi lo indossa immediatamente riconoscibile, smontando in questo modo il fulcro di un dibattito di qualche anno fa sul tema del velo come minaccia alla sicurezza pubblica. Pare però che la battaglia contro alcune manifestazioni di radicalismo religioso si stia giocando esclusivamente sull’esibizione dei simboli di appartenenza tipicamente femminili e, più esattamente, sul corpo delle donne. Un atteggiamento, quello francese, che appare del tutto sfasato rispetto a quanto sta accadendo alle Olimpiadi di Rio dove il burkini viene utilizzato dalle atlete senza che divenga il bersaglio di accese polemiche. La schermitrice americana che ha gareggiato con il velo lo ha fatto per rivendicare la propria identità e non perché costretta da un compagno estremista. E lo stesso ha pensato la giocatrice di beach-volley egiziana quando lo ha indossato nel match contro la Germania. Ecco perché è stato prudente il ministro dell’Interno Angelino Alfano a discostarsi dai provvedimenti francesi, assicurando che non saranno mai adottati in Italia. E ciò deve essere fatto non solo per paura di subire ritorsioni da parte di chi quei simboli li considera il tratto fondamentale della propria identità, fino a dichiarare guerra a chi non li rispetta, ma anche perché la loro negazione nello spazio pubblico non si è dimostrata efficace. Inoltre, un divieto come quello imposto dalla Francia, non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Dove, l’integrazione, è da intendersi come un processo a doppio senso (e non a senso unico), composto da diversi elementi, e capace di incidere sia sulla società ospitante che sugli stranieri. E in Europa, un simile sistema non è più ignorabile. Polemica sul burkini, il corpo delle donne nuovo simbolo della paura francese di Tahar Ben Jelloun La Repubblica, 18 agosto 2016 Colpito e ferito, il Paese ha fatto della laicità un principio irrinunciabile. E questo alcuni musulmani non riescono a capirlo. Il giudice di Nizza ha invocato lo stato di emergenza, dichiarato in Francia dopo l’attentato di Nizza che ha fatto 85 morti e decine di feriti, e ha dato ragione al sindaco di Cannes per aver vietato il burkini sulle spiagge. C’è una tensione palpabile tra la comunità musulmana e il resto della popolazione che, pur sapendo perfettamente che i terroristi che agiscono in nome dell’islam non sono veri musulmani, confonde terrorismo e islam. È in questo contesto che è scoppiato il caso burkini. Il primo ministro Manuel Valls ha subito reagito appoggiando il divieto di indossare questo costume da bagno definito "fondamentalista". L’associazione contro l’islamofobia ha immediatamente sporto denuncia e aspetta che la Corte di cassazione si pronunci a favore dell’indumento. La Corte emetterà il verdetto tra un mese, ma da qui ad allora le spiagge non saranno più frequentate. Il divieto di indossare il burkini è la prosecuzione logica del divieto di indossare il burqa integrale. La Francia ha votato questa legge e vuole essere coerente con i suoi principi. È bastato questo a scatenare polemiche che ancora una volta mettono l’islam all’indice. La paura o addirittura l’odio per quella religione continua a crescere tra la popolazione che non si sente più sicura nella vita quotidiana. Se la Francia è stata attaccata molte volte è, in parte, anche perché ha votato la legge contro l’uso del velo integrale. Dei musulmani hanno protestato dicendo che si trattava di una questione di libertà e che ognuno ha il diritto di vestirsi come vuole, citando l’esempio di Londra, dove i musulmani non vengono perseguitati per questioni di abbigliamento. Il corpo della donna resta uno dei punti focali del discorso dei fondamentalisti. Un corpo che non deve essere visto. Un corpo che bisogna velare, nascondere, negare: il burkini è semplicemente una versione "light" del burqa. Il burkini avrebbe potuto non suscitare reazioni di ostilità, ma dal 7 gennaio 2015, il giorno del massacro della redazione di Charlie Hebdo, la Francia è traumatizzata. Ogni manifestazione che può ricordare certe regole religiose viene respinta, specialmente adesso che sono sempre più numerosi gli intellettuali musulmani che prendono la penna per denunciare il fondamentalismo islamico, sia esso un segno di appartenenza o di possibili azioni. In generale le donne musulmane praticanti non fanno bagni in mare, e quando vanno in spiaggia con la famiglia si immergono completamente vestite. Sulle spiagge dei paesi arabi questo fenomeno si è sviluppato a tal punto che alcuni attivisti fondamentalisti hanno cominciato a dare la caccia alle donne che indossano il bikini. In Marocco lo Stato è intervenuto per impedire a questi individui che "danno la caccia al vizio e militano per la virtù" di agire sulle spiagge in nome dell’islam. È difficile interagire con l’islam. L’ex ministro degli interni, Jean-Pierre Chevènement, ha chiesto ai musulmani "un po’ di discrezione" ed è stato criticato. È vero che la questione del burkini ha ulteriormente esacerbato le tensioni e messo in contrasto i musulmani. La Francia cerca un interlocutore con cui parlare ma i musulmani sunniti non conoscono gerarchia: non c’è un Papa e nemmeno vescovi o preti. Che cosa fare, dunque? A chi rivolgersi? Non esiste un portavoce della comunità musulmana in Francia, perciò è così difficile risolvere qualsiasi problema, per piccolo che sia. Tutto passa attraverso i media. L’ostilità c’è, ma senza dialogo. In un paese che ha fatto della laicità un principio irrinunciabile è un vero problema. La religione deve rimanere nella sfera del privato e non deve in nessun caso invadere gli spazi pubblici, che si tratti di una scuola o di una spiaggia, e questo certi musulmani non lo vogliono capire né accettare. Parlano di libertà e del diritto della donna a non mostrare il proprio corpo. Se almeno ci fosse un dibattito pacato e sereno. Ma ci sono troppe tensioni, troppa rigidità per parlarsi senza cadere nell’eccesso. In Francia l’islam è lontano dall’aver trovato un terreno pacifico dove vivere senza suscitare polemiche, se non paura e odio. (Traduzione di Elda Volterrani) La Francia dei diritti, la Francia dei divieti di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 18 agosto 2016 Il dibattito estivo sul "burkini", con la Francia che si sta trasformando da patria dei diritti a paese dei divieti, è tutto sommato abbastanza ridicolo. In sintesi: per burkini si intende l’abbigliamento delle donne islamiche sulla spiaggia. Una sorta di tuta che copre il corpo dalla testa alle caviglie, lasciando scoperti solo il viso, le mani e i piedi. Cioè lo stesso abbigliamento delle donne che noi incontriamo ogni giorno nelle strade delle nostre città, essendo nel mondo occidentale piuttosto rare le donne che indossano il burqa o il niqad, che coprono anche il viso. Lo scandalo - nato in Francia ma che si era già sviluppato a Milano sui bordi delle piscine - è dovuto al fatto che alcune donne si sono presentate coperte a quel modo sulle spiagge della Corsica e della Costa azzurra. Il fatto non dovrebbe suscitare nessuna sorpresa. Prima di tutto perché la vera libertà di un Paese che rispetti i diritti di tutti dovrebbe poter consentire a chiunque di fare il bagno abbigliato come preferisce (o anche senza abito alcuno), in secondo luogo perché coprirsi tutto il corpo per strada o sulla spiaggia non dovrebbe fare alcuna differenza. Diverso è il discorso (che deve riguardare tutti, di ogni nazionalità, etnia o religione) di ordine pubblico e la necessità che ciascuno abbia il viso scoperto e riconoscibile. In Francia, dove il Parlamento aveva già vietato per legge l’esibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, alcuni sindaci hanno pensato bene di vietare e di sanzionare con una multa chi indossi il "burkini". Il premier Manuel Valls si è dichiarato d’accordo (e incredibilmente anche il ministro dei Diritti delle donne Laurence Rossignol), rilevando come quel particolare abbigliamento non sia una nuova moda o un nuovo tipo di costume da bagno, ma "l’espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna". Un argomento molto serio e condivisibile, ma che contrasta con il sistema del proibizionismo, che rischia di diventare altrettanto costrittivo nei confronti delle donne. E che è in contraddizione con l’abbigliamento quotidiano della gran parte delle donne di religione islamica, che nessuno finora ha vietato in nessun paese europeo. Il problema quindi non può essere affrontato con i divieti, ma va affrontato. E subito. Non sono così lontani i tempi della repubblica islamica iraniana, così ben descritta da Azar Nafiri nel libro tradotto in 32 paesi Leggere Lolita a Teheran. Un paese in cui le donne non potevano più studiare né vestirsi in libertà e dovevano coprirsi persino per andare a dormire perché nel caso in cui fossero morte per una disgrazia come il terremoto o l’incendio o un raid aereo, il loro corpo non doveva comunque essere mostrato, neanche nella rigidità della morte. E la storia di questi giorni ci mostra le immagini della città siriana di Manbij liberata, dove le donne bruciano i veli, simboli della loro oppressione. Parlare di libertà è dunque difficile, anche se alcune donne, se interrogate, ci direbbero di aver scelto senza costrizione di coprire il proprio corpo. Ho avuto occasione, una volta, di avviare il discorso con un imam di Milano. Mi ha spiegato, con molta sincerità, che qualunque uomo, vedendo parti scoperte del corpo femminile, "si emoziona". Voleva dire "si eccita", ovviamente, aveva edulcorato il termine per una qualche forma di rispetto nei miei confronti. Mi ha anche confermato che, nella loro ideologia, il corpo della donna è considerato "impuro", e questo spiega la necessità di coprirlo. Ecco, da qui bisogna partire. Quando chiediamo alla comunità islamica di dissociarsi dal terrorismo (compito facile facile), cerchiamo di fare un passettino in più, discutiamo di che cosa significhino davvero la parità dei diritti e il rispetto delle donne. Vietare non serve a niente. Magari ha anche ragione il ministro Alfano quando dice che con i divieti si stuzzicano anche i terroristi. Ma non è solo questo. È anche una questione di convivenza e di rispetto dei diritti non solo delle donne, ma anche della nostra cultura. E di diritti che abbiamo faticosamente conquistato. P. S. Mi affaccio alla finestra della cittadina di mare dove sono in vacanza e vedo una simpatica famigliola: lui davanti in bermuda e infradito, lei tutta coperta e accerchiata da una nidiata di bambini, cammina due passi indietro. Per ora mi limito a chiudere la finestra. Droghe sintetiche, boom di vittime negli Stati Uniti: 28 mila morti in un anno di Valeria Pini La Repubblica, 18 agosto 2016 Allarme per l’epidemia "silenziosa". La quantità di stupefacente sequestrata tra il 2008 e il 2013 al confine meridionale è quadruplicato. A uccidere anche gli antidolorifici e i farmaci di derivazione naturale da oppio. Verso una stretta sulle prescrizioni. Nella storia recente degli Stati Uniti il numero di morti dovute all’uso di droghe sintetiche non era mai stato così alto: con un picco di 28.000 decessi nel 2014. Questo vuol dire che ogni giorni 78 americani perdono la vita per un’overdose, secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention. A uccidere sono gli oppioidi, un termine generico utilizzato per definire gli antidolorifici sintetici e i farmaci di derivazione naturale da oppio, conosciuti come oppiacei, ma anche le droghe, come l’eroina. Non è solo l’uso delle sostanze illecite a essere aumentato. Dal 1999 sono quadruplicate le morti da overdose per antidolorifici prescritti regolarmente dai medici. Una questione quello dell’uso degli stupefacenti nel paese che è uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Donald Trump. Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti vorrebbe costruire un muro lungo il confine messicano per fermare il flusso di droghe illegali negli Usa. Secondo i dati del Drug Enforcement Administration, la quantità di droga sequestrata tra il 2008 e il 2013 al confine meriodionale è quadruplicato. Hillary Clinton ha proposto di spendere 10 miliardi di dollari per affrontare la crisi. Il piano della candidata democratica alla presidenza punta a mandare più soldi ai singoli Stati per affrontare le dipendenze da stupefacenti nei servizi di igiene mentale e per lanciare programmi di informazione nelle scuole. I dati. I numeri sono preoccupanti: nel 2014 più di 2,4 milioni di americani sono risultati dipendenti da droghe sintetiche, fra le quali l’eroina. Un problema che coinvolge milioni di famiglie bloccate nel quotidiano da questa dipendenza. Tanto da spingere Clinton a parlare di "un’epidemia silenziosa". Un nemico che colpisce molti americani, senza differenza di età, razza o classe sociale. Per decenni la dipendenza è stata considerata un problema legato all’ordine pubblico, alla giustizia, non una questione di salute. Ora lo stigma negli Stati Uniti è diminuito, ma molti Stati non sono ancora in grado di offrire assistenza sanitaria e ricoveri adeguati alle persone che ne hanno necessità. Secondo il National Survey on Drug Use and Health, nel 2015 solo lo 0,9% di persone che avevano bisogno di avere cure o essere disintossicate da droga o alcol sono state aiutate. Prescrizioni facili. Secondo gli esperti una delle emergenze è la prescrizione sempre più diffusa degli antidolorifici sintetici e dei farmaci di derivazione naturale da oppio. Una questione che un anno fa il presidente Barack Obama aveva affrontato dando il via a maggiori controlli. A volte solo per l’estrazione di un dente, i pazienti si vedono consegnare decine di pillole. E nel tempo cure di questo tipo possono essere il primo passo verso una dipendenza. Circa il 75% delle persone che scelgono per la prima volta di consumare eroina è stato in cura in precedenza con antidolorifici che derivano da droghe sintetiche. Da qualche tempo i giuristi hanno incominciato ad affrontare l’emergenza: a luglio all’incontro del National Governors Association, 45 governatori hanno firmato un documento per una stretta sulle prescrizioni. Numerosi giuristi hanno avviato battaglie contro i colossi farmaceutici per fermare il fenomeno. Merce pericolosa. Ma c’è un altro problema: oggi i narcotrafficanti rendono la loro merce sempre più pericolosa e letale. Il fentanyl è un potente analgesico oppioide sintetico. Viene venduto illegalmente. Può arrivare a essere fino a 50 volte più potente dell’eroina. Non è facile riconoscerlo a prima vista e la sua diffusione è salita rapidamente in Stati come il New Hampshire e l’Ohio. Solo nel 2014 ha ucciso almeno 5.000 persone. L’epidemia ‘silenziosà non si ferma e oggi negli Stati Uniti sempre più famiglie e associazioni chiedono un cambiamento. Siria: catastrofe umanitaria ad Aleppo, l’allarme dell’Unicef: "130mila bambini a rischio" La Stampa, 18 agosto 2016 Continuano le sofferenze della popolazione di Aleppo, campo di battaglia tra forze lealiste e gli insorti da quattro anni. Oggi, ha riferito l’agenzia governativa Sana, sette civili sono stati uccisi e nove feriti in un bombardamento compiuto con razzi da formazioni ribelli sul quartiere settentrionale di Salaheddin, in mani governative. Mentre ieri l’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus), schierato con le opposizioni, aveva riferito di 20 civili uccisi in bombardamenti aerei nei quartieri orientali in mano ai ribelli. Ad Aleppo c’è il rischio di una "catastrofe umanitaria senza precedenti", ha affermato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon nel suo ultimo rapporto al Consiglio di Sicurezza, esortando Usa e Russia a raggiungere rapidamente un accordo per il cessate il fuoco. Ma una "catastrofe umanitaria" è già in atto, ha detto Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef per l’Italia, sottolineando che nella città martoriata vivono 130mila bambini. Nuovi, pesanti bombardamenti sono stati effettuati oggi in Siria da jet partiti da una base iraniana per il secondo giorno di raid. Una concessione senza precedenti fatta dalla Repubblica islamica ad una potenza straniera, che ha indotto le autorità di Teheran a precisare che la struttura militare è stata messa a disposizione di Mosca temporaneamente, e al solo scopo di rifornire gli aerei. Commentando i raid dei bombardieri russi che partono dalla base iraniana Shahid Nojeh, 50 chilometri a nord della città di Hamadan, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Mark Toner ha detto che l’operazione potrebbe essere una violazione di una risoluzione dell’Onu che vieta il trasferimento di jet militari in Iran se non approvato dal Consiglio di Sicurezza. Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha respinto tale ipotesi, affermando che "non vi è stata fornitura, vendita o trasferimento di aerei da guerra". Lo stesso hanno tenuto a precisare le autorità iraniane, alle prime avvisaglie di una possibile reazione nazionalistica nel Paese. Siria: fermiamoli, Aleppo viene ancora uccisa Andrea Riccardi Avvenire, 18 agosto 2016 Si discute in Europa di sicurezza e immigrati. O di economia. Dall’altra parte del Mediterraneo, la Siria è a fuoco da cinque anni e la sua città più emblematica, Aleppo, sta morendo in un assedio spietato. Alcuni di noi, dal 2014, hanno posto la questione all’opinione pubblica internazionale con l’appello, Save Aleppo, che ha avuto molte adesioni: salvarla, con la tregua, facendone una "città aperta". Ma quanto conta l’opinione pubblica? Soprattutto non contano i lamenti e le grida di sofferenti, bambini, malati, fragili. Voci flebili di chi non ha cibo, acqua, medicinali, medici. Voci di gente, che ha saputo adattarsi a tutto: riaprire gli antichi pozzi, coltivare ovunque, vivere tra le rovine, aspettare. Due milioni di abitanti e più. Solo dal primo agosto sono stati identificati 106 morti. Dall’inizio dell’assedio, se ne calcolano ufficialmente 28.894 (in realtà di più). Le immagini di Aleppo, trasmesse al mondo, mostrano una città-fantasma, con strade piene di macerie e scheletri di palazzi. Dovunque si è visto questo, ma non si è fatto niente. Aleppo è la Sarajevo del XXI secolo. Sarajevo fu assediata per quattro anni: dall’aprile 1992 al febbraio 1996. Ci furono 12.000 morti. Allora si vide la crudeltà dei combattenti unita all’impotenza dell’Onu e della comunità internazionale. Aleppo è divisa dal 2012: l’Ovest (dove abitano i cristiani) è controllato dal regime di Assad, l’Est dalla ribellione. Oggi i combattenti di al-Nusra si sono distaccati da al-Qaeda e formano un fronte con i salafiti e altri gruppi con l’appoggio di Arabia Saudita, Qatar, Turchia. La parte Ovest è stata legata da una via alla Siria governativa. A volte torna isolata, mentre temibili missili cadono sulle case, distruggendo tutto. L’antico suk è un cumulo di rovine. Così la stupenda cattedrale armena. Gli elicotteri governativi, per la loro parte, scaricano terribili barili-bomba sull’Est, progressivamente isolato dalla recente offensiva di siriani, iraniani e hezbollah, appoggiati da aerei russi. Poi c’è stata la ripresa dei ribelli. Alterne vicende di due assedi contemporanei che tengono in ostaggio, dal 2012, una comunità che viveva insieme da sempre: musulmani di varie tradizioni, cristiani (armeni, siriaci, ortodossi, cattolici…). Una danza macabra di siriani, islamisti, potenze regionali, grandi potenze che continua sulla testa della città-simbolo del vivere insieme. Sì, questo era Aleppo. Fino a qualche decennio fa c’erano anche gli ebrei: ne parla Miro Silvera nel suo Prigioniero di Aleppo, romanzo di memoria della convivenza perduta. C’è l’Hotel Baron, di proprietà armena, dove scesero Lawrence e Agatha Christie. Ad Aleppo si è sempre commerciato. Prima della tragedia, vidi all’aeroporto donne che venivano dall’Armenia per acquisti. C’erano insegne in tante lingue, pure in russo. Aleppo soprattutto era capitale di storia e di cultura. Lo stupendo museo con le statue millenarie dei Baal. Soprattutto si viveva una tradizione di rispetto nella differenza. Per questo i combattenti non hanno salvato la città con una tregua: Aleppo doveva morire. Era, con il suo vivere insieme, la risposta vivente al totalitarismo islamista. Ed era troppo vivace per il clima occhiuto della dittatura. Preservarla era creare un’isola di pace in tanta guerra. Ricordo, quando lanciai l’appello Save Aleppo, le obiezioni: "Perché Aleppo e non un’altra città siriana?". Ma Aleppo vuol dire pace e convivenza: il futuro auspicabile per la Siria. Oggi è quasi distrutta. Ciascun attore ha la sua strategia. Ne abbiamo discusso tante volte. Mentre l’Onu è impotente, vediamo la connivenza di tutti (pur nemici) nell’assassinare la città. Insensibili alle lacrime degli aleppini. Ci dicono nei fatti: la solidarietà e la volontà di salvare Aleppo non contano nulla. Non ci si meravigli allora se cresce il nichilismo tra la gente e i giovani. Non si era proclamato negli anni Novanta "Mai più Sarajevo" ? Aleppo è la nuova Sarajevo. Forse peggio, se si possono paragonare i drammi. Peggio, perché non si è imparato niente dalla storia. Non ci stancheremo però di gridare: Save Aleppo! Salvate Aleppo, salviamola. Siria: Amnesty International denuncia "18.000 persone morte nelle carceri dal 2011" Askanews, 18 agosto 2016 L’Ong denuncia crimini contro l’umanità commessi da forze governative. Sono quasi 18.000 le persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011, inizio della crisi, pari a una media di oltre 300 morti al mese. È quanto emerge dal rapporto diffuso oggi da Amnesty International, intitolato "Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria", in cui vengono denunciati crimini contro l’umanità commessi dalle forze governative di Damasco e viene ricostruita l’esperienza provata da migliaia di detenuti attraverso i casi di 65 sopravvissuti alla tortura. "Il campionario di orrori contenuti in questo rapporto ricostruisce in raccapriccianti dettagli le violenze da incubo inflitte ai detenuti sin dal momento dell’arresto e poi durante gli interrogatori, svolti a porte chiuse all’interno dei famigerati centri di detenzione dei servizi di sicurezza siriani: un incubo che spesso termina con la morte, che può arrivare in ogni fase della detenzione - ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International - da decenni le forze governative siriane usano la tortura per stroncare gli oppositori. Oggi viene usata nell’ambito di attacchi sistematici contro chiunque, nella popolazione civile, sia sospettato di non stare dalla parte del governo. Siamo di fronte a crimini contro l’umanità, i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia". "I paesi della comunità internazionale, soprattutto Russia e Stati Uniti che condividono la direzione dei colloqui di pace sulla Siria, devono mettere questo tema in cima all’agenda delle discussioni tanto col governo quanto coi gruppi armati e sollecitare gli uni e gli altri a porre fine alla tortura", ha aggiunto Luther. In una nota Amnesty ha chiesto inoltre il rilascio di tutti i prigionieri di coscienza. Tutti gli altri detenuti dovrebbero essere sottoposti a un giusto processo in linea con gli standard internazionali oppure rilasciati. Osservatori indipendenti dovrebbero poter visitare immediatamente e senza ostacoli tutti i centri di detenzione. (segue) Libia: a Sirte dove i giovani miliziani sfidano i mercenari del Califfo di Giordano Stabile La Stampa, 18 agosto 2016 L’ultima resistenza dell’Isis nella roccaforte è affidata a nigeriani, ciadiani e sudanesi Si difendono con autobombe e trappole esplosive dinanzi alle brigate di Misurata. Li uccideranno tutti. Non si sa quanti jihadisti dell’Isis siano ancora a Sirte, negli ultimi tre quartieri che ancora controllano. E quanto potranno resistere. Tre, quattro giorni, forse una settimana. Di certo non potranno scappare. A terra sono chiusi da tre lati dai combattenti di Misurata, sul mare dalle navi della Marina libica, dai droni e dai cacciabombardieri americani dal cielo. E le milizie di Misurata non faranno prigionieri. "E perché, per ritrovarceli fra qualche anno a organizzare attentati?". Anche gli uomini in nero lo sanno. Tanto vale farla finita da soli e cercare di compiere stragi fino all’ultimo. L’arsenale di autobombe e cinture esplosive è ancora abbondante. Sono gli unici attacchi che mandano in panico i combattenti. Le auto kamikaze blindate con lastre d’acciaio spesse un paio di centimetri possono essere fermate solo da un colpo di cannone ben assestato o un missile da un F-18 statunitense. I mitra, i lanciarazzi portatili, gli Rpg, non bastano. Mentre avanzano su una strada i militari piazzano vedette sui tetti, per anticipare l’allarme. Pochi secondi fanno la differenza fra vita e morte. Quando l’autobomba sbuca da un angolo le vedette urlano e si sbracciano. I combattenti lasciano la strada di corsa. A volte serve il sacrificio estremo. Come martedì, nel distretto residenziale Numero 1. Il kamikaze ha puntato un gruppo di soldati e di civili, alcuni medici. Un volontario di Misurata si è gettato con la sua macchina contro l’autobomba in corsa. L’esplosione l’ha ucciso sul colpo assieme al terrorista e ha ferito leggermente una decina di persone. Ma poteva essere un massacro. L’inizio della fine della battaglia, cominciata a maggio, è stato il primo agosto. I raid americani, pochi, 48 in tutto, ma mirati sulle postazioni difensive inespugnabili da terra, hanno rotto lo stallo che durava da due mesi. Il gigantesco complesso Ougadougou, il distretto amministrativo dell’Unione Africana nei sogni di Gheddafi, diventato nel 2015 il quartier generale del Califfato in Libia, è stato preso in pochi giorni. Ora restano da espugnare tre quartieri residenziali, verso il mare. I combattenti di Misurata, sono giovani, un’età media sui 25 anni, molti ragazzi, anche sedicenni. Hanno imparato ad avanzare lentamente, frenati da un pugno di ufficiali anziani, che tengono le redini delle katibe, i battaglioni di volontari che si sono formati dopo l’attacco dell’Isis ad Abu Ghrain a maggio. "Erano alle porte di Misurata, è come se avessero attaccato nostra madre". Migliaia di uomini si sono arruolati. Il governo di Unità nazionale di Fayez al-Sarraj ha mandato qualche rinforzo e benedetto l’operazione. Le armi sono arrivate dagli arsenali di Misurata, riempiti all’inverosimile con i saccheggi nelle caserme di Gheddafi durante la rivoluzione del 2011. L’arsenale di Gheddafi Ci sono blindati di fabbricazione jugoslava, sovietica, russa, brasiliana, semoventi con cannoni da 105 millimetri, vecchi carri T-62. E poi un numero infinito di "tecniche". I furgoncini con le mitragliatrici saldate sul pianale. In genere armi antiaeree da 14 e ½ e 23 millimetri, dal grande volume di fuoco. La tattica dei "ragazzi", nonostante gli sforzi degli ufficiali, è abbastanza primitiva. Un diluvio di colpi e razzi Rpg sull’edificio da conquistare e poi l’assalto. Dove le case sono addossate si aprono aperture nei muri e si passa da una all’altra. Un’occhiata dentro la stanza da "bonificare" e poi dentro. È qui che i ragazzi subiscono le perdite maggiori. Booby traps. Mine collegate a un fil di ferro, un cavo, dentro un innocuo scatolone di cartone. Non ci sono reparti sminatori. Si va avanti a intuito e fortuna. Coraggio ce n’è in abbondanza ma gli oltre 300 morti in tre mesi, i 1400 feriti, hanno ridotto di un terzo la forza iniziale dell’armata di liberazione. Le stime delle perdite dei jihadisti variano invece moltissimo, centinaia, forse mille. "Dentro", nei quartieri da espugnare, ce ne sono "da 200 a 800". I volti dei caduti hanno spesso la pelle scura. "Ciadiani, sudanesi, nigeriani". Sono stati recuperati alcuni passaporti a conferma. E poi molti tunisini, qualche libico. "Mercenari". Comunque gente addestrata, abituata a combattere sui fronti siriano, iracheno, afghano. Il contrario dei "ragazzi". E i civili? Qualcuno dice che "dentro" ne sono rimasti al massimo "dieci", altri "un centinaio". Sono un dilemma per i miliziani. Complici o vittime? I jihadisti saranno uccisi tutti, ma che cosa fare dei civili non è stato ancora deciso. Ora che la battaglia sta per finire i rimpianti sono per le troppe perdite. Forse bisognava "chiedere prima" l’aiuto dei raid americani. La raccogliticcia aviazione di Misurata, qualche Mig-23, ha fatto quello che poteva. Raid in picchiata fino a bassa quota per sganciare bombe a caduta libera, imprecise. Un Mig, esposto al tiro delle mitraglie anti-aeree, è stato abbattuto. I "ragazzi" comunque sanno di non avere debiti di riconoscenza. È "con il loro sangue" che hanno difeso mamma-Misurata ma anche l’Occidente dal più feroce esercito di terroristi che sia mai sorto in Medio Oriente. Fra tutti i Paesi europei le maggiori simpatie, nonostante il passato coloniale, sono per l’Italia. A Misurata prima del 2011 c’erano 68 imprese italiane e "davano tanto lavoro". Per gli eroi che stanno per tornare a casa la nuova battaglia sarà costruirsi un futuro. Turchia: fuori i detenuti "comuni", dentro i golpisti di Mariano Giustino Il Manifesto, 18 agosto 2016 Con un decreto il governo del Sultano annuncia l’uscita dai penitenziari di almeno 38mila detenuti perché "servono celle per rinchiudere chi si è reso colpevole del tentato colpo di stato". L’ultima mossa del governo dell’Akp viene camuffata dal ministro dell Giustizia Bekir Bozdag come risposta all’allarme per il sovraffolamento nelle carceri turche, che stanno letteralmente scoppiando. Ieri è stato varato un decreto che spianerà la strada alla liberazione condizionale di 38mila prigionieri dei 214mila tuttora detenuti. Si tratta, a detta del ministro, di una misura necessaria per ridurre la popolazione carceraria e per fare spazio alle 35mila persone che sono state arrestate perché accusate di appartenenza all’organizzazione di Gülen. Il ministro ha precisato che non si tratta né di una grazia né di un’amnistia, ma di una liberazione condizionale: saranno rilasciati i detenuti con buona condotta e quelli con meno di due anni di pena da scontare. Non solo: a chi ha scontato metà della pena sarà possibile chiedere la grazia. Esclusi i detenuti per crimini di omicidio, violenza domestica, abusi sessuali e terrorismo. Siamo soltanto all’inizio di quella che è senza dubbio la più imponente epurazione di massa mai avvenuta in Europa dalla dissoluzione dell’ex Unione sovietica. All’indomani del tentativo fallito di golpe, la notte del 15 luglio scorso, il presidente Erdogan ha lanciato una campagna epurativa senza precedenti che prosegue senza sosta: decine di migliaia di soldati, poliziotti, magistrati, giornalisti, dipendenti pubblici arrestati per cui va fatto posto. Poco dopo il putsch, il governo aveva annunciato la costruzione di carceri ad hoc, maxi prigione dove infilare i "traditori". Nel frattempo, andranno a sostituire criminali incarcerati. Tra gli ultimi arrestati ci sono 50 imprenditori, considerati vicini all’imam Gülen, capro espiatorio del tentato golpe per il quale due giorni fa un procuratore turco ha chiesto due ergastoli e 1.900 anni di galera. Prosegue spedito anche l’attacco ai media in questi giorni di stato emergenza. Martedì scorso con un’ordinanza del tribunale di Istanbul è stato chiuso lo storico quotidiano vicino al movimento curdo, Özgür Gündem, per propaganda in favore di organizzazione terroristica: è accusato di sostenere il Partito dei lavori del Kurdistan, PKK. La vita di questo quotidiano è emblematica della censura a cui è stato sottoposta la Turchia nel corso di quest’ultimi anni: Özgür Gündem è alfiere della battaglia per il diritto all’informazione e per la libertà di stampa. Sulle sue colonne hanno scritto firme prestigiose dell’Intellighentia turca. Da quando è stato fondato, il 14 maggio del 1992, è stato oggetto di continue violazioni della libertà di stampa da parte di tutti i governi turchi che si sono susseguiti fino ad oggi, perché critico delle politiche di Ankara nei confronti della comunità kurda. Dal 1994 è stato chiuso più volte. Una lunga scia di sangue ha inoltre accompagnato la sua esistenza: 27 membri della sua redazione, tra cui giornalisti, distributori e scrittori, sono stati uccisi nel corso dei primi due anni dalla sua pubblicazione. Delle 580 edizioni pubblicate finora dal quotidiano, 486 sono state sottoposte a sequestrato per ordine della magistratura. I redattori sono continuamente perseguitati per i loro reportage e nei loro confronti sono state intentate centinaia di cause legali. Il 4 aprile 2011, dopo una pausa forzata durata 17 anni, Özgür Gündem aveva ripreso le pubblicazioni. Ma è la stampa in genere ad essere nel mirino: Selina Dogan, deputata armena del Parlamento di Turchia, eletta tra le file del maggior partito di opposizione Chp, ha denunciato ieri che è in corso la cancellazione di massa di un altissimo numero di passaporti di giornalisti turchi. Si teme la fuga di molti essi. E la mannaia torna anche sulla scuola, già vittima di epurazioni: lunedì il Ministero dell’Istruzione ha chiesto a tutti gli istituti scolastici del paese di raccogliere e distruggere tutti i libri pubblicati dal movimento di Fethullah Gülen, compresi documenti, cd e dvd e ogni materiale elettronico. Nel contempo 29 case editrici, 15 riviste e 45 quotidiani legati alla organizzazione di Gülen sono state chiuse. Tali misure censorie sono consentite grazie ad un decreto legge varato sotto lo stato di emergenza proclamato il 21 luglio scorso a seguito del tentato colpo di stato. E ancora, l’Università Kultur di Istanbul ha distribuito ai suoi professori un documento da firmare in cui si dichiara di non avere legami con Gülen o con la sua ideologia. Stati Uniti: il Dipartimento di Giustizia "abusi e razzismo diffuso nelle prigioni" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2016 Un nuovo rapporto redatto dal ministero della giustizia americano ha stabilito che la polizia di Baltimora discrimina abitualmente gli afroamericani, presi costantemente di mira dagli agenti che ricorrono ad un uso eccessivo della forza nei loro confronti. Questo è il risultato dell’inchiesta aperta dopo la morte del nero Freddie Gray, scomparso ad aprile del 2015 mentre era sotto custodia della polizia, per le ferite riportate mentre veniva sbalzato da un lato all’altro dentro un cellulare della polizia. La sindaca di Baltimora, l’afroamericana Stephanie Rawlings Blake, ha confessato di aver sofferto e di aver provato vergogna nel leggere dei comportamenti inammissibili dei suoi agenti. Neri fermati con frequenza molto superiore ai cittadini delle altre etnie anche quando non ci sono sospetti, mancato rispetto dei diritti civili, trattamento brutale anche dei testimoni col risultato che molti di quelli che all’inizio si erano rivolti alla polizia per denunciare un reato, alla fine si tirano indietro. Tra i vari episodi riportati dal rapporto del ministero della giustizia c’è un caso come quello del professionista cinquantacinquenne, un nero incensurato, fermato più di 30 volte dalla polizia senza motivo. Quindi non solo violenze fisiche, ma anche persecuzioni psicologiche. Il dossier non parla di poche "mele marce", ma indica un problema sistemico. L’addestramento è carente e viene data carta bianca agli agenti di applicare la "tolleranza zero". Non è il primo dossier contro gli abusi della polizia. L’anno scorso il ministero della giustizia aveva accusato la polizia e i magistrati per la loro condotta ingiusta nei confronti degli afroamericani. Secondo il guardasigilli americano, la polizia è sistematicamente influenzata e condizionata da considerazioni a sfondo razziale. Si era riferito soprattutto alla condotta tenuta dalla polizia di Ferguson, la località del Missouri dove lo scorso agosto un agente bianco uccise a colpi di arma da fuoco il diciottenne di colore Michael Brown, malgrado fosse disarmato. Dall’esame di oltre 35mila pagine di documenti ufficiali della polizia è emerso che, stando sempre a fonti riservate del dicastero, a Ferguson il 93% degli arresti riguardano afro-americani, nonostante costituiscano soltanto il 67% della popolazione complessiva. Il rapporto aveva messo anche in evidenza una propensione generalizzata al razzismo da parte della polizia di Ferguson, con scherzi e barzellette sugli afroamericani rinvenuti nelle caselle mail di alcuni funzionari. Tra questi uno attacca il presidente Barack Obama, definendolo uno scimpanzé.