La svolta buona (sul carcere) che allarma Renzi di Errico Novi Il Dubbio, 17 agosto 2016 A settembre il Senato vota la delega sulla riforma penitenziaria: più spazio alle misure alternative. "Sì, ci hanno accolto bene come è sempre successo a ferragosto. Ma molti detenuti ci hanno anche lasciato un pensiero per Marco, sapevano della sua scomparsa e che questo giorno era diverso da come era stato per decenni". Roberto Giachetti ha guidato la delegazione radicale al carcere di Rebibbia, per un atto di dignità civile che si ripete appunto da moltissimi anni. Ma è chiaro che questo 15 di agosto resterà diverso e un po’ spaesante: perché senza Pannella - che tanti detenuti chiamano semplicemente "Marco", come racconta il vicepresidente della Camera - un po’ di angoscia viene. È stato Pannella il simbolo personificato delle battaglie sul carcere: le battaglie non si fermano ma il corpo del leader era la garanzia di una lotta che non si sarebbe arresa all’indifferenza. Certo gli eredi politici, da Bernardini a Maurizio Turco, perseverano al punto da aver convocato proprio nell’auditorium di Rebibbia il prossimo congresso del Partito radicale: l’appuntamento è per l’1, il 2 e 3 settembre prossimi. Ma l’ultimo ferragosto in carcere annuncia anche una novità assolutamente positiva: la riforma dell’ordinamento penitenziario. Le norme ci sono, non sono rimaste sospese nelle discussioni degli Stati generali dell’aprile scorso: le linee guida della svolta sono messe in ordine all’articolo 31 del ddl sul processo penale. Proprio il testo sul quale la maggioranza si è scervellata per mesi, in equilibrismi da farmacista su prescrizione e intercettazioni. Nel corso della snervante trattativa in commissione Giustizia al Senato quasi mai si è perso tempo per quell’articolo 31, che contiene una dettagliata delega al governo intitolata "Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario". Dentro ci sono molti contenuti forti, esposti con ampiezza tale da vincolare l’esecutivo all’adozione di decreti incisivi. Il tutto in 14 commi, che definiscono i punti d’intervento su cui scommette il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Al centro del progetto di riforma la "Revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative", che dovranno essere facilitati. Vorrà dire meno detenuti dietro le sbarre, uso assai più frequente del lavoro esterno. Il grimaldello della svolta è al comma successivo, che fa forse la cosa più importante e più suscettibile di anatemi forcaioli: innalza da 3 a 4 anni il limite massimo di pena per la concessione di queste misure alternative alla detenzione. Non è finita qui. Si prevede una "maggiore valorizzazione del lavoro", anche nella sua forma intramuraria; l’uso di "collegamenti audiovisivi", quindi di Skype o piattaforme analoghe, sia "a fini processuali" (come proposto dalla commissione Gratteri tra molte perplessità dei penalisti) sia, soprattutto, "per favorire le relazioni familiari"; fino al "riconoscimento del diritto all’ affettività delle persone detenute e internate" con una "disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio", comma che schiude le porte alle cosiddette stanze dell’amore. Tutto questo impegna lo Stato sul piano finanziario: il potenziamento delle opportunità di lavoro è decisivo perché il fine rieducativo della pena si realizzi e nello stesso tempo comporta investimenti. Così come si dovrà spendere qualcosa in più per psicologi e terapisti, vista la norma sulla "necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà". Ma soldi a parte, Matteo Renzi sarà messo alla prova soprattutto dal contenuto garantista e umanizzante di questa riforma penitenziaria. Dovrà sfidare il mainstream dominato dai "gettatori di chiave" e cambiare davvero verso alla giustizia. Il ddl che contiene la delega sul nuovo carcere sarà votato dall’aula del Senato alla ripresa dei lavori, il 12 settembre. Ci sarà da tenere i nervi saldi non tanto in questa fase, in cui della parte sui detenuti si parla poco, ma al momento di emanare i decreti delegati. Quando molti inorridiranno per esempio di fronte alla revisione dello stesso ergastolo ostativo e non si lasceranno consolare dalle eccezioni, già previste in delega, per i reati di mafia e terrorismo. I giustizialisti si aggrapperanno persino all’incubo dei penitenziari come brodo di coltura per il radicalismo fondamentalista, di cui lo stesso guardasigilli Orlando è tornato a parlare ieri in un’intervista a SkyTg 24: allarme che sarebbe disumano d’altronde far pagare a tutti gli altri detenuti. L’esercito degli innocenti in manette di Luca Rocca Il Tempo, 17 agosto 2016 Ecco i dati choc sulla carcerazione preventiva nella "Relazione sulle misure cautelari personali". C’è un esercito di detenuti rinchiusi e poi assolti. Quasi 13mila persone colpite da misure cautelari nel 2015, oltre 6mila finite in carcere preventivo, poco meno di 200 quelle sbattute dietro le sbarre e poi assolte, più di 2mila condannate ma non definitivamente. Tutto ciò stando solo ai dati forniti da 48 uffici giudiziari su 136, vale a dire il 35%, e senza poter conteggiare, perché non pervenuti, se non in bassissima percentuale, quelli delle Direzioni distrettuali antimafia. È quello che emerge dalla "Relazione sulle misure cautelari personali" predisposta dal ministero della Giustizia, la prima dopo l’approvazione, nell’aprile del 2015, della legge che ha introdotto alcune modifiche al codice di procedura penale anche allo scopo di frenare il ricorso al carcere preventivo di cui, nel nostro Paese, si fa un uso terribilmente eccessivo. Carcere a prescindere - Lo studio predisposto da via Arenula si basa sui dati provenienti da 48 uffici giudiziari medi o piccoli (ad eccezione di quello di Napoli), di cui solo sette corrispondono a Dda. I numeri parlano chiaro. Nel corso del 2015 sono state emesse 12.959 misure cautelari personali. La custodia cautelare in carcere, prevista dall’articolo 285 del ccp, è stata disposta in 6.016 casi, il 46% del totale, mentre gli arresti domiciliari hanno toccato il 29% dei casi, pari a 3.704. Seguono: l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (1.430 casi, 11%), divieto e obbligo di dimora (1.288 casi), allontanamento dalla casa familiare (497 casi), e, infine, custodia cautelare in luogo di cura (24 casi). Manette e domiciliari - Passando, poi, all’"Analisi dei procedimenti "cautelati" definiti con condanna non definitiva", la relazione evidenzia, soprattutto, che "per quanto riguarda i 2.046 procedimenti per i quali è stata emessa una misura cautelare personale e una sentenza di condanna non definitiva" (inclusa quella con sospensione condizionale della pena), il carcere preventivo è stato applicato in 1.006 casi, il 42% del totale, mentre gli arresti domiciliari sono scattati 830 volte (34 per cento), per 308 casi (13 per cento) è stato disposto l’obbligo di presentarsi davanti alla polizia giudiziaria, 215 volte (9 per cento) è stato deciso l’obbligo o il divieto di dimora, 47 volte l’allontanamento dalla casa familiare. Se si passa, poi, all’"Analisi dei procedimenti in cui sono state applicate le misure cautelari personali conclusi con condanna definitiva", notiamo che, sempre nel 2015, siamo in presenza di 845 casi, di cui 361 hanno previsto il carcere, 248 gli arresti domiciliari, 122 l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, 102 il divieto o l’obbligo di dimora. In "gabbia" e poi assolti - Ma nella relazione del ministero della Giustizia c’è un capitolo dedicato all’analisi dei procedimenti "cautelati" definiti con sentenze assolutorie". In questo caso lo studio mette le mani avanti, sottolineando che "la ridotta percentuale di almeno un grado del procedimento di merito nell’anno di applicazione della misura cautelare non consente valutazioni statisticamente affidabili sull’entità del fenomeno della smentita all’esito del giudizio della prognosi di colpevolezza formulata ai sensi dell’articolo 273". Premesso, in sostanza, che è difficile trarre conclusioni generali visto che per il 2015 ci sono pochi casi di persone sottoposte a misura cautelare e già giudicate quantomeno in primo grado, lo studio rivela, però, che dei procedimenti "cautelati" iscritti nell’anno 2015, "42 risultano definiti con sentenza assolutoria definitiva, mentre 156 risultano definiti con sentenza assolutoria non definitiva". Nello specifico, le "assoluzioni definitive impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare", mentre "quelle non definitive 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con misura degli arresti domiciliari". Fuori dal gergo giudiziario, si tratta di 198 persone sottoposte a misure cautelari, processate e assolte. Definitivamente o meno. Sbarre napoletane - L’unico grande Tribunale ad aver fornito i dati richiesti da via Arenula è stato quello di Napoli, territorio preda della criminalità organizzata. In questo caso le misure cautelari emesse nel 2015 sono state 2.275, e il carcere preventivo è stato applicato 1.227 volte. Ma, si legge ancora nella relazione, "su 321 procedimenti in cui si è ricorso alla misura detentiva" in carcere e "per i quali è stato emesso un giudizio, ben 292, il 91%, sono quelli per cui si è deciso per una sentenza di condanna". Il che significa che, nel 9% dei casi, si è trattato di persone arrestate e poi giudicate innocenti. Più precisamente: 25 assoluzioni e 5 "non luogo a procedere" o "non doversi procedere". La prigione, in definitiva, non appare ancora l’extrema ratio. Abbiamo prigioni già sovraffollate di Beniamino Migliucci (Presidente Unione Camere Penali) Il Tempo, 17 agosto 2016 I dati sull’uso della custodia cautelare nel nostro Paese, consegnati di recente al Parlamento dal Ministero della Giustizia, sono assai interessanti, non solo perché si tratta del contenuto della prima relazione prodotta dal Ministero ai sensi dell’art. 15 della legge n. 67/2015, entrata in vigore l’8 maggio dello scorso anno, ma anche perché è la prima volta che vengono incrociati i dati relativi all’uso della custodia cautelare con quelli relativi agli esiti dei processi. Come avviene sempre in questi casi, occorre essere prudenti nella lettura del dato processuale, in quanto sarebbe necessario conoscere meglio i criteri ed i metodi di elaborazione di tali statistiche. La prudenza deve essere tanto maggiore in quanto si tratta di statistiche elaborate su dati provenienti da un numero ancora troppo esiguo, sebbene in parte rappresentativo, di Tribunali, e relative, peraltro, ad un arco temporale assai ristretto, per cui appare necessario attendere la conferma ulteriore di quanto rappresentato nella relazione ministeriale prima di poter esprimere qualche più apprezzabile valutazione. Ciò premesso, alcune considerazioni provvisorie possono essere fatte. La prima è che la riduzione complessiva della custodia in carcere ci "convince" del fatto che la legge del 2015 sia stata comunque utile al fine di indurre i giudici al rispetto del principio della carcerazione come extrema ratio. E ciò nonostante le norme risultassero già più che sufficienti a fornire una simile indicazione e che la stessa giurisprudenza di legittimità si sia dimostrata restia a riconoscere la esistenza di una qualche sostanziale novità in senso garantista nella nuova formulazione normativa dei criteri di attualità e di concretezza delle esigenze cautelari necessarie per la applicazione delle misure e dei criteri di scelta delle stesse. Occorre per tali motivi attendere gli sviluppi di questa temporanea flessione e analizzarne le possibili concause. D’altronde i dati più recenti circa l’aumento del numero dei detenuti in attesa di giudizio e del perdurante sovraffollamento delle carceri mostrano una situazione niente affatto in linea con le prime confortanti statistiche ministeriali. Andrebbe, in proposito, analizzato il dato relativo al numero dei detenuti in carcere che non hanno potuto fruire della misura degli arresti domiciliari a causa della endemica mancanza dei necessari dispositivi elettronici di controllo (i cosiddetti "braccialetti"), questione politico-giudiziaria assai delicata e rilevante sulla quale le Sezioni Unite si sono di recente espresse con discutibili risultati. Quanto poi alla presunta coincidenza fra applicazione della custodia in carcere e condanna del cautelato, occorre rilevare che anche questo dato debba essere valutato con prudenza in quanto la statistica (secondo la quale, ad esempio, a Napoli "soltanto" il 9 per cento dei cautelati sarebbero stati assolti) risulta essere stata elaborata in base solo agli esiti provvisori dei giudizi di primo grado, mentre sappiamo bene (dati anch’essi offerti dal Ministero per gli anni precedenti) quanto alta sia la percentuale delle riforme in quella stessa fase di appello che qualcuno vorrebbe abolire. E neppure appare corretto ridurre tale aspetto della rilevazione agli imputati detenuti in carcere. Analoga valutazione va certamente estesa ai detenuti domiciliari (il cui numero è evidentemente aumentato) perché anch’essi vivono in una eguale condizione privativa della libertà personale, ed anche a costoro, nel caso di assoluzione, va riconosciuto il diritto all’indennizzo per l’ingiustizia detenzione subita. Tasto, questo, assai delicato. In termini di sacrificio personale del detenuto e in termini economici. Ne sa qualcosa il Ministero che ci rende annualmente edotti degli esborsi miliari dello Stato annotati annualmente sotto questa voce e che ammontano, a partire dal 1992, ad oltre seicento milioni di euro. Occorre in proposito, infine, rilevare che, per quanto sia ovviamente esecrabile che un innocente venga ingiustamente sottoposto a custodia cautelare, non deve neppure sottacersi che la custodia cautelare viene spesso inutilmente e dannosamente applicata anche nei confronti di colo -ro che saranno riconosciuti colpevoli. La prospettiva di chi sottovaluta l’analisi di questo aspetto tradisce un dato culturale distorto: che la cautela costituisca in ogni caso una opportuna anticipazione della pena. Insomma, la strada da percorrere verso la realizzazione di una apprezzabile "giustizia cautelare" sembra essere ancora molto lunga e non priva di ostacoli. Il terrorismo e la mina delle carceri di Renzo Guolo La Repubblica, 17 agosto 2016 Il ministro dell’Interno Angelino Alfano rilancia l’allarme sulla radicalizzazione nelle carceri. Lo aveva già fatto il Guardasigilli Andrea Orlando, ricordando che sono 345 i detenuti sotto osservazione. Tra questi 153, numero che comprende anche 39 accusati per reati di terrorismo sottoposti al regime detentivo di Alta Sicurezza, sono classificati a alto rischio radicalizzazione; 93 sono sotto osservazione. Numeri che, insieme a quelli sul totale dei detenuti che provengono da Paesi della Mezzaluna, oltre 10.000, e quelli relativi a quanti professano la religione islamica, circa 7.000, danno la dimensione della questione. La domanda di islam in carcere è crescente. La religione appare a molti la sola risorsa di senso capace di rispondere alla sensazione di fallimento che la reclusione impone. Per molti detenuti musulmani, in larga parte de-islamizzati prima del loro ingresso nel circuito penitenziario, l’islam consente di ricostituire una nuova identità, capace di attenuare il disorientamento legato alla restrizione della libertà. Tanto più in un contesto dominato da regole prodotte da una cultura diversa. Ma quest’identità può prendere il volto del semplice ritorno alla religione, divenendo un fattore d’ordine interiore ed esteriore anche nelle celle; o quello dell’adesione al messaggio radicale. È quello che è accaduto in Francia, in Gran Bretagna, in Belgio, dove minoranze di detenuti politicizzati hanno arruolato nuovi adepti che, una volta usciti, sono passati all’azione. Per arginare la radicalizzazione dietro alle sbarre diventa decisivo non solo l’istituzione di circuiti di reclusione separati, ma anche il rispetto del diritto di culto. Davanti alla crescente domanda di islam l’errore più grande sarebbe, infatti, negare a priori tale diritto per ragioni di sicurezza. Trasformando ulteriormente l’islam in "religione del sospetto" e facendo dilagare tra i detenuti musulmani l’idea, cara ai radicali, dell’islam come "religione degli oppressi". Fortunatamente, nel caso italiano, non è questa la strada che si sta seguendo. Una strategia incentrata su sicurezza e rispetto dei diritti costituzionali sta prendendo forma. Risponde a quest’impostazione anche la decisione di assumere un ruolo attivo nel processo di selezione di imam, guide della preghiera, destinati, tra l’altro, a fornire l’assistenza spirituale e organizzare il culto nelle carceri garantendo un’interpretazione non radicale della tradizione religiosa. Una strada che il ministero dell’Interno, dopo aver superato il paralizzante dilemma del passato su affidabilità/rappresentatività di alcune associazioni islamiche, ha deciso di imboccare con l’ausilio della Consulta per l’islam. Garantire la libertà di culto è un passaggio chiave per spuntare le ali alla propaganda radicale. Tanto più in un universo umano nel quale il risentimento può trasformarsi in ideologico odio distruttivo. Come nel resto della società, il far emergere l’islam dall’inabissamento negli istituti penitenziari consente trasparenza e osservazione. La libertà di culto in carcere diventa, così, un aspetto essenziale della sicurezza nazionale. Perché riduce il terreno nel quale prosperano imam autoproclamati, spesso personalità carismatiche in grado di soggiogare i detenuti più influenzabili, che presentano l’islam radicale come il solo e "autentico islam". Un rischio diffuso anche nelle carceri comuni, dove detenuti politicizzati ma "clandestinizzati", che scontano condanne minori, possono influenzare personalità fragili o in giovane età. La formazione di personale penitenziario capace di distinguere i segnali della radicalizzazione dalle prescrizioni del culto diviene, così, essenziale. Il carcere è un luogo decisivo del fronte nel quale si combatte la battaglia contro la radicalizzazione. Tanto più che, contrariamente ad altri Paesi europei nei quali le politiche di de-radicalizzazione sono in genere affidate ai servizi di esecuzione penale esterna, in Italia i detenuti a rischio sono in maggioranza stranieri. E spesso, una volta scarcerati, non accedono a misure alternative alla detenzione ma sono espulsi. Interrompendo anche eventuali processi di de-radicalizzazione messi in atto. La prevenzione in carcere diventa, dunque, sempre più importante. Sempre meno crimini (ma non ditelo in giro...) di Aldo Varano Il Dubbio, 17 agosto 2016 Siamo alle solite. In Italia i reati diminuiscono ma la paura cresce. Tra l’agosto del 2015 e il 30 luglio del 2016 sono diminuiti gli omicidi, ci sono state meno rapine e s’è abbassato il numero dei furti. Ma la sensazione di insicurezza degli italiani e che tutto stia andando a rotoli. La paura cresce. Ormai da anni gli studiosi distinguono tra "condizione della sicurezza", misurata in modo scientifico sui dati ufficiali e "percezione della sicurezza", cioè il modo in cui i cittadini percepiscono la propria condizione. E sempre di più i due fenomeni si allontanano ed hanno sempre meno punti in comune. Insomma, l’insicurezza sembra dipendere sempre meno da ciò che realmente accade e sempre più dal modo in cui, più o meno emotivamente, valutiamo le situazioni. A scorrere i dati, elaborati del Ministero dell’Interno e diffusi dal ministro Alfano, raffrontandoli con le paure diffuse tra i nostri vicini di casa, gli amici, i conoscenti, c’è da restare allibiti. Gli omicidi, in un solo anno, sono "crollati" (è il termine giusto) dell’11,3 nonostante già l’anno precedente fossero in calo. Sono stati in tutto 398 e "solo" 49 attribuiti alle criminalità organizzate. Nello stesso periodo, invece, ci sono stati 138 femminicidi, cioè omicidi di donne determinati dal fatto che si trattava di donne. Una cifra, questa sì molto più insopportabile delle altre, che costituisce da sola quasi un terzo dell’intera massa degli omicidi (compresi quelli di mafia). Per l’esattezza, il 32,82 del totale. La quasi totalità dei femminicidi sono stati commessi dal partner o dall’ex o da un altro familiare. Insomma, il posto meno sicuro e tranquillo è esattamente il vostro appartamento: è lì che può capitare agli uomini di uccidere e alle donne di essere ammazzate. La casa come tempio delle tragedie, altro che strade buie o omicidi in villa (le denunce per stalking sfiorano quota 10 mila: drasticamente sottostimate). Un bilancio atroce, quello del femminicidio, ancora troppo sottovalutato anche se "oggettivamente" triplica il bilancio della violenza mafiosa, l’unica in grado di assorbire attenzione. A completare il panorama delle nostre crescenti sicurezze, nello stesso periodo, ha certificato Alfano, ci sono stati 1654 arresti per mafia, 85 per estremismo legato al terrorismo, e 793 arresti di scafisti. Insomma, chi porta immigrati in Italia con alta probabilità finisce in galera. Il trend degli omicidi è coerente col resto: le rapine si sono contratte del 10,6%; i furti del 9,2. A dimostrazione dell’infondatezza del teorema secondo cui le crisi economiche alimentano i reati predatori e di strada. S’è molto intensificata la stretta su chi è in odore di terrorismo. Oltre gli arresti sono stati monitorati oltre 400mila siti web, controllate 164mila persone, 35mila veicoli e 349 motonavi. Le mafie, arresti a parte, hanno avute altre botte: beni sequestrati per quasi 2mld e altri 2 Mld di beni definitivamente confiscati. I migranti arrivati sono stati 154.047 una cifra non molto più alta di quella dell’anno precedente. Il 90% degli arrivati sono stati foto-segnalati. Il 67% degli sbarchi è avvenuto in Sicilia, il 20 in Calabria, il 7 in Puglia, il 5 in Sardegna, l’1 in Campania. Gli stranieri con regolare permesso di soggiorno sono circa 4 milioni (4.004.376) di cui quasi 700mila (693.236) minori. Una percentuale molto bassa tra i grandi paesi europei. Evitiamo polemiche sciocche: questi dati si collocano in un trend consolidato il cui merito, quindi, non è del governo attuale che, in ogni caso, ha assicurato la continuazione di un percorso virtuoso. Ma il quadro di "oggettiva" e crescente sicurezza, pone un problema: perché cresce lo sgomento tra gli italiani? Certo, il terrorismo crea una paura oscura e permanente perché "potrebbe" colpire all’improvviso: è una paura non governabile. Ma forse non basta a spiegare la situazione. Un altro contributo, forse decisivo, viene dalla crisi economica e sociale che inchioda il paese alla paralisi. Il fermo immagine dello sviluppo economico fa temere una rapida regressione del livello di benessere e delle garanzie conquistare nei decenni passati. Da qui una paura cieca molto più profonda di quanto s’immagina. C’è poi la responsabilità dei media. Se i talk show, i giornali, l’informazione televisiva per attirare pacchetti di utenti enfatizzano le notizie dal punto di vista del linguaggio, del tempo e dello spazio rinunciando ad offrire l’immagine del paese calibrando l’informazione sulla totalità dei processi che l’investono, tutto diventa irrimediabilmente difficile. Certo non può non stupire e non aprire un problema specifico di riflessione profonda lo squilibrio di attenzione tra mafie e femminicidi. Il modo in cui si raccontano le mafie e quello in cui invece si racconta un fenomeno che provoca un terzo di tutti i delitti del paese, provoca uno squilibrio di conoscenza indecente e inaccettabile. È un problema ancora sostanzialmente rimosso che nasconde diffuse responsabilità tra quanti devono garantire la sicurezza dei cittadini e/o hanno l’obbligo politico ed etico di richiamare il paese ai propri compiti, senza coprire complicità culturali e ambientali pagando il costo col sangue delle donne. Terrorismo: piano sicurezza per le città e misure anti-radicalizzazione nelle carceri di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Un piano più articolato contro le radicalizzazioni, soprattutto ma non solo nelle carceri, in tandem con il ministero della Giustizia. E le ultime limature al decreto sulla sicurezza urbana, atteso da mesi dai comuni ma mai approdato ancora in Consiglio dei ministri, che dovrebbe rafforzare i poteri dei sindaci. All’indomani del tradizionale appuntamento di Ferragosto in cui il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha snocciolato i dati su un anno di attività, sono questi i due fronti su cui il Viminale sta concentrando l’attenzione in vista della ripresa. A un mese dalla strage di Nizza ci si muove con molta cautela. Alfano ha rivendicato lo "sforzo immane" messo in campo nel nostro Paese, che ha permesso di arrestare 85 estremisti, espellere 109 persone, monitorare 110 foreign fighters e controllare oltre 164mila individui. Finora il sistema "ha retto" e l’Italia può ritenersi "sicura", ma si cammina sulle uova. "Il rischio zero non esiste", ha ripetuto il ministro. Sulla stessa lunghezza d’onda il Guardasigilli Andrea Orlando, secondo cui "il nostro modello fin qui ha funzionato", complici le politiche di integrazione e "il vantaggio di non avere le generazioni che si sono manifestate più sensibili alla radicalizzazione in altri Paesi dove l’immigrazione è iniziata prima". Preoccupa, alla luce delle storie dei protagonisti delle stragi in Francia, il fenomeno della radicalizzazione, il repentino spostamento di giovani musulmani su posizioni estreme. "Il rischio nelle carceri c’è", ha sottolineato Alfano. "Non parlerei di dati allarmanti", ha spiegato Orlando ricordando le cifre, già comunicate il 3 agosto in audizione alla commissione Schengen. Su 7.500 detenuti che professano la religione musulmana, sono 345 quelli interessati da possibili radicalizzazioni (spesso in carcere per reati comuni), di cui 153 più allarmanti: tra loro i 99 che hanno "festeggiato" in occasione degli attentati di Parigi, del Belgio e di Dacca e i 39 sottoposti al regime detentivo di alta sicurezza perché imputati per reati di terrorismo. "Stiamo tentando di espiantare il germe dal carcere", ha detto Alfano. Come? Di un programma anti- radicalizzazione si era cominciato a parlare in primavera, contemplando anche l’ingresso in alcuni istituti di pena di "imam moderati" selezionati grazie a un protocollo siglato dal Viminale con l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane. Neanche una decina gli imam coinvolti da allora, e ora quelle scelte saranno aggiornate. "Devono essere accreditati con molta accuratezza e vogliamo che parlino italiano", spiega il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico. "L’obiettivo dell’iniziativa è evitare che si crei esclusione e marginalizzazione di chi non può praticare la propria fede. Più in generale, è cruciale la politica del rispetto: bisogna evitare che venga alimentato il giacimento di odio, rancore e rabbia". Un "cantiere aperto", lo definisce Bubbico. Che poggia però su un cardine: il "monitoraggio pervasivo" per cogliere qualunque segnale di possibile radicalizzazione. "La crescita della barba, l’osservazione rigida e improvvisa dei precetti, discorsi insoliti", elenca Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia con delega al sistema carcerario, che oltre agli imam ricorda l’ importanza della mediazione culturale dietro le sbarre. "Puntiamo a migliorare sempre di più il trattamento individualizzato", assicura. Quando emergono pericoli concreti, si provvede allo spostamento in altre carceri. Ma l’Italia - confermano dall’Interno e dalla Giustizia - non abbraccerà il modello francese delle "carceri speciali" per i radicalizzati, che non pare proprio aver funzionato. Si intensificherà invece la formazione degli agenti di polizia penitenziaria, indicati dall’Isis anche come potenziali bersagli: una circolare del 22 luglio della Giustizia ha invitato direzioni e servizi a sensibilizzarli per aiutarli a coglierei segnali che possano far presagire "azioni delittuose". È chiaro che non basta. Orlando ha invocato una Procura europea sulla sicurezza che faciliti lo scambio di informazioni tra Paesi. Alfano ha sollecitato al premier Matteo Renzi l’approdo in Cdm del decreto sicurezza urbana con più poteri ai sindaci e alla polizia locale. Il testo è praticamente pronto. Non sono mancate le polemiche. Con il leader della Lega Matteo Salvini che attacca: "Alfano? Una macchietta. Su 350mila arrivati, 109 espulsi perché pericolosi... Risultatone!". E con qualcuno, come Calderoli e Daniela Santanché (Fi), che scambia il riferimento di Alfano al "capo del Lis", i servizi segreti libici, con "il capo dell’Is". Ironizzano gli alfaniani: "È come confondere la mafia con la Dia: non ci meraviglieremo se gli capiterà di confondere i turisti in arrivo con i migranti". Isis, rischio reclute in carcere. Nuovo video: "Colpite l’Italia" di Sara Menafra Il Messaggero, 17 agosto 2016 ROMA Si parla ancora una volta dell’Italia (insieme ad altri paesi europei) nel video circolato sul web ieri pomeriggio e rilanciato da Site, l’agenzia americana di informazione sull’intelligence che spesso finisce per fare da megafono ai video dell’Isis. L’ultimo è appunto un appello ai lupi solitari in Europa perché si alzino e colpiscano: entrate in azione" e attaccate i "miscredenti" in America e in Europa, Italia compresa dice l’appello attribuito a Isis. Il messaggio video, raccolto dal Site, proviene da Al Thabaat, un network che farebbe parte della galassia propagandistica dell’autoproclamato Stato Islamico, ed è intitolato "Come on Rise" (alzatevi, attivatevi). Si intima a tutti "i musulmani devoti" alla causa ad entrare in azione negli Stati Uniti, in Europa e anche in Italia, che viene menzionata esplicitamente, accanto a Belgio, Danimarca, Francia, Spagna, Russia e Iran. Per la prima volta l’Italia è indicata esplicitamente come bersaglio in quanto Paese nemico e non come Roma - comparsa in tanti fantasiosi proclami come centro della cristianità. "La guerra si è intensificata - ammette Daesh - ma noi resistiamo. Voi - è l’appello rivolto ai lupi solitari - fate il vostro dovere e contribuite alla salvezza dello Stato islamico: colpite i miscredenti" in America e in Europa, "fate stragi nei mercati e nelle stazioni ferroviarie" e colpite i "crociati" nelle loro terre o ovunque si trovino. "Noi contesteremo, davanti a Dio, qualunque musulmano che abbia la possibilità di versare anche una sola goccia di sangue crociato e non lo faccia". I dati del Viminale - Proprio le azioni dei singoli sono le più difficili da prevedere e monitorare, ha ammesso lo stesso ministro degli Interni Angelino Alfano alla conferenza stampa di Ferragosto. Ha definito l’Italia "Paese sicuro", ammettendo tuttavia che nessun Paese può dichiararsi "a rischio zero" per il terrorismo islamico, richiamandosi soprattutto al problema delle "radicalizzazioni nelle carceri". "Il sistema di prevenzione antiterrorismo sin qui ha retto", l’Italia può essere considerato, per adesso, un "Paese sicuro" ha spiegato mettendo in bella evidenza i numeri dell’ultimo anno di contrasto al terrorismo: in un anno 85 gli estremisti arrestati, 109 le persone espulse per ragioni di sicurezza (tra cui 9 imam) 110 foreign fighters monitorati, 406.338 contenuti web verificati e 164.160 persone controllate. Il ministro ridimensiona la possibilità che Sirte possa diventare il porto di imbarco dei jihadisti verso le nostre coste. Parla di una "smentita" arrivata dalla Libia e dice che già prima "non c’erano riscontri" a questa ipotesi: "Sirte non si è manifestata come luogo di partenza di tante persone che arrivano sulle sponde del Mediterraneo". E comunque "il nostro sistema di controllo dei migranti avviene ormai con grande perizia". Il radicalismo in carcere - Sul tema della radicalizzazione nelle carceri, ieri è intervenuto anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervistato da Sky Tg24: "Il fenomeno di radicalizzazione nelle carceri va sicuramente seguito perché, come abbiamo visto anche in altri Paesi, la radicalizzazione avviene molto più frequentemente e con più facilità nei luoghi di segregazione", da detto. Ma, ha aggiunto, "non parlerei di dati allarmanti: se teniamo conto che si tratta complessivamente di 300 persone quelle che in qual che modo hanno dato segni di attenzione alle parole d’ordine jihadiste, su una popolazione carceraria di 54.000 detenuti non possiamo parlare di un fenomeno di massa". Terrorismo. Il ministro Orlando "serve procura Ue su sicurezza" di Alessia Tripodi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Nella lotta al terrorismo "una risposta strutturale potrebbe venire da una Procura Europea che si occupasse di questi temi". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in un’intervista a Sky Tg24, sottolineando che quello italiano "è un modello di sicurezza che finora ha funzionato". E sul rischio di radicalizzazione nelle carceri di cui ha parlato ieri il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, Orlando ha detto che "va certamente seguito", ma "non parlerei - ha aggiunto - di dati allarmanti". "Procura Ue per risposta strutturale al terrorismo" - "Il fronte su su cui c’è da lavorare moltissimo è quello dello scambio di informazioni con gli altri paesi" ha detto il Guardasigilli parlando della sua proposta di una procura europea per la sicurezza. "Noi - ha continuato - ci siamo anche unilateralmente resi disponibili a fornire informazioni, ma non sempre altri Paesi europei hanno lavorato nella stessa direzione". Per Orlando, "questo resta un problema grosso, come abbiamo visto anche in alcune vicende terroristiche che hanno avuto come presupposto il passaggio di confini e anche il fermo di alcuni dei protagonisti, che poi non ha conseguito effetti concreti o reazioni concreti, perché non c’è stato appunto questo scambio di informazioni". "Il nostro è un modello che funziona" - Parlando del rischio terrorismo nel nostro paese, Orlando ha detto che "come ha giustamente ricordato Alfano, tutti i paesi sono esposti a questo rischio" e che "il nostro è un modello che fino a qui ha funzionato". "Un modello da un lato di integrazione - ha continuato il ministro - dall’altro abbiamo anche il vantaggio di non avere le generazioni che si sono manifestate più sensibili alla radicalizzazione in altri paesi, dove l’immigrazione è iniziata prima". "C’è poi anche - ha proseguito Orlando - un’attività consolidata di magistratura e servizi che fino a qui ha funzionato, anche perché, ahimè, si è dovuta sperimentare con fenomeni sicuramente diversi ma di assoluta gravità come il terrorismo degli anni 70 e 80, poi col fenomeno mafioso. Quindi senza alcun elemento di sicumera, senza nessuna valutazione dobbiamo rafforzare un modello che ritengo però abbia una sua efficienza e una sua capacità di risposta e anche di analisi dell’evoluzione di questo tipo di fenomeni". Radicalizzazione nelle carceri: "Non c’è allarme" - Secondo Orlando quello della radicalizzazione nelle carceri "è sicuramente un fenomeno che va seguito, perché come abbiamo visto anche in altri paesi la radicalizzazione avviene molto più frequentemente e con più facilità nei luoghi di segregazione". Ma "non parlerei di dati allarmanti" ha detto il ministro, che ha spiegato: "Se teniamo conto che si tratta complessivamente di 300 persone quelle che in qualche modo hanno dato segni di attenzione alle parole d’ordine jihadiste, su una popolazione carceraria di 54mila detenuti, non possiamo parlare di un fenomeno di massa". I Radicali: spostate 44 ergastolani a Rebibbia, sono invitati al congresso del nostro partito di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2016 L’associazione Nessuno Tocchi Caino chiede di trasferire alcuni detenuti dalle prigioni di massima sicurezza del Nord al carcere romano, per prendere parte al raduno dei partito Radicale nei primi giorni di settembre. Nella lista di ergastolani ci sono pezzi da Novanta di Cosa nostra e camorra, condannati per le stragi, ma anche per omicidi eccellenti come quello del giudice Livatino. Il Dap: "Richiesta da valutare". Il sindacato della polizia penitenziaria: "Ogni spostamento costa 5mila euro, si vuole svuotare di senso del 41 bis". C’è Gioacchino Calabrò, il boss di Cosa nostra condannato per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano, e c’è Giuseppe Lucchese, alias "occhi di ghiaccio", uno dei più spietati killer agli ordini dei corleonesi di Totò Riina. E poi c’è Giovanni Alfano, ritenuto colpevole dell’omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa per sbaglio in una sparatoria in strada a Napoli nel 1997, ma anche Nicola Mocerino, condannato per l’assassinio del contrabbandiere Giuseppe Averaimo, ammazzato per strada insieme al nipote, il piccolo Gioacchino Costanzo di due anni. Ma ci sono anche Salvatore Calafato, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, i mafiosi della Stidda che nel 1990 ordinarono ed eseguirono la condanna a morte per Rosario Livatino, il "giudice ragazzino". Sono solo alcuni dei possibili partecipanti al quarantesimo congresso del partito Radicale, che si terrà dall’1 al 3 settembre prossimo nel carcere romano di Rebibbia. La questione è al momento sul tavolo del Dipartimento amministrazione penitenziaria che la sta valutando attentamente. "Non abbiamo ancora confermato nulla, stiamo ancora studiando la vicenda che non è così immediata da mettere in pratica: i detenuti andranno comunque in un carcere e non certo da uomini liberi", dice al fattoquotidiano.it Santi Consolo, massimo dirigente del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Si dice invece intenzionato a non concedere nessuna autorizzazione il ministro della Giustizia Andrea Orlando che a ilfattoquotidiano.it ha comunicato di non essere stato a conoscenza della vicenda fino alla lettura dell’articolo. La platea di ergastolani per il congresso dei Radicali - La vicenda è delicata. Perché l’istanza arrivata sul tavolo del Dap riguarda una pletora di ergastolani: boss affiliati a Cosa nostra, alla camorra e alla Sacra corona unita, riconosciuti colpevoli della morte di servitori dello Stato, di civili, persino di bambini. Sono tutti iscritti al partito Radicale e hanno tutti dato la propria disponibilità a partecipare al primo congresso convocato dopo la morte di Marco Pannella. Problema: nessuno di loro si trova nel carcere di Rebibbia, anzi - essendo tutti o quasi ex detenuti in regime di 41 bis - sono reclusi in penitenziari del Nord, attrezzati con i reparti di massima sicurezza, ma lontani da Roma. Occorre dunque trasferirli nel penitenziario capitolino per la durata del congresso. Ed è questo l’oggetto della lettera inviata dall’associazione Nessuno tocchi Caino allo stesso Consolo, a Massimo De Pascalis e a Roberto Piscitello, rispettivamente capo, vice capo e direttore generale del Dap. La richiesta dei Radicali: trasferite i boss a Roma - "Negli incontri tenuti tra il 4 e il 5 agosto scorsi nelle Case di Reclusione di Opera, Voghera e Parma, i sottoelencati detenuti hanno manifestato la loro disponibilità a essere trasferiti temporaneamente per partecipare, in quanto iscritti, al Congresso del partito Radicale. Nel formalizzare con questa lettera il nostro invito ai detenuti a partecipare e la richiesta di autorizzare il trasferimento temporaneo nel suddetto Istituto, teniamo a evidenziare l’importanza del congresso, il primo che si svolgerà in assenza di Marco Pannella e durante il quale i detenuti che lo hanno conosciuto potranno portare la loro testimonianza di ricordo nei suoi confronti e di condivisione delle sue battaglie storiche, a partire da quelle per la giustizia e il carcere, che saranno al centro del dibattito congressuale. I detenuti invitati sono anche tra coloro che, condannati per reati ostativi, o insieme a noi, stanno animando il progetto Spes contra Spem volto anche al duplice e concreto obiettivo di una rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e, quindi, di una maggiore fiducia nelle istituzioni", scrive il 6 agosto scorso Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, in una lettera (firmata anche dalla presidente Rita Bernardini) inviata ai vertici del Dap e per conoscenza ai direttori dei penitenziari di Parma, Voghera e di Milano Opera. Gli spettatori: stragisti, boss mafiosi e killer - In allegato c’è la lista dei detenuti da trasferire per quattro giorni nella capitale. In totale sono 44, e quasi tutti sono stati detenuti al 41 bis: di questi 42 sono oggi reclusi in sezioni Alta Sicurezza, cioè i circuiti penitenziari dedicati agli appartenenti alla criminalità organizzata ai quali non è stato rinnovato il regime di carcere duro, mentre solo due sono tra i carcerati comuni. Nella lista c’è un po’ di tutto: dagli stragisti come Calabrò, ai leggendari killer dei corleonesi come Lucchese, condannato - tra le altre cose - per l’omicidio del commissario Ninni Cassarà, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del brigadiere Antonino Burrafato, dai camorristi Pacifico Esposito, Felice Falanga e Alfonso Agnello, fino ad esponenti della Sacra Corona Unita come Francesco Campana e Giovanni Donadiello, passando per Dragomir Petrovic, il capo della banda degli slavi, nemico storico di Renato Vallanzasca. Nessuno ha deciso di pentirsi, collaborando con i magistrati (a parte Gaetano Puzzangaro, tra i killer del magistrato Livatino, che ha "saltato il fosso" nel giugno scorso), anzi c’è chi continua a mantenere strettissimi legami con l’associazione mafiosa d’appartenenza nonostante la condanna al fine pena mai: è il caso di Santo Battaglia, boss di primo piano del clan dei Santapaola a Catania, che - secondo i collaboratori di giustizia - ha continuato a ricevere dalla sua cosca uno stipendio mensile di mille e cinquecento euro. Poi ci sono i "redenti": come Claudio Conte, killer della Sacra Corona Unita che in carcere si è laureato in giurisprudenza, o Giuseppe Grassonelli, affiliato alla Stidda mafiosa di Agrigento, arrestato e condannato per una serie di omicidi nei primi anni ‘90, oggi laureato in lettere moderne con 110 e lode e autore di un libro che vinto il premio Leonardo Sciascia. Gli spostamenti? "Costano 5 mila euro l’uno" - Sono questi alcuni dei possibili spettatori del prossimo congresso dei Radicali, i detenuti che il Dap dovrebbe trasferire dai rispettivi penitenziari di massima sicurezza fino al carcere capitolino. Un trasferimento imponente per il quale sarebbero necessari 44 mezzi blindati diversi, con altrettanti detenuti, scortati da agenti armati, o addirittura - come si è ipotizzato ai piani alti della polizia penitenziaria - un intero volo charter da riempire con i pezzi da Novanta di Cosa nostra, camorra e Sacra corona unita. "Onestamente continuo a non volerci credere. L’ordinamento penitenziario è chiaro in questi casi: i trasferimenti dei detenuti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari, ma non prevede nulla nel caso di un congresso di partito", dice Leo Beneduci, segretario generale dell’ Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp). "Posso anche capire - continua - che alcuni di questi ergastolani si siano laureati e forse non sono più le persone di vent’anni fa, ma c’è una legge che li ha condannati per crimini gravissimi e in questo modo sembra che si voglia continuare a diluire e svuotare di significato sia l’ergastolo che il 41 bis, conquiste della lotta contro le mafie e dell’immenso tributo di sangue versato dagli uomini dello Stato come dai comuni cittadini". Il killer del secondino va in albergo? - E poi c’è anche una questione economica. "In passato - spiega sempre Beneduci - ci si è lamentati del fatto che un solo trasferimento di un detenuto in regime Alta Sicurezza, per le precauzioni che richiede, costa all’erario dai 3 mila ai 5 mila euro e qui si parla di movimentarne oltre 40, sia all’andata che al ritorno. Mi domando: perché non potevano partecipare al congresso in videoconferenza utilizzando le reti interne dei penitenziari?". Per la verità almeno due detenuti potrebbero arrivare a Roma con mezzi autonomi. "Nel caso in cui, tra i suddetti detenuti vi siano persone che chiedano di partecipare al Congresso grazie a un permesso premio - come Cannavò Roberto e Ferlito Giuseppe che si sono espressi in tal senso -, questa lettera valga anche da invito da inoltrare al Magistrato di Sorveglianza. A tal fine, manifestiamo sin da subito la nostra disponibilità a individuare accompagnatori di nostra fiducia e a indicare anche l’albergo per il loro pernottamento", scrive sempre l’associazione Nessuno Tocchi Caino in calce alla lista dei possibili spettatori del congresso. Cannavò è un un killer del clan dei Cursoti, catanese come Ferlito, condannato per l’omicidio dell’agente di polizia penitenziaria Luigi Bodenza. Era il marzo del 1994, Bodenza stava rientrando a casa alla fine di un lungo turno di lavoro nel carcere di Catania, quando venne affiancato da un’auto e massacrato a colpi di fucile: l’omicidio era stato ordinato per dare un segnale alle guardie carcerarie affinché trattassero bene i detenuti al 41 bis. Se il magistrato di sorveglianza dovesse dare il suo via libera e anche dal Dap dovesse arrivare il nulla osta, dunque, il killer di Bodenza potrebbe raggiungere la Capitale senza scorta armata, pernottando in un albergo della Capitale, per partecipare al congresso dei Radicali. A fargli compagnia quattro decine di ex sicari, boss mafiosi e mandanti di stragi. Nessuno tocchi Caino, per carità. Ma ogni tanto un pensiero ad Abele bisognerebbe pur farlo. Salvini: scatenerò la polizia. La polizia: ti denunciamo di Rocco Vazzana Il Dubbio, 17 agosto 2016 Scontro durissimo tra il capo della Lega e le forze dell’ordine. Si può parlare da un palco di "pulizia etnica controllata e finanziata" ai danni degli italiani oppressi dai "clandestini", per di più indossando una maglietta della Polizia di Stato? Il buon senso direbbe di no - e anche gran parte dei poliziotti - ma Matteo Salvini lo ha fatto comunque, facendo infuriare quasi tutte le organizzazioni di categoria per una volta compatte contro un obiettivo comune: il leader del Carroccio. I sindacati degli uomini in divisa reagiscono male alle parole pronunciate dal segretario della Lega il 15 agosto dal palco di Ponte di Legno. Per i rappresentanti delle forze dell’ordine sono "inaccettabili" i passaggi del discorso di Salvini in cui ad esempio dichiara: "Quando arriveremo al governo, polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire le nostre città". O quelli in cui dice che "i clandestini vanno fatti lavorare per ripagare il prezzo della nostra ospitalità, come fanno in Austria". Per il Siulp, l’organizzazione più rappresentativa, il capo della Lega Nord ha utilizzato espressioni "da denucia, rinunci all’immunità". Perché, per il segretario del sindacato, Felice Romano, "il fatto che sia un parlamentare non può autorizzarlo a indossare impunemente la nostra divisa. Ci sono delle regole che vanno rispettate da tutti, anche da lui". Ancora più duro il leader del Silp Cgil, Daniele Tissone, che invita l’europarlamentare leghista a "smetterla di indossare, una volta per tutte, la nostra divisa". Per il sindacalista, Salvini questa volta ha passato il segno: "Si rende conto oppure no di quello che dice? Polizia e forze dell’ordine stanno dalla parte dei cittadini e delle leggi, tra mille difficoltà e disagi ma, sempre e comunque, al servizio della democrazia e dello stato di diritto", dice Tissone che poi respinge al mittente l’appello lanciato dal capo del Carroccio che, "ancora una volta, ha perso un’occasione utile per tacere: soprattutto se ripensiamo a quando il suo partito era al governo e ai tagli miliardari alla sicurezza che ha prodotto e con i quali ci troviamo, nostro malgrado, giornalmente alle prese per garantire minimali standard di sicurezza con un’età media procapite elevatissima e scarsità di tecnologie e mezzi". Poi tocca al Siap mettere in guardia il lepenista italiano: "Quanto accaduto ieri a Ponte di Legno è un atto gravissimo" dice il segretario Giuseppe Tiani, "Non è accettabile che un politico come Salvini possa continuare a permettersi d’indossare la divisa della polizia di Stato promettendo che se dovesse andare al governo utilizzerà poliziotti o carabinieri per una sorta di delirante demagogica e pericolosa pulizia etnica". Di episodio gravissimo parla anche Lorena La Spina, leader dell’Anfp, il sindacato dei funzionari, indignata dal fatto che "indossando la nostra maglia ci si senta autorizzati ad invocare addirittura una "pulizia etnica", che ci riporta indietro ad una delle pagine più oscure e dolorose della storia del nostro Paese". Ma nonostante il coro di indignazione - nel quale non si avverte però la voce del Sap, il sindacato di polizia vicino alla Lega ? Matteo Salvini non ci pensa proprio a gettare acqua sul fuoco. Anzi, su Twitter rilancia: "Un ex dirigente della Cgil di Genova, tal Roberto Traverso, parlando a nome dei "poliziotti democratici" (???) mi ha attaccato perché secondo lui vorrei usare Polizia e Carabinieri per effettuare una "delirante, demagogica e pericolosa pulizia etnica" in Italia. Fatemi capire, chiedere regole, ordine e rispetto sarebbe delirante? Chiedere che clandestini e centri a-sociali non sfascino tutto è delirante? Questione di scelte: lui sta con Renzi e Alfano, io sto con chi ci difende!". Basta che resti qualcuno a difendere i cittadini dall’idiozia. Sindacati di polizia contro Salvini: "Giù le mani dalla divisa. Pensi a tagli fatti da Lega al governo" di Alberto Custodero La Repubblica, 17 agosto 2016 Il leader del Carroccio a Ponte di Legno, indossando la maglietta della Polstato, aveva detto: "Quando saremo al governo, mano libera alle forze dell’ordine per ripulire le nostre città". Ma la maggior parte dei sindacati delle forze dell’ordine prende le distanze. Lui rilancia: "Indosserò a rotazione anche le altre". I sindacati di Polizia insorgono contro Matteo Salvini che, dal palco di Ponte di Legno, indossando la maglietta della Polstato, a Ferragosto, parla dello stato della Sicurezza del Paese. E incita la platea leghista con frasi un po’ minacciose dal sapore vagamente golpista, del tipo "quando arriveremo al governo, polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire le nostre città". Il segretario della Lega parla poi di "pulizia etnica controllata e finanziata", quella che - dice lui - stanno subendo gli italiani, oppressi dai "clandestini". I quali, aggiunge, "vanno fatti lavorare per ripagare il prezzo della nostra ospitalità, come fanno in Austria". Chi la pensa diversamente è un "italiano smidollato". Ma le sue esternazioni suscitano un coro di proteste da parte dei sindacati nazionali di Polizia. Romano, Siulp: "È da denuncia, rinunci all’immunità". Felice Romano, segretario del Siulp, il primo sindacato italiano, chiede a Salvini che rinunci all’immunità parlamentare, visto che indossare la divisa della Polizia è reato. "Il fatto che sia un parlamentare - attacca Romano - non può autorizzarlo a indossare impunemente la nostra divisa. Ci sono delle regole che vanno rispettate da tutti, anche da lui. È bene che si faccia chiarezza una volta per tutti su questo tema. Conosciamo tutti la goliardia di Salvini e sicuramente questa uscita è una delle tante che fa per catturare il consenso e parlare alla pancia degli italiani scontenti dalla crisi, dalle difficoltà economiche. Ma lui pone un problema su cui il governo deve riflettere: l’Ue non sta affrontando nel modo giusto la questione-immigrazione. E il problema di tipo sociale e politico che ne consegue corre il rischio (anche per il fomentare in questo modo di alcuni esponenti di partiti) di diventare una bomba a orologeria che graverà sull’ordine pubblico, contrapponendo generazioni e soprattutto le etnie". "Che gli italiani siano tranquilli - ha concluso Romano - la polizia così come carabinieri e le altre forze dell’ordine agiranno sempre e solo nel rispetto delle leggi che il Parlamento ci dà. E dei principi della Costituzione su cui abbiamo giurato lealtà. Poi, se il Parlamento fa leggi strane, il problema è a monte: come si forma il Parlamento, non come agiscono le forze polizia". Tiani, Siap: "Salvini pensi ai tagli alla Sicurezza fatti da Maroni". "Ogni poliziotto o carabiniere in cabina elettorale - dichiara Giuseppe Tiani, segretario del Siap - si esprime liberamente premiando o meno la coalizione o i partiti a cui ritiene di dare fiducia. Per questo non è accettabile che un politico come Salvini possa continuare a permettersi d’indossare la divisa della Polizia di Stato promettendo che se dovesse andare al Governo utilizzerà poliziotti o carabinieri per una sorta di delirante demagogica e pericolosa "pulizia etnica". Corre l’obbligo di ricordare a Salvini che l’ultimo governo di cui la Lega ha fatto parte è quello dei tagli lineari a tutte le Forze di Polizia i cui effetti nefasti paghiamo ancora oggi nonostante l’emergenza sul fronte dell’immigrazione e del terrorismo. Quanto accaduto ieri a Ponte di Legno è un atto gravissimo perché si tenta di manipolare sul piano politico il ruolo delle Forze di polizia che sono terze e rispondono solo agli interessi dello Stato e delle politiche di Governo legittimate dalle procedure democratiche. Si tratta dell’ennesimo atto provocatorio davanti al quale i poliziotti democratici prendono le dovute e doverose distanze". Tissone, Silp-Cgil: "Inaccettabile". "Salvini - dichiara Daniele Tissone, segretario generale Silp-Cgil - sale, nuovamente, sul palco con la maglietta della polizia addosso: è nuovamente inaccettabile. Come lo sono le sue frasi. Ma Salvini si rende conto oppure no di quello che dice? Polizia e forze dell’ordine stanno dalla parte dei cittadini e delle leggi, tra mille difficoltà ma, sempre e comunque, al servizio della democrazia e dello stato di diritto. I poliziotti democratici respingono al mittente l’appello di Salvini che, ancora una volta, ha perso un’occasione per tacere soprattutto se ripensiamo a quando il suo partito era al governo e ai tagli miliardari alla sicurezza che produssero i suoi amici di partito (il riferimento è all’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, ndr). Penso che, stavolta, abbia passato il segno". La Spina, Anfp: "Giù le mani dalla divisa". "Più volte - è la reazione di Lorena La Spina, leader dell’Anfp, il sindacato dei funzionari - siamo stati costretti a dire "giù le mani dalla nostra divisa", a chi la utilizza strumentalmente per coinvolgere le Forze dell’ordine in un gioco politico che non appartiene loro. E ancor più grave che indossando la nostra maglia ci si senta autorizzati ad invocare addirittura una ‘pulizia etnicà, che ci riporta indietro ad una delle pagine più oscure e dolorose della storia del nostro Paese. La Polizia di Stato appartiene solo ai cittadini ed alle Istituzioni democratiche, al cui servizio essa opera, nel rigoroso rispetto delle leggi e delle garanzie costituzionali. Questo dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, in particolare proprio a chi riveste importanti funzioni di rappresentanza nel mondo politico". "Mi criticano? Indosserò anche le altre divise" Salvini non arretra. "Mi criticano per aver indossato la divisa della polizia? Si tranquillizzino, indosserò a rotazione anche quelle di carabinieri, polizia penitenziaria, vigili del fuoco". E sulle accuse di essere il leader di un partito che quando era al governo ridusse i fondi per chi indossa la divisa, Salvini rilancia: "Questo è l’argomento che usa sempre Renzi, e che la Cgil gli vada dietro si commenta da sé. Pensino piuttosto a levarsi di torno Alfano". Le frasi (testuali) di Salvini dal Palco di Ponte di Legno. "Mi sono messo la maglietta Polstato che mi è stata regalata da amici della Polizia (doveroso ricordare che alla Lega è vicino il Sap di Gianni Tonelli, ndr), perché in questo Paese è venuto meno il rispetto per il prossimo, la dignità per chi lavora, innanzitutto per chi indossa una divisa. L’ultimo esempio, è la poliziotta di Ravenna che, molestata per l’ennesima volta da un parcheggiatore abusivo, ha sbottato su Facebook esprimendo tutta la sua umiliazione. In cambio di aver cercato di far rispettare la legge, rischia un provvedimento disciplinare. Onore ai poliziotti che ci difendono che sono nel mirino di un Parlamento infame. Il primo provvedimento che prenderemo quando arriveremo al governo: polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire le nostre città. Sono orgoglioso di indossare questa maglietta, magari domani ci sarà Alfano che si incazza, o uno che mi denuncia perché la indosso". Il corto circuito della lite fra toghe che finisce davanti al Tar di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 17 agosto 2016 Il ricorso della magistratura contabile contro quella tributaria, tutto sull’interpretazione di una parola. Lo scontro sulla presidenza di alcune commissioni provinciali e l’allarme: "Così si rischia una valanga di ricorsi". Si sono sempre guardati un po’ in cagnesco. E prima o poi, nella Repubblica delle magistrature doveva succedere: la zuffa tra magistrati della Corte dei conti e tributari. E si combatte intorno a una parola: contabile. Succede che il 12 luglio, incombente la canicola, il consiglio di presidenza della giustizia tributaria, ovvero il Csm di quei magistrati, esclude dalle presidenze di alcune commissioni tributarie provinciali i giudici della Corte dei conti. Il cavillo è l’interpretazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 545 del ‘92: "I presidenti di commissioni tributarie provinciali sono nominati tra i magistrati ordinari, o amministrativi o militari, in servizio o a riposo...". E siccome non sono citati quelli "contabili", ecco che questi sono tagliati fuori. Le commissioni - Per i giudici della Corte dei conti è un colpo sotto la cintura. Da decenni molti di loro presiedono le commissioni tributarie provinciali e nessuno in quella sede si era mai sognato di sollevare la questione. A parte il fatto, rumoreggiano, che non si capisce perché i magistrati militari potrebbero presiederle e loro, che di mestiere si occupano di verificare calcoli e procedure, invece no. Per non parlare della questione che i riguarda componenti delle commissioni tributarie: loro non sono neppure magistrati, ma semplici dipendenti pubblici quando non avvocati o perfino commercialisti. Situazione che prefigura in determinate circostanze mostruosi conflitti d’interessi e può spiegare perché nella maggioranza dei contenziosi la spuntano i contribuenti. I gradi di giudizio - Il tutto grazie a lungaggini non inferiori a quelle della giustizia ordinaria. Sono previsti infatti tre gradi di giudizio: il primo davanti alle commissioni tributarie provinciali, il secondo di cui sono competenti le commissioni regionali, e il terzo in Cassazione. Continua però a sopravvivere, 24 anni dopo essere stata soppressa, la Commissione tributaria centrale con funzione di terzo grado di giudizio, ma solo per cause insorte prima del ‘96: vent’anni fa. Il che dice tutto su questo sistema inefficiente, creato con legge del 1864, del quale è stata invano ipotizzata più volte la soppressione. La controversia - I giudici della Corte dei conti non ci stanno a perdere le loro prerogative, compresi i gettoni spettanti ai presidenti di commissione tributaria, e piantano una grana. Sostengono di essere per prassi costituzionale equiparati agli amministrativi, perciò la parola "contabili" non figura nel decreto (1992) dell’ultimo governo Andreotti. Dicono pure che non si può escludere il rischio di ricorsi per invalidare sentenze passate di commissioni presiedute da loro. Il consiglio di presidenza dei giudici tributari non ci sente. E allora i magistrati della Corte dei conti ricorrono al Tar. Così un giudice amministrativo dovrà dirimere una controversia fra toghe: tre magistrature impegnate su una parola. Solo in Italia poteva accadere. Con i problemi che ha la nostra giustizia... Ma non sarà che la giustizia ha tutti quei problemi perché si pensa più a queste cose che a far funzionare i tribunali? Fino a otto anni di reclusione per il caporalato. Il ddl da settembre alla Camera Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Un primo scoglio è superato. Dalla situazione di stallo che al Senato si era creata ormai da un anno intorno al disegno di legge 2217 sul contrasto al caporalato si è usciti nelle settimane scorse, quando Palazzo Madama ha finalmente licenziato il provvedimento che adesso passa all’attenzione della Camera dei deputati. Se ne riparla insomma a settembre, nella speranza comune che quest’anno sui campi non si consumino drammi analoghi a quelli che, l’anno scorso, portarono i ministri della Giustizia Andrea Orlando e delle Politiche agricole Maurizio Martina a concepire il Ddl. Toccherà comprendere a quale delle commissioni di Montecitorio saranno affidate le cure del testo, se a quella Agricoltura o a quella Lavoro, nella consapevolezza che qualsiasi modifica al documento si tradurrebbe nella necessità di un ulteriore passaggio al Senato e quindi in tempi di approvazione ancora più lunghi. Proprio sui tempi certi dell’iter parlamentare Fai, Flai e Uila chiederanno garanzie al presidente della Camera Laura Boldrini che ne riceverà le delegazioni alla ripresa, il 13 settembre. "A un anno - ha comunicato il segretario generale di Flai Ivana Galli - dalle morti sui campi e nelle serre, avvenute la scorsa estate, la politica si unisce al sindacato per una battaglia di civiltà che restituisce giustizia e dignità ai lavoratori agricoli, italiani e stranieri, per troppo tempo considerati invisibili. Ora dobbiamo andare avanti, auspicando che la Camera proceda velocemente". Per il segretario generale di Fai Luigi Sbarra, "occorre blindare il testo, evitare altre modifiche che lo farebbero tornare al Senato aprendo a scenari incerti. Uscire di strada proprio in questo ultimo miglio sarebbe imperdonabile. Siamo certi che la presidente Boldrini saprà difendere le ragioni di una chiamata che non ammette distinzioni di partito". Ma cosa prevede il Ddl passato da poco licenziato dal Senato? Innanzitutto si parte da una riscrittura dell’articolo 603 bis del Codice penale relativo all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro, con l’introduzione di sanzioni che spaziano dalla reclusione da uno a sei anni e multe da 500 a mille euro per ciascun lavoratore reclutato. La pena sale (carcere da 5 a 8 anni e multa da mille a 2mila euro per lavoratore) nel caso di minacce e violenze. Nella fattispecie rientrano il reclutamento di manodopera da destinare a terzi in condizioni di sfruttamento, la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo difforme dai contratti, la violazione delle normative su orari, sicurezza, igiene, condizioni di lavoro, alloggi e metodi di sorveglianza degradanti. Viene introdotta anche la confisca obbligatoria dei beni, mentre la responsabilità finisce per essere estesa al datore di lavoro. Tra le opzioni del Ddl c’è il controllo giudiziario dell’azienda affidata ad amministratori su nomina del Tribunale. Mai tenue il fatto se l’avvocato tradisce la fiducia del cliente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 34887/2016. All’avvocato che fa pagare al cliente una parcella per un’attività mai svolta non può essere applicata la particolare tenuità del fatto. Neppure se la somma lucrata è minima e il legale è incensurato: a rendere impossibile l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale è la lesione al vincolo di fiducia che lega l’assistito al proprio difensore. Con la sentenza 34887 depositata ieri, la Corte di cassazione respinge il ricorso di un avvocato condannato per truffa (articolo 640 del Codice penale ) ai danni del proprio assistito. Il legale aveva chiesto e ottenuto una somma per una denuncia che affermava di aver depositato in Procura, per poi ritirarla in un secondo momento. Circostanza che in realtà non si era verificata: la denuncia non era mai stata fatta e, ovviamente, mai ritirata. Il ricorrente ha tentato di giocarsi la carta della particolare tenuità del fatto. La norma, introdotta con il Dlgs 28/2015, consente di restare "impuniti" a particolari condizioni: quando l’offesa è particolarmente tenue, la pena resta sotto il minimo edittale dei cinque anni, e il reato non è abituale. Requisiti che il legale riteneva di possedere. La Cassazione spiega però che il beneficio è stato correttamente negato dalla Corte d’appello, perché quello che pesa è il "tradimento" della fiducia che l’assistito ripone nel difensore. La condotta sotto esame è stata, infatti, realizzata nel contesto del delicatissimo ed assai rilevante rapporto fiduciario avvocato-cliente. La lesione non può essere considerata né trascurabile né marginale, a prescindere dall’importo lucrato con il reato, perché sono state disattese le aspettative e l’affidamento della parte lesa. Per la Suprema corte, si è trattato di un’azione rimarchevole, grave e intrinsecamente dotata di una carica di offensività penale palese, anche perché consumata nell’esercizio della professione forense a danno di un soggetto che con fiducia aveva chiesto aiuto legale ad un professionista del settore. Ma non basta. I giudici della sezione feriale valorizzano anche la percezione che del reato si può avere all’esterno. "Si è trattato inoltre - si legge nella sentenza - di un’azione dotata di un tasso di partecipazione psicologica e soggettiva, in capo al prevenuto, intenso, francamente incompatibile con la previsione e con i parametri normativi delineati dall’articolo 131-bis del Codice penale, pensati ovviamente per episodi minimali, realmente blandi e percepiti o percepibili dai destinatari della sanzione penale e dalla collettività dei consociati come tali". Nulla da fare, dunque, per evitare una condanna che arriva malgrado le attenuanti dell’incensuratezza e della esiguità del danno siano state considerate dei giudici di merito prevalenti sull’aggravante, di aver commesso il fatto nell’ambito di una prestazione d’opera (articolo 61, numero 11, del Codice penale). L’impianto incentivato è confiscabile se viene ceduto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Corte di cassazione - Sentenza 34900/2016. Una società è responsabile per malversazione ai danni dello Stato, se i suoi amministratori impiegano i finanziamenti pubblici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati erogati. La Cassazione, con la sentenza 34900 depositata ieri, respinge il ricorso contro la condanna per il reato previsto dall’articolo 316-bis del Codice penale e la confisca dell’impianto. Nel mirino degli inquirenti era finito il finanziamento su un complesso industriale composto da un pastificio con annesso mulino, ottenuto in deroga alla normativa comunitaria che vieta incentivi all’industria di macinazione di grano. Aggirare il divieto era stato possibile perché pastificio e mulino erano inscindibili, così nessuna fase della lavorazione avveniva presso terzi. L’iniziativa si inseriva nel patto territoriale e aveva lo scopo di valorizzare la produzione locale e l’utilizzo di materie prime prodotte sul posto. Un impegno non rispettato, perché un ramo d’azienda (il mulino) era stato prima affittato e poi ceduto ad un’altra società, che peraltro utilizzava grano estero. I ricorrenti hanno fornito giustificazioni. La cessione era stata fatta per mantenere i livelli occupazionali e l’impiego di grano estero era giustificato dalla siccità che impediva di usare la produzione locale. Giustificazioni non sufficienti. La Cassazione ricorda che la diversa destinazione scatta anche quando le opere sono realizzate nell’interesse aziendale. Solo lo Stato o il diverso ente erogante può infatti decidere quale è l’interesse pubblico da tutelare e il vertice della società non può sovrapporre a questo i propri obiettivi. Non passa neppure il ricorso della società acquirente, secondo la quale per la condanna, in base al Dlgs 231/2001, mancava l’elemento del vantaggio. Per la Cassazione, attraverso i contratti di affitto prima e di cessione, la società ha acquisito nel suo patrimonio il mulino, costruito con soldi pubblici, dei quali non avrebbe mai potuto beneficiare. Un bene derivante dal reato e pertanto direttamente confiscabile. Per i giudici non è, infatti, possibile, come richiesto dal ricorrente, in presenza di un contratto di matrice illecita, distinguere tra profitto e utile netto. Nella responsabilità da reato degli enti, il profitto si identifica, infatti, solo con il vantaggio economico "di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto e non può essere calcolato al netto dei costi sostenuti per ottenerlo". Impossibile applicare parametri di valutazione aziendalistici come il profitto lordo o il profitto netto. Infondata anche la richiesta di applicazione dell’articolo 33 del Dlgs 231/2001, che esclude la responsabilità dell’ente. Una norma applicabile ai casi di cessione d’azienda, quando il reato presupposto è commesso dagli amministratori dell’ente cedente prima della cessione, mentre nel caso esaminato, i manager del cessionario avevano concorso nella commissione del reato. Sì all’impiego degli 007 per scoprire la finta malattia del lavoratore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Il datore di lavoro può impiegare un investigatore privato per scoprire se il dipendente sta davvero male come risulta dal certificato medico fornito. La Corte di cassazione (sentenza 17113) dà il via libera all’utilizzo di 007, con il mandato di seguire il dipendente nel periodo della malattia per vedere se davvero la lombosciatalgia certificata dal medico di base gli impediva di lavorare. Il rapporto dell’investigatore non lascia dubbi: il "sorvegliato" speciale aveva fatto una serie di azioni e movimenti del tutto incompatibile con la patologia lamentata. Per i giudici è dunque legittimo il licenziamento per giusta causa e a nulla valgono le lamentele del ricorrente sull’impiego del detective. La Suprema corte precisa che il datore ha il diritto di ricorrere ad un’agenzia investigativa per verificare l’attendibilità del certificato medico, che può essere contestato anche valorizzando circostanze di fatto. Quello che il datore non può fare, e questo è un punto che rimane fermo, è far "spiare" il dipendente mentre è intento nell’attività lavorativa vera e propria. Sempre ieri la Cassazione (sentenza 17108) ha però dato ragione anche a un lavoratore. A beneficiare del principio dettato dalla Suprema corte è stato un informatore scientifico, licenziato per motivi disciplinari: l’accusa era di aver utilizzato il telefonino aziendale per ragioni personali. La massima punizione non è però giustificata perché il datore non ha saputo provare l’addebito. La società aveva, infatti, imposto all’informatore di dimostrare, attraverso la sua agenda telefonica l’identità delle persone chiamate. Per i giudici di ultima istanza c’è stata un’inversione dell’onere della prova: spettava al datore fornire i tabulati vodafone dai quali risalire alle chiamate private. Azione che poteva essere fatta senza violare la privacy perché i numeri avevano le ultime tre cifre criptate. Inoltre dalla ricostruzione fatta, le telefonate extra lavoro erano non più di 7 o 9 al giorno. Troppo poche per giustificare il licenziamento. Danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2016 Reati contro il patrimonio - Danneggiamento - Riformulazione in virtù delle previsioni del D.Lgs. n. 7 del 2016 - Danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia. Il reato di danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia, nel testo riformulato dall’articolo 2, lett. l), D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l’azione di danneggiamento, posto che la ragione della incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall’agente nella esecuzione del reato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 21 aprile 2016 n. 16563. Reati contro il patrimonio - Danneggiamento - Circostanze aggravanti - Fatto commesso con violenza alla persona o con minaccia - Contestualità tra condotta violenta o minacciosa ed il danneggiamento - Sufficienza. Per la configurabilità dell’aggravante speciale del delitto di danneggiamento ex articolo 635 comma secondo n. 1 cod. pen., costituita dal fatto commesso con violenza o minaccia, non è necessario che queste ultime rappresentino un mezzo per vincere l’altrui resistenza, ma è sufficiente che siano contestuali al fatto produttivo del danneggiamento, nel senso che il danneggiamento deve essere stato compiuto quando è ancora in atto la condotta violenta o minacciosa tenuta dall’agente. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 14 gennaio 2015 n. 1377. Reati contro il patrimonio - Danneggiamento - Circostanze aggravanti - Fatto commesso con violenza alla persona o con minaccia - Nesso teleologico tra azione violenta o minacciosa e danneggiamento - Necessità - Esclusione - Mera contestualità tra le condotte - Sufficienza. L’aggravante speciale configurata per il fatto commesso con violenza alla persona o con minaccia ex art. 635, comma secondo, n. 1, cod. pen. sussiste quando vi sia stata contestualità tra l’azione di danneggiamento e la condotta violenta o minacciosa, anche quando la seconda non risulti strumentale alla realizzazione della prima. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 2 marzo 2011 n. 7980. Reati contro il patrimonio - Danneggiamento - Circostanze aggravanti - Fatto commesso con violenza alla persona - Configurabilità - Condizioni. In tema di danneggiamento, la circostanza aggravante del fatto commesso con violenza alla person,a non è configurabile qualora manchi la contestualità tra l’azione di danneggiamento e la condotta violenta e quando non vi sia alcun nesso strumentale che ricolleghi l’una e l’altra. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 9 febbraio 2009 n. 5534. Un Atletico senza sponsor di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 agosto 2016 Non è facile comprendere quali siano le regole a base della selezione degli sport che hanno dignità di essere praticati alle Olimpiadi. Perché il badminton sì e il baseball no? Perché il rugby a sette sì e il rugby a quindici no? Perché l’hockey su prato sì e il cricket no? Il cricket ha avuto la fortuna di una sola apparizione alle Olimpiadi per poi scomparire per sempre. Era il 1900. Le squadre che parteciparono al torneo furono due. La Gran Bretagna batté la Francia 262 a 104. Il criterio del Cio non pare sia il numero di federazioni iscritte alle leghe internazionali o il numero degli spettatori che assistono agli eventi. L’esclusione del cricket è dunque poco spiegabile, visto che la coppa del mondo è seguitissima a livelli ben superiori rispetto a buona parte degli sport presenti a Rio. Al pari dei campionati del mondo di calcio il mondiale di cricket si tiene ogni quattro anni. L’ultima edizione nel 2015 è stata vinta dall’Australia che ha anche il record di vittorie, oltre a essere l’unica nazione non asiatica ad avere trionfato nella competizione. In Italia il cricket esiste ed è ben frequentato. Nel campionato interregionale italiano, l’Atletico Diritti Fondi Cricket Club è arrivato terzo battuto solo dalle due squadre fiorentine ma si è classificato prima di tutte le squadre laziali. La formazione è composta principalmente da ragazzi pakistani e indiani che lavorano la terra in quella zona a forte rischio di infiltrazioni criminose che è Fondi. Siamo nel sud del Lazio. Se la polisportiva Atletico Diritti è arrivata terza nel cricket, è invece arrivata terz’ultima nel campionato di terza categoria di calcio. Un torneo duro quello di terza categoria: nei campi di periferia si assiste a partite vere, con tifosi veri, pathos e arbitri eroi che decidono di rinunciare a tutti i pranzi domenicali per sentirsi insultati dagli spalti. Così Mimmo, allenatore la domenica e sindacalista nei giorni feriali, e Daniel, capitano tutti i giorni, di domenica in domenica hanno cercato di spiegare ai ragazzi migranti, alle vite difficili e agli studenti dell’Università di Roma Tre che si scendeva in campo per vincere, ma anche per manifestare la propria solidarietà ai profughi che arrivavano sulle nostre coste oppure per chiedere giustizia e verità per Giulio Regeni. Se ne è accorta anche la Fifa che vi ha dedicato un post con foto su Instagram. Atletico Diritti è una polisportiva messa in piedi dalle associazioni Progetto Diritti e Antigone, con il patrocinio dell’Università di Roma Tre e il sostegno della Coalizione Italiana per le libertà civili. Nonostante l’endorsement della Fifa, nonostante la tanta simpatia riscossa dentro e fuori dai campi di gioco a Roma e a Fondi, nonostante delle due squadre ne abbiano parlato tutti i medi nazionali e regionali - la polisportiva fatica a trovare uno sponsor che ci metta la faccia e i soldi per poter pagare le trasferte, per poter avere le tute, per poter effettuare le iscrizioni, per poter pagare le visite mediche. Alessandro Marinelli nel bellissimo film Frammenti di libertà ha raccontato le storie dei ragazzi di Atletico Diritti. Di chi è arrivato a bordo di un barcone e ha trovato una squadra. In epoca di sbornia olimpica, dalle pagine del "manifesto" si lancia un appello: sponsorizzate Atletico Diritti. Umbria: Verini (Pd) visita le carceri "ok monitoraggio su detenuti radicalizzati" Corriere dell’Umbria, 17 agosto 2016 Gli Istituti penitenziari umbri di Spoleto e Perugia sono stati visitati domenica 14 e lunedì 15 agosto dal deputato Walter Verini, Capogruppo Pd in Commissione Giustizia alla Camera, nel quadro delle periodiche iniziative promosse dai parlamentari democratici sulla situazione delle carceri. "Nel corso delle due visite - ha dichiarato Verini - ho trovato una situazione accettabile, sotto diversi punti di vista: 500 detenuti nel carcere di Spoleto e 364 in quello di Capanne a Perugia sono numeri elevati, ma compatibili con la capienza degli istituti, anche rispetto alle gravissime situazioni di sovraffollamento di appena due anni fa. La situazione degli organici del personale di custodia presenta criticità, ma minori rispetto al passato: mancano ancora diverse unità per coprire gli organici previsti e sarà essenziale fare in modo che i pensionamenti previsti nei prossimi mesi possano essere coperti da un efficace e automatico turn-over, per un lavoro difficile, che viene svolto con straordinaria professionalità". "Nel corso delle visite ho avuto modo di colloquiare con il personale, gli operatori sanitari, gli stessi detenuti. Da tutti, sia pure nelle diverse condizioni, è emersa con forza la necessità di intensificare e moltiplicare il più possibile i corsi di studio e formazione, le attività lavorative dentro le mura degli istituti. In questi anni - ha continuato Verini - Governo e Parlamento hanno combattuto e ottenuto risultati contro la vergogna del sovraffollamento. Ora occorre investire di più su formazione, lavoro e attività sociali. La pena deve essere certa, ma investire in formazione, lavoro e attività sociali significa investire nel recupero di persone che hanno sbagliato e che giustamente scontano una pena. Spoleto e Perugia vantano esperienze importanti da allargare. Le statistiche, del resto, ci dicono che oltre l’80% di detenuti che escono con un mestiere in mano non tornano a delinquere". "Ho anche apprezzato - ha proseguito Verini - il lavoro di monitoraggio sui detenuti che hanno dato segni di radicalizzazione islamica: sono circa trecento, come è noto, in tutta Italia e una dozzina nei due istituti visitati. Un tassello delicato e importante dell’impegno complessivo dello Stato nella prevenzione contro il terrorismo". "Riferiremo di queste situazioni - ha concluso Walter Verini - a Gennaro Migliore, Sottosegretario alla Giustizia con delega alla situazione carceraria, la cui visita in Umbria è fissata per fine mese o primissimi giorni di settembre. Gli proporremo di visitare insieme il carcere di Terni, che in questa fase, in Umbria, appare quello che presenta maggiori criticità, (mentre l’esperienza di Istituto a custodia attenuata di Orvieto conferma la giustezza di questa scelta)". Napoli: "cella zero" di Poggioreale, chiusa l’inchiesta sulle torture di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2016 Chiusa l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere napoletano di Poggioreale. I pm Giuseppina Loreto e Valeria Rametta hanno firmato gli avvisi di conclusione delle indagini per 22 agenti di polizia penitenziaria e un medico. I reati ipotizzati nei lor confronti vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, alle lesioni e alla violenza privata. I fatti, stando ai racconti di sei detenuti, risalgono al periodo compreso fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2014. In particolar modo era emersa ? grazie ad un servizio esclusivo di Fanpage a firma di Gaia Bozza ? l’esistenza della famigerata "cella zero", ovvero senza arredi e soprattutto senza area di videosorveglianza. Lì, secondo le denunce, i detenuti venivano rinchiusi e torturati e subivano calci e pugni tali da perforare i timpani. I titolari dell’inchiesta giudiziaria avevano tra le mani altre testimonianze come quella di un recluso che aveva affermato di essere stato picchiato mentre rientrava in cella poco dopo un’udienza di consiglio di disciplina e di essere stato anche scaraventato giù dalla sedia a rotelle che utilizzava per problemi di salute. Un altro testimone, affetto da epilessia, ha detto di essere stato chiuso nelle docce, percosso e poi costretto a sottoscrivere una dichiarazione nella quale attestava di essersi procurato accidentalmente la ferita all’arcata sopraccigliare. I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura vanno dal sequestro di persona per i fatti della cosiddetta "cella zero" all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata. Gli agenti di polizia penitenziaria rifiutano del tutto le accuse, e si dicono pronti a mostrare orari di lavoro e turni che smentirebbero i racconti. Il carcere di Poggioreale ha una storia molto particolare e l’esistenza della "cella zero" ha radici lontane che risalgono agli anni 80. Erano gli anni della faida interna della criminalità organizzata campana. Una guerra tra la "Nuova camorra organizzata" di Raffaele Cutolo e la "Nuova famiglia" che si combatteva anche all’interno delle carceri. Per salvaguardare la propria incolumità, ogni detenuto, anche chi non era affiliato, doveva proteggersi con la pistola e fare da sentinella armata all’interno del proprio padiglione. Per far fronte a tutto ciò, lo Stato faceva intervenire il corpo speciale della polizia penitenziaria. A raccontarlo - con una lettera a Il Garantista - era stato Piero Ioia, un ex detenuto al carcere di Poggioreale e ora presidente dell’associazione "ex detenuti organizzati napoletani". Fu lui che assistette alla nascita della "cella zero". Ioia ha raccontato che una mattina, mentre tra detenuti si commentava il trasferimento notturno e coatto di alcuni boss mafiosi avvenuto nei giorni precedenti, all’improvviso ci fu l’irruzione armata delle "teste di cuoio" dei penitenziari, un corpo speciale che dopo anni verrà denominato "Gom": Spararono all’impazzata verso il soffitto del padiglione. Ioia così ci ha narrato il seguito: "A quel punto tutti noi ci rifugiammo all’interno delle nostre celle. Io mi infilai sotto al mio letto dove sentivo fischiare le pallottole fin dentro la mia cella. Il tutto durò per pochi e interminabili minuti e restammo chiusi per tutta la giornata nelle celle". La pace però finì presto. "Verso le 19 e 45 della stessa giornata ? continua Piero Ioia - sentimmo delle urla strazianti in lontananza. Piano piano si fecero sempre più forti finché fu la volta della nostra cella: entrarono due uomini alti, robusti e incappucciati dove con fucili alla mano ci intimarono di spogliarci nudi. Una volta spogliati ci pestarono con il calcio del fucile e ci obbligarono ad uscire di corsa fuori dalla cella. Ad aspettarci c’erano altri uomini che ci accompagnarono con calci, pugni e manganellate giù al piano terra. A quel punto, sotto il tiro delle armi, faccia al muro fummo pestati con manganelli dietro la schiena e sui glutei. Poi ci fecero correre tra le due fila composte da giovanissime guardie che arrivarono dalla scuola della polizia penitenziaria di Portici. Continuarono a pestarci con manganelli, pugni e, come se non bastasse, venimmo azzannati da pastori tedeschi". Le torture però non finirono lì: "Ad alcuni detenuti, i cani morsero i genitali e rischiarono di farseli strappare. Poi di corsa, tutti tumefatti, pieni di sangue e senza alcuna assistenza medica, fummo portati giù alle compresse dove all’epoca c’erano celle segrete molto ampie. Dopo due giorni, legato mani alla schiena e incappucciato, venni prelevato e portato in un ufficio. A quel punto mi fu tolto il cappuccio e vidi davanti a me molti uomini con il viso coperto. Alla domanda dove avevo nascosto la pistola, io risposi di non saperlo. Quindi mi fu rimesso il cappuccio e portato di peso al piano terra di un padiglione, mi fu tolto di nuovo il cappuccio e vidi una cella vuota con una luce rossa opaca, uno sgabello e una corda a cappio. Al tal punto io subito dissi dove nascosi l’arma e mi fu risparmiata l’ennesima tortura". Verità giudiziaria a parte, le cose sono cambiate nel carcere di Poggioreale: dopo lo scandalo emerso nel 2014, il direttore fu rimosso e quello nuovo ha cercato di ristabilire una serenità tra detenuti e guardie penitenziarie. Ma c’è ancora tanto da lavorare. Campobasso: "Liberi di cantare", la musica come sollievo dei detenuti primopianomolise.it, 17 agosto 2016 Il progetto punta a creare un coro all’interno degli istituti penitenziari di Campobasso e Larino. Nuova iniziativa culturale a favore dei detenuti negli istituti penitenziari di Campobasso e Larino. Sarà quella presentata giovedì mattina (18 agosto) alle ore 10.30 presso la Provincia di Campobasso. Il progetto si chiama "Liberi di Cantare" e nasce dalla partnership tra l’ente di via Roma, l’associazione ‘Molise inCantò impegnata fin dalla sua nascita nella diffusione della cultura e nella sensibilizzazione musicale di coloro che non hanno avuto modo di approfondire lo studio del canto e gli istituti penitenziari di Campobasso e Larino. L’iniziativa avrà la durata di sei mesi a partire da agosto per ogni istituto coinvolto. In questo periodo verrà attivato un percorso laboratoriale musicale allo scopo di creare un coro all’interno delle due case circondariali molisane. Caltanissetta: detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato dalla Polizia penitenziaria Comunicato Sappe, 17 agosto 2016 A tentato di uccidersi nella cella del carcere di Caltanissetta dove è ristretto per il reato di omicidio, ma è stato salvato in tempo dagli uomini della Polizia penitenziaria in servizio. La denuncia è del Sappe, per voce del Segretario regionale della Sicilia Lillo Navarra. "L’uomo, originario di Messina, ha posto in essere il gesto inconsulto nella cella della Sezione Isolamento del carcere di Caltanissetta dove è ristretto perché giudicabile per il resto di omicidio. Tempestivo l’ottimo intervento degli uomini della Polizia penitenziaria che hanno impedito che l’uomo portasse a compimento l’insano gesto". Donato Capece, segretario generale del Sappe, sollecita Ministro e Capo Dap a intervenire,: "Quello di Caltanissetta dimostra come la situazione nelle nostre carceri resta allarmante, nonostante si sprechino dichiarazioni tranquillanti sul superamento dell’emergenza penitenziaria. La tensione tra le sbarre delle celle resta palpabile. È solo grazie ai poliziotti penitenziari, gli eroi silenziosi del quotidiano a cui va il ringraziamento del Sappe per quello che fanno ogni giorno, se il numero delle tragedie in carcere è fortunatamente contenuto. Ma è evidente a tutti che è necessario intervenire con urgenza per fronteggiare le costanti criticità penitenziari, a cominciare dal ripianamento delle carenze organiche dei Reparti di Polizia Penitenziaria della Sicilia e di Caltanissetta in particolare". Livorno: carcere di Porto Azzurro, i detenuti islamici partecipano alla Messa Toscana Oggi, 17 agosto 2016 Il sabato mattina, il cappellano don Francesco Guarguaglini celebra la Messa nel carcere di Porto Azzurro. La celebrazione è preparata con cura dai detenuti, sia nel servizio all’altare che nelle letture, nelle preghiere e nei canti. Si respira aria di fraternità, di amicizia, di rispetto fra i partecipanti. E don Francesco riesce a toccare il cuore con parole semplici e profonde, che scaturiscono da una costante meditazione del Vangelo e da una vicinanza forte e continua ai fratelli reclusi, il suo "gregge" (come dice papa Francesco, il prete-pastore deve avere addosso l’odore delle pecore). Il cristianesimo è uno stile, quello di Cristo: povero, mite, disponibile, servo, nonviolento, affamato e assetato di giustizia. Per questo, il cristiano che segue Cristo è amabile e ciascuno (di qualunque convinzione religiosa o ideale) lo sente vicino. È proprio nel solco del dialogo che si colloca il gesto di alcuni musulmani che hanno partecipato sabato 13 agosto alla Messa nel penitenziario elbano. Una presenza discreta che ha sottolineato la loro solidarietà verso i cristiani che in questi ultimi tempi subiscono persecuzioni e violenze. Così anche a Porto Azzurro, è stato accolto l’invito delle comunità islamiche francesi e italiane di partecipare alle celebrazioni cattoliche. Un gesto apprezzato dai vescovi dei due Paesi. Dopo l’omelia, don Francesco ha dato la parola a un rappresentante degli islamici presenti: "Partecipiamo - ha esordito - per essere vicini a voi cristiani, vittime delle violenze di questo tempo. Gli autori delle violenze non sono veri musulmani. Il musulmano ama la pace, non fa male agli altri, vive, lavora e prega in tranquillità". È stata ribadita la condanna del terrorismo che, in nome di Dio, infanga l’islam e alimenta l’odio fra uomini religiosi (ebrei, cristiani e musulmani) che hanno un padre comune, Abramo. Ha poi aggiunto: "Ha ragione papa Francesco: le guerre non sono guerre di religione, ma guerre di interessi economici, di conquista e di potere". Ha poi evidenziato una verità di fatto, sottolineata anche da don Francesco (che è stato missionario in un Paese africano con il 90% di islamici e il 10% di cristiani): "In tanti Paesi, musulmani e cristiani vivono insieme da secoli in modo pacifico. Si sposano fra loro, cooperano nel lavoro, vanno a scuola insieme, si ritrovano nei luoghi di svago, sport e divertimento". Queste parole sono state molto apprezzate, tanto da suscitare un applauso tanto spontaneo quanto sincero. Terminata la Messa e prima di salutarci, a più voci è stato ribadito che la strada maestra è il dialogo, la conoscenza, la comprensione, l’accoglienza delle diversità. Anche religiose. Insieme, e pregando insieme, si può contribuire a contrastare la violenza. Prima di tutto dentro di sé, ciascuno vivendo in profondità la propria fede. Perché al fondo di queste c’è la Pace: Salam, Shalom, Pace. "Il diritto di uccidere - Eye of the sky", la nuova guerra contro il terrorismo islamico di Davide Turrini Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2016 La pellicola diretta da Gavin Hood, uscita italiana con Teodora il 25 agosto 2016, impone all’attenzione dello spettatore uno di quei rovelli etici, uno di quei tizzoni ardenti che vengono passati in fretta di mano in mano per vedere chi non ne rimane ustionato. Cast all star oltre ad Helen Mirren: Aaron Paul di Breaking Bad, il giovane e bravissimo Barkhad Abdi che esordì dal nulla in Captain Phillips e l’ultima compassata apparizione di Alan Rickman. Preparatevi a prendere posizione a livello morale. A decidere con chi stare di fronte ai danni collaterali della nuova guerra con il terrorismo islamico. Quella fatta di droni, esaltati kamikaze che inneggiano califfi, generali e colonnelli alla Dr. Strangelove, ministri degli esteri che paiono il "re tentenna", innocenti vittime bambine. Il diritto di uccidere - Eye of the sky, film diretto da Gavin Hood, uscita italiana con Teodora il 25 agosto 2016, impone all’attenzione dello spettatore uno di quei rovelli etici, uno di quei tizzoni ardenti che vengono passati in fretta di mano in mano per vedere chi non ne rimane ustionato. Ai vari livelli di script, rigorosamente dal basso verso l’alto, geograficamente tra un corno d’Africa in mano ad un immaginario califfo di nome Al Shabaab e gli alleati britannici/statunitensi sul suolo patrio, ci sono una famigliola somala con bambinetta che vende pane per la strada; tre futuri martiri tra cui una cittadina inglese convertita all’Islam che stanno per essere imbottiti di esplosivo nella casa alle spalle dell’ignara bambina; gli agenti sul campo dell’intelligence somala; i militari africani; il colonnello Powell (una puntuta e rigorosa Helen Mirren) attorniato da colleghi operativi inglesi; la base americana nel deserto da dove tre piloti azionano un drone che dovrà far saltare in aria la casupola con i martiri; la stanza dei bottoni londinese con generali, ministri, e cavillosi avvocati dello stato. Niente è più come sembra. La guerra è questione di mirini e messa a fuoco, di bombe che vengono sganciate dopo aver inquadrato perfettamente angoli e metratura del crash finale. Qualcosa ci aveva fatto già intravedere un paio d’anni fa l’intraprendente Andrew Niccol con The good kill (bravo il sempre dolente Ethan Hawke, militarino indeciso se sbudellare civili afgani sempre sganciando bombe dal drone Usa). Ma Gavin Hood ci porta ancora più all’interno del meccanismo decisionale, praticamente dentro le stanze del cosiddetto potere, che dando ordini in scala, sempre più verso il basso, sempre più verso il lontanissimo nuovo "campo di battaglia", perde la bussola morale, oscilla tra decisionismo asettico e timore di uccidere chi non c’entra, e soprattutto non riesce a mettere la parola fine dal punto di vista del diritto: la legge non è chiara sul da farsi e invece di salvare l’occidente dalla bombe terroristiche, si rischia di assassinare degli innocenti. Attenzione però: ne Il diritto di uccidere non c’è nessuna distinzione dicotomica tra bene e male, in modo netto e definitivo. Ogni anello della catena, a parte ovviamente quello più basso dei civili sul campo, è come se non riuscisse mai a sentire addosso del tutto la responsabilità della morte altrui. "Oggi ci troviamo di fronte ad un nuovo tipo di guerra: non più con una nazione contro un’altra, ma uno scontro tra ideologie che non richiede necessariamente uno scontro materiale tra stati antagonisti", spiega Hood. "Sono molto interessato da questa nuova tipologia di conflitto perché come non è chiaro quale sia il "campo di battaglia", non esiste nemmeno un chiaro quadro legislativo internazionale, uguale sia per militari statunitensi/britannici che per quello di altri paesi del mondo, che l’abbia normato. È una situazione davvero molto complicata, impensabile fino a pochi anni fa". Nel film il personaggio che sembra risaltare per decisionismo, e numero di pose, è il colonnello Powell, la pluripremiata Mirren, che insegue da sei anni la foreign fighter inglese convertita a velo e cariche esplosive e si trova con il suo hijab nel mirino pronta a sparare, se non fosse per quella bimbetta che vende pane per la quale vanno ricalcolati di continuo tiro, traiettoria, e percentuale di danni collaterali. "Nel passato solitamente i soldati combattevano per una nazione con precisi confini geografici. Oggi combattono per delle ideologie. Ora più che mai abbiamo bisogno di nuove regole, di un sistema legale, altrimenti la comunità internazionale collassa. Anche da civili è difficile difendersi quando non capisci bene quale sia il tuo nemico, e c’è confusione anche sull’aspetto religioso che dovrebbe contraddistinguere queste nuove figure". Ne "Il diritto di uccidere" non manca la massima verità sotto l’occhio impietoso di microspie video e droni in full hd: arti smembrati, polvere e sabbia della strada, macerie, fiamme. "Sono stato militare anch’io nelle truppe sudafricane nei primi anni novanta", conclude Hood. "Ero giovane e arrabbiato. Erano tempi di grande caos mentale per me. Credo però che fare il militare non sia soltanto un lavoro dove si eseguono solo ordini. Il giudizio morale ed etico esiste anche in guerra. Per questo la questione centrale del mio film è la questione morale. Ogni personaggio, in differente posizione gerarchica offre un punto di vista sul tema. E alla fine non c’è una risposta giusta, ma è come se il pubblico fosse una giuria. Io mostro quello che accade e il pubblico decide con chi stare". Cast all star oltre ad Helen Mirren: Aaron Paul di Breaking Bad, il giovane e bravissimo Barkhad Abdi che esordì dal nulla in Captain Phillips e l’ultima compassata apparizione di Alan Rickman. Siria: la guerra ai medici "750 morti dal 2011. A fine luglio la settimana peggiore" di Marco Pasciuti Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2016 In 5 anni "Phisicians for Human Rights" ha contato 373 attacchi a 265 presidi medici: "Il 90% è opera del governo siriano e della Russia". Secondo la "Syrian American Medical Society", il 47% delle strutture pubbliche funziona solo in parte, il 44% è chiuso. "Queste organizzazioni sono finanziate dagli Usa", replicano i siti d’informazione e blog schierati con Mosca e Damasco. Da una parte ci sono le organizzazioni non governative che raccontano lo stillicidio fatto di raid aerei e colpi di mortaio condotto contro ospedali e medici. Sul fronte opposto, il Cremlino e la galassia web che ad esso fa riferimento, che respingono le accuse secondo cui nella stragrande maggioranza dei casi dietro le stragi ci sarebbero Mosca e Damasco. Nel mezzo, l’unico punto fermo sono le bombe che piovono quasi quotidianamente sui presidi sanitari e i 750 morti tra personale medico e pazienti contati dalle ong dal 2011. È il conflitto parallelo che i due schieramenti che solcano i cieli della Siria con l’obiettivo dichiarato di contrastare l’Isis - coalizione internazionale a guida Usa da un lato e aviazioni di Putin e Assad dall’altro - combattono all’interno della guerra reale che da 5 anni strazia il Paese. Kafr Hamra, nord della provincia di Aleppo, 12 agosto. Le bombe sbriciolano un’ala dell’ospedale delle donne e dei bambini poco prima dell’alba, quando tutti dormono. Due morti, c’è anche un’infermiera. La Syrian Civil Defense racconta di aver tirato fuori 10 persone dalle macerie. Al destino non è bastato che fossero già stati feriti, il bersaglio sono diventati loro: i pazienti degli ospedali. Solo a luglio, 43 tra ospedali, strutture private e presidi da campo nelle aree controllate dai ribelli sono finite nel mirino dei raid. "L’ospedale è stato danneggiato da tre bombardamenti", racconta al quotidiano The Indipendent Hussein, un medico che lavora in una struttura supportata da Medici senza Frontiere, ad Aleppo est. È accaduto a luglio, il 3 e poi il 6 agosto: "Per ora è in funzione, ma può occuparsi solo dei casi più urgenti - spiega - ormai la gente ha paura di venire a curarsi, teme di diventare un bersaglio". Tra il 23 e il 31 luglio sei i casi nell’area di Aleppo. La notte tra il 23 e il 24 nel quartiere di Al Shaar, nella parte orientale di Aleppo, quattro presidi medici e una banca del sangue finivano nel mirino dei raid: l’Ospedale dei Bambini Al Hakim, l’Al Daqaq Hospital, l’Al Zahrà Hospital e l’Al Bayan hospital, oltre alla Central Blood Bank. La metà delle strutture operanti nella zona. Cominciava così quella che la ong Phisician for Human Rights ha definito la peggiore settimana dall’inizio della guerra, nel 2011. "Da giugno abbiamo registrato un aumento degli attacchi ai civili in città e alle strutture mediche che ancora resistono nella regione - affermava l’8 agosto Widney Brown, direttori dei programmi di Phr - distruggerle è un modo per garantire la morte di migliaia di persone bloccate nella zona est della città". Quella ai medici è una guerra nella guerra, nella Siria martoriata da un conflitto che è diventato regionale. Tra il marzo del 2011 e il maggio del 2016, Phisicians for Human Rights ha contato in tutto il Paese 373 attacchi a 265 strutture. Il picco nell’ottobre 2015, con 16 episodi. Prima dell’escalation di fine luglio, ad aprile si erano verificati 6 casi; a maggio il numero era salito a 8. Uno stillicidio di cui, raccontano le organizzazioni, ciò che rimane del sistema sanitario porta i segni: secondo la Syrian American Medical Society, il 47% delle strutture pubbliche funziona solo parzialmente. Il 44% del totale, si legge nell’ultimo report dell’organizzazione, è chiuso. Così come il 49% dei presidi che forniscono assistenza medica di base e ginecologica. Otto dei 23 centri gestiti in Siria dalla Unrwa, la United Nations Relief and Works Agency, sono fuori uso a causa di danni strutturali o impossibilità di garantire la sicurezza dei pazienti. Altri 7 lavorano a orario ridotto. Altissimo il costo in termini di vite umane: in 5 anni sono stati 750 gli operatori sanitari uccisi, riferisce ancora la Phisicians for Human Rights, nel 1997 premio Nobel per la Pace insieme alle ong partecipanti alla Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo. Otto le vittime solo lo scorso mese di aprile. La strage aveva inizio il giorno 8: l’Associated Press raccontava l’uccisione di Mohammed Khous, 70 anni, freddato da un cecchino mentre tornava a casa dopo il turno in sala operatoria dell’ospedale di Zabadani, a nord di Damasco. E si chiudeva il 29 con la lettera in cui il direttore dell’ospedale pediatrico di Aleppo dava notizia della morte di Muhammad Waseem Maaz, 36 anni, ucciso in un raid aereo contro l’ospedale di Al Quds. A maggio è andata anche peggio: i morti sono stati 12. Secondo Phisicians for Human Rights, il 90% dei 373 attacchi registrati è "opera del governo siriano e del suo principale alleato, la Russia". Che avrebbero responsabilità dirette anche nell’uccisione di 698 operatori sanitari. "Propaganda", la definiscono i protagonisti di quella galassia fatta di siti e blog schierati con Damasco e il Cremlino. In un contesto in cui sono pochissimi gli osservatori sul terreno in grado di verificare le informazioni in maniera indipendente. Mosca era intervenuta direttamente nel dibattito il 26 ottobre 2015: 6 giorni prima, il 20 ottobre, tv e quotidiani avevano ripreso un comunicato diffuso dall’Osservatorio siriano per i diritti umani secondo cui i caccia russi avevano bombardato un ospedale gestito dalla Syrian American Medical Society a Sarmin, nei pressi di Idlib, uccidendo 13 persone. Un caso di scuola, solo uno dei tanti esempi del conflitto nel conflitto. "Questa organizzazione registrata nello stato americano dell’Illinois (secondo il sito della stessa ong la stessa ha sede a Canfield, in Ohio, ndr) - attaccava Igor Kornashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, come riportava il sito Sputniknews.com, piattaforma informativa internazionale finanziata da Mosca che si pone come "voce alternativa" a quella dei media occidentali - ha a che vedere con la medicina quanto l’Isis ha a che vedere con il movimento internazionale degli scout". "Il vero scopo di queste organizzazioni continuava Kornashenkov - è quello di diffondere falsità a uso dei media". A essere legato all’Illinois è invece il presidente della ong, Zaher Sahloul, medico siriano e membro dell’Illinois State Muslim Advisory Council. Che, insieme alla ong che presiede, è accusato di essere finanziato a suon di milioni di dollari dal governo americano. "Dall’inizio della crisi siriana, Sams ha fornito il proprio supporto a medici, personale paramedico e ospedali (…) e distribuendo forniture mediche per oltre 40 milioni di dollari nelle aree di conflitto", si legge nella bio pubblicata sul sito del Middle East Institute e utilizzata dai suoi detrattori come prova dei suoi legami con Washington. La stessa accusa è mossa alla ong Phisicians for Human Rights, la quale "nei suoi report annuali rivela di essere finanziata da diversi dipartimenti e agenzie legate al governo Usa, compreso lo stesso Dipartimento di Stato". Negli stessi giorni anche Russia Today, testata in lingua inglese legata al Cremlino, entrava nel dibattito con un’intervista a Dominik Stillhart, direttore delle operazioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa. "Anche noi abbiamo visionato quei report - dichiarava il dirigente il 29 ottobre 2015 in merito ai raid denunciati da Sams il 20 ottobre e attribuiti all’aviazione russa- ma, in assenza di informazioni di prima mano provenienti dal nostro personale sul terreno, non posso né confermare né negare queste circostanze". Sottotesto del messaggio di RT: nessun ente terzo ha assistito al bombardamento, ha visto quei morti, né è in grado di attribuirne la responsabilità. Siria: la Russia muove i fili della guerra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 agosto 2016 Siria. Jet dall’Iran e Usa messi all’angolo. Per la prima volta Mosca usa una base iraniana: tempi e costi ridotti, ma soprattutto una presenza fissa nel paese alleato. Ad Aleppo Obama frenato dai "ribelli" e dalle pressioni della Russia, che svela: "Con Washington stiamo discutendo di operazioni congiunte". "Uno dei più devastanti conflitti urbani dei tempi moderni": in un tweet il presidente della Croce Rossa, Peter Maurer, riassume la devastazione di Aleppo. Alla sua si unisce la voce di Zedoun al-Zoabi, capo dell’Union of Syrian Relief Organization, che al The Independent disegna un quadro di disperazione: "Bambini e adulti sono anestetizzati, non sentono più nulla. La vita normale è un bombardamento. La vita normale è non avere cibo, è non avere acqua". Così crescono (e si spengono) le nuove generazioni siriane. Lontano, le potenze internazionali si riposizionano. La battaglia finale, che sia solo un’immagine forzosa o una realtà prossima, morde: da venerdì a lunedì sono morti tra Idlib e Aleppo oltre 180 civili, per raid governativi o attacchi suicidi delle opposizioni. A muovere le fila del conflitto è la Russia: nella galassia di Mosca rientrano alleati vecchi e nuovi, rinvigoriti dalla capacità russa di dettare tempi e modi della guerra. Ieri è stato lo stesso Ministero della Difesa russo ad annunciare l’utilizzo (ufficialmente per la prima volta dal settembre 2015, quando Mosca avviò le operazioni in Siria) delle basi aeree iraniane per raid contro le opposizioni islamiste - Isis e Jabhat Fatah al-Sham, ex al Nusra - nel nord della Siria. Nello specifico, dice il Ministero, i jet Sukhoi sono decollati dalla base di Hamadan, Iran occidentale. Una posizione ottimale, spiegano da Mosca, perché riduce i tempi bellici del 60%: partendo dall’Iran un aereo da guerra percorre 900 km, contro gli oltre 2mila dalla Russia del sud. Tempi ridotti, costi tagliati. Ma soprattutto un migliore posizionamento militare: per usare una base aerea è necessario trasferire uomini, munizioni, carburante, jet. Ovvero ritagliarsi una presenza significativa nel paese. Si cementa così il rapporto con l’Iran sulla questione siriana a cui Teheran ha dedicato denaro e uomini in abbondanza. L’obiettivo iraniano resta quello dei 5 anni precedenti: impedire una divisione su base settaria della Siria, membro fondamentale dell’asse sciita che corre da Teheran a Hezbollah via Damasco. Una visione che ieri il premier turco Yildirim ha condiviso: in un’intervista al quotidiano Karar, ha proposto una road map che impedisca la divisione della Siria in entità amministrative, possibilità che porterebbe al riconoscimento dell’autonomia della kurda Rojava, inaccettabile per Ankara. Centrale (ma Yildirim non lo dice, affidando le dichiarazioni a fonti interne anonime) sarebbe la partecipazione del presidente Assad alla soluzione politica, presenza ad interim nella sola fase di transizione. Se confermato, si tratterebbe del primo compromesso su Assad mosso dalla Turchia e probabile frutto del riavvicinamento a Russia e Iran. Sullo sfondo resta Washington, stretta tra le pressioni della Russia e la difficoltà a discernere tra "ribelli" alleati e nemici. Mosca approfitta del guado in cui la Casa Bianca è costretta per buttare sul tavolo dichiarazioni che costringano gli Usa a prendere posizione: il ministro della Difesa Shoigu ha detto ieri che le due super potenze sono vicine ad un accordo per operazioni militari congiunte. "[Siamo] in una fase molto attiva del negoziato con i nostri colleghi americani", le parole del ministro che parla della definizione "di un piano, non solo per Aleppo, che ci permetta di cominciare a lottare insieme per portare la pace e far tornare la gente nelle proprie case". L’amministrazione Obama non commenta. A frenarla la situazione di Aleppo, massacrata dal fuoco incrociato di governo e opposizioni, con queste ultime monopolizzate dai gruppi islamisti. Ma il ministro degli Esteri russo Lavrov insiste: ieri, ha detto, ha discusso con il segretario di Stato Kerry della gestione della crisi di Aleppo. Una telefonata su iniziativa Usa, precisa. Turchia: fuori 38mila detenuti comuni, "servono celle per i golpisti" Ansa, 17 agosto 2016 Il governo turco ha varato un decreto per rilasciare circa 38.000 detenuti, presumibilmente - secondo i media - per far spazio nelle carceri del Paese alle circa 35.000 persone arrestate nell’ambito delle indagini sul tentato colpo di Stato dello scorso 15 luglio. Il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, ha spiegato in un tweet che non si tratta di un’amnistia ma di un rilascio condizionato. La misura esclude i detenuti colpevoli di omicidio, violenza domestica, abusi sessuali o reati contro lo Stato. Due ergastoli e 1.900 anni di carcere. Questa la condanna chiesta dalla procura turca per Fethullah Gulen, l’ex imam dal 1999 in esilio volontario negli Stati Uniti considerato l’ispiratore del fallito golpe dello scorso 15 luglio. In contemporanea, continua la purga di massa ordinata dal presidente Tayyip Erdogan contro i presunti simpatizzanti del suo ex alleato: oggi sono stati perquisiti gli uffici di 44 società e aziende a Istanbul, il cuore economico della Turchia, e sono stati spiccati ordini d’arresto contro 120 manager. Secondo le accuse della procura di Usak, Gulen deve essere condannato a due ergastoli "per aver cercato di distruggere l’ordine costituzionale con la forza" e per aver "formato e guidato un gruppo terrorista armato". In 2.500 pagine messe agli atti dal tribunale gli si addebita anche il trasferimento negli Usa, attraverso società di comodo, di denaro ricavato da donazioni e da raccolte di beneficenza ‘pilotatè. L’ex imam, 75 anni, bestia nera di Erdogan, ha sempre negato qualunque coinvolgimento nel fallito golpe ma - appoggiandosi anche su precedenti ripetute accuse secondo le quali avrebbe messo in piedi "uno Stato parallelo" soprattutto dopo lo scandalo per corruzione che nel 2013 ha coinvolto il presidente - la procura gli ha contestato anche di aver "infiltrato" le istituzioni e i servizi di informazione della Turchia. Il tutto attraverso una rete capillare di scuole private, fondazioni, società assicurative, aziende, giornali e televisioni organizzata proprio per prendere il controllo del Paese. Banche compiacenti, Gulen le avrebbe trovate in Sudafrica, Emirati Arabi Uniti, Tunisia, Marocco, Giordania e Germania. "Un virus", secondo Erdogan, che avrebbe potuto intaccare l’integrità dello Stato. Da ciò la mannaia che si sta abbattendo su tutte le voci dissidenti in Turchia, una mannaia che, nelle intenzioni del presidente, presto potrebbe assumere effettiva concretezza se "il popolo e il Parlamento" decideranno di introdurre la pena di morte. Un’altra vittima delle purghe, sempre oggi, è stato il giornale filo-curdo Ozgur Gundem accusato di "propaganda terroristica" in quanto "organo mediatico" del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, fuorilegge). In un mese sono stati messi i sigilli già a 130 tra giornali, televisioni e radio. ‘Ozgur Gundum’ è un’altra tappa dell’imbavagliamento di qualsiasi dissidenza e critica. Tanto più pesante visto che i curdi sono l’altra bestia nera di Erdogan: stanno sconfiggendo l’Isis in Iraq e in Siria e pochi giorni fa qui hanno liberato la città di Manbij. Stamane la preoccupazione del ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu era quella di ricordare alla comunità internazionale, e agli Usa in particolare, che ora i curdi da quella città devono andare via. Lo stesso Cavusoglu della questione ha probabilmente parlato al telefono nel pomeriggio con il segretario di stato americano John Kerry. Andava riproposta la richiesta di estradizione di Gulem - hanno spiegato il media legati al palazzo - e andava preparato il terreno alla visita del 25 luglio del vicepresidente Joe Biden. Visita che già di per sé, secondo Ankara, costituisce un segnale positivo in relazione alla richiesta di estradizione dell’ex imam. Stati Uniti: a Guantanámo restano 61 prigionieri, corsa contro il tempo per la chiusura Corriere della Sera, 17 agosto 2016 Altri 15 detenuti sono stati spostati agli Emirati: è il più grande trasferimento di reclusi dalla base Usa a Cuba. Corsa contro il tempo per Obama per chiudere il carcere e mantener fede alla sua promessa. Corsa contro il tempo per Obama per riuscire a svuotare Guantanámo prima della fine del suo mandato visto che i repubblicani non glielo fanno chiudere. Altri 15 detenuti nella base Usa a Cuna sono stati trasferiti negli Emirati Arabi Uniti: 12 yemeniti e 3 afghani. È il più consistente spostamento di prigionieri durante l’amministrazione Obama che sta cercando di tener fede alla sua promessa di mettere la parola fine a un "capitolo di storia" negativa inaugurato da Bush nel 2002 nel clima post 11 settembre. Da 800 detenuti a 61 - Nella prigione sull’isola rimangono ora 61 prigionieri. Inizialmente erano circa 800, spesso sottoposti a pressioni psicologiche e fisiche. Alcuni vi erano arrivati da "black sites", luoghi segreti dove erano stati a lungo torturati. Trattamenti controversi riservati a personaggi chiave di Al Qaeda, come Khaled Sheikh Mohammed, presunta mente dell’11 settembre, o Abu Zubeyda, operativo del network. Il piano - Gli ultimi trasferimenti risalivano ad aprile: prima (il 4) il passaggio di una coppia di libici mandati in Senegal, poi (il 17) di 9 yemeniti sempre negli Emirati. Trasferimenti annunciati nel piano di rilancio per chiudere il centro presentato da Obama a febbraio, che prevedeva lo spostamento di una trentina di militanti in Paesi terzi, una decina sotto processo da parte di corti militari, e gli altri per lo più portati in penitenziari sul territorio americano. L’Amministrazione e il Pentagono stanno valutando la posizione di alcuni qaedisti: oggi sono in cella, domani possono essere liberati se sarà accertato che non rappresentano più un problema. Dopo la libertà - Molti si sono chiesti se gli ex, una volta liberi, non siano tornati a imbracciare il kalashnikov. Le indagini hanno fornito indicazioni interessanti: oltre 100 lo hanno fatto con certezza e una settantina sono rimasti in un’area grigia, contigua alla violenza. Proprio la pericolosità è uno degli argomenti usati dai contrari. Ostacoli - Ma a remare contro ci sono anche i rappresentanti degli Stati dove sorgono i penitenziari considerati dal Pentagono per lo smistamento. Un gruppo di congressisti ha già presentato un progetto di legge che pone il veto. Sud Sudan: un anno fa l’accordo di pace, ma ancora niente giustizia per le vittime di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2016 Un anno fa, ad Addis Abeba, veniva firmato l’accordo di pace che avrebbe dovuto garantire la fine del conflitto armato che dal dicembre 2013 stava devastando il Sud Sudan. Un conflitto su cui l’archivio di questo blog contiene numerose testimonianze (qui il primo post), segnato da crimini di guerra e contro l’umanità commessi da entrambe le parti. "Avrebbe dovuto garantire la fine del conflitto armato", ho scritto. Non lo ha fatto. Da allora le ostilità sono proseguite e a volte si sono persino intensificate, peggiorando ulteriormente la situazione dei diritti umani di milioni di persone. Anche durante e dopo i recenti combattimenti tra forze governative e dell’opposizione, la popolazione civile è stata nuovamente vittima di uccisioni, stupri, saccheggi e distruzione di proprietà personali, anche sotto gli occhi dei caschi blu delle Nazioni Unite. Questa situazione, secondo Amnesty International e la Federazione internazionale dei diritti umani, rende ancora più evidente la necessità di chiamare a rispondere di fronte alla giustizia i responsabili dei crimini di diritto internazionale commessi durante due anni e mezzo di conflitto. L’accordo di pace prevede che l’Unione africana istituisca un tribunale ibrido per il Sud Sudan per processare persone sospettate di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi a partire dal dicembre 2013. Da allora l’Unione africana e il governo del Sud Sudan hanno fatto ben poco per istituire il tribunale, a cominciare dalla cosa più preziosa: raccogliere e conservare le prove dei crimini per scongiurare il rischio che andassero perse e che la memoria dei testimoni iniziasse a svanire. Per questo, in occasione del primo anniversario dell’accordo di pace, Amnesty International e la Federazione internazionale dei diritti umani hanno sollecitato l’Unione africana a fare tutto il necessario, e in tempi brevi, per stabilire lo statuto, le procedure, la sede e il personale del tribunale. Il tribunale, sostengono le due organizzazioni per i diritti umani, dovrà rispettare gli standard internazionali sui processi equi, basarsi sulle migliori prassi di altri tribunali ibridi e ad hoc, impiegare anche personale di nazionalità sud sudanese, prevedere la partecipazione delle vittime in ogni fase dei procedimenti e garantire la protezione di queste ultime e dei testimoni. Non c’è pace senza giustizia. La situazione nel Sud Sudan è purtroppo un’ulteriore conferma di questa verità. Polonia: sarà reato definire "polacchi" Auschwitz e gli altri lager nazisti La Repubblica, 17 agosto 2016 La proposta di legge presentata dal governo nazionalista prevede multe pesanti e fino a tre anni di detenzione. Dovrebbe passare agevolmente in Parlamento. In futuro, chi definirà come "polacchi" Auschwitz e gli altri campi di sterminio o lager nazisti che si trovano in Polonia potrebbe rischiare, nel migliore dei casi, una pesante multa, e nel peggiore fino a tre anni di carcere. È quanto prevede la proposta di legge varata oggi dall’esecutivo di destra nazionalista guidato dalla premier Beata Szydlo. Ed è molto probabile che il provvedimento venga approvato senza troppi problemi in Parlamento, dove il partito Diritto e Giustizia (Pis) della Szydlo (e del leader storico Jaroslaw Kaczynski) ha una larga maggioranza. La legge intende porre fine a un andazzo che da molti anni infastidisce le autorità di Varsavia e molta parte dell’opinione pubblica. Spesso i mezzi di informazione e gli esponenti politici stranieri si riferiscono per comodità ai lager nazisti come "polacchi", il che fa temere ai polacchi che, a mano a mano che la Seconda Guerra Mondiale diventa lontana nel tempo, le nuove generazioni possano finire per pensare che i polacchi abbiano gestito i campi di sterminio dove morirono milioni di ebrei e non solo. Una beffa per un popolo che ha pagato un caro prezzo alla follia nazista: il Paese fu occupato e brutalizzato dalle truppe di Hitler e durante il conflitto morirono cinque milioni e mezzo di polacchi, tre milioni dei quali di religione ebraica. "Non sono state le nostre madri, né i nostri padri, i responsabili dei crimini dell’Olocausto, commessi da criminali tedeschi e nazisti sul territorio polacco occupato - ha spiegato il ministro della Giustizia Zbignew Ziobro. È nostro compito difendere la verità e la dignità dello stato polacco e della nazione polacca, così come i nostri padri, le nostre madri e i nostri nonni". In una prima stesura il testo prevedeva pene fino a cinque anni di detenzione. Ziobro ha precisato che il carcere sarà applicato a chi definirà "intenzionalmente" come polacchi i campi di sterminio. La proposta di legge può contare sull’appoggio dell’opinione pubblica, convinta che non differisca di molto dalle normative che bollano come reato la negazione dell’Olocausto. Ma c’è anche chi critica l’iniziativa del governo sostenendo che non sarà possibile punire le violazioni compiute all’estero, che sarebbero la stragrande maggioranza. E c’è chi teme che il provvedimento venga utilizzato per bloccare la ricerca storica sull’atteggiamento di una parte della popolazione polacca nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista. Messico: se la connessione in rete diventa un diritto umano di Matteo Persivale Corriere della Sera, 17 agosto 2016 Un’azienda di telecomunicazioni non profit, la cooperativa Tic, ha vinto una lunga disputa legale e commerciale per poter ottenere una concessione dal governo del Paese, coprendo 356 municipalità di cinque tra gli Stati messicani più poveri. In una delle pagine più commoventi di quello che pare avviato a diventare il romanzo dell’anno, The Underground Railroad di Colson Whitehead, la speranza che tiene in vita una schiava è quella che i suoi parenti, rapiti con lei in Africa e dei quali non ha più saputo nulla, siano riusciti, col tempo, a affrancarsi dalla loro condizione e a vivere, liberi, in America, come esseri umani. Oggi la schiavitù non esiste più, almeno legalmente, e le comunicazioni hanno reso il mondo piccolissimo: ma per milioni di poveri costretti a emigrare per trovare lavoro avere notizie dei propri cari lontani resta difficilissimo, e spesso con costi esagerati. Che la connessione sia diventata nel 2016 un diritto umano è indubbiamente un’idea nuova ma l’esempio del Messico fa pensare che sia una strada percorribile. Un’azienda di telecomunicazioni non profit, la cooperativa Tic, ha vinto una lunga disputa legale e commerciale per poter ottenere una concessione dal governo del Paese, coprendo 356 municipalità di cinque tra gli Stati messicani più poveri: Chiapas, Guerrero, Oaxaca, Puebla e Veracruz. Prima, gli abitanti erano costretti a lunghi viaggi, anche di due ore, per trovare un’area coperta dal segnale o a spendere cifre per loro improponibili da una cabina. Ora la nuova realtà non profit porta il segnale dove prima non c’era (perché non era un buon business). The Guardian è andato a Nuyoo, dove prima un minuto di telefonata negli Stati Uniti costava 90 centesimi di euro e dove oggi si può telefonare via Internet: un minuto di chiamata negli Usa adesso costa soltanto 1 centesimo. Per telefonare all’interno della rete coperta da Tic ci vuole un abbonamento: due euro al mese. Secondo l’Onu il 95% della popolazione mondiale vive in aree coperte da rete di telefonia mobile, ma 2 miliardi di persone non possono permettersi una telefonata, e altri 400 milioni sono prive di rete mobile.