Estate da ergastolani: le lettere dei detenuti di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 14 agosto 2016 Viene voglia di staccare la spina e smettere di elemosinare un po’ di speranza. (Frase scritta sulla parete di una cella di un ergastolano). Penso che il carcere sia un’invenzione stupida perché non migliora ma invece peggiora i suoi abitanti, mentre non stimola nessuna riconciliazione fra vittima e carnefice. Inoltre, dopo tanti anni di carcere, la pena non ha più nulla a che vedere con il recupero sociale. Questa è la prima estate senza Marco Pannella e la sua mancanza si sente. Credo che ad agosto nessun politico di spessore girerà per le carceri come faceva lui per ricordare che in Italia esistono ergastolani per i quali, attualmente, non è prevista la concessione di alcun beneficio. E per questi reclusi la condanna all’ergastolo risulta fissa ed immodificabile. La nostra Costituzione assegna alla pena una funzione rieducativa e non vendicativa. Ma quale beneficio rieducativo potrà mai apportare una pena perpetua? La pena dell’ergastolo, più che imprigionare il corpo, uccide la vita perché è, nello stesso tempo, una pena di morte e una tortura. E non è facile migliorare e cambiare quando hai solo la possibilità d’invecchiare, morire e soffrire in una cella. In questa torrida estate ho pensato di scrivere ad alcuni ergastolani sparsi nelle nostre Patrie Galere per raccogliere pensieri e testimonianze e farli conoscere all’opinione pubblica. Ecco cosa mi hanno scritto alcuni di loro: - Gli ergastolani più fortunati si creano ogni giorno un mondo interiore costruito sul sale di tutte le loro lacrime. Io, invece, mi sono stancato di sperare. È meglio non avere speranza che nutrirne di false. Tanto, con la condanna all’ergastolo, la vita non vale più nulla: ciò che ti rimane è solo il passato. E ogni giorno che passa non è uno in meno da scontare. Carmelo, mi sono arreso, o, meglio, me ne frego. Che facciano quello che vogliono. Ormai ho 58 anni, potrei vivere altri dieci anni e arrivare a circa a 70 anni; quindi uscirò da morto. Con la pressione che mi ritrovo, se penso all’ergastolo ostativo, morirò prima. Meglio non pensarci. Adesso che Marco Pannella è morto non è facile che trovino uno che lo possa sostituire. Come vedi ci va tutto male. (Salvatore, da 33 anni in carcere, detenuto a Termini Imerese). - Un compagno, che è in cella con me e al quale mancano solo un paio di mesi prima di uscire, si è confidato e mi ha detto che i secondi gli stanno sembrando minuti, i minuti ore, le ore giorni ed i mesi anni. Gli ho risposto: "Per fortuna che io ho l’ergastolo e non ho bisogno di contare né i giorni, né i mesi, né gli anni. Conto solo i capelli bianchi che mi stanno venendo". Il mio compagno ha annuito. Poi ha amaramente sorriso. E alla fine abbiamo riso insieme, anche se non c’era nulla da ridere perché, con questa pena, la vita diventa peggiore della morte. (Giuseppe, da 28 anni in carcere, detenuto a Nuoro). - Ciao Carmelo, qui continua la calma piatta più totale e un caldo disumano contribuisce alla stasi. Nessuno cucina più: l’idea di accendere il fornello ci terrorizza. Già la notte sto incominciando a dormire a terra, e chi se ne frega degli scarafaggi. Tutta colpa di queste dannate bocche di lupo in plexiglass: sembra di stare in una serra. Per assurdo, all’aria fa più fresco anche in pieno sole. Infatti, ormai, alla fine ci ritroviamo un po’ tutti a sonnecchiare e a cercare di assorbire il fresco del cemento negli angoli più bui. (Pasquale, da 30 anni in carcere, detenuto a Spoleto). - Caro Carmelo, un compagno di qui, circa un mese fa è stato a Sollicciano per un’udienza. L’hanno messo con un detenuto dicendo che stava un po’ giù. Lui ci ha chiacchierato, ha tentato di tirarlo su e sembrava che si fosse rasserenato. Il secondo giorno il compagno è voluto scendere all’aria. È risalito neanche dopo dieci minuti, perché gli era montata l’ansia. Tornato in sezione ha trovato il suo compagno di cella morto impiccato. La guardia non se n’era accorta e, per quanto sia stato inutile, sono stati i detenuti a tentare di rianimarlo. La guardia era inibita dalla paura e inizialmente non è arrivato nessun medico. Per il nostro compagno è stata una brutta esperienza: mentre ce la raccontava piangeva. (Alberto, da 28 anni in carcere, detenuto a San Gimignano). - Caro Carmelo, mi trovo nel carcere di Livorno. Ho già chiesto di poter parlare con il coordinatore responsabile della sezione e, molto probabilmente, finirò in isolamento nelle celle di punizione perché non ho nessuna intenzione di stare in tre in una cella che è stata costruita per un detenuto. Mi hanno già informato che a chi sceglie questa strada gli viene fatto rapporto e denuncia. Appena sono arrivato ho capito che aria tirasse. Per dirtene una: qua nessuno può tenere un solo rasoio usa e getta nella cella. Tutte le volte che uno vuole farsi la barba deve chiedere il rasoio alla guardia di turno e, per di più, solo dopo le 9 del mattino. All’unico accappatoio che avevo e ad un giubbino ho dovuto tagliare il cappuccio. A me sembra di rivivere i primi giorni dell’arresto. (Roberto, da 23 anni in carcere, detenuto a Livorno). - Carmelo, ho letto tutto quanto mi hai mandato e, pur se i tuoi scritti mi aiutano a vedere in positivo, in questo posto, dove sembra assente anche l’eco di una campana, non si può certo avere un minimo di gioia. Qui la vita è triste, monotona, i giorni sono diventati lunghi e le notti ancora di più. Prima per le condizioni carcerarie e poi perché da circa tre mesi non sto bene con la salute. Sono ripiombato nel buio più totale: non faccio nulla dalla mattina alla sera, non mi confronto più con nessuno, non metto in gioco né i miei pregi, né i miei difetti. Carmelo, non riesco più a odiare nessuno e questo non fa altro che farmi ammalare perché se prima imprecavo e odiavo questo mi dava la giusta carica per sopravvivere, mentre adesso che non impreco e non riesco a odiare mi sento morire ogni giorno. Ciò che non so più rivolgere verso gli altri lo uso contro di me. E sono certo che questo mi porterà al disfacimento. (Giuseppe, da 26 anni in carcere, detenuto a Sulmona). - Caro Carmelo, mi trovo nella cella cosiddetta liscia, senza TV, né luce, addirittura con la finestra saldata che non si può aprire, i muri imbrattati di feci e così via. Roba che ti fa rabbrividire. È veramente una vergogna che ancora oggi esistano queste realtà. (Mimmo, da 31 anni in carcere, detenuto a Carinola). - Carmelo, qui fa caldo… non si respira e di aprire le celle non se ne parla proprio. Non so nemmeno cosa sto scrivendo… il caldo non mi fa concentrare e purtroppo sono un paio di giorni che non sto bene… mi sembra tutto inutile, insensato. Questa condanna maledetta mi sta devastando l’anima, mi sembra di aver perso le forze. Sarà il caldo, sarà la "carcerite cronica" che ho? Boh! (Giovanni, da 23 anni in carcere, detenuto a Sulmona). - Ciao Carmelo, come stai? Io un po’ incasinato. Ho preso una denuncia per minaccia a Pubblico Ufficiale. Pensi che sarà valutata in modo negativo? Ho fatto l’istanza per Volterra: cavolo meno male che qui si stava bene! Mi stanno martellando: ho già subito quattro perquisizioni in un mese. Alla fine sono scoppiato, ma credo che sia umano quando vedi trattare la tua roba personale come stracci. Mi hanno preso di mira, ma io non so cosa vogliono da me. Mi faccio la mia galera senza disturbare nessuno, mi alleno, ascolto la musica, scrivo, leggo e non faccio comunella con nessuno. Il vice comandante mi ha detto: "Da quarant’anni faccio questo lavoro e so riconoscere un criminale da uno sbandato". Vorrei tanto capire da dove, anzi, in che modo ha dedotto che io sia un criminale dato che mi ha visto una volta. Comunque, cosa mi consigli Carmelo? (Massimiliano, da 21 anni in carcere, detenuto a Porto Azzurro). La giustizia che frena lo sviluppo di Romano Prodi Il Mattino, 14 agosto 2016 I dati sull’economia pubblicati in questi giorni non sono buoni. Anzi sono oggettivamente cattivi e, soprattutto, cancellano i messaggi di ottimismo abbondantemente seminati nei mesi scorsi, nell’ipotesi che la lunga crisi fosse alle spalle. La situazione dell’economia mondiale e quella europea certamente non ci hanno aiutato: il commercio internazionale è stanco e l’Europa, insieme a Russia e Brasile, continua ad essere il fanalino di coda del sistema economico globale. Questo è vero ma non ci resta nemmeno la consolazione del "mal comune mezzo gaudio" perché quello italiano è ormai un male non comune. La crisi ci ha colpiti più di ogni altro e proseguiamo regolarmente a mantenerci nell’ultimo plotone dei paesi europei. Abbiamo dato la colpa all’invecchiamento della popolazione ma i nostri dati demografici sono identici a quelli di Spagna e Germania che, nel secondo trimestre di quest’anno, sono cresciute rispettivamente dello 0,7 e dello 0,4 per cento. Abbiamo dato la colpa all’instabilità politica ma, proprio nel periodo di cui parliamo, la Spagna ha raggiunto il massimo livello concepibile di instabilità, obbligata a ripetere le elezioni ma ugualmente incapace di formare un nuovo governo. Abbiamo dato colpa alla Brexit, dimenticando che essa è arrivata solo alla fine del trimestre in questione, mentre non teniamo conto del robusto contributo positivo che viene all’Italia, paese grandemente importatore, dal crollo del prezzo del petrolio, delle materie prime e delle derrate agricole. Soprattutto non teniamo conto che il proseguimento dei bassi tassi di interesse rende, per ora, meno gravoso il peso degli interessi del debito pubblico che ancora cresce. Il nostro scostamento in negativo dura da ormai dieci anni. Esso ci ha fatto perdere quasi un quarto della capacità produttiva industriale ed è talmente grave in quantità e durata che, ad esso, non può essere posto rimedio nemmeno chiedendo ulteriori sconti nei confronti degli obblighi di contenimento del deficit di bilancio concordati con l’Unione Europea. Un aumento di flessibilità ci può aiutare solo in presenza di cambiamenti strutturali che ci rendano credibili di fronte all’economia e alla politica internazionale. Per essere credibili di fronte agli altri dobbiamo però cominciare ad essere credibili di fronte a noi stessi. Come possiamo pensare che i programmi di nuove infrastrutture possano risvegliare l’economia in tempo ragionevole quando il 70% di essi è bloccato da contenziosi senza fine, nonostante la recente volontà di cambiamento espressa dai tribunali amministrativi? O quando il nuovo codice degli appalti ha, almeno per ora, il risultato di rendere più complesse anche le procedure degli appalti di importi minori? O quando i contenziosi fra lo Stato e le regioni si stanno moltiplicando per effetto di innovazioni legislative che avevano l’obiettivo di rendere le decisioni più facili e vicine al cittadino? Come si può essere credibili se si lancia il messaggio di fare del mezzogiorno il crocevia per le fonti di energia del sud Europa e da anni siamo di fronte a una lunga paralisi che ora si manifesta in una disputa sull’abbattimento di 124 piante di ulivo? Anche se sono per definizione affezionato a questo albero a noi italiani così familiare, non credo che la politica energetica italiana debba essere condizionata da un problema di questa inesistente dimensione mentre, nel frattempo, si raddoppia il polo energetico del nord Europa. Lo zero di crescita dopo dieci anni di paralisi ci insegna che, se non mettiamo mano ai nostri problemi strutturali dominati da scuola e giustizia, non usciremo mai dalla crisi che, al di là di piccoli possibili sussulti del Pil, soffoca come una tenaglia il nostro paese. Ho parlato della crisi delle strutture pubbliche ma, tra coloro che non credono nell’Italia, dobbiamo elencare anche alcuni protagonisti dell’imprenditoria privata che, senza alcuna situazione di crisi aziendale o prospettive di una crisi imminente, non solo hanno venduto la propria azienda ad attori stranieri o fondi di investimento prevalentemente speculativi ma si sono ben guardati dall’intraprendere nuove iniziative produttive con le risorse ricavate dalla vendita dell’azienda. Per capire la portata della nostra crisi ricordiamo semplicemente che l’Italia ha raggiunto l’incredibile risultato di non avere quasi più alcuna grande impresa nazionale pur essendo, per dimensione, il secondo paese industriale europeo. In questi giorni un aspetto consolante della nostra economia è certo costituito dal turismo. La tragica crisi di tutti i paesi del sud del Mediterraneo sta spingendo verso le nostre coste nuovi clienti ma in quota minima rispetto a quanto avviene in Spagna. Ed anche in questo caso nessun nuovo grande investimento è in vista, mentre il piano di sviluppo del settore rimane da quattro anni nei cassetti del ministero. Eppure siamo tutti convinti che, senza gli introiti del turismo, non ci saranno nemmeno risorse per la protezione dei beni culturali. L’ennesima sosta nello sviluppo ci deve quindi insegnare che non è più il tempo di rimedi parziali o di sussidi temporanei. È tempo di politiche di lungo periodo. Sono questi i comportamenti e le riforme che chi guarda al futuro ci chiede, indipendentemente dai risultati del prossimo referendum. Ma per le banche ci vuole una superprocura? di Lirio Abbate L’Espresso, 14 agosto 2016 La provocazione che l’Espresso lancia questa settimana: perché non costituire un tribunale specializzato che si occupi solo dei reati legati agli istituti di credito? Si eviterebbe l’incompatibilità, e una giustizia più certa sarebbe a portata di tutti. Non ci meravigliamo se ancora una volta la giustizia viaggia a due velocità, in particolare quando si tratta di inchieste sulle banche, in cui parte offesa sono i risparmiatori. C’è la procura di Roma che chiede e ottiene nei tempi regolari-giudiziari l’arresto dell’ex ad di Veneto Banca, Vincenzo Consoli, mentre altri uffici, per gli stessi reati, hanno il passo lento, moscio, da far passare nel dimenticatoio le indagini. Così giustizia non è fatta. È l’ennesima doppia velocità italiana, ogni volta che si indaga sulle banche. Per questo non ci meravigliamo. Ma è opportuno vigilare. Perché se Roma non è più il porto delle nebbie, questa bruma sembra avvolgere altri uffici giudiziari. Non è un caso che nell’ultimo anno più della metà delle pratiche della prima commissione del Csm, quella che si occupa delle incompatibilità dei magistrati, abbia riguardato proprio il rapporto fra togati e banche. L’istruttoria del Csm punta ad accertare se il canale giudiziario si è inceppato perché qualche magistrato, in postazioni strategiche, non ha fatto il proprio dovere. Dovere di controllo penale sull’attività degli istituti di credito. Le associazioni di consumatori e risparmiatori denunciano i possibili conflitti di interesse di alcuni pm e gip, a partire dai parenti che lavoravano per le banche su cui indagavano. Incompatibilità che deve essere accertata dal Csm. Da qui viene che su questi temi ci sono due velocità nella giustizia? È un punto importante e delicato. È pur vero che una procura come quella di Roma, dotata di intelligence e mezzi, davanti a questo tipo di inchieste mette in campo una squadra di magistrati e investigatori più attrezzata rispetto a piccole procure di provincia. Per i reati bancari sono competenti gli uffici in cui ricadono le sedi degli istituti. Occorre fare una riflessione: nei piccoli ambienti di provincia è più semplice trovare sponde istituzionali. Più facile realizzare collegamenti. Nel circuito di relazioni che si crea entra di tutto, anche pezzi della magistratura. Sul territorio ci sono situazioni di familismo che possono creare l’incompatibilità delle toghe. È proprio il caso di azzardare una soluzione, che vuole essere provocatoria: perché non costituire una super procura che indaga sulle banche, con un tribunale specializzato che si occupa solo di questi reati? Si eviterebbe l’incompatibilità, e una giustizia più certa sarebbe a portata di tutti. E chi comanda nelle banche avrebbe almeno un timore: commettesse un reato, sarebbe perseguito o giudicato da magistrati senza rapporti personali con i propri istituti di credito. La ragionevole durata della presunzione di innocenza. camerepenali.it, 14 agosto 2016 Il clamoroso ritardo nel quale versa la Corte di Assise di Appello della Sezione distaccata di Taranto la quale, a distanza di un oltre un anno dalla decisione non ha ancora provveduto a depositare le motivazioni della sentenza per l’omicidio della povera Sarah Scazzi dimostra, ancora un volta, che i ritardi ed i tempi irragionevoli dei processi non dipendono certo dalle troppe garanzie - che in verità, quando si tratta della libertà e della vita di una persona, non sono mai troppe - ma dalla stessa organizzazione degli uffici e dalla efficienza della giurisdizione. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi ha occupato, a torto o a ragione, le cronache giudiziarie del nostro paese per molti anni. Come tutti i processi indiziari ha evidenziato numerosi aspetti controversi e fatto sorgere molti dubbi. La Cassazione ha più volte annullato i provvedimenti emessi in sede cautelare e la sentenza di condanna ha fatto ovviamente discutere. Fin qui nulla di veramente patologico. Non entriamo ovviamente nel merito. Ma ciò che ora stupisce è il clamoroso ritardo nel quale versa la Corte di Assise di Appello della Sezione distaccata di Taranto la quale, a distanza di un oltre un anno dalla decisione con la quale ha ritenuto di dover confermare la condanna all’ergastolo delle due imputate principali, non ha ancora provveduto a depositare le motivazioni della sentenza. Il termine massimo di perenzione della custodia cautelare è prossimo a scadere e la questione relativa al computo dei relativi periodi di proroga sarà presto saggiamente risolto dal Giudice competente. Ma, ancora una volta, sembra opportuno uscire dai luoghi comuni e dalle logiche scandalistiche fuorvianti e soffermarsi, invece, su alcuni dati che spesso vengono trascurati. Che l’imputato attenda libero l’esito del suo processo dovrebbe essere normale, risultando chiaro dalle norme in materia la eccezionalità della custodia cautelare in carcere. Che a distanza di sei anni dall’inizio della carcerazione, in assenza di una decisione definitiva, le imputate tornino il libertà dovrebbe essere considerato un fatto del tutto normale, frutto della applicazione di una incontestabile garanzia costituzionale. Il ritardo dei giudici sarà poi valutato nelle sedi competenti, ma a noi interessa invece sottolineare ancora una volta ciò che episodi come questo dimostrano in maniera evidente. Che i ritardi ed i tempi irragionevoli dei processi non dipendono certo dalle troppe garanzie - che in verità, quando si tratta della libertà e della vita di una persona, non sono mai troppe - ma dalla stessa organizzazione degli uffici e dalla efficienza della giurisdizione. Ma ancora al di là di questo c’è da porsi un ultimo e più importante interrogativo. Il termine di novanta giorni previsto per la redazione delle sentenze più complesse appare più che congruo, ma è del tutto sprovvisto di sanzione, ed appare davvero ingiusto che il suo mancato rispetto possa ritorcersi contro un imputato detenuto in attesa di giudizio. Possibile che, per quanto si sia rivelato complesso il processo, un anno intero (con le ripetute proroghe) non sia bastato a motivare la decisione? E lo stato detentivo delle imputate non doveva essere una ragione sufficiente per obbligare l’estensore al rispetto dei termini comunque imposti dalla legge e per consentire ai difensori, ancora una volta in tempi ragionevoli, di adire il giudice di legittimità? Noi riteniamo che la presunzione di innocenza sia un valore tanto importante che nessun giudice dovrebbe mai dimenticarsene anche quando si accinge a scrivere le motivazioni di una sentenza con la quale ha confermato un ergastolo. Il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Avv. Beniamino Migliucci Il Segretario dell’Unione delle Camere Penali Avv. Francesco Petrelli Nessuno ha salvato il soldato Scieri di Riccardo Chiari Il Manifesto, 14 agosto 2016 Nonnismo omicida. La commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del giovane parà, rimasto tre lunghi giorni cadavere all’interno della caserma Gamerra della Folgore, ricorda la tragedia e anticipa possibili novità sull’omicidio. La sera del 13 agosto 1999, un venerdì, la recluta Emanuele Scieri rientrava dopo la libera uscita nella caserma Gamerra, centro di addestramento della brigata paracadutisti Folgore. Per il giovane siciliano, laureato in legge e futuro avvocato, era stato il suo primo giorno alla Gamerra, da dove peraltro se ne sarebbe dovuto andare pochi giorni dopo, avendo deciso di non fare più il parà nel corso del suo anno di leva obbligatoria. Nonostante più di un testimone avesse visto Scieri all’interno della Gamerra, al contrappello notturno non rispose. E, con una leggerezza inaudita per qualsiasi caserma, fu sbrigativamente dato per assente. Tre lunghissimi giorni dopo, il cadavere del ragazzo fu "ritrovato" nel perimetro della Gamerra, ai piedi della torre di asciugamento dei paracadute. A nemmeno cinque metri dal muro di cinta, che in ogni caserma dell’esercito viene pattugliato con regolarità dal Pao, Picchetto armato ordinario. Solo un muretto di nemmeno mezzo metro separava il corpo di Scieri dal percorso del Pao. Eppure in quei giorni, almeno ufficialmente, nessuno si accorse del cadavere di un soldato, affidato dalla famiglia allo Stato per l’intera durata della leva. Sempre in quei giorni, lo scaglione dei congedanti lasciava la Gamerra. Quasi comiche, se non si fosse trattato di una tragedia, le reazioni dei vertici della caserma. Il comandante in quei giorni era in ferie (sarebbe stato comunque rimosso), mentre il suo vice si fece subito intervistare dal Tg3 della Toscana, blaterando che la recluta, in perfetta solitudine, era rimasta vittima di una "prova di coraggio": avrebbe cercato di arrampicarsi sulla torre di asciugamento, e da lì sarebbe "accidentalmente" precipitato. In realtà l’autopsia sul corpo del ragazzo rivelò alcune ferite sul dorso della dita, come se fossero state schiacciate. Di più: l’esame rivelò che, nonostante le gravi ferite riportate, Scieri non era morto subito. Se fosse stato soccorso, sarebbe ancora vivo. Nel frattempo la timida testimonianza dell’ex commilitone di Scieri, Stefano Viberti, l’ultimo a vederlo, non fece fare passi avanti a una indagine progettata male e finita peggio. Dopo inspiegabili titubanze, la procura di Pisa iniziò - mesi dopo - a ipotizzare l’omicidio volontario. Quando era già chiaro che attorno al caso Scieri si era alzato un muro di gomma, a partire dagli stessi commilitoni. Nemmeno per un secondo, ufficialmente, la magistratura requirente pensò ad una inchiesta per omicidio colposo, nonostante l’evidenza di un soldato cadavere per tre giorni all’interno di una caserma. Sarebbe stata l’occasione per portare il caso davanti a un giudice in un processo pubblico, con la possibilità di interrogare testimoni in contraddittorio con le difese e le parti civili. Un’occasione per puntare una luce sulle pratiche di nonnismo che segnavano la vita dei coscritti, scaglione dopo scaglione, anche nel corpo dei parà. Ieri una delegazione di deputati guidati dalla dem Sofia Amoddio, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Scieri, ha deposto una corona di fiori sotto la torre di asciugamento. Poi Amoddio ha rivelato che, tra le persone ascoltate finora, e le cui deposizioni sono state secretate "per mantenere la cosiddetta genuinità della prova, c’è anche chi ci ha consegnato nuovi elementi molto interessanti, mentre tutti hanno ammesso che in quella caserma si perpetravano atti di nonnismo, e che dopo la morte di Scieri il clima è radicalmente cambiato". Riguardo all’articolo "Oristano: i boss di Massama in viaggio verso casa" di C.B. Ristretti Orizzonti, 14 agosto 2016 Premetto che sono abbonata a Ristretti e trovo la vs rassegna eccezionale, ma avete pubblicato un articolo tratto da La Nuova Sardegna che definirei ignobile: www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/oristano-i-boss-di-massama-in-viaggio-verso-casa. Si tratta di un articolo che offende tanto i diritti dei detenuti quanto la categoria dei magistrati di sorveglianza, composta di persone preparate e competenti, cosa che di certo non si può dire di chi ha scritto questo articolo. Comprendo che i giornalisti non possano essere tuttologi, ma almeno il signor giornalista in questione dovrebbe andarsi a leggere gli articoli 30 ter e 30 dell’ordinamento penitenziario, dove sono disciplinati i permessi premio e i permessi di necessità. Innanzitutto, nell’articolo non si chiarisce di quale istituto si tratta, ma si intuisce che si tratta di permessi di necessità, che, accertati determinati requisiti, sono un diritto per i detenuti. Il problema della frequenza dei permessi di necessità mi lascia perplessa visto che vengono concessi solo a fronte di gravi motivi (per es. andare al funerale del genitore, dargli l’ultimo saluto, ecc.). In ogni caso, se questo problema sussiste, forse la colpa è del Ministero che nel 2013, appena costruito il nuovo padiglione di Oristano, ha pensato bene di dirottare là molti detenuti dell’Alta Sicurezza. Detto ciò, quel che risulta disgustoso, vergognoso e pietoso è dire che questi permessi con scorta vengono rilasciati per riallacciare i rapporti con amici e parenti. Ma questo giornalista e il giornale che pubblica pensa veramente che esistano magistrati che accordano ai detenuti un giretto con tanto di scorta per fare una rimpatriata con gli amici? È vergognoso e offensivo in primis verso i magistrati di sorveglianza di Oristano, che, di certo, sanno fare il loro lavoro, mentre l’autore dell’articolo ha bisogno di un corso di diritto penitenziario. Roma: Ferragosto a Rebibbia per i Radicali Adnkronos, 14 agosto 2016 Dirigenti e militanti del Partito radicale entreranno a ferragosto nel carcere di Rebibbia, come ha fatto per decenni il leader Marco Pannella. La visita, autorizzata dal Dap, riveste quest’anno un particolare valore perché è la prima volta che Pannella non potrà essere fisicamente presente e perché in quel luogo - il teatro del Rebibbia - dall’1 al 3 settembre si terrà il 40° Congresso straordinario del Partito radicale nonviolento transnazionale transpartito, il primo convocato - a norma di Statuto- da un terzo degli iscritti da almeno sei mesi. Della delegazione farà parte anche il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, che sempre è stato al fianco di Pannella nelle visite in carcere durante le festività più importanti dell’anno. Ci saranno inoltre Rita Bernardini (ex deputata radicale), Bachisio Maureddu, Paola di Folco, Elvira Zaccari, Ilary Valbonesi, Alessio Fransoni, Alessandra Impallazzo, Maria Laura Turco e Giulia Crivellini. Prima dell’ingresso in carcere, i radicali terranno una breve conferenza stampa davanti all’istituto alle ore 10:00. Saranno anche fornite le informazioni logistiche e di contenuto dell’evento congressuale che avrà come titolo ?Da Ventotene a Rebibbia? in continuità con i padri fondatori dell’Europa i quali, proprio dal carcere e dal confino, concepirono il Manifesto del federalismo europeo. Firenze: i Radicali visita al carcere "a Sollicciano ristrutturazione a rischio" La Nazione, 14 agosto 2016 Tradizionale visita di Ferragosto dell’associazione "Andrea Tamburi". E 178 detenuti firmano la petizione per la piazza dedicata a Pannella. Quello del Ferragosto in carcere (ma anche di Natale e Capodanno) è una delegazione dell’associazione radicale "Andrea Tamburi", insieme al cappellano dell’istituto don Vincenzo Russo ha effettuato la consueta visita al carcere di Sollicciano. Diverse le criticità emerse, a partire dal numero di detenuti che è tornato a crescere (arrivando ora a 710 rispetto a una capienza prevista di 494) e dalla partenza della nuova direzione del carcere, da poco insediata, che rischia di bloccare i lavori di ristrutturazione dell’istituto recentemente avviati. La visita a Sollicciano è stata anche l’occasione per l’associazione "Andrea Tamburi" di raccogliere 178 firme tra i detenuti per la petizione che chiede di intitolare piazza Madonna della Neve, a Firenze, nel complesso delle Murate, a Marco Pannella, lo storico leader radicale scomparso il 19 maggio scorso che ha dedicato un impegno incessante (portato avanti fino alla fine) per migliorare le condizioni di vita delle carceri italiane per detenuti, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. "Il carcere di Firenze di Firenze si presenta come sempre pieno di criticità - ha rilevato Massimo Lensi membro del direttorio della "Tamburi" -. La prima è quella dell’avvio dei lavori di ristrutturazione, molto attesi, per 3 milioni di euro che sono appena partiti ma che sono già a rischio perché a breve la direzione dell’istituto sarà vacante. Tutto può finire nel nulla". Inoltre, ha aggiunto Lensi, "abbiamo rilevato una leggera tendenza al sovraffollamento perché sono presenti 710 detenuti, e di questi 193 sono dentro per detenzione e spaccio. Con la legalizzazione della cannabis non ci sarebbero situazioni di sovraffollamento". "Siamo preoccupati per la partenza della direttrice - ha sottolineato don Russo - perché mette in discussione la continuità di un progetto, che ha portato a una serie di interventi all’interno del carcere. Con il nuovo direttore non sappiamo cosa avverrà e noi chiediamo che ci sia una continuità e di portare avanti il progetto di adeguamento del carcere affinché la vita dei detenuti sia più normale. Non c’è più il sovraffollamento di prima, anche se c’è sempre un soprannumero, ma quello che ci preoccupa sono soprattutto le condizioni di vita e il trattamento dei detenuti che quando escono rischiano di essere potenziati nei loro aspetti negativi. Il carcere deve invece riuscire a migliorare una persona". Trieste: carcere del Coroneo invaso dalle "cimici dei letti" di Fabio Dorigo Il Piccolo, 14 agosto 2016 In corso la disinfestazione di un’intera sezione. Il Garante dei detenuti Roveredo: "Sono insetti legati a piccioni e gabbiani". Il carcere del Coroneo invaso da cimici dei letti. Una specie di zecche legata ai piccioni o ai gabbiani che esistono dagli albori dell’umanità. L’allarme sull’emergenza sanitaria era stato lanciato nei giorni scorsi. "L’intera Casa circondariale è infestata in modo serio da insetti che si nutrono di sangue, infestano soprattutto i letti, escono di notte, lasciano segni di morsi enormi, i detenuti sono tutti pieni di bozzi in ogni parte del corpo. La situazione peggiora di giorno in giorno sia per i detenuti che per il personale" segnalava una lettrice al Piccolo. Una situazione allucinante. "Ma provate a immaginare tale convivenza? Lo schifo che si può provare in una simile situazione - osservava la lettrice -? Vivere in pochi metri quadrati con altre persone e migliaia di insetti tipo zecche che si nutrono di sangue, annidati nei materassi, che portano malattie, senza poter far nulla per difendersi". Il problema esiste. "Ci stiamo occupando delle cimici. Il problema, che ha riguardato una sezione del carcere, è in via di soluzione. È intervenuta l’azienda sanitaria su iniziativa del provveditore Enrico Sbriglia" assicura Pino Roveredo, garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia. Sulle cause, invece, ci sono degli accertamenti in corso. "Non si sa se le cimici sono arrivate dai piccioni o dai gabbiani. Un regola precauzionale decisa adesso è stata quella di vietare di dar da mangiare a questi volatili. Si esclude che siano stati portati da qualche detenuto. Questi insetti si annidano dentro le brande, nelle fessure e creano dei nidi. Diversi detenuti, non tutti, erano segnati in modo forte dai morsi e erano costretti ad andare a dormire tutti coperti. Ho fatto l’ultima visita l’altro giorno. È passata una ditta a fare una prima disinfestazione. E ci sono già dei piccoli miglioramenti. Il carcere ha provveduto a sostituire le brande e a cambiare i materassi. Poi ci sarà da fare un bando entro fine mese per una ditta che farà la disinfestazione da cima a fondo della sezione del carcere" aggiunge Roveredo. A memoria sua non era mai capitata una cosa del genere al carcere di Trieste. "Non era mai successa una cosa del genere". Le cimici del letto sono di colore bruno rossiccio, con il corpo lucido e appiattito, di forma ovale che misurano dai cinque millimetri di lunghezza. Il capo porta due antenne e un’armatura boccale adattata a pungere e a succhiare il sangue. Un’altra caratteristica di questi insetti, comune a quasi tutte le specie, è la presenza di una ghiandola che emana un odore caratteristico, acre, forte e ripugnante. Durante il giorno si rifugiano nei materassi, nelle giunture dei letti, nelle fessure di muri e pavimenti, nel mobilio e dietro i quadri. Di notte questi insetti si nutrono ad intervalli sull’uomo mentre dorme, tornando ai loro rifugi solo dopo aver completato il pasto di sangue. Asti: sul tetto per protesta "mio fratello è malato non può stare in carcere" di Laura Secci La Stampa, 14 agosto 2016 L’appello di Gaetano Schillaci al ministro Orlando. La "cortese attenzione del ministro della giustizia onorevole Orlando". Gaetano Schillaci ha deciso di chiederla in modo più "originale" rispetto ad una raccomandata al dicastero romano. E ha ottenuto di certo l’attenzione di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, 118 e decine di astigiani che ieri intorno alle 11 sono accorsi sotto il ponteggio dell’istituto di via Giobert dove l’uomo si era arrampicato. "Chiedo la scarcerazione di mio fratello Gianni, detenuto nonostante le sue condizioni di salute non gli consentano di affrontare il duro regime carcerario". La protesta, espressa con due manifesti dattiloscritti, è durata circa un’ora. A dare l’allarme, raccontano gli agenti di polizia e i vigili del fuoco, è stato il padre, "Fofò", che ha aspettato che il figlio scendesse dal ponteggio ed è salito con lui nella volante della polizia. "Il detenuto ha oggettivi problemi di salute. Il suo è uno dei casi che abbiamo seguito di più - assicura Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte che, assieme a Monica Gallo, garante comunale di Torino - è intervenuto più volte per assicurare a Schillaci le cure necessarie. "Di recente, ad esempio, siamo intervenuti per spostarlo da Cuneo a Torino, in modo da facilitare i contatti con i familiari che vivono a Nizza". Il precedenti - La carriera criminale di Gianni Schillaci, 33 anni, era già costellata di condanne fin dalla giovane età. Nel 2011, recluso al carcere delle Vallette a Torino dove scontava 8 anni e tre mesi per una serie di reati contro il patrimonio era evaso durante un ricovero all’ospedale delle Molinette. Un precedente che oggi gli impedisce di avere delle agevolazioni, come ad esempio gli arresti domiciliari. Il vento populista che soffia sul mondo di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2016 L’ascesa di Trump può farci capire meglio ciò che accade in Europa. Di populismo e di partiti populisti si è ricominciato a parlare, in Europa, circa 30 anni fa, allorché Jean Marie Le Pen, un deputato che proveniva dal movimento di Poujade, scosse la Francia con i successi del suo Front National, capace di raccogliere l’11,2% del consenso dell’elettorato francese alle elezioni europee del 1984. Da allora i partiti populisti o descritti come tali si sono moltiplicati sulla scena europea, attecchendo nelle realtà più diverse, dal felice e civilissimo nord scandinavo giù giù fino ai paesi mediterranei, dai paesi dell’Europa occidentale a quelli dell’Europa orientale. Così il populismo è diventato uno dei fenomeni più attentamente monitorati dai media e uno dei temi più aspramente dibattuti dagli studiosi di scienza politica. Quello del populismo, tuttavia, rimane uno dei grandi puzzle irrisolti delle scienze sociali. Non vi è accordo, infatti, né sulla definizione del fenomeno (che cosa è il populismo?) né sulla sua spiegazione (perché si è diffuso il populismo?). Alcuni studiosi si ostinano a riservare l’etichetta populista ai soli movimenti di destra, con la curiosa conseguenza per cui l’italiano Movimento Cinque Stelle non sarebbe populista. Altri usano il termine in modo più ampio, fino ad includervi i movimenti radicali anti-austerity, tipo Podemos (Spagna) o Syriza (Grecia). Altri vedono tratti populisti ogniqualvolta il "racconto" di un partito o movimento poggia sulla contrapposizione fra la grande maggioranza del popolo e l’establishment politico-finanziario. Una sola cosa appare relativamente certa: comunque decidiamo di fissare i confini del populismo, sta il fatto che le sue manifestazioni si sono moltiplicate negli ultimi anni. Nel Parlamento europeo, ad esempio, il peso dei partiti nettamente euro-critici o euro-scettici è quasi raddoppiato fra il 2009 e il 2014, passando dal 16,1 al 28,1%. E il peso dei partiti classici, di destra, sinistra e centro, è sceso, per la prima volta da quando esiste il Parlamento Europeo, sotto la soglia del 70%. Ma il segno più chiaro della forza delle istanze populiste lo hanno dato due eventi successivi alle elezioni del 2014, entrambi avvenuti pochi mesi fa. Alle elezioni presidenziali austriache (maggio 2016) la metà dei cittadini ha scelto il candidato populista Norbert Hofer, proveniente dal medesimo partito di Haider, di orientamenti xenofobi e nazionalisti. Le elezioni saranno ripetute a ottobre a causa delle molte irregolarità riscontrate ma, comunque vadano, resta il fatto che metà degli austriaci non ha avuto problemi a votare un candidato come Hofer, e nessuno dei due grandi partiti tradizionali austriaci (socialisti e popolari) è riuscito ad arrivare al ballottaggio (lo sfidante di Hofer è stato espresso dal piccolo partito dei Verdi). L’altro evento che ha mostrato plasticamente la forza del vento populista è stato il referendum britannico sulla permanenza in Europa. La vittoria della Brexit ha mostrato in modo inoppugnabile che anche in un paese di tradizioni liberali, anzi in un paese che è stato la culla del liberalismo, le istanze nazionaliste e xenofobe possono oggi avere un seguito straordinario, impensabile anche solo qualche anno fa. Perché? Qui i pareri si dividono. Le risposte più frequenti richiamano l’attenzione sulle due debolezze fondamentali della Ue: la sua incapacità di governare la crisi economica, la sua incapacità di fronteggiare l’ondata migratoria. La prima spiegazione è la più gettonata a sinistra, e punta il dito contro le politiche di austerità; la seconda è la più gettonata a destra, e punta il dito contro le politiche di accoglienza. Così, comunque la si rigiri, resta il fatto che sul banco degli accusati salgono l’Europa, le sue istituzioni (Commissione e Consiglio), la sua Banca Centrale. Questa lettura dell’esplosione dei movimenti populisti non è del tutto priva di fondamento. L’analisi statistica, sempre difficilissima quando si hanno a disposizione poche osservazioni (i paesi dell’Unione), fornisce un certo supporto a questa lettura. Se, ad esempio, come indicatore di forza dei movimenti populisti prendiamo l’aumento del consenso ai raggruppamenti anti-Europa nel Parlamento Europeo fra il 2009 e il 2014, effettivamente troviamo che il cocktail "gravità della crisi + paura dello straniero" risulta una determinante fondamentale dell’avanzata dei movimenti populisti. Vista con queste lenti, la marea populista appare, innanzitutto, figlia della crisi, delle politiche di austerità, e più in generale delle inadeguatezze delle élite che governano l’Europa. E tuttavia ci sono molte cose che, in questa spiegazione, non funzionano. La prima è che il populismo è cominciato a proliferare in Europa fin dalla metà degli anni 80, ossia più di 20 anni prima della crisi. La seconda è che i movimenti populisti, sia prima sia durante la crisi, hanno riportato grandi successi in due paesi, la Svizzera e la Norvegia, che sono sempre rimasti al di fuori dell’Unione Europea. Il Partito del Progresso norvegese, una formazione nettamente xenofoba, è nato nel 1973, e alle elezioni nazionali del 2005 è diventato la seconda forza politica del paese. Quanto alla Svizzera, un partito come l’Udc (Unione Democratica di Centro) è diventato una forza populista da almeno un quarto di secolo, ossia dai tempi (1992) della campagna contro l’adesione allo spazio economico europeo. Svizzera e Norvegia sono del tutto libere dal detestato giogo europeo, sia in materia economico-sociale sia in materia di immigrazione. Dopo il piccolo Lussemburgo, sono i due paesi più ricchi del mondo occidentale. La crisi li ha appena sfiorati e l’Europa non ha interferito. Almeno lì, il populismo deve avere altre radici. Ma la prova regina dell’inadeguatezza delle spiegazioni che considerano l’Europa e le sue classi dirigenti responsabili uniche, o principali, dell’avanzata dei movimenti populisti sta oltre Oceano, negli Stati Uniti d’America. Lì c’è un candidato alla Presidenza, Donald Trump, che incontra le simpatie di vasti settori dell’opinione pubblica (al punto che nessuno ne esclude la sua elezione a Presidente), e sul cui populismo nessuno ha dubbi. Che ci azzecca l’Europa con il successo di Trump? Che cosa c’entrano le politiche di austerità, visto che Obama ha fatto tutto il contrario, inondando l’economia americana di dollari e (quasi) raddoppiando il debito pubblico? Se si vuole capire il populismo, anche quello europeo, sono queste le domande cui si deve provare a rispondere. Perché se riusciamo a capire che cosa sta succedendo in America, probabilmente riusciremo a capire meglio anche che cosa sta succedendo o potrebbe succedere a casa nostra. A me pare che, ridotta ai suoi minimi termini, la storia sia questa. Fino al 2008, anno della elezione di Obama ma anche anno del fallimento di Lehman Brothers, nonostante gli economisti progressisti (alla Stiglitz) si fossero sforzati in tutti i modi di convincere gli americani che la crescita del reddito procapite della famiglia media si fosse ormai arrestata, e che solo l’1% degli straricchi fosse riuscito ad arricchirsi ancora di più, la gente non credeva a questo genere di diagnosi. E non ci credeva per il buon motivo che alla stagnazione del potere di acquisto si accompagnava una spettacolare corsa del valore degli immobili, che rendeva credibili speranze e illusioni della "società di proprietari", ovvero l’idea - cara ai repubblicani di Bush figlio - che tutti potessero diventare possessori di ricchezza. Poi è arrivata la crisi, che ha fatto intendere agli americani che quelle erano appunto illusioni. Ma con la crisi è arrivato anche Obama, con il suo carico di promesse, solo in parte mantenute. Ed ecco che, a questo punto della storia, si fa avanti un signore - il suo nome è Trump, Donald Trump - che racconta un’altra storia. Trump dice che dal 2000 il reddito della famiglia americana media è addirittura diminuito. E chi c’era negli ultimi anni? Obama… Dunque è tempo di voltare pagina, per riaccendere la speranza. Paradossale: solo ora che le usa Trump, le diagnosi catastrofistiche degli economisti progressisti, a suo tempo rivolte al cattivo Bush (e prima ancora Reagan), vengono prese sul serio dagli elettori americani. Che però le mettono in cari- co a Obama, ossia non a chi ha governato negli ultimi 15, 20, o 30 anni (più o meno metà per uno: democratici e repubblicani), ma all’ultimo della serie, l’uscente Obama. La storia però non è tutta qui. C’è anche il capitolo del politicamente scorretto. A metà degli americani il politicamente corretto dei benpensanti liberal, alla Hillary Clinton, è venuto a noia. Preferiscono il politicamente scorretto di Donald Trump (e di Clint Eastwood). Perché? Che cosa è successo? Due cose, a quel che riesco a capire. La prima è che la globalizzazione ha lasciato indietro un sacco di gente, soprattutto nelle periferie e nelle campagne, in America come in Europa. La seconda è che, soprattutto in America, ma anche in diversi civilissimi paesi del Nord Europa, il politicamente corretto si è spinto un po’ troppo in là. Talora ha oltrepassato la barriera del ridicolo. Quasi sempre ha oltrepassato quella del senso comune, del sentire della gente normale, che fatica a sbarcare il lunario, e i costi dell’accoglienza li paga in prima persona sotto forma di insicurezza e concorrenza sul mercato del lavoro. Le due cose insieme, una globalizzazione che beneficia alcuni ma impoverisce altri, un élite che si compiace dei propri buoni sentimenti e letteralmente non vede i drammi di chi è stato spazzato via dalla mondializzazione, hanno creato un mix esplosivo. Finché c’era la crescita, il gioco era a somma positiva: potevi anche pensare che i miglioramenti del vicino non fossero, necessariamente, peggioramenti tuoi. Ora il gioco rischia di essere a somma zero: se qualcuno va avanti, dev’esserci per forza qualcun altro che va indietro. La gente lo ha capito, ma non perché qualche evento straordinario lo abbia suggerito, ma per il mero scorrere del tempo. Quindici anni non sono bastati a sconfiggere il terrorismo islamico (Torri gemelle, 2001), 10 anni non sono bastati a uscire dalla crisi (mutui subprime, 2007). Di qui la tentazione di ridurre l’interdipendenza con il resto del mondo, che l’isolazionismo di Trump intercetta perfettamente. Di qui, anche, il fastidio per la cultura liberal e progressista, magistralmente impersonata da Hillary Clinton. Chi è baciato dai benefici della globalizzazione, soprattutto i ceti istruiti e metropolitani che vivono sulle due coste americane, possono a buon diritto baloccarsi con i problemi postmaterialisti e post-moderni dei diritti civili, dei matrimoni gay, dell’integrazione delle minoranze, dell’accoglienza degli immigrati, della discriminazione linguistica. Ma per chi ha capito solo ora di non avere futuro, per gli abitanti del profondo sud e dell’America interna, il divario fra i loro problemi e quelli con che soli paiono interessare le élite e i "ceti medi riflessivi" (copyright Paul Ginsborg) è diventato troppo ampio. O troppo doloroso. Per questo non inorridiscono di fronte a Trump. Il Copasir: "Tra i profughi anche jihadisti in fuga" di Carlo Lania Il Manifesto, 14 agosto 2016 Stucchi: "La situazione è cambiata e qualche disperato potrebbe tentare di fuggire via mare". A preoccupare non è tanto quella scritta trovata dalle milizie filogovernative sui muri della città del golfo appena strappata ai jihadisti del califfato: "Sirte è il porto marittimo dello Stato islamico, il punto di partenza verso Roma… con il permesso di Dio", dicono i caratteri neri. Quelle parole "vanno lette nell’ottica della propaganda fatta da Daesh negli ultimi anni e negli ultimi mesi", spiega il presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, Giacomo Stucchi. No, a preoccupare semmai è un’altra possibilità, finora giustamente sempre scartata e che oggi, invece, potrebbe assumere una sua consistenza. Ovvero quella che pur di salvarsi i jihadisti in fuga possano nascondersi tra i migranti che cercano di raggiungere l’Europa. Gente disperata e più che mai pronta a tutto. "Sono cani sciolti - prosegue Stucchi - gente allo sbando che scappa. In una situazione di pieno caos quelli che non sono diretti verso sud potrebbero anche decidere di tentare la carta del viaggio in mare". Terroristi mischiati alle centinaia di profughi su uno dei tanti barconi che ogni giorno tentano di attraversare il Mediterraneo. "Poi si tratta di capire quali intenzioni ha chi dovesse davvero arrivare in questo modo - prosegue l’esponente della Lega -: semplicemente far perdere le proprie tracce oppure continuare a combattere in nome della propria causa". Non è certo la prima volta che l’ipotesi di pericolose infiltrazioni tra i migranti viene agitata, sempre però puntualmente smentita. Solo una settimana fa era stato lo stesso Franco Gabrielli a ribadirlo: "A oggi questo tanto sbandierato e tanto rappresentato parallelismo tra i flussi migratori e rischi di infiltrazioni terroristiche non c’è", aveva detto il capo della polizia parlando a Genova. Un’analisi che trova d’accordo anche il presidente del Copasir che, però, sottolinea come ora, con la presa di Sirte, "lo scenario è completamente cambiato". Sarebbe come minimo imprudente escludere a priori i timori avanzati dal presidente del Copasir. Va detto però che, almeno stando alle notizie in arrivo dalla Libia, per i miliziani del califfato Sirte sarebbe ormai una trappola dalla quale è difficile uscire. "L’Isis a Sirte è accerchiata per mare e per terra, i guardiacoste sono dispiegati sul litorale. Tutte le vie di fuga sono chiuse", ha annunciato il generale Mohamed al Ghasri, portavoce della missione Al-Binyan Al-Marsous. Se anche qualcuno dovesse riuscire a prendere il mare, una volta arrivato in acque internazionali troverebbe ad attenderlo ben tre squadre navali. Da più di un anno, infatti, nell’area operano la missione europea Sophia, le navi della Nato e quelle della missione italiana Mare sicuro. Uno spiegamento di forze che finora, almeno per quanto riguarda le missioni Sophia e Mare sicuro, si è occupato di mettere in salvo i barconi carichi di disperati che partono dalla città di Zuwara, a ovest di Tripoli, sempre però tenendo alta la guardia su un eventuale pericolo legato al terrorismo. Tanto più che da giugno la risoluzione 2292 dell’Onu autorizza la missione europea guidata dall’ammiraglio Enrico Credendino a effettuare controlli sulle imbarcazioni sospette per far rispettare l’embargo di armi verso la Libia, nonché ad estendere il suo raggio d’azione a est fino a coprire tutta la costa del paese nordafricano. Migranti o no, qualsiasi mezzo avrebbe quindi poche possibilità di passare la rete di controlli. Il problema comunque esiste, soprattutto dopo le indiscrezioni secondo le quali dai documenti appartenenti alle milizie jihadiste ritrovati a Sirte dai servizi libici, risulterebbe la presenza di uomini del califfato sia a Milano che nella provincia del capoluogo. Un allarme che non riguarda solo l’Italia. Entro la fine di agosto una squadra composta da cinquanta agenti di Europol arriverà in Grecia con il preciso compito di individuare possibili terroristi infiltrati tra le decine di migliaia di profughi fermi da mesi nel paese. Secondo l’intelligence tedesca ci sarebbero infatti "indizi tangibili" che almeno 17 affiliati allo stato islamico - due dei quali hanno partecipato agli attentati del 2015 a Parigi - si sono camuffati tra i rifugiati per entrare in Europa. Migranti, una proposta da 4 miliardi. Perché può funzionare di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 14 agosto 2016 Mano pubblica, caserme, scuole e regole. Un piano nazionale che l’Ue può finanziare. Le tabelle del Viminale sono perfette: quanti sbarcano, dove si accampano, quanti smistati per regione, da quali Paesi arrivano. Segue il ciclico appello: "Ogni sindaco faccia la sua parte". Ma "quale" parte, e fino a quando? Ogni paese europeo si gestisce i migranti che ha in casa, e chiuse le rotte, di ricollocamenti non se ne parla più. Per Bruxelles il problema è uno solo: il ricatto della Turchia. Se Erdogan spingerà i 3 milioni di siriani in Grecia, si sposterà il finanziamento da Ankara ad Atene. Ipotesi improbabile perché i 6 miliardi dell’accordo fanno comodo al premier turco, e perché i siriani non hanno nessuna voglia di rimettersi per strada verso le tende di Idomeni, Salonicco o il Pireo; da marzo hanno ottenuto il permesso di lavoro, e l’integrazione in Turchia è meno complessa. Nella malaugurata ipotesi di un’espulsione di massa, la Grecia sarà travolta da un disastro umanitario che, senza un colossale intervento militare, si sfogherà, almeno in parte, via mare verso l’unico paese impossibile da blindare: l’Italia. Infatti qui gli sbarchi continuano, e i numeri sono cresciuti rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti: arrivano dall’Africa sub sahariana, ma anche dalla Siria, Iraq, Pakistan, Palestina, 2.392 sono di nazionalità sconosciuta, i minori non accompagnati 13.000. Siria a parte, guardiamo la mappa dei paesi devastati da instabilità, guerre civili, terrorismo e persecuzioni, e avremo un’idea di quel che si sta muovendo alle nostre spalle. Questi sono i dati ufficiali al 31 dicembre 2015: 3 milioni e mezzo in fuga dall’Iraq, 2 milioni e mezzo dall’Afghanistan, 262.000 dal Pakistan, 1 milione dalla Somalia, 750.000 dal Sudan, 450.000 dalla Repubblica Centroafricana, 450.000 sfollati libici, 535.000 dal Congo, 5.000 persone al mese dall’Eritrea. Dove andranno nessuno lo sa, ma è probabile che almeno una parte punti all’Europa, e noi siamo i più esposti. Abbiamo 3mila centri di accoglienza temporanea (Cas), 13 centri governativi (Cara), 430 centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito da enti locali). Oggi ospitano complessivamente 144.000 migranti. Il sistema ci è costato, nel 2015, 1 miliardo e cento, ma non c’è trasparenza sugli affidamenti, sui finanziamenti, sul rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto. Il progetto del governo, sulla carta, dovrebbe essere quello dell’accoglienza diffusa, cioè i piccoli centri da 10/20 posti, gestiti dai comuni, che però oggi accolgono circa 20.000 persone. Il resto sono centri straordinari dati in emergenza e gestiti dalle prefetture, dove non si fa né formazione né integrazione. Ogni sbarco corposo è "un’emergenza" che le Prefetture affrontano reclutando alberghi (a cui si garantisce la clientela), invocando l’intervento delle parrocchie e dei comuni, allestendo tende o container improvvisati in spazi inadeguati. La gestione è affidata a consorzi, cooperative, associazioni, spesso senza gara, dove si paga, chiavi in mano, pieno per vuoto. Che l’immigrazione sia un grande affare per la criminalità è ormai un fatto accertato. Come potrebbe diventare un’opportunità trovando una soluzione gestibile, continua a non essere una priorità né per Bruxelles, né per il nostro governo. Dall’inizio di quest’anno dall’Italia non se ne possono più andare, e quando ci riescono, ce li rimandano indietro. Inoltre: dove sono finiti invece i 170.000 sbarcati nel 2014, e i 153.000 del 2015? In parte hanno preso la strada del nord Europa senza farsi identificare, in parte inseriti nel circuito dell’accoglienza, altri vagano per le nostre città e i più desolati paesini. Diventano vittime del caporalato, vendono calzini per strada, chiedono elemosina, si contendono un posto di abusivo nei parcheggi, o peggio, finiscono nel giro dello spaccio. È comprensibile che questi scenari preoccupino la popolazione, e alimentino paure nelle quali affonda i denti la strumentalizzazione politica più bieca, con il rischio di rivolte sociali. Di fatto siamo l’hotspot d’Europa, ed è chiaro che il sistema non può più reggersi sulla solidarietà. E allora, ipotizziamo un piano concreto che possa trasformare il dramma in opportunità, e proviamo a costruire un pragmatico progetto d’impresa, da portare sul tavolo a Bruxelles, in cambio di finanziamenti, dell’impegno alla ripartizione delle quote, e della supervisione di un commissario europeo. Cominciamo con i richiedenti asilo, che abbiamo l’obbligo di accogliere: la mano pubblica deve riprendersi l’organizzazione, il controllo e la gestione dell’intera filiera, utilizzando cooperative e associazioni per svolgere solo funzioni di supporto. Ipotizzando l’accoglienza di 200.000 persone l’anno occorre identificare 400 luoghi, che possano ospitare mediamente 500 persone. Gli ampi spazi pubblici inutilizzati ci sono: gli ex ospedali, i resort sequestrati alle mafie, e soprattutto le ex caserme. Ne abbiamo in tutto il paese, dalla Sicilia al Friuli, alcune agibili subito, altre in parte, alcune da adeguare del tutto, facendo i lavori con procedura d’urgenza. Sono luoghi adatti perché gli spazi enormi consentono di modulare l’esigenza di abitabilità con le attività da svolgere all’interno: corsi di lingua, di educazione alle regole europee e formazione per 8 ore al giorno. Inoltre asili per i bambini e aule scolastiche per i minori. Occorre definire regole inderogabili: obbligo di frequenza, pena il ritardo nella collocazione definitiva, accettazione di un piano transitorio di permanenza quantificabile in 6 mesi; periodo di tempo necessario per il perfezionamento dell’identificazione, l’espletamento delle pratiche per il ricollocamento, e la definizione del curriculum di ogni rifugiato: dal titolo di studio, a quale mestiere sa fare. Per fare tutto questo occorrerà assumere a tempo pieno 22.000 professionisti (fra insegnanti, formatori, psicologi, medici, addetti). Costo molto approssimativo per la messa in abitabilità dei luoghi: 2 miliardi di euro. Gli stipendi del personale e il mantenimento di strutture e ospiti (vitto, luce, acqua, riscaldamento), sono invece quantificabili in 2 miliardi e 200 milioni l’anno. Sono calcoli ovviamente approssimativi, anche se fatti con la consulenza di professionisti del settore, e quindi sono da considerare un ordine di grandezza da cui partire. I vantaggi: percezione di maggiore sicurezza, migliore disponibilità sociale perché il sistema organizzativo oltre a fornire strumenti reali per una integrazione, porta lavoro a personale italiano e rimette in moto l’edilizia. Con il risultato di lasciare, quando questo ciclo si sarà concluso, un patrimonio valorizzato (mentre oggi è in costante degrado). Se mettessimo in piedi in progetto organizzato in questa maniera i nostri sindaci sarebbero più disponibili ad accompagnare il rifugiato all’inserimento nel territorio? Quelli consultati, a cominciare dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, su cui pesano i numeri più consistenti, la risposta è stata: "Magari! Oggi ricevo 30 euro al giorno a persona per trovare un posto dove farla dormire, ma poi? I flussi sono in aumento, molti hanno un livello basso di istruzione, non sappiamo cosa sanno fare. Sarebbe tutto più gestibile se ci arrivassero con uno screening fatto e un minimo di formazione". I paesi membri invece si prenderebbero la loro quota, già identificata e formata? I delegati all’immigrazione di Svezia, Norvegia e Germania hanno risposto che a queste condizioni, e con il coinvolgimento di tutti i paesi, la disponibilità ci sarebbe. Abbiamo infine sottoposto il progetto al Commissario europeo Avramopoulos lo scorso maggio, e alla domanda "l’Europa potrebbe finanziarlo e contestualmente e imporre la ridistribuzione?", la risposta è stata questa: "Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo, e il governo lo facesse suo presentandolo agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. I soldi ci sono. Per quel che riguarda la rilocazione di chi è stato identificato come avente diritto alla protezione internazionale, non ci sono scuse, anche se ci sono resistenze, le decisioni sono vincolanti". Quindi perché non provare a percorrere questa strada? Altro discorso per il migrante economico. La posizione dell’Italia e dell’Europa è quella del rimpatrio e il piano è orientato all’aiuto attraverso lo sviluppo di economie nei paesi d’origine. Una prospettiva giusta, che richiede tempi lunghi, ma intanto come si affronta quel 60% di sbarchi che non rientra nella categoria dei richiedenti asilo? Con un decreto di espulsione. Se ne dovrebbero andare volontariamente, ma non lo fanno perché non hanno documenti validi, né soldi, nè tantomeno voglia. Diventano clandestini, e quando li trovano finiscono nei Cie (centri di identificazione ed espulsione). Nel 2015 su 34mila irregolari è stato rimpatriato forzatamente solo il 46%. Costo: 35 milioni di euro. La partita dei rimpatri si contratta attraverso accordi con i paesi d’origine, non facili e molto onerosi, e anche di questo non dovremmo farci carico da soli. Mentre quello che possiamo fare è sveltire la macchina giudiziaria. Il problema è che dentro a questo 60% c’è un numero imprecisato di cittadini che non provengono da Paesi in guerra, ma fuggono da persecuzioni e chiedono una protezione. E se questa non viene concessa, intasano i tribunali con i ricorsi. Ci vogliono in media 2 anni per stabilire chi deve restare e chi no, quando sarebbe sufficiente qualche mese; ma ci vorrebbero 40 giudici dedicati solo a questo, e il costo è quantificabile in 3 milioni di euro l’anno. Questo è lo scenario che ci attenderà per almeno un decennio, ma se c’è la volontà politica si affronta, con la ricaduta di arricchire il Paese, invece di impoverirlo. Ben sapendo, poi, che il compito dei governi è quello di evitare i conflitti, non di crearli, mentre quello delle Nazioni Unite è di essere protagonista vero, non solo portatore di buone intenzioni. Denunciare un figlio per rispettare gli altri di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 14 agosto 2016 La mamma coraggio della periferia milanese che denuncia il figlio affiliato a una banda latinos preferisce saperlo in prigione che sulla strada. È l’atto estremo di una donna che cerca di proteggere gli altri figli (e sono tre) da un modello sbagliato. Respecto. Una parola in disuso piomba sui picchiatori latinos e si espande nei circuiti della violenza gratuita che colpisce chi non ce la fa a difendersi: può essere il ragazzo del parcheggio a Milano, un’ex fidanzata in fuga o una moglie che vuole cambiar vita. La pronuncia una madre salvadoregna, una donna "arrivata dall’altra parte del mondo", come dice papa Francesco, con la speranza e il sogno di un futuro migliore, ed è indirizzata al figlio, protagonista di un brutale pestaggio che, forzando i sentimenti, lei stessa ha denunciato alla Questura. Ma la parola respecto, riguarda tutti, interessa tutti, dovrebbe far riflettere tutti sulle regole che sono andate perdute, nella famiglia come nella società, su come l’insolenza, la prevaricazione e il sopruso stiano diventando comportamenti abituali, accettati, a volte persino giustificati. È per insegnare il rispetto agli altri figli che la madre ha trovato il coraggio di spezzare la catena della connivenza, per ricordare loro che vivono in un Paese civile e non primitivo, dove c’è una legalità da rispettare, dove esiste un codice diverso da quello delle pandillas, le bande giovanili che si sgozzano in Sudamerica. È un urlo di rabbia quel "rispetto" che vale per ogni persona, per ogni creatura, perché definisce il confine con la barbarie, la crudeltà. Non si esaurisce nel dramma di una madre che scopre in un video su Internet la sagoma del figlio invasato. Indica anche un vuoto, per le tante donne che hanno lasciato il loro Paese, spesso abbandonate dai padri dei loro figli. Il vuoto di un’autorità paterna fatta di regole ma anche di amore, tenerezza, condivisione, percorsi comuni di crescita. Nel caso dei latinos e di certe bande giovanili, questo vuoto è riempito dalle regole settarie di un clan che ha creato un modello arcaico di autorità e giustizia. La mamma coraggio della periferia milanese che denuncia il figlio affiliato a una banda latinos preferisce saperlo in prigione che sulla strada. È l’ atto estremo di una donna che cerca di proteggere gli altri figli (e sono tre) da un modello sbagliato. Forse in carcere capirà, forse al Beccaria qualcuno lo aiuterà. Un padre, questo figlio sbandato, non l’ha mai avuto. Quello naturale non l’ha mai riconosciuto. Madri e figli oggi sono anche prigionieri dell’inadeguatezza di certi uomini a essere padri. Siria: l’illusione di un ponte per Aleppo di Sergio Romano Corriere della Sera, 14 agosto 2016 In questo momento, salvo improvvisi rovesci dei prossimi giorni, la strategia russo-siriana sembra dare i risultati desiderati. Gli interventi umanitari sono possibili quando tutte le parti combattenti, anche se per ragioni diverse, hanno interesse a pigliare fiato per qualche giorno. Franz-Walter Steinmeier, ministro degli Esteri della Repubblica Federale tedesca, propone l’organizzazione di un ponte aereo per rifornire Aleppo di viveri e medicinali; e aggiunge di avere chiesto alle parti combattenti di proteggere la popolazione civile. Altri hanno suggerito la creazione di zone cuscinetto dove i civili in fuga possano trovare alloggio e sicurezza. Altri ancora vorrebbero un maggiore impegno dell’Onu, anche se già esiste un incaricato del Segretario Generale, Staffan De Mistura, che si sta adoperando per rilanciare gli incontri di Ginevra ed è pronto a mobilitare i servizi umanitari di cui dispone. Sono proposte generose, ma sono anche, purtroppo, le abituali dichiarazioni di uomini pubblici che in circostanze così drammatiche non possono tacere o dichiarare la propria impotenza. Il lettore tuttavia deve sapere perché queste buone idee, nel caso della vicenda siriana, siano difficilmente realizzabili. Quando parla di ponte aereo, Steinmaier pensa probabilmente a quello che fu organizzato a Berlino dal marzo 1948 al maggio 1949, quando l’Unione Sovietica decise di bloccare le comunicazioni della città con il resto della Germania: nei principali aeroporti di Berlino, per quattordici mesi, un aereo alleato atterrò ogni tre minuti con cibo, medicine e altri beni di prima necessità per impedire che i berlinesi morissero di fame. Ma il ministro tedesco dimentica forse che quella operazione fu possibile perché i sovietici decisero di non ostacolarla militarmente. Le contraeree sovietiche avrebbero potuto abbattere gli aerei, ma Mosca sapeva che tutte le parti combattenti in Siria siano disposte a dare prova di una tale ragionevolezza? Le formazioni che si combattono sul terreno si strapperebbero di mano gli aiuti destinati alle popolazioni e non esiterebbero a colpire gli aerei se ne avessero la possibilità. Le stesse perplessità valgono per le zone cuscinetto. È possibile presidiarle e proteggerle? In linea di principio questo sarebbe il compito dei caschi blu. Ma all’Onu e ai suoi membri non piace mandare truppe là dove nessuno saprebbe chi sia amico o nemico. Ciò che rende il nodo siriano particolarmente imbrogliato è la mancanza di una netta distinzione fra parti contrapposte. In Siria esistono alleanze di comodo, utili per una particolare operazione. Ma prima o dopo gli alleati scoprono di avere nemici diversi e di non avere più interesse a combattere insieme. La sola eccezione è quella della coppia russo-siriana. Bashar Al Assad vuole sopravvivere e salvaguardare, per quanto possibile, l’integrità dello Stato siriano. Vladimir Putin vuole un amico a Damasco, possibilmente Assad, ma anche un altro, se indispensabile, purché gli garantisca il possesso di due basi mediterranee (Tartus e Latakia). Quando due Paesi hanno interessi convergenti è più facile avere una stessa strategia. In questo momento, salvo improvvisi rovesci dei prossimi giorni, la strategia russo-siriana sembra dare i risultati desiderati. Gli interventi umanitari sono possibili quando tutte le parti combattenti, anche se per ragioni diverse, hanno interesse a pigliare fiato per qualche giorno. Ma quando, a torto o a ragione, gli attaccanti ritengono di essere in vista della vittoria, come in questo caso, sperare che interrompano le operazioni è probabilmente illusorio. Assad e Putin sono autoritari e spregiudicati, ma anche molti generali democratici, durante la Seconda guerra mondiale, non si sono comportati diversamente. Stati Uniti: a New York imam ucciso vicino alla moschea. La polizia: "Reato d’odio" di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 14 agosto 2016 Paura e rabbia si diffondo nelle comunità musulmane d’America dopo l’assassinio di un imam del suo assistente all’uscita da una moschea, ieri a New York. La polizia, che inizialmente aveva parlato di rapina, ha cambiato rotta, anche se non ha ancora confermato ufficialmente che si è trattato di un hate crime, un crimine d’odio per motivi etnici o religiosi. Ma i due avevano addosso più di mille dollari in contanti che il killer - un uomo di pelle olivastra con una maglia blu che ha agito da solo - non ha preso. Cinque colpi di pistola in un tranquillo sabato pomeriggio di caldo opprimente nel Queens. Un imam reduce dalla preghiera nella moschea Al-Furqan Jame Masjid di Glenmore Avenue viene assassinato all’incrocio tra Liberty Avenue e la 79esima strada, a un isolato dalla fermata della linea A della metropolitana. Il 55enne Maulama Uddin Akongjee, arrivato due anni fa dal Bangladesh, muore all’istante, colpito alla testa. Il suo assistente Thara Uddin, 60 anni, muore qualche ora dopo all’Elmhurst Hospital. L’esecuzione - L’esecuzione, improvvisa e senza precedenti, è stata condotta da un solo uomo che, secondo alcuni testimoni (ma pare ci siano anche riprese delle telecamere di sorveglianza), è arrivato alle loro spalle, armato con una pistola di grosse dimensioni. Il quartiere è sconvolto: centinaia di residenti musulmani sono subito scesi in strada per chiedere giustizia. La polizia, a caldo, aveva escluso l’ipotesi di "hate crime", preferendo parlare di rapina. Ma poi, col passare delle ore, la pista dell’atto di terrorismo si è rafforzata: Maulama Akongjee è stato dipinto da tutti come un uomo tranquillo, senza nemici, ascoltato e rispettato nel quartiere. Rabbia e paura - La folla di musulmani che si raduna sul luogo dell’omicidio - il quartiere è abitato soprattutto da immigrati del Bangladesh, ma ci sono anche pachistani e indiani induisti - ha subito denunciato il crimine come il risultato dell’islamofobia che si sta diffondendo in America e ha accusato Donald Trump per averla istigata con la sua retorica incendiaria. Ma, mentre alcuni leader religiosi hanno chiesto giustizia invitando al tempo stesso alla calma, altri hanno inveito anche contro il sindaco DeBlasio: "Dov’è? Perché non è qui? Deve proteggerci. Paghiamo le tasse, abbiamo diritto ad essere protetti". Rabbia ma anche tanta paura: se la sono presa con loro due, dicono, perché indossavano abiti religiosi. Altri notano, sconsolati, che il quartiere, la zona di Queens attorno ad Ozone Park, non sarà più lo stesso. Era stato, fin qui, un luogo di convivenza pacifica tra gente di varie etnie e varie fedi religiose: "Qui si è sempre vissuto in pace: musulmani e induisti. Non ci sono mai stati scontri significativi". Un incantesimo finito? È presto per dirlo: la polizia valuta varie ipotesi. Islamofobia crescente - A Ozone Park gli episodi di violenza non sono rari, l’ultimo omicidio davanti al parco risale al 15 luglio. Ma i residenti parlano di episodi isolati mentre fino a ieri nessun aveva paura di professare la sua religione. Ora, dicono i musulmani, "abbiamo paura per le nostre famiglie, per i nostri figli, per noi stessi". La pista dell’islamofobia prende sempre più corpo in un Paese che nell’ultimo anno, secondo i dati dell’FBI, ha registrato 12 sospetti crimini contro i musulmani ogni mese. Quest’anno si era registrata un’accelerazione, ma non fino al punto di arrivare a omicidi mirati. Sudafrica: Pistorius "vogliono uccidermi in carcere", posto sotto sorveglianza Ansa, 14 agosto 2016 Oscar Pistorius ha accusato tre infermiere del carcere di Kgosi Mampuru in cui è detenuto di aver tentato di ucciderlo somministrandogli medicinali tossici: lo scrivono City Press e, in un tweet, Eyewitness News (Sud Africa). L’ex campione paraolimpico ha presentato un esposto formale contro le infermiere tre settimane fa e, secondo la piattaforma multimediale Eyewitness News avrebbe chiesto di essere trasferito nel carcere di Zonderwater, a est di Pretoria, ma la sua richiesta è stata respinta. Pistorius è stato messo sotto sorveglianza anti-suicidio nel carcere sudafricano in cui è detenuto dopo aver riportato ferite al polso il sei agosto scorso. I media locali sono convinti che Pistorius abbia tentato il suicidio, mentre secondo il carcere l’atleta si è procurato leggere ferite ai polsi cadendo dal letto della sua cella. Sulla stessa linea la versione della famiglia Pistorius, che aveva inizialmente rifiutato di commentare l’accaduto, e successivamente ha sostenuto la tesi dell’incidente.