L’isolamento punitivo fa male. E a volte tortura e uccide Il Manifesto, 13 agosto 2016 Carceri. Nel rapporto di Antigone un lungo elenco di casi. È attesa a breve la sentenza Cedu sulle violenze inferte a due detenuti di Asti. "Nel solo 2015 l’isolamento disciplinare è stato comminato per ben 7.307 volte. Nel 29,6% dei casi è la sanzione prescelta dal consiglio di disciplina oggi composto dal direttore, dall’educatore e dal medico". Nel "Pre-rapporto 2016 sulla condizione di detenzione" pubblicato da Antigone a fine luglio, un intero paragrafo è dedicato a questo provvedimento rispetto al quale, scrive l’associazione, "non vi sono dati". Antigone ha però stilato un lungo elenco di casi esemplificativi di quanto questa misura punitiva - a volte "vessatoria, anti-educativa e disumana" - faccia male. Eccolo di seguito. 2004 - Carcere di Asti: due detenuti vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino. Viene loro razionato il cibo e impedito di dormire, sono insultati e sottoposti per giorni a percosse quotidiane. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2015 dichiara ammissibile il loro ricorso per tortura. La sentenza è attesa a breve. 2006 - Carcere di Civitavecchia: H.E., 36 anni, eritreo, si uccide impiccandosi in una cella di isolamento della Casa Circondariale. Il giovane si trovava da circa due mesi rinchiuso nella sezione di Alta Sicurezza. 2007 - Carcere di San Sebastiano (SA): alcuni agenti di polizia penitenziaria trovano senza vita nella sua cella il detenuto M.E. Era in isolamento, in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. 2008 - Carcere di Marassi (GE): un ragazzo di soli 22 anni, M.E., viene trovato senza vita riverso per terra, con una bomboletta di gas in mano, nel bagno della sua cella. Qualche giorno prima di morire aveva scritto una lettera alla mamma : "Qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Mi riempiono di psicofarmaci. Sai, mi tengono in isolamento 4 giorni alla settimana". 2009 - Carcere di Venezia: un 28enne di origini marocchine, C.D., si impicca nella cella "di punizione", nella quale era stato trasferito dopo aver tentato il suicidio. Un ispettore della Polizia Penitenziaria è stato condannato a 7 mesi di reclusione per omicidio colposo e abuso di autorità. Non era stata disposta la sorveglianza sul detenuto a rischio. 2010 - Carcere di Foggia: si chiamava R. F. e aveva 41 anni. Si è impiccato trasformando i lembi dei suoi pantaloni in un cappio. Era stato messo in una cella di isolamento "liscia" dopo che aveva mostrato evidenti segni di disagio psichico tentando di darsi fuoco e incendiando la cella che lo ospitava. 2011 - Carcere di Poggioreale (NA): G. R., 50 anni, si impicca facendo a brandelli una coperta mentre era in isolamento in cella singola nel reparto di osservazione. Il suicidio avviene a poche ore dal suo ingresso in carcere. 2012 - Carcere di Trani (BA): il 34 enne G.D. muore durante la notte di capodanno in una cella del carcere di Trani, in isolamento. A dicembre 2011 l’uomo era stato trasferito d’urgenza nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bisceglie per una crisi epilettica ed era stato tenuto sotto osservazione per 4 giorni. Rientrato in carcere era rimasto in isolamento, non si sa bene per quale motivo, se per la difficile convivenza con altri detenuti o perché punito perché accusato di aver simulato la malattia. 2013 - Carcere di Velletri (RM): G. M., un uomo di 40 anni si uccide impiccandosi con le lenzuola all’interno della sua cella di isolamento, 8 ore dopo essere arrivato in carcere. 2014 - Carcere di Lucera (FG): un 38enne si impicca nella cella d’isolamento. Avrebbe avuto una lite con un agente della Polizia Penitenziaria, e per questo era stato messo "in osservazione". 2014 - carcere di Poggioreale (NA) - A gennaio un ex detenuto sporge la prima denuncia alla Procura di Napoli per i maltrattamenti subiti, segnalando anche la presenza della cosiddetta "cella zero". 2015 - Carcere di Regina Coeli (RM): due suicidi in meno di 24 ore. Il primo, quello di L. C. Il detenuto era in isolamento e doveva essere tenuto sotto stretta sorveglianza fino all’interrogatorio di garanzia che si sarebbe dovuto svolgere la mattina dopo. Il secondo, quello di T., un ragazzo entrato in carcere a 18 anni e un giorno. Anche il giovane si trovava in isolamento, dapprima in isolamento giudiziario, ma mai trasferito in sezione fino al 20 luglio, quando è avvenuta la morte. Il caso è stato archiviato, ma i legali stanno ripresentando nuova denuncia. 2016 - Carcere di Paola (CS): il detenuto M. P. M., in carcere per spaccio di stupefacenti, si suicida nell’aprile scorso nella sua cella, dopo aver trascorso un periodo di isolamento in una cella liscia. Il suo fine pena era imminente. M. sarebbe uscito dal carcere il 30 giugno. Opg. Franco Corleone: tutti chiusi entro novembre, siamo vicini al traguardo superabile.it, 13 agosto 2016 Il punto della situazione dall’appena riconfermato Commissario straordinario Franco Corleone. Entro i prossimi mesi tutte attive le Rems previste, anche quelle delle regioni in ritardo. "Duecento le misure di sicurezza non eseguite, serve una riforma chiara". Per fine novembre Opg tutti chiusi e Rems attive e funzionanti. Eccole le previsioni di quello che succederà nei prossimi mesi secondo Franco Corleone, appena confermato dal Consiglio dei Ministri nell’incarico di Commissario unico del Governo per le procedure necessarie alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Una proroga - l’ultima, secondo lo stesso Corleone - che consentirà di completare un percorso avviato ormai da tempo e di avviare poi le iniziative necessarie per mettere a regime l’intero sistema. "Il bilancio di questi mesi - afferma Corleone - è positivo: si è messo in moto un processo che era sostanzialmente bloccato. Si sono chiusi due Opg (Reggio Emilia e Santa Maria Capua Vetere) e la casa di cura e custodia di Sollicciano. Si sono aperte le Rems in Abruzzo, Puglia e in Veneto c’è stato anche l’apertura del secondo modulo, e si sono messe in moto l’apertura delle Rems nelle regioni che erano assenti su questo piano". "Per quanto riguarda gli internati - continua Corleone - siamo passati da quasi 100 a circa 35 e siamo vicini al traguardo: io penso che per fine novembre l’obiettivo ottimale da raggiungere è quello di chiudere gli Opg di Montelupo e Barcellona Pozzo di Gotto contestualmente all’apertura i cinque Rems in Piemonte, Liguria, Toscana, Calabria e Sicilia. Sono tutte strutture individuate, ma l’obiettivo di fine novembre è realistico. Significherebbe raggiungere l’obiettivo storico della chiusura degli Opg, avere le Rems aperte e funzionanti e contemporaneamente vorrei anche per quella data arrivare alla completa regionalizzazione e territorializzazione delle ospitalità, che quindi non ci siano più persone in regioni diverse a quella di residenza". "I mesi successivi - argomenta il Commissario - dovranno poi essere dedicati ad affrontare le questioni che sono emerse nel corso del tempo e che nella relazione semestrale ai primi settembre farò presente: la principale è quella delle misure di sicurezza provvisorie, per cui da tempo suggerisco e invoco un provvedimento legislativo per affrontare la vera natura delle Rems e la natura delle misure sicurezza provvisorie rispetto a quelle definitive, con le modifiche al codice penale necessarie". "Oggi - spiega - le misure di sicurezza non eseguite sono 203. Serve un intervento. Il tavolo degli Stati Generali ha fatto delle proposte in merito e bisogna che il ministero della Giustizia si metta al lavoro per decidere quali di quelle proposte devono essere messe in opera immediatamente, altrimenti noi chiudiamo gli Opg, facciamo le Rems ma restiamo con un macigno di misure di sicurezza non eseguite che è insostenibile". Corleone ritiene che molte di queste oltre duecento richieste "non siano fondate sulla legge 81", ma "alcune probabilmente sì", ammette. "Se non si fa una riforma chiara noi rischiamo di mettere nelle Rems persone per le quali non vi sarebbe tale necessità e di lasciare invece fuori, libere, persone meritevoli di una attenzione". Le altre questioni aperte riguardano la disponibilità di tutte le Rems ad accogliere le donne e il fatto che i regolamenti delle varie Rems sono diversi fra loro, il che porta alla necessità di una verifica sul fatto che non ci siano sfasature troppo evidenti nei diritti garantiti agli ospiti. "C’è un problema con i senza dimora, una cinquantina (10 italiani, 40 stranieri): bisogna capire meglio - spiega Corleone - la loro situazione e la loro prospettiva, e affrontare il tema della residenza almeno per gli italiani. Oltre che aprire alla possibilità che per gli stranieri il principio della territorialità legata alla commissione del reato possa non essere cosi rigido come avviene adesso, anche per utilizzare tutte le risorse che ci saranno a disposizione". Ancora, problemi legati agli standard abitativi, con la necessità di eliminare tutte le stanze con più di due letti (oggi in alcune Rems ci sono stanze a 3 o 4, e anche più a Castiglione delle Stiviere". A proposito di Castiglione delle Stiviere, "se il programma va in porto - dice Corleone - esso rimarrà solo un luogo per lombardi, e a quel punto bisognerà ragionare sul fatto se raggruppare in un solo paese sei Rems sia congruo o non vada contro lo spirito della riforma della legge 81". Il cammino dei prossimi mesi dunque è tracciato. "Mi auguro comunque - dice Corleone - un’accelerazione, ma purtroppo in questo periodo tutte le iniziative che prendo si scontrano contro il generale agosto... Io calcolo che nei tre mesi di settembre, ottobre e novembre si raggiungano i risultati principali e poi si apra un ragionamento sulla necessità di fare un monitoraggio serio e continuo della situazione". C’è anche un’altra certezza: la proroga appena ottenuta dal Consiglio dei Ministri sarà l’ultima. "Io suggerirò che alla fine di questa esperienza commissariale si formi un organismo di coordinamento con i ministeri, le regioni, i rappresentanti delle Rems e dei magistrati per seguire passo passo lo sviluppo della situazione: non può essere abbandonata. Questa riforma ha avuto effetti non solo positivi ma importanti dal punto di vista di ricostruire un rapporto fra strutture del territorio della psichiatria e può essere un volano per una maggiore attenzione alle persone che compiono reati e poi vengono giudicate incapaci". Celle al collasso e agenti "disarmati", è alto il rischio per i predicatori del terrore Il Giorno, 13 agosto 2016 L’ultima, violenta rissa è scoppiata nel carcere di Monza nei giorni del Ramadan. Cinque detenuti romeni contro un marocchino accusato di fare troppo baccano alla sera una volta finite le ore del digiuno. Calci, pugni e anche colpi di lamette. Per dividerli sono dovuti intervenire una trentina di agenti. "Ormai questo scontro di etnie e di religione è all’ordine del giorno, frutto del regime di detenzione aperto che consente ai detenuti di circolare liberamente durante il giorno all’interno della propria sezione - la denuncia di Nico Tozzi, vice segretario regionale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe). Un regime sbagliato che sta aumentando le criticità, peggiorato dalla cronica carenza di agenti in servizio". Con la cosiddetta sorveglianza dinamica "ormai il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno ma non tutti sono impegnati in attività lavorative, gironzolano nell’ozio totale e lo sport nazionale è diventato fare risse o aggredire gli agenti - rincara la dose il segretario nazionale del Sappe, Donato Capece. Ma il vero problema è l’alto numero di stranieri. È una popolazione che non riusciamo a governare. Hanno abitudini e atteggiamenti diversi dagli altri e noi non siamo preparati. In molti casi non c’è possibilità di comunicazione. E la questione diventa ancora più seria oggi con l’incubo terrorismo islamico". In Lombardia gli stranieri oltre le sbarre sono quasi la metà del totale dei detenuti nei 18 istituti. Capece va dritto al punto: "La sorveglianza dinamica consente di fare proselitismo facilmente perché i detenuti si possono incontrare e parlare liberamente. Per impedire la radicalizzazione e la contaminazione dei predicatori non abbiamo alcuno strumento". Gli agenti hanno chiesto di andare a scuola di arabo perché "così, passando per i controlli nelle varie sezioni, possiamo ascoltare e capire che cosa si dicono fra loro i musulmani. Soltanto in questo modo è possibile fare prevenzione e non solo repressione". Morale della favola, "la situazione è diventata ingestibile - analizza il vice segretario regionale. In Lombardia si salvano il carcere di Bollate (che non sente il sovraffollamento) e quello di Opera, dove nonostante ci siano circa 300 detenuti in più rispetto al limite previsto il clima non è teso. Gli altri istituti, invece, versano in condizioni pessime. A cominciare da Monza che soffre pesanti carenze non soltanto di agenti ma anche strutturali con intere camerate della caserma agenti inagibili per infiltrazioni d’acqua. Meno agenti (ne mancano un centinaio) mentre i reclusi aumentano: sono 580 (290 stranieri) eppure dovrebbero essere 403". Piene oltre misura anche le celle di Bergamo (200 in più), del Canton Mombello di Brescia (il doppio della capienza), di San Vittore a Milano (943 detenuti di cui 584 stranieri) e in generale di tutto il pianeta carcere. "La pressione è alle stelle, gli arruolamenti sono fermi, le strutture fatiscenti e ogni giorno siamo a piangere miseria. Questa è una polveriera che rischia di esplodere". Meno "manette", più domiciliari e poche ingiuste detenzioni di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2016 Giustizia. La relazione al Parlamento sulla riforma. Il ricorso al carcere preventivo diminuisce a vantaggio delle misure cautelari alternative, che sono diventate più della metà del totale. Peraltro, là dove scattano le manette, quasi sempre arriva una sentenza di condanna: la percentuale di "smentite" per effetto di una sentenza di assoluzione è infatti "ridottissima". Così si legge nella prima relazione al Parlamento sull’applicazione della riforma delle misure cautelari (legge 47 del 16 aprile 2015). Un bilancio "confortante", scrive il ministero della Giustizia nelle 18 cartelle giunte alle Camere il 14 luglio, con annessi allegati. La prima relazione al Parlamento sulle misure cautelari - Tradotto in cifre: su 12.959 misure emesse dal 35% dei Tribunali interessati nei primi dieci mesi di vita della riforma, la custodia cautelare in carcere è stata disposta 6.016 volte (46%) mentre negli altri casi (più della metà) si è scelto il ricorso alle "alternative", dall’obbligo di firma agli arresti domiciliari, che hanno toccato quota 29%. Inoltre, dei 3.743 procedimenti "cautelari" iscritti nel 2015 "soltanto 42" sono stati chiusi con una sentenza definitiva di assoluzione, mentre 156 con una sentenza assolutoria non definitiva. "Le assoluzioni definitive - si legge nel documento inedito - impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare. Quelle non definitive, 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con misura degli arresti domiciliari". È l’articolo 15 della legge "contro le manette facili" a imporre la relazione annuale alle Camere ma il Ddl di riforma del processo penale - che dal 13 settembre torna all’esame dell’Aula del Senato - rimpolpa quest’obbligo informativo aggiungendo che la relazione debba contenere anche i dati sulle sentenze per "ingiusta detenzione" pronunciate nell’anno precedente, specificando le ragioni in base alle quali sono state accolte le domande di riparazione, l’entità del risarcimento e i dati sul numero dei procedimenti disciplinari iniziati per "ingiusta detenzione", con relativo esito. Una norma voluta dal Centrodestra per spingere i titolari dell’azione disciplinare ad attivarsi contro le toghe "colpevoli" di manette facili. In questa prima rilevazione, per una serie di difficoltà solo 48 Tribunali su 136 hanno risposto alla richiesta di dati del ministero; per lo più uffici di dimensioni medio-piccole, ad eccezione di Napoli (in 7 casi, si tratta di Direzioni distrettuali antimafia). Pur con questi limiti, però, la rilevazione "fa emergere dati confortanti" scrive il ministero con riferimento al rispetto dello spirito e dello scopo della riforma, cioè rendere "residuale" l’uso della custodia cautelare in carcere, valutando le esigenze cautelari (pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove) alla luce della loro "attualità" e con lo sguardo al futuro, ovvero verificando che alla fine del processo la pena detentiva da eseguire non superi i 3 anni (poiché in questi casi scatta la sospensione condizionale, la legge esclude il carcere preventivo). Il fulcro della riforma è nell’"attualità" del pericolo, che nella nuova versione dell’articolo 274, lettera c), Cpp, oggi va verificata anche rispetto al pericolo di recidiva, per il quale non basta più la gravità astratta del delitto. Su questo punto, anche la Cassazione è stata netta. Con una sentenza di fine giugno (n. 24476/16), la VI sezione penale precisa, tra l’altro, che "la previsione dell’attualità del pericolo - accanto a quella della concretezza - consente di ritenere che la ratio complessiva della legge 47/2015 dev’essere individuata nell’avvertita necessità di richiedere al giudice un maggior e più compiuto sforzo motivazionale in materia di misure cautelari personali e di loro graduazione, onere che assume rilievo ancora maggiore quanto più ampio sia lo spettro cronologico che divide i fatti contestati dal momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare". In sostanza, quanto più lontani nel tempo sono i fatti-reato, tanto più motivata dev’essere la pericolosità del soggetto di cui si chiede l’arresto in carcere, "giacché a una maggiore distanza temporale dal fatto corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari". Dalla relazione risulta che delle 12.959 misure emesse nel 2015, 1.430 sono obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria, 497 allontanamenti dalla casa familiare, 1.288 divieti e obblighi di dimora, 3.704 arresti domiciliari, 6.016 custodie cautelari in carcere, 24 custodie in luogo di cura. "Questo dato - si legge - è certamente rilevante in quanto indica che la misura cautelare è stata utilizzata meno della metà delle volte in cui l’autorità giudiziaria ha emesso un’ordinanza di misura cautelare personale nel 2015. Altro dato interessante è che la misura degli arresti domiciliari è stata applicata nel 29% dei casi". Il focus su Napoli rivela che il Tribunale ha emesso 2.275 misure cautelari personali nel 2015. Qui le manette sono scattate 1.227 volte "ma il dato che interessa di più" è quello da cui si evince che l’utilizzo delle manette "avviene quasi esclusivamente nei casi in cui si giunge a una condanna": su 321 procedimenti in cui si è fatto ricorso al carcere preventivo e nei quali è stata emessa una sentenza, ben 282 (91%) si sono conclusi con una condanna. Emergenza sicurezza? Macché, i delitti crollano di Francesco Straface Il Dubbio, 13 agosto 2016 I dati del 2016: gli omicidi scendono del 20%, le rapine del 23%, i furti del 15%. I reati in Italia calano del 16 per cento (218mila in meno) nel confronto tra i primi sei mesi del 2016 e la prima metà del 2015. Lo certifica il Viminale. Le flessioni più nette quelle degli omicidi (-21 per cento) e delle violenze sessuali (-20). Calano anche i furti (-13 per cento, a Roma 18mila in meno). Le denunce si sono ridotte del 18 per cento. Dimezzati gli omicidi a Milano, che invece crescono a Napoli (già 38 in sei mesi). Sono statistiche che ribaltano completamente le tesi sull’insicurezza diffusa e fanno il paio con i dati sulla violenza negli stadi, a sua volta diradatasi. E ora chi glielo dice a Salvini? Sono davvero sorprendenti i dati diffusi dal Viminale, che certificano una flessione dei principali reati compresa tra i 12 e i 20 punti percentuali. I numeri, relativi al primo semestre 2016, smentiscono di fatto mesi di dichiarazioni di gran parte della politica, che a più riprese, nel nome ad esempio della paura per i migranti e lo straniero, ha paventato un allarme sicurezza nelle grandi città. Il Ministero dell’Interno ha evidenziato, nel confronto con il primo semestre del 2015, un calo di omicidi volontari (pari al 21,3%), violenze sessuali (20,3), rapine (13,5) e furti (12,9). Il totale dei delitti commessi è passato da un milione e 347mila a un milione e 129mila. Il dato complessivo attesta quindi una diminuzione del 16% dei reati nel nostro paese, con gli arresti che si riducono del 3% e le denunce addirittura del 18%. La flessione è talmente significativa da indurre una seria riflessione e toni un po’ più cauti da parte di una classe dirigente che ama i proclami e sembra perennemente in campagna elettorale. Il calo più netto riguarda in particolare i furti di rame, che si sono letteralmente dimezzati: da 8500 si è passati a 4500 (-46,3%). Diminuiscono sensibilmente le rapine in abitazione, che dalle 1563 della prima metà del 2015 sono franate a quota 1200: oltre 23 punti in meno. -15% invece per i furti negli appartamenti. Un aspetto rilevante, se si pensa che questi reati coincidono con un’intrusione nella sfera privata delle famiglie. In flessione le rapine "in pubblica via" (-10%), le estorsioni (-11), l’usura (-21), le ricettazioni (-21) e i furti di autovetture (-6). Positivi anche i dati relativi agli incendi, al contrabbando, allo sfruttamento della prostituzione e alla pornografia minorile. Uniche graduatorie in controtendenza quelle relative allo spaccio di stupefacenti, che cresce del 4,6, e alle rapine negli uffici postali, che nei primi sei mesi del nuovo anno aumentano del 6,4%. Chissà che questo aspetto non convinca anche i cittadini più restii all’utilizzo delle nuove tecnologie alla conversione all’home banking, che consente a tutti - direttamente dalla poltrona di casa - di effettuare le più disparate operazioni economiche. Tanto più che le truffe e le frodi informatiche scendono di 13 punti percentuali, a conferma della crescente sicurezza delle procedure di protezione, che prevedono ad esempio l’invio di codici temporanei, validi per un singolo pagamento, tramite sms su smartphone. Guardando alle singole città, i trend più significativi riguardano la diminuzione dei furti a Roma (18mila in meno rispetto al 2015) e degli omicidi a Milano (dimezzati, si è passati da 17 a 9). Il dato nazionale si ribalta a Napoli, dove le persone uccise sono praticamente il quadruplo rispetto al capoluogo lombardo: 38, il 15% in più rispetto al 2015. Da analisti e sindacati arriva comunque un invito alla cautela: i reati predatori e le rapine in abitazione sono aumentate rispetto a dieci anni fa e il contrasto alla criminalità è rallentato dal taglio delle risorse e dalle croniche carenze di personale denunciate dalle forze dell’ordine, la cui età media è peraltro sempre più elevata. E qualche dato consentirà comunque a Fratelli d’Italia e Lega Nord, i partiti che maggiormente hanno pigiato sul tasto dell’insicurezza, di continuare a guardare con diffidenza a una determinata fascia della popolazione. Sono infatti stranieri il 65% dei denunciati per borseggio e la metà di chi è accusato di essersi introdotto in abitazioni altrui o di avere effettuato una rapina in pubblica via. Omicidio stradale e pirati della strada, la legge non basta. "Nessun calo da inizio anno" La Repubblica, 13 agosto 2016 I dati dell’Asaps: da quando è in vigore stesso numero di morti del 2015. La pirateria stradale non si ferma. Lo dice il Report Asaps (Associazione sostenitori amici polizia stradale) sul primo semestre 2016, che parla di una crescita del 14,9% degli incidenti con omissione di soccorso, di più feriti (+15,4%) a fronte però di un calo del numero delle vittime, 52 rispetto alle 61 (-14,7%). Anche per quanto riguarda l’omicidio stradale, l’entrata in vigore della legge non sembra aver determinato miglioramenti nelle cifre. "Nei 3 mesi dall’entrata in vigore gli episodi sono aumentati del 20%, i feriti del 16,9% mentre è rimasto identico il numero dei morti 33 come nei mesi di aprile, maggio e giugno 2015". I dati del primo semestre 2016 dicono che gli episodi gravi di pirateria (omissione di soccorso negli incidenti con feriti o morti) sono stati 556 contro i 484 del 2015. I feriti sono stati 664, 89 in più. Le vittime 52, in diminuzione di 9. Il confronto ristretto ai tre mesi dall’entrata in vigore della nuova norma raccontano una situazione diversa per Asaps. Ad aprile, maggio e giugno 2016 gli episodi gravi di pirateria stradale sono stati 294, contro i 245 dello stesso trimestre del 2015. 49 incidenti in più e un incremento del 20%. I feriti sono stati nello stesso trimestre 366, mentre nel 2015 erano stati 313, +16,9%. Ma è sui decessi che il dato si fa deludente in quanto le persone uccise da pirati della strada nel trimestre sono state 33, esattamente lo stesso numero del 2015. Quanto alla distribuzione nelle regioni sono 59 le omissioni di soccorso gravi nel Veneto, 58 sia in Lombardia sia nel Lazio, 51 in Toscana, 50 in Campania, 49 in Emilia-Romagna, 39 in Sicilia, 37 in Puglia, 35 in Liguria. Per Giordano Biserni, presidente Asaps, solo a fine 2016 "potremo farci un’idea più chiara dell’andamento della pirateria stradale", visto che "non era pensabile che la legge sull’Omicidio stradale (ancora poco conosciuta e con qualche non indifferente difetto costruttivo) potesse incidere sul dato generale della sinistrosità". Inciderà invece per Biserni sul dato della giustizia. Per incidere positivamente sulla sinistrosità grave servono invece, "controlli sulle strade con un ritorno di un numero adeguato di agenti in divisa sulle strade, anche di notte". Rosario Priore "l’esplosivo di Bologna era per Trani e doveva servire per un’evasione" di Michele De Feudis Corriere della Sera, 13 agosto 2016 La ricostruzione in un libro di Rosario Priore, l’ex magistrato che indagò sulla strage sotto la stazione di 36 anni fa. Al Corriere dice: "Incongruenze nelle ricostruzioni storiche e giudiziarie, quella dinamite serviva a far scappare un leader palestinese". L’esplosivo della strage di Bologna? Poteva essere destinato a demolire le mura del carcere di Trani, dove era detenuto uno dei leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, Abu Anzeh Saleh, funzionale all’evasione del leader arabo. Questa ipotesi emerge dall’intervista con Rosario Priore, ex magistrato, già titolare delle inchieste sulla strage di Ustica, autore con Valerio Cutonilli del libro "I segreti di Bologna" (Chiarelettere). Al Corriere del Mezzogiorno, a trentasei anni dalla strage, Priore ha spiegato come questa ricostruzione sia accompagnata da documenti inediti, utili a interpretare il complesso quadro storico dell’Italia del 1980, con gli equilibri tra Italia e Medio Oriente governati dal Lodo Moro. Dottor Priore, quando incontrò per la prima volta nella sua carriera di magistrato il caso Bologna? "Subito dopo l’attentato. In quel periodo seguivo ad Ortona la vicenda dell’arresto di tre militanti dell’Autonomia insieme al militante filopalestinese Saleh Abu Anzeh, per il trasporto di due lanciamissili. Indagando si incorse in una domanda di perdono per il Lodo Moro". Fu una scoperta che cambiò il corso delle indagini. "Ci accorgemmo che era un patto vigente tra l’Italia e le organizzazione di resistenza della Palestina, del Medio Oriente e Nord-Africa. Insomma con tutto il mondo arabo che lottava sulle coste del Mediterraneo". Come nasce il saggio "I segreti di Bologna"? "Partiamo dalla storia di Ortona e da una serie di fatti che trovano una spiegazione nell’esistenza del Lodo Moro". La ricerca si fonda su documenti inediti? "Su carte dei servizi che abbiamo trovato, dalle quali emerge che già nel Fronte popolare di liberazione della Palestina c’era una certa ebollizione per l’arresto di Saleh, arrestato insieme agli autonomi in Abruzzo". Nel testo per la bomba di Bologna è presente la formula di una "detonazione prematura". "Il riferimento è, in linea teorica, ad una situazione che faceva esplodere la bomba al di là della volontà di chi la trasportava. Era un esplosivo di facile detonazione, come affermato da Francesco Cossiga, all’inizio poco informato, poi aggiornato dai servizi militari". L’enigma dell’esplosivo. È plausibile immaginare un’altra destinazione finale per l’esplosivo? "Nelle carte che abbiamo ottenuto dai servizi appaiono delle note in cui vengono allertati tutti i centri, e in particolare quello di Bari. Non si capisce perché i terroristi dovevano prendersela con Bari". Perché? "Nella provincia di Bari c’era il carcere di Trani in cui era detenuto Saleh, il palestinese capo dei tre che portavano i missili a Ortona. Il carcere aveva muri di uno spessore eccezionale che non potevano essere abbattuti con esplosivo normale, ma con esplosivo in grado di creare varchi". Dai documenti cosa emerge nel dettaglio? "C’è una informativa del capo della Polizia, dell’11 luglio 1980, inviata solo al questore di Bari, nella cui giurisdizione ricade il penitenziario tranese: si riferisce di "negative reazioni negli ambienti del FdLP" e non si esclude "una ritorsione nei confronti del nostro paese". Questo documento potrebbe indurci a ritenere che nella zona ci fosse una persona che collaborasse con il servizio e riferisse notizie molto interessanti". Ha riscontrato incongruenze nelle ricostruzioni storiche e giudiziarie su Bologna? "Tante. Appare una confusione enorme. Parlano le persone sbagliate, quelle che hanno sofferto, forse ingiustamente, una detenzione lunga. Poi c’è la stranezza di un cadavere scomparso dopo il boato". A cosa si riferisce? "Al corpo di Maria Fresu. C’erano quattro persone nella sala di attesa della seconda classe. Era a pochissimi metri dall’esplosione. Quelle persone sono tutte morte. Di una non si è trovato più nulla, salvo un lembo di guancia. È stata disintegrata o messa per errore in un altro saccone per la rimozione dall’obitorio…". Dal libro risalta il ruolo svolto dal lodo Moro, anche in chiave geopolitica. "Ha avuto grande effetti nella storia italiana. Nessun paese europeo ha firmato un patto per una durata indefinita". Il lodo è ancora in vigore? "Potrebbe esserlo ancora nelle aree del Nord-Africa e del Maghreb". Per il presidente Sergio Mattarella su Bologna "ci sono troppe domande senza risposta". Quali possono essere le vie da scandagliare ulteriormente? "Non bisogna passare per la via dei condannati. Hanno motivo di livore contro le indagini, si considerano innocenti, hanno scontato la pena definitivamente. Bisognerebbe ripartire da zero. Non sarebbe difficile, partendo da fonti che aiutarono i servizi e guardando ai rapporti con il Medio Oriente, e con le organizzazioni irredentiste di quell’area. Il FplP potrebbe aiutarci a ricostruire la storia, se l’Italia avesse la forza". Nel caso Misseri tutte le derive della giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 13 agosto 2016 Sabrina tornerà libera per le motivazioni mai depositate. Da che parte cominciare? Impossibile scegliere. Certo, la notizia è che Sabrina Misseri uscirà per scadenza termini: la 28enne di Avetrana è ormai alle soglie del tempo massimo di custodia cautelare. Che può spingersi fino al limite comunque stratosferico di 6 anni (6 anni di carcere preventivo, è il caso di ricordarlo, significa che a fine processo si potrebbe scoprire di aver tenuto dentro per tutto quel tempo una persona innocente). Condannata all’ergastolo in primo e secondo grado per aver sequestrato e ucciso, con la complicità della madre Cosima Serrano, la cugina Sarah Scazzi, Sabrina tornerà libera il 15 ottobre 2016. Impossibile che arrivi prima la sentenza della Cassazione, e con questa l’eventuale definitiva condanna che, essa sola, consentirebbe di continuare a tenere la donna dietro le sbarre. Naturalmente in sé e per sé non ci sarebbe nulla di male, niente di terribile. Nell’ordinamento italiano una persona imputata, anche se gravata da pesanti indizi di colpevolezza, è presunta innocente fino al terzo grado di giudizio. E deve essere tenuta in carcere prima della sentenza, come noto, solo allorquando ricorrano alcuni precisi rischi: reiterazione del reato, pericolo di fuga, inquinamento delle prove. In ogni caso non può in sé e per sé creare scandalo che Sabrina Misseri esca. Casomai è discutibile che una persona debba attendere tanto tempo per conoscere le precise motivazioni in base alle quali è stata condannata, come giustamente denunciato in un’intervista rilasciata al Dubbio dal professor Franco Coppi, difensore della donna, e pubblicata martedì scorso. Le motivazioni mai depositate Qui veniamo al punto, a uno degli aspetti paradossali di tutta la questione. Misseri uscirà perché appunto la sentenza di condanna non è ancora stata resa eventualmente definitiva dal giudizio in Cassazione: l’udienza davanti alla Suprema corte però avrebbe potuto celebrarsi prima se la precedente pronuncia, quella d’appello, fosse stata già depositata (senza che siano state depositate le motivazioni del giudizio impugnato, è impossibile celebrare il terzo grado del processo). I motivi in base ai quali la Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha confermato l’ergastolo per Sabrina Misseri (e per sua madre, per la quale i termini di custodia scadono invece a maggio 2017) non si conoscono perché il magistrato che avrebbe dovuto depositarli si è preso un’infinità di tempo, ha chiesto diverse proroghe e non ha ancora tagliato il traguardo. Si tratta del giudice relatore Susanna De Felice, che dal giorno della pronuncia, il 27 luglio dell’anno scorso, ha avuto molto da fare. In particolare ha dovuto far parte delle commissioni per il concorso in magistratura. Incombenza delicata, certo, ma a cui forse la giudice avrebbe potuto sottrarsi, tenuto conto che aveva da stendere le motivazioni di una delle condanne più controverse e comunque attese dall’opinione pubblica negli ultimi anni. Sulla paradossale flemma della giudice tarantina il ministro della Giustizia, non ha a caso, ha avviato accertamenti preliminari. La giuria mediatica si indignerà - Che Sabrina esca non è uno scandalo, è però quanto meno spiazzante che possa riassaporare la libertà almeno per qualche giorno perché un magistrato ha rinviato di proroga in proroga il deposito delle motivazioni. Si tratta del manifestarsi più rumoroso possibile di una patologia di sistema: i ritardi nella celebrazione dei processi spesso dovuti a questioni legate alla carriera dei magistrati. A questa disfunzione dovremmo aggiungerne una seconda, pure manifesta: si può dare per scontato che il ritorno "a piede libero" di Sabrina Misseri susciterà un’ondata di sdegno. Si alzerà forte l’urlo della curva giustizialista, di fronte a una "criminale che torna in libertà". Emergerà così per intero l’incrostazione di un sistema in cui la mediaticità della giustizia prevale sul diritto stesso. Le ansie securitarie dell’opinione pubblica sono di fatto il convitato di pietra del nostro processo penale, e nel caso specifico produrranno con ogni probabilità un moto di protesta contro quello che è un diritto di Sabrina Misseri: non restare in cella un minuto di più rispetto a quanto previsto dalla legge. È finita qui? E no. Perché ci sarebbe una terza seria disfunzione, che in realtà è la prima ed è all’origine di tutto. Sabrina Misseri è stata condannata sulla base di un processo senza prove, dunque in base ad indizi. Cosa che il nostro diritto penale prevede, ma a condizione che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti. Altro che concordia: qui uno degli elementi principali del processo, la testimonianza del padre dell’imputata Michele Misseri, che pur in capo a un’incredibile sequenza di ritrattazioni (incredibile anche per la qualità delle diverse versioni fornite), pur sempre scagionerebbe la figlia. Cos’altro ci vuole per condensare in un solo archetipo i pastrocchi di cui è capace la giustizia italiana? Lentezze e disfunzioni di alcune parti della magistratura, processo mediatico e, alla base di tutto, condanne su basi indiziarie. Senza le quali, d’altronde, le altre patologie neppure potrebbero rivelarsi. Estate da ergastolani: le lettere dei detenuti di Carmelo Musumeci agoravox.it, 13 agosto 2016 Viene voglia di staccare la spina e smettere di elemosinare un po’ di speranza. (Frase scritta sulla parete di una cella di un ergastolano). Penso che il carcere sia un’invenzione stupida perché non migliora ma invece peggiora i suoi abitanti, mentre non stimola nessuna riconciliazione fra vittima e carnefice. Inoltre, dopo tanti anni di carcere, la pena non ha più nulla a che vedere con il recupero sociale. Questa è la prima estate senza Marco Pannella e la sua mancanza si sente. Credo che ad agosto nessun politico di spessore girerà per le carceri come faceva lui per ricordare che in Italia esistono ergastolani per i quali, attualmente, non è prevista la concessione di alcun beneficio. E per questi reclusi la condanna all’ergastolo risulta fissa ed immodificabile. La nostra Costituzione assegna alla pena una funzione rieducativa e non vendicativa. Ma quale beneficio rieducativo potrà mai apportare una pena perpetua? La pena dell’ergastolo, più che imprigionare il corpo, uccide la vita perché è, nello stesso tempo, una pena di morte e una tortura. E non è facile migliorare e cambiare quando hai solo la possibilità d’invecchiare, morire e soffrire in una cella. In questa torrida estate ho pensato di scrivere ad alcuni ergastolani sparsi nelle nostre Patrie Galere per raccogliere pensieri e testimonianze e farli conoscere all’opinione pubblica. Ecco cosa mi hanno scritto alcuni di loro: - Gli ergastolani più fortunati si creano ogni giorno un mondo interiore costruito sul sale di tutte le loro lacrime. Io, invece, mi sono stancato di sperare. È meglio non avere speranza che nutrirne di false. Tanto, con la condanna all’ergastolo, la vita non vale più nulla: ciò che ti rimane è solo il passato. E ogni giorno che passa non è uno in meno da scontare. Carmelo, mi sono arreso, o, meglio, me ne frego. Che facciano quello che vogliono. Ormai ho 58 anni, potrei vivere altri dieci anni e arrivare a circa a 70 anni; quindi uscirò da morto. Con la pressione che mi ritrovo, se penso all’ergastolo ostativo, morirò prima. Meglio non pensarci. Adesso che Marco Pannella è morto non è facile che trovino uno che lo possa sostituire. Come vedi ci va tutto male. (Salvatore, da 33 anni in carcere, detenuto a Termini Imerese). - Un compagno, che è in cella con me e al quale mancano solo un paio di mesi prima di uscire, si è confidato e mi ha detto che i secondi gli stanno sembrando minuti, i minuti ore, le ore giorni ed i mesi anni. Gli ho risposto: "Per fortuna che io ho l’ergastolo e non ho bisogno di contare né i giorni, né i mesi, né gli anni. Conto solo i capelli bianchi che mi stanno venendo". Il mio compagno ha annuito. Poi ha amaramente sorriso. E alla fine abbiamo riso insieme, anche se non c’era nulla da ridere perché, con questa pena, la vita diventa peggiore della morte. (Giuseppe, da 28 anni in carcere, detenuto a Nuoro). - Ciao Carmelo, qui continua la calma piatta più totale e un caldo disumano contribuisce alla stasi. Nessuno cucina più: l’idea di accendere il fornello ci terrorizza. Già la notte sto incominciando a dormire a terra, e chi se ne frega degli scarafaggi. Tutta colpa di queste dannate bocche di lupo in plexiglass: sembra di stare in una serra. Per assurdo, all’aria fa più fresco anche in pieno sole. Infatti, ormai, alla fine ci ritroviamo un po’ tutti a sonnecchiare e a cercare di assorbire il fresco del cemento negli angoli più bui. (Pasquale, da 30 anni in carcere, detenuto a Spoleto). - Caro Carmelo, un compagno di qui, circa un mese fa è stato a Sollicciano per un’udienza. L’hanno messo con un detenuto dicendo che stava un po’ giù. Lui ci ha chiacchierato, ha tentato di tirarlo su e sembrava che si fosse rasserenato. Il secondo giorno il compagno è voluto scendere all’aria. È risalito neanche dopo dieci minuti, perché gli era montata l’ansia. Tornato in sezione ha trovato il suo compagno di cella morto impiccato. La guardia non se n’era accorta e, per quanto sia stato inutile, sono stati i detenuti a tentare di rianimarlo. La guardia era inibita dalla paura e inizialmente non è arrivato nessun medico. Per il nostro compagno è stata una brutta esperienza: mentre ce la raccontava piangeva. (Alberto, da 28 anni in carcere, detenuto a San Gimignano). - Caro Carmelo, mi trovo nel carcere di Livorno. Ho già chiesto di poter parlare con il coordinatore responsabile della sezione e, molto probabilmente, finirò in isolamento nelle celle di punizione perché non ho nessuna intenzione di stare in tre in una cella che è stata costruita per un detenuto. Mi hanno già informato che a chi sceglie questa strada gli viene fatto rapporto e denuncia. Appena sono arrivato ho capito che aria tirasse. Per dirtene una: qua nessuno può tenere un solo rasoio usa e getta nella cella. Tutte le volte che uno vuole farsi la barba deve chiedere il rasoio alla guardia di turno e, per di più, solo dopo le 9 del mattino. All’unico accappatoio che avevo e ad un giubbino ho dovuto tagliare il cappuccio. A me sembra di rivivere i primi giorni dell’arresto. (Roberto, da 23 anni in carcere, detenuto a Livorno). - Carmelo, ho letto tutto quanto mi hai mandato e, pur se i tuoi scritti mi aiutano a vedere in positivo, in questo posto, dove sembra assente anche l’eco di una campana, non si può certo avere un minimo di gioia. Qui la vita è triste, monotona, i giorni sono diventati lunghi e le notti ancora di più. Prima per le condizioni carcerarie e poi perché da circa tre mesi non sto bene con la salute. Sono ripiombato nel buio più totale: non faccio nulla dalla mattina alla sera, non mi confronto più con nessuno, non metto in gioco né i miei pregi, né i miei difetti. Carmelo, non riesco più a odiare nessuno e questo non fa altro che farmi ammalare perché se prima imprecavo e odiavo questo mi dava la giusta carica per sopravvivere, mentre adesso che non impreco e non riesco a odiare mi sento morire ogni giorno. Ciò che non so più rivolgere verso gli altri lo uso contro di me. E sono certo che questo mi porterà al disfacimento. (Giuseppe, da 26 anni in carcere, detenuto a Sulmona). - Caro Carmelo, mi trovo nella cella cosiddetta liscia, senza TV, né luce, addirittura con la finestra saldata che non si può aprire, i muri imbrattati di feci e così via. Roba che ti fa rabbrividire. È veramente una vergogna che ancora oggi esistano queste realtà. (Mimmo, da 31 anni in carcere, detenuto a Carinola). - Carmelo, qui fa caldo… non si respira e di aprire le celle non se ne parla proprio. Non so nemmeno cosa sto scrivendo… il caldo non mi fa concentrare e purtroppo sono un paio di giorni che non sto bene… mi sembra tutto inutile, insensato. Questa condanna maledetta mi sta devastando l’anima, mi sembra di aver perso le forze. Sarà il caldo, sarà la "carcerite cronica" che ho? Boh! (Giovanni, da 23 anni in carcere, detenuto a Sulmona). - Ciao Carmelo, come stai? Io un po’ incasinato. Ho preso una denuncia per minaccia a Pubblico Ufficiale. Pensi che sarà valutata in modo negativo? Ho fatto l’istanza per Volterra: cavolo meno male che qui si stava bene! Mi stanno martellando: ho già subito quattro perquisizioni in un mese. Alla fine sono scoppiato, ma credo che sia umano quando vedi trattare la tua roba personale come stracci. Mi hanno preso di mira, ma io non so cosa vogliono da me. Mi faccio la mia galera senza disturbare nessuno, mi alleno, ascolto la musica, scrivo, leggo e non faccio comunella con nessuno. Il vice comandante mi ha detto: "Da quarant’anni faccio questo lavoro e so riconoscere un criminale da uno sbandato". Vorrei tanto capire da dove, anzi, in che modo ha dedotto che io sia un criminale dato che mi ha visto una volta. Comunque, cosa mi consigli Carmelo? (Massimiliano, da 21 anni in carcere, detenuto a Porto Azzurro). La mia ribellione in carcere, armato di codici e leggi di Davide Pagenstecher Left, 13 agosto 2016 "Sono anni che tentano di distruggermi sotto il profilo identitario e psicologico". Una premessa che non costituisce mero sfondo retorico, utile per aprire l’argomentazione che segue sul sistema penitenziario e sulle modalità di espiazione delle pene è che, ovunque, anche in queste sedi ove trova costante nutrimento la più becera forma di cameratismo, a volte leggibile anche come "omertà delle divise", ci sono operatori, forse troppo soli, che ritengono che esista un limite oltre il quale eseguire un ordine o schierarsi, poco conta la differenza, non sia più un dovere ma un’aberrazione del dovere stesso di essere, anzitutto, esseri umani che, con altri esseri umani, sono tenuti ad un’interazione positiva. È questo, indubbiamente, il caso ammirevole di chi mi ha invitato a scriverle la presente; un assistente di polizia penitenziaria che "gioca" dalla parte del diritto e secondo i principi costituzionali di tutela e sviluppo della persona. Ergo il sistema penitenziario italiano, di cui purtroppo il carcere di Bologna, e segnatamente il reparto penale, "penale tout court", rappresenta un chiaro quanto devastante esempio, allo stato attuale, ma da lungo tempo e sempre più, è la cristallizzazione del fallimento neoliberista della soluzione dei conflitti sociali. È, così come abbandonato a se stesso attraverso l’assordante silenzio delle istituzioni e di coloro che all’interno dovrebbero occuparsi di progressioni rieducative, come inutilmente sancito dall’art. 27, co. 3 della Costituzione repubblicana, null’altro che la perenne università del crimine che si autoalimenta attraverso la costante produzione di recidiva e di amplificazione delle attitudini e delle capacità criminali della maggior parte dei detenuti, quelli che senza sostegno non riflettono sulla possibilità di cambiare e di riconciliarsi con la società in un’ottica di integrazione etica e non conflittuale. Eppure l’argomento è annoso e arricchito da fiumi di parole scritte che, tuttavia, dopo la loro icastica presentazione in pompa magna, cadono nel nulla della più totale e sciocca indifferenza. I detenuti e il carcere, attraverso lo svolgersi malato delle attività dinamiche è, soprattutto, un business immenso capace di soffocare ogni possibile richiamo al rispetto dei diritti umani e sociali. Poco conta, poi, sei i mancati processi rieducativi sono causa ed effetto dei principi, tanto dibattuti e posti al centro del populismo della "sicurezza a tutti i costi", di prevenzione generale e speciale che costituiscono il presupposto imprescindibile per l’abbattimento della recidiva e l’abbassamento della soglia di criminalità nel sistema sociale. Ecco come la demagogia della certezza della pena, letta unicamente in chiave retributiva ed interpretata attraverso il paradigma più classico quanto becero del neoliberismo, distrugge ogni possibilità di recupero sociale e racconta ad un popolo poco informato la menzogna della sicurezza che, in questi termini, troverebbe certezza nell’applicazione della pena detentiva come unica cura dei problemi sociali. Un chiaro esempio dell’insignificanza normativa sul rispetto dei diritti umani e della tutela dei singoli e della società, è pacificamente riscontrabile nel fallimento fattuale del codice di condotta che deve informare l’agire dei soggetti responsabili dell’applicazione delle leggi e dell’ottemperanza verso le stesse di cui alla Risoluzione Onu n. 35/169 del 17 dicembre 1979 che prevede, in particolare all’art. 5, che gli stessi non possono infliggere, suscitare o tollerare atti di tortura fisica e psicologica ovvero qualunque altra forma di pena o trattamento disumano o degradante (…) invocando, poi, all’uopo di mera discolpa, alcuna condizione o giustificazione. Seguendo la via delle grandi dichiarazioni che prima di cadere nel nulla vengono poste a sostegno delle grandi strategie di esplicitazione dell’autoreferenzialità, tanto utile quanto irrinunciabile per le istituzioni totali, si noti come, in particolare, è fatto assoluto divieto di tortura e di ogni altra forma di trattamento crudele, disumano e degradante dall’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dall’art. 7 del Patto internazionale sui Diritti civili e politici adottato nella Convenzione di New York del 16 e 19 dicembre 1966, ratificata dall’Italia e resa esecutiva con la Legge 25 ottobre 1077, n. 881, dall’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata dall’Italia e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché dal nostro inascoltato art. 27, co. 3 della Costituzione. E nemmeno pare importare, atteso il contenuto delle cosiddette leggi e leggine "svuota carceri" che, oltre ad essere del tutto scarno, nemmeno trova applicazione presso la magistratura di sorveglianza, come il neo introdotto art. 35 ter L. 355/75 e succ. mod cd. Ordinamento Penitenziario che dovrebbe prevedere un risibile sconto di pena, un giorno su dieci espiati, per coloro che si sono trovati, anche per tempi lunghissimi, ad affrontare condizioni di sovraffollamento e promiscuità che integrano, secondo quanto sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, palese violazione dell’art. 3 Cedu, ovvero tortura che gli arresti giurisprudenziali, pur nella forma della c.d. sentenza pilota, appunto della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, definiscano il trattamento degradante, di cui all’art. 3 Cedu, come "un trattamento tale da ingenerare nelle vittime sentimenti di paura, angoscia e inferiorità, in grado di umiliare ed eventualmente rompere la loro resistenza fisica e morale". Anzi, non solo non importa; tale tipo di trattamento, qui a Bologna come nella maggior parte delle carceri italiane, assume il valore di vero e proprio architrave del sistema sanzionatorio penale: "il carcerato deve soffrire". E si noti inoltre, onde sottolineare anche l’aspetto relativo alle violazioni vere e proprie delle norme comunitarie, costituzionali e penali, che, in ossequio a quanto disposto dagli artt. 10 e 117 della nostra Costituzione, le norme della Convenzione europea devono trovare immediata applicazione - c.d. principio di self executive - nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell’Ordinamento giudiziario italiano (…) "In virtù della Convenzione europea, in Italia, il Giudice nazionale non è oggi solamente chiamato (e con lo stesso, in ogni caso, tutti gli operatori del diritto anche in sede amministrativa) a verificare - nel momento astratto della sua valutazione e formulazione - la conformità costituzionale del sistema normativo da applicare, ma deve valutare, alla luce dei principi sanciti dalla citata Convenzione, tale sistema nel momento operativo della sua concreta ed effettiva valutazione, per evitare che lo stesso, distortamente interpretato, possa risolversi nella violazione dei diritti fondamentali della persona, da essa riconosciuti e tutelati (Cassazione sez. I 12 maggio, 19 luglio 1993)". Un chiaro esempio, questo, di fantascienza giuridica, vieppiù laddove tale sacrosanto principio venga visto in un’ottica di comparazione tra lo stesso e la consueta attività del giudice penale nazionale, cui è parte integrante la magistratura di sorveglianza, che, a Bologna come in altre amare realtà, altro non esprime che una manifesta abiura per le progressioni rieducative extra murarie attraverso una visione parossisticamente restrittiva sulla concessione di benefici penitenziari che, peraltro, oltre ad essere manifestazioni di umanità espresse dal legislatore penitenziario, assurgono ad imprescindibile strumento di abbattimento della recidiva, come chiaramente dimostrano le statistiche fornite dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Oltre a ciò, e Bologna fa scuola, a ulteriore fondamento logico di quanto qui esposto, peraltro in via di mera sintesi laddove si consideri, in concreto, il novero sterminato di problematiche, è corretto e opportuno sottolineare il nesso fisiologico che vincola, in negativo assoluto sotto il profilo del dato teleologico, i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge - art. 3 Cost. - che devono caratterizzare l’esecuzione della pena conservandone il principio di legalità e certezza del diritto - art. 25, co. 2 Cost, ovvero quelli di divieto di tortura e trattamenti contrari al senso di umanità di cui all’art. 3 Cedu e al diritto pattizio e convenzionale precedentemente richiamato, con una prassi illegittima che sottopone costantemente i soggetti qui detenuti a trattamenti disumani, degradanti, di privazione della dignità (prassi che si manifesta nei modi più disparati possibili: perquisizioni continue, provocazioni, istigazioni, dispetti, silenzi, etc.), ovvero di assoggettamento ad una pena di fatto ben più grave e pesante di quella in concreto irrogatagli in nome del popolo italiano e, attenzione, in uno Stato di Diritto, in quanto espiata in uno stato di costante e reiterata violazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Sarebbe dunque il caso di rammentare anche ai più sordi che un differente e previsto orientamento risocializzativo, rispondendo a un’esigenza di rispetto della dignità umana, riflette una precisa opzione per cui l’efficacia dell’Ordinamento penale non risponde solo al criterio di esercizio del potere coercitivo dello Stato ma all’ambizione, semplicemente di buon senso, che il valore delle norme e della loro dimensione precettiva possa essere liberamente fatto proprio da tutti i cittadini, anche da parte di coloro che dette norme hanno violato. Ciò significherebbe far sì che l’impatto del sistema penale punitivo non si debba configurare mai come impedimento o sbarramento di ogni prospettiva esistenziale dell’individuo considerato come essere sociale, ma come occasione percorribile al fine del recupero di un rapporto proattivo e costruttivo con il tessuto sociale. L’orientamento alla risocializzazione non dovrebbe implicare una pena, un trattamento che, più o meno, "terapeuticamente" risocializzi, quanto che l’intervento punitivo comporti il minor possibile sacrificio dei diritti fondamentali dell’individuo e, dall’altra, assuma evidenze significative sotto il profilo della produzione di valori di solidarietà sociale e, per dirla con Gherardo Colombo, di perdono responsabile. Tutto ciò allude alla rottura dell’impermeabilità ed extraterritorialità del carcere. La sperimentazione, già ampiamente adottata in altri Stati europei con esiti assolutamente positivi, di forme aperte di carcere contribuisce a ricondurre il diritto entro il suo alveo naturale, a rimettere in primo piano i soggetti, le loro storie e realtà, anziché le fattispecie penali che omologano gli individui nell’unicità ed irrevocabilità della pena. Solo la socializzazione di dinamiche istituzionali aperte ha come presupposto la promozione e la valorizzazione di quelle libertà che sono in grado, a un tempo, di permettere trasformazioni individuali in un costante divenire sociale. La conclusione è un semplice auspicio che riguarda direttamente la comprensione e l’azione di tutti coloro che, in diversa misura, gestiscono, in piena titolarità, il potere di decidere sia legiferando che amministrando e giudicando. È l’auspicio che si finisca, una volta per tutte, di lanciare inutili proclami e, contestualmente, si aprano gli occhi su questa realtà, comprendendo che chiusura, stigmatizzazione e sofferenza non aiutano ma distruggono una società sempre più vuota di principi e idee. Il Ferragosto dei detenuti: tu chiamale, se vuoi, torture di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 13 agosto 2016 Il 15 agosto per i detenuti è un giorno come un altro, caldo terribilmente caldo, come lo sono stati quelli di giugno, di luglio e lo saranno quelli di settembre. Mesi infernali perché al caldo non c’è rimedio. Alle deficienze strutturali e alle carenze igieniche si aggiungono altri gravi problemi come, in alcuni istituti, quelli idrici che consentono l’erogazione di acqua solo per pochissimo tempo. La Camera penale di Trieste, dopo il ritrovamento, in udienza, sotto la camicia di un detenuto, di un insetto non identificato, ha recentemente evidenziato un’ulteriore incredibile vicenda, che ha interessato la locale Casa circondariale: l’invasione di cimici da letto. L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali, investito del problema, ha scritto alle autorità competenti e dalla Direzione del carcere è pervenuta la conferma dell’incresciosa situazione, che permane dal mese di giugno. "Presso l’istituto di Trieste - scrive la direttrice - è stata lamentata la presenza di insetti, in un primo momento non meglio identificati, per i quali sono stati richiesti ed effettuati, da parte dell’Azienda per i servizi sanitari, ripetuti interventi di disinfestazione, che evidentemente non hanno sortito alcun effetto. Persistendo il problema, ed ipotizzando (a seguito di diligente ricerca sul web del Comandante di Reparto) potesse trattarsi di cimici da letto, questa direzione ha richiesto il sopralluogo di una ditta specializzata, che, intervenuta nella settimana corrente (fine luglio, ndr), ha confermato la natura degli insetti, proponendo una disinfestazione generale dell’istituto, il costo potrebbe aggirarsi tra i 15.000 ed i 20.000 euro (ma la somma esatta dipenderà dalla eventuale necessità di ripetere gli interventi). Occorre chiarire, senza ombra di dubbio, che la situazione è sotto controllo e che il Provveditorato, solo oggi (29 luglio), attraverso la comunicazione dell’evento critico classificato come "medio" è stato informato. A termine della procedura di quantificazione della spesa, in osservanza alle vigenti procedure contabili (gara/ricerca di mercato) si chiederà allo stesso Provveditorato la risorsa necessaria per la completa sanificazione dell’istituto?". In qualunque contesto l’invasione di cimici da letto desterebbe un immediato allarme. Soprattutto a Trieste, splendida città, più volte premiata nella classifica annuale della qualità della vita. Evidentemente non per quella parte di territorio racchiusa dentro le mura del carcere, non per quelle vite abbandonate che la abitano. Definire "media" la criticità ed informare il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria dopo un mese dall’evento, affinché si potessero avviare le necessarie procedure, equivale a tollerare una situazione incresciosa e a farla persistere per l’intera estate. La cifra da investire per risolvere il problema è davvero irrisoria per un’Amministrazione che spende risorse ben più ingenti per conservare la maestosità dei suoi Uffici. Le cimici da letto si nutrono di sangue umano, ma sono animali. A proposito di sangue, si è conclusa a Napoli, con la notifica dei relativi avvisi, l’indagine sulla "cella zero" del carcere di Poggioreale. Nata dalle denunce dell’Associazione ex Detenuti, della Onlus "Il Carcere Possibile", del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Campania e di alcuni singoli reclusi, vede indagati 22 agenti penitenziari e un medico che, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero nel 2012, causato e tollerato percosse nei confronti dei detenuti. La Procura della Repubblica ritiene fondate le notizie di reato, dovranno essere ora gli indagati a dimostrare la loro innocenza. Intanto che a 35° non c’è acqua, che le cimici succhiano il sangue, che la Procura della Repubblica ritiene fondate le denunce di percosse, mi viene un "Dubbio": ma sarà anche per questo che non viene istituito il delitto di tortura in Italia? *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Lazio: il Garante in visita all’Istituto penale minorile di Casal del Marmo Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2016 Erano 70 ieri i ragazzi e le ragazze ospiti dell’Istituto penale per minori di Roma, a Casal del Marmo. Li ha potuti incontrare il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, in occasione della sua prima visita all’Istituto. In prevalenza maschi (49), tra i ragazzi la maggioranza è costituita dai "giovani adulti" che, per legge, sono ospitati nel circuito minorile fino al venticinquesimo anno di età, se il reato per cui sono stati arrestati è stato commesso prima dei diciotto anni. Quasi tutte minorenni, invece, le 21 ragazze detenute. "Nel complesso l’Istituto di Casal del Marmo è certamente funzionale al miglior trattamento possibile dei ragazzi e delle ragazze detenute - commenta il Garante. I tre plessi detentivi attivi sono di dimensioni contenute, circondati da aree verdi e con camere detentive non sovraffollate e con il bagno annesso. L’assistenza sanitaria è garantita efficacemente dal presidio Asl e dalla recente convenzione con il vicino ospedale San Filippo Neri. Non mancano le strutture dedicate alle attività di istruzione, di formazione e sportive, a partire da un ottimo campo da calciotto, anche se la palestra coperta ha bisogno di qualche manutenzione, mentre il nuovo campo esterno di pallacanestro è ancora inagibile per un difetto nella realizzazione della pavimentazione. Qualche criticità, rilevata dallo stesso Comandante della Polizia penitenziaria che ci ha accompagnato nella visita, è nello spazio per l’aria del plesso dei maschi maggiorenni, unico con un fondo d’asfalto, che però è destinato a essere ristrutturato, quando sarà agibile il quarto plesso, al momento chiuso. Andrebbero poi adeguati i servizi igienici dei plessi maschili, la cui cura non può essere affidata all’encomiabile impegno di volontari esterni e di alcuni ospiti dell’istituto che anche ieri si dedicavano alla ritinteggiatura degli ambienti detentivi. L’innalzamento dell’età media degli ospiti, a seguito dell’estensione della qualifica dei "giovani adulti" fino ai venticinque anni (prima arrivava fino a ventuno) impone qualche sforzo ulteriore nell’offerta di istruzione e formazione di cui la direzione dell’Istituto è consapevole e a cui spero che la Regione, gli altri enti territoriali e le altre amministrazioni dello Stato (insieme con la società civile già attiva nell’Istituto) possano utilmente concorrere". Napoli: detenuti picchiati a Poggioreale, chiusa l’inchiesta 22 agenti indagati di Viviana Lanza La Repubblica, 13 agosto 2016 La Procura chiude con 23 indagati l’inchiesta aperta su presunti maltrattamenti ai danni di detenuti nel carcere di Poggioreale. I pm Giuseppina Loreto e Valeria Rametta hanno firmato nei giorni scorsi gli "avvisi" che hanno raggiunto 22 agenti di polizia penitenziaria e un medico. I fatti si riferiscono al periodo compreso fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2014. All’attenzione dei magistrati sono finiti i racconti di sei reclusi, che hanno riferito di aver subito misure vessatorie e in alcuni casi anche schiaffi o botte inferte addirittura "con un bastone" da parte del personale. Agli atti anche il racconto di due detenuti che hanno sostenuto di essere stati condotti con la forza, attraversando un intero reparto, in una stanza vuota e priva di arredi denominata "cella zero". Un altro recluso ha affermato di essere stato picchiato mentre rientrava in cella poco dopo un’udienza di consiglio di disciplina e di essere stato anche scaraventato giù dalla sedia a rotelle che utilizzava per problemi di salute. Un altro testimone, affetto da epilessia, ha detto di essere stato chiuso nelle docce, percosso e poi costretto a sottoscrivere una dichiarazione nella quale attestava di essersi procurato accidentalmente la ferita all’arcata sopraccigliare. I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura vanno dal sequestro di persona per i fatti della cosiddetta "cella zero" all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata. La parola passa ora alla difesa che ha venti giorni di tempo dalla notifica degli "avvisi" per proporre supplementi d’indagine, chiedere interrogatori o depositate memorie. Gli avvocati degli indagati sono fiduciosi di poter replicare alle contestazioni e di riuscire a provare l’assoluta infondatezza delle accuse perché da loro considerate non credibili, prive di riscontri o smentite da dati obiettivi, ad esempio attraverso l’esibizione della documentazione relativa ai turni di presenza, da cui emergerebbe che alcuni indagati non erano neppure in servizio quando si sarebbero verificati gli episodi. La parola tornerà poi ai pm che dovranno decidere se e per quali indagati chiedere poi il rinvio a giudizio. Napoli: Poggioreale, prime crepe nel muro della "cella zero" di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 agosto 2016 La procura di Napoli invia l’avviso di conclusione delle indagini a 22 poliziotti penitenziari e a un medico. Le violenze subite dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Tra venti giorni si deciderà l’eventuale rinvio a giudizio. E c’è il rischio di prescrizione dei reati. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: è ampio il ventaglio di reati ipotizzati dalla procura di Napoli nell’inchiesta sui maltrattamenti subiti da alcuni detenuti nel carcere di Poggioreale, anche nella cosiddetta "cella zero". Non tutti saranno eventualmente oggetto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, ma per intanto i magistrati hanno recapitato l’avviso di chiusura delle indagini a 22 agenti di polizia penitenziaria e a un medico. Tra venti giorni, preso atto delle controdeduzioni presentate nel frattempo dalla difesa, che conta di poter dimostrare l’"infondatezza" delle accuse, il pm Alfonso D’Avino, che coordina le indagini condotte dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. I fatti risalgono ad un arco di tempo che va dal 2012 al 2014. Fu Adriana Tocco, garante dei detenuti della Campania, a raccogliere le prime due denunce di maltrattamenti subiti nel carcere che diedero l’avvio all’attuale inchiesta giudiziaria. La prima vittima attese la fine della pena, prima di decidersi a parlare, nel gennaio 2014. "Era un uomo molto mite, sebbene avesse commesso un reato di frode finanziaria - racconta al manifesto Adriana Tocco, mi raccontò per filo e per segno ciò che gli fece un poliziotto, senza alcun motivo". Da allora sono diventate 150 le denunce di sevizie, maltrattamenti, a volte vere e proprie torture, perpetrate negli anni. Fu così che si scoprì la presenza, a Poggioreale, - in realtà antica di oltre un ventennio, come denunciò per primo, nel 2012, Pietro Ioia, attivista per i diritti dei reclusi e presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani - della cosiddetta "cella zero", una stanza vuota posta al piano terra, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti, dove si sarebbero consumati i pestaggi. Il 28 marzo 2014, poi, una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo, dopo aver audito formalmente l’associazione Antigone, ispezionò il penitenziario napoletano. In seguito alla visita, l’allora direttrice Teresa Abate venne trasferita ad altro incarico, sostituita con l’attuale dirigente, Antonio Fullone, così come il comandante della polizia penitenziaria. "Da allora - racconta ancora Adriana Tocco - non ho più ricevuto denunce di maltrattamenti. Poche settimane fa, a fine luglio, sono stata in visita di nuovo a Poggioreale per accertarmi della veridicità di alcune lettere ricevute dal garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Ho parlato a lungo con i carcerati e ho potuto verificare che quel tipo di violenze sono terminate". "Ci auguriamo - dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili". Un rischio concreto, innanzitutto perché dai primi casi di violenza sono già passati quattro anni, ma soprattutto perché, come spiega ancora Gonnella, "in mancanza del reato di tortura, al di là del fatto che possa essere effettivamente stato commesso o meno, vengono ipotizzati reati per i quali sussiste il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità". Motivo per il quale l’associazione Antigone chiede "che non si perda ulteriormente tempo e che a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura". Ma al di là dei reati eventualmente commessi da alcuni poliziotti penitenziari, rimane la questione aperta dell’isolamento, regime disciplinare dove, fa notare Antigone, "più facilmente, possono avvenire violenze" e che "rappresenta una soluzione particolarmente afflittiva che spesso induce i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi". Per questo Antigone ha presentato recentemente una proposta di legge per riformare l’applicazione del regime di isolamento, "invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato a farla loro". Rimane comunque il fatto che la cosiddetta "cella zero" non è contemplata da alcun regolamento penitenziario, e che la sua presenza, all’interno delle mura di molti penitenziari, non solo quello partenopeo, è stata negata per decine di anni. Napoli: Antigone "se le denunce fossero provate, mancherebbe ancora il reato di tortura" Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2016 Si è chiusa oggi l’inchiesta sulle violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Poggioreale - e in particolare nella cosiddetta "cella zero" - tra il 2012 e il 2014. A denunciarle furono alcuni detenuti che, direttamente, avrebbero subito tali violenze per le quali oggi 23 persone (22 agenti di polizia penitenziaria e un medico) risultano indagate. La cella zero sarebbe una stanza vuota, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti. I reati ipotizzati a vario titolo dalla Procura di Napoli - che segue l’inchiesta - vanno dal sequestro di persona, all’abuso di autorità, maltrattamenti, lesioni, violenza privata. "Ogni tentativo di fare chiarezza è sempre importante, soprattutto nei casi di violenze che avvengono quando un cittadino è sottoposto all’affidamento dello Stato" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Quello che ci auguriamo è che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili". "In episodi come quelli denunciati nel carcere di Poggioreale, infatti, il rischio di prescrizione, proprio nei casi di colpevolezza, è sempre molto alto poiché spesso le denunce avvengono molto tempo dopo i fatti, anche per paura di eventuali ritorsioni finché si è sottoposti a custodia" prosegue Gonnella che sottolinea come, dai primi casi che emergerebbero da queste denunce, sarebbero già passati 4 anni. "Purtroppo, se i fatti denunciati corrispondessero a realtà, dovremo constatare ancora una volta come in Italia manchi il reato di tortura poiché, soprattutto le violenze che sarebbero avvenute nella cella zero, questo sono". "Reato di tortura - sottolinea ancora il presidente di Antigone - che eviterebbe anche il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità". "Per tale ragione - conclude Gonnella - chiediamo che non si perda ulteriormente tempo e a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile". Un ulteriore elemento riguarda la questione dell’isolamento. "Benché la cella zero, se fosse riconosciute le accuse, rappresenterebbe un luogo che va al di là di ogni regolamento - sottolinea ancora Gonnella - l’isolamento è un particolare regime dove, più facilmente, possono avvenire violenze. Rappresenta inoltre una soluzione particolarmente afflittiva che spesso porta i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi". "Per questa ragione - conclude Gonnella - abbiamo da poco presentato una proposta di legge, invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato di farla loro, per una riforma profonda di questo regime". La proposta di legge di riforma dell’isolamento e alcuni degli episodi avvenuti in questi reparti nel corso degli anni. Napoli: Sarno (Uil-Pa) "inchiesta su Poggioreale, niente torture nella cella zero" di Viviana Lanza La Repubblica, 13 agosto 2016 Agenti penitenziari sotto accusa, il Sindacato: "Altro che torture, lì tutelati i reclusi con istinti suicidi". Detenuti picchiati in carcere, il sindacato a difesa degli agenti "Poggioreale, niente torture nella cella zero" L’inchiesta della Procura di Napoli che si avvia a conclusione con 22 agenti penitenziari sotto accusa per percosse ai detenuti suscita la reazione del sindacato. In particolare interviene Eugenio Sarno, presidente nazionale della Uil-Pa, che prova a sfatare il tabù della cosiddetta "cella zero" e spiega: "Altro che torture, quella stanza esiste ma è destinata alla tutela dei detenuti che si teme possano tentare il suicidio o compiere gesti di autolesionismo". È quindi una cella normale, nella quale però i letti sono avvitati al pavimento e gli igienici sono installati in modo da non poter essere divelti e utilizzati come strumento per fare del male a sé stessi o ad altri. È una cella - spiega provando a sfatare il mito - dove i detenuti non possono avere indumenti o oggetti che possano utilizzare per gesti inconsulti, dove le lenzuola sono di carta e non di stoffa". Insomma non una stanza delle torture. "Quella è una cella a tutela della incolumità di detenuti" assicura Samo. "Celle così non ci sono in tutte le carceri e sarebbe invece utile che ci siano" aggiunge. Quello della sicurezza negli istituti penitenziari è un tema molto sentito e dibattuto. "Le inchieste che finora hanno riguardato colleghi per presunte violenze si sono risolte poi in nulla di fatto" dice Samo partendo dalla premessa che l’indagine della Procura di Napoli sulla cella zero di Poggioreale debba fare il suo corso nelle sedi giudiziarie. "Spesso - osserva il presidente nazionale Uil-Pa - la questione della sicurezza in carcere viene affrontata con un certo strabismo, pensando alla tutela dei detenuti e non anche a quella di chi ogni giorno lavora nelle strutture penitenziarie per garantire ordine e assistenza. Non si può non tener conto dei numeri che fotografano la realtà: ogni giorno, in media, nelle carceri italiane, tre agenti sono vittime di aggressioni da parte dei detenuti. Dall’inizio dell’anno a oggi 360 agenti sono rimasti feriti. Certo il motivo non è sempre direttamente collegato al lavoro ma sono convinto che lavorare quotidianamente a contatto con i detenuti in un luogo, come il carcere, che è luogo di sofferenza, di dolore e anche di violenza, sia logorante e finisca con l’indebolire le persone". Eugenio Sarno ha una esperienza ultratrentennale nella polizia penitenzia. "Negli anni Ottanta sono stato tra quelli che andavano a togliere ai camorristi detenuti anni e pistole - racconta - era il tempo della guerra tra cutoliani e anticutoliani e nelle celle non si entrava certo chiedendo permesso". Ora, spiega, la situazione nelle carceri è diversa. "Anche il metodo di lavoro è molto cambiato". Le tante battaglie, anche le sue e del sindacato che rappresenta, sono valse a un maggiore impegno per la sicurezza e le condizioni di vivibilità nelle celle. Ma c’è ancora da fare. "Il sovraffollamento resta un problema, la media si aggira sui 107 per cento, qualche anno fa era del 180" dice Sarno ponendo l’accento sulla necessità di affrontare le problematiche del pianeta carcere tenendo conto delle esigenze di tutti quelli che lo popolano, reclusi e operatori. "Una recente direttiva prevede Fuso di nebulizzatori nelle aree di passeggio per consentire ai detenuti di affrontare meglio il caldo - aggiunge Sarno - mentre a noi agenti della penitenziaria in varie strutture è vietato fare la doccia per evitare consumo di acqua" precisa, sottolineando le difficoltà dei colleghi e le croniche carenze di risorse. E difende l’onore del corpo e degli agenti che ogni giorno si impegnano nel lavoro con chi è dietro le sbarre. I 22 agenti sotto inchiesta a Napoli, intanto, sono pronti difendersi dalle accuse di lesioni e abuso di mezzi di correzione, anche con orari e turni di lavoro alla mano. L’inchiesta dei pm Giuseppina Loreto e Valentina Rametta è nata circa tre anni fa dal racconto di sei detenuti e dalla denuncia dell’associazione "Il carcere possibile", la Onlus della Camera penale napoletana. Oristano: i boss di Massama in viaggio verso casa di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 13 agosto 2016 Malcontento tra gli agenti di polizia penitenziaria per i continui permessi ai detenuti dell’Alta Sicurezza. A luglio in quindici si sono recati a casa sotto scorta. Un permesso non si nega a nessuno. Quando però i permessi diventano troppi e si trasformano in consuetudine, seppure nel rispetto delle procedure di legge, rischiano di generare più di un problema perché a chiederli e ad usufruirne non è esattamente lo studentello delle elementari che vuole andare in bagno. Il via vai coinvolge da diverse settimane il carcere di Massama dove, come ben si sa, non risiedono comuni cittadini, ma detenuti dal passato torbido che hanno trascorso periodi di detenzione col regime del 41 bis e che scontano il resto della pena con l’etichetta dell’Alta sicurezza. Il mese scorso, per una quindicina di volte si è ripetuta questa pratica nel segno del rispetto della territorialità della pena, secondo quanto previsto dalla legge, generando però una serie di problemi e causando notevoli disagi al personale di polizia penitenziaria. C’è prima di tutto una questione di sicurezza, ma anche le ricadute economiche e quelle lavorative non passano certo in secondo piano. La giornata del permesso per ex componenti di associazioni a delinquere - arrivano ovviamente tutti da fuori Sardegna - inizia alle quattro del mattino. La sveglia non suona solo per i detenuti, ma anche per sei agenti che li devono scortare lungo tutto il viaggio che li porta sino alle terre di origine. Lì si trattengono tre ore, il tempo per consumare il pranzo (sempre sotto scorta) assieme ai parenti e agli amici. Naturalmente distogliere sei agenti dal loro servizio all’interno della struttura oristanese crea notevoli problemi per la gestione del personale. Ci sono poi il discorso della spesa per ogni viaggio che è a carico dello Stato e soprattutto quello della sicurezza, perché tre ore nel proprio luogo d’origine - Sicilia, Campania, Calabria o Puglia che sia - consentono loro di riallacciare rapporti con parenti e amici che mai hanno preso le distanze dai clan. Messina: Apprendi (Antigone) "a Barcellona P.G. pochi medici, infermieri e agenti" livesicilia.it, 13 agosto 2016 "L’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto è un carcere a tutti gli effetti. Ospita 180 persone, di cui 43 stranieri, con larga prevalenza di extracomunitari. Una struttura complessa, che fa da casa circondariale e carcere di reclusione. Ha un reparto femminile con 5 donne con problemi psichiatrici e un reparto di detenuti con problemi di salute mentale, in attesa delle cure". È quanto afferma Pino Apprendi dell’Osservatorio Nazionale per le Carceri di Antigone e presidente di Antigone Sicilia. "Il paradosso è che malgrado non sia più Opg - osserva Apprendi, ospita 20 internati che potrebbero essere ospitati in comunità e lasciare il carcere. Su 47 infermieri soltanto la metà è a tempo indeterminato, lo psicologo ha un contratto per 20 ore mensili per 180 detenuti. Anche il personale della polizia penitenziaria, non solo è sotto organico, ma è sottodimensionato". Apprendi punta il dito contro la Regione per i "gravi ritardi nell’applicazione della riforma che ha passato le competenze sanitarie, dal Ministero di Grazia e Giustizia, alle regioni e quindi alle Asp. Il sistema carcerario deve garantire il diritto alla salute al detenuto come al cittadino comune, così dice la norma. Intanto nelle linea guida dell’assessorato alla sanità, non si parla degli infermieri, dei psicologi e dei medici a contratto che da decenni garantiscono il servizio nelle carceri. Alla scadenza dei contratti, ci sarebbe un grave deficit di personale sanitario specializzato". Secondo il presidente di Antigone Sicilia, "la Regione deve mobilitarsi, per non vanificare il lavoro che tutto il personale, con grandi sacrifici fa, per rendere meno pesante, la sofferenza di uomini e donne che si trovano privati della libertà, ma ai quali deve essere consentito non perdere la dignità". Ergastolani da kolossal. "Spes contra spem" girato all’interno del carcere di Opera di Dimitri Buffa Il Tempo, 13 agosto 2016 Nel docufilm di Crespi la vita nel 41 bis. La pellicola verrà presentata a Venezia. Esistere e vivere non sono la stessa cosa. Si può vivere senza esistere ma non si può esistere senza vivere. Loro vivono. Non esistono più. Sono ufficialmente senza speranza. Perché forse sono loro stessi la speranza. Perché stazionare 22 anni al 41 bis su 24 di detenzione come ergastolano ostativo può fare di te un filosofo. Come sembra essere accaduto per Alfredo Sole, uno degli eroi negativi delle guerre di mafia in Sicilia nei primi anni 90, oggi tra i protagonisti del docufilm di Ambrogio Crespi, "Spes contra spem - liberi dentro", interamente girato nel carcere di Opera, proprio nella sezione degli ergastolani ostativi in un viaggio dentro l’orrore del "fine pena mai". Compiuto dal regista insieme al segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia e alla ex deputata radicale Elisabetta Zamparutti, che poi è anche sua moglie nella vita reale. "Spes contra spem - liberi dentro", idealmente dedicato allo scomparso Marco Pannella, cui va la prima citazione, tratto dalla lettera spedita poco prima di morire a Papa Francesco, sarà proiettato al prossimo Festival di Venezia. Ben due visioni il 7 settembre alle 15 nella sala Pasinetti e due giorni dopo alle 11 sempre nella stessa sala. Davanti al ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando. L’opera di Crespi sembra un trattato involontario di nihilismo all’italiana. Gli ergastolani che oltre a Alfredo Sole sono protagonisti dell’ora e dieci di docufilm sono tutti ex ospiti del 41 bis e attualmente impossibilitati anche a sperare di potere uscire dal carcere se non pentendosi e facendo i nomi di coloro che ormai sono da considerare come antichi complici. E che, idealmente, dovrebbero prendere eventualmente il loro posto in quell’Ade fatto di solitudine e oscurità. E infatti tutto il viaggio in questo inferno di uomini ombra, con Sergio D’Elia segretario di "Nessuno tocchi caino" nel più che logico ruolo di Virgilio (anche D’Elia ha conosciuto il carcere duro essendo stato negli anni 70 un terrorista di Prima Linea), è delineato nell’oscurità dalle riprese che Crespi ha fatto montare al suo fedele Francesco Barozzi, l’operatore che lo accompagna da anni: dal docufilm su Tortora a quello su Capitano Ultimo. I nomi degli ergastolani protagonisti di questo girone infernale di coloro che perdono ogni speranza una volta dichiarati ostativi sono i seguenti: Alfredo Sole, Rocco Ferrara, Roberto Cannavò, Antonio Trigila, Ciro D’Amora, Giuseppe Ferlito, Gaetano Puzzangaro, Orazio Paolello, Vito Baglio. Tutte persone che nei primi anni 90, o nella seconda metà degli 80, quando entrarono giovanissimi in galera per non uscirne più, erano tristemente note alle cronache giudiziarie della criminalità organizzata. E che oggi, a sentirli parlare, sembrano cambiati se non addirittura altre persone che vivono in un altro pianeta. Uno di loro, Gaetano Puzzangaro, alla classica domanda finale posta da D’Elia, cioè se hanno ancora qualche speranza, che poi dà il nome al docufilm "Spes contra spem", citazione amata da Pannella e presa da Paolo di Tarso (significa "essere speranza" contro il semplicemente "averla", ndr ) confessa candidamente di non sapere se tale questione, dell’avere o meno speranza, per persone che vivono come lui, abbia un senso. E di avere paura solo al pensiero di dovere un giorno uscire dal carcere di Opera dove attualmente si trova rinchiuso insieme a tutti gli altri nell’ambito di un programma rieducativo che frutti ne ha dati eccome. Puzzangaro ha paura di riprendere a esistere perché si è abituato ai ritmi della vita lì dentro. Una vita poco più che vegetativa ma in fondo rassicurante per chi ogni giorno deve sopportare il senso di colpa di avere ucciso il prossimo suo che, invece, avrebbe dovuto amare come se stesso. Ma tale è proprio il punto nodale di queste esistenze da fantasmi e di questa morte per pena: l’odio, soprattutto verso se stessi, e la rabbia che possono portare a uccidere in determinati ambienti e in determinate situazioni. Solo che per loro, al contrario che per i brigatisti rossi, non esiste una legge e non esiste un perdono. E loro stessi sembrano non volersi perdonare mai. Sono diventati i più severi giudici di se stessi. Lo Stato con il 41 bis e l’ergastolo ostativo ha quasi lavato la loro testa. E questa è ormai una cosa atroce almeno come i loro delitti. Stati Uniti: vescovi California, sì alla riforma su riabilitazione dei detenuti di Isabella Piro Radio Vaticana, 13 agosto 2016 Il prossimo 8 novembre, i cittadini dello Stato della California saranno chiamati a votare l’approvazione o meno della così detta "Proposizione 57" relativa alla pubblica sicurezza ed ai percorsi di riabilitazione dei detenuti. Se approvata, tale iniziativa apporterebbe alcune riforme nel sistema giudiziario penale, sia minorile che per adulti. Cosa chiede la Proposizione 57 - Riguardo al primo settore, la Proposizione 57 abrogherebbe ai procuratori distrettuali la possibilità di giudicare un minore alla pari di un adulto. Al contrario, la decisione di come perseguire un giovane tornerebbe al Tribunale minorile. Riguardo agli adulti, invece, la proposta permetterebbe al Dipartimento californiano per la riabilitazione di avviare una sorta di "crediti temporali" per i detenuti: in pratica, coloro che hanno una buona condotta ed ottengono risultati positivi nel percorso di riabilitazione, vedrebbero ridotta la loro pena. Inoltre, i condannati per reati non violenti avrebbero la possibilità di godere della libertà vigilata, dopo aver scontato la pena relativa al crimine principale commesso. Al centro del sistema giudiziario ci sia la persona, non la punizione - Questo, dunque, il progetto proposto, al quale la Conferenza episcopale cattolica della California (Ccc) offre il suo sostegno. "La punizione di per sé non è mai una risposta adeguata al crimine - si legge in una nota diffusa dai presuli sul loro sito web - perché al centro del sistema giudiziario ci deve essere la persona". "Ogni giorno - prosegue la nota - nelle nostre parrocchie, assistiamo all’impatto devastante della criminalità sulle nostre comunità. Le vittime, le cui vite sono spesso andate in frantumi, cercano risposte; i familiari dei colpevoli rimangono soli, nell’angoscia e nella paura di chiedere aiuto, mentre i detenuti perdono la speranza, perché i programmi che offrono la possibilità di una riabilitazione sociale vengono scartati, per lasciare spazio alla costruzione di costose carceri". Incentivare la giustizia riparativa - La Chiesa cattolica ed i suoi fedeli fanno già molto per aiutare "tutte le persone colpite dalla criminalità", ma - è l’appello della Ccc - "possiamo e dobbiamo fare di più". In quest’ottica, la Proposizione 57 "è un primo passo"; l’attuale politica, infatti, "include molti elementi per la punizione" dei colpevoli di reati, "ma ciò non è sufficiente per prevenire la criminalità, guarire le vittime e ripristinare l’armonia sociale". Di qui, il richiamo ad "incentivare modelli di giustizia riparativa che affrontino non soltanto come una violazione della legge", ma guardando alla persona, perché "riconoscere ed apprezzare la dignità umana permette di costruire comunità più forti e più sicure". Spezzare il circolo continuo tra crimine e detenzione - Poi, la Ccc guarda all’attuale contesto carcerario e ne elenca le principali difficoltà: "La mancanza di risorse per la prevenzione della criminalità - spiega - ha portato solo al sovraffollamento delle prigioni, con alti tassi di recidivi e comunità insicure". Si tratta di politiche scaturite "dalla paura, in risposta alla violenza", sottolineano i vescovi. Al contrario, l’appello è ad agire "in modo più costruttivo" per sviluppare politiche "appropriate, come appunto la Proposizione 57, che creino comunità effettivamente più sicure, piuttosto che un circolo continuo tra crimine e detenzione". Il 6 novembre, in Vaticano, Giubileo dei carcerati - Guardando, inoltre, all’attuale Giubileo straordinario della misericordia, indetto da Papa Francesco, i vescovi californiani esortano tutte le parti in causa ad "affrontare le difficoltà che caratterizzano il sistema giudiziario penale" ed incoraggiano i cittadini dello Stato ad approvare, nel mese di novembre, la Proposizione 57. Da ricordare, infine, che il prossimo 6 novembre, in Vaticano, Papa Francesco celebrerà il Giubileo dei carcerati. Francia: resta in carcere Jacqueline, uccise il marito che la pestava di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 13 agosto 2016 Stop alla grazia di Hollande per la donna che sparò all’uomo che abusava di lei, delle figlie e del figlio che si suicidò. "A 68 anni non è matura". Era già pronta a lasciare la sua cella, nel penitenziario di Réau, a sud est di Parigi. I capelli grigi fissati alla nuca, la detenuta non aveva chiuso occhio tutta la notte, aveva radunato le sue cose, aspettando di essere chiamata e di varcare l’uscita, incontrare i suoi avvocati, abbracciare le figlie, ringraziare il comitato che la sostiene da tre anni. Dopo la grazia, sebbene parziale, firmata dal presidente della Repubblica, François Hollande, dopo il parere positivo della procura, mancava soltanto il benestare del tribunale di sorveglianza perché Jacqueline Sauvage, 68 anni, potesse sentirsi quasi in pace almeno con la legge degli uomini, dopo aver ucciso suo marito, Norbert Marot, con tre colpi di fucile alla schiena, il 10 settembre del 2012. Invece no. La donna, che è diventata il simbolo di tutte le vittime di violenza domestica in Francia, processata e condannata, resterà dietro le sbarre. La notizia, racconta una delle figlie, le è arrivata dalla tivù. Il tribunale di sorveglianza non l’ha giudicata matura per la libertà condizionale: Jacqueline deve ancora riflettere su quello che ha fatto, senza essere circondata dal conforto di una famiglia che sotto sotto non disapprova ciò che ha fatto e, soprattutto, senza l’appoggio di un movimento sociale che la giustifica. Non le era stato concesso il beneficio della legittima difesa in primo grado, né in appello: 10 anni di carcere, verdetto confermato e definitivo dal 3 dicembre 2015. In effetti esistono altre vie per sottrarsi a un marito brutale, prima di arrivare a impugnare un’arma. Ma tutta la Francia aveva ascoltato le sue tre figlie testimoniare, in aula, i suoi 47 anni di calvario, con un marito che non perdeva occasione per massacrarla di botte. Il pubblico era inorridito ascoltando come le stesse figlie fossero state oggetto per anni delle violenze, anche sessuali, dell’uomo, che veniva spesso alle mani pure con il figlio, Pascal. E Pascal non poteva più confermarlo, perché si era impiccato il giorno prima che Jacqueline mettesse fine con tre fucilate al suo ménage. Anche se, quando si è trasformata in un’uxoricida, ancora non sapeva della fine del figlio. Un film dell’orrore è passato davanti agli occhi dei francesi e, in particolare, delle francesi coalizzate nel comitato "Liberate Jacqueline Sauvage!". Il 31 gennaio scorso Hollande ha concesso quella "grazia parziale" che autorizzava le avvocatesse di Jacqueline, Janine Bonaggiunta e Nathalie Tomasini, a presentare istanza di libertà condizionale un anno prima dei termini di legge, a metà pena. Ieri il tribunale di sorveglianza ha stabilito che è troppo presto: in quindici pagine di dispositivo, il giudice spiega che proprio la grande attenzione di stampa e tivù sul caso, la mobilitazione di migliaia di cittadini firmatari della petizione e la politicizzazione del dossier, concorrevano a immedesimare Jacqueline nel ruolo di vittima, mentre doveva lavorare sulla consapevolezza delle proprie responsabilità. "Falso - ha tuonato Nathalie Tomasini. Jacqueline Sauvage è consapevole di quello che ha fatto e non è responsabile della mediatizzazione del caso. È la decisione del tribunale di sorveglianza, piuttosto, a essere politica: una sorta di braccio di ferro della magistratura con l’Eliseo di cui non ha tollerato l’interferenza". Nella decisione di opporsi alla libertà condizionata, che avrebbe comportato l’obbligo per Jacqueline di indossare il braccialetto elettronico, il giudice critica anche il "progetto per l’uscita" dal carcere, presentato dalla 68enne detenuta, che aveva chiesto di andare a vivere da una delle figlie, a soli 12 chilometri da La Selle-sur-le-Bied, il luogo del delitto, nel Centro-Valle della Loira: "Lo ha chiesto per essere vicina al cimitero dov’è sepolto mio fratello" ha spiegato ai microfoni di BfmTv la figlia Sylvie. Non saranno solo gli avvocati difensori a impugnare la sentenza: anche la Procura di Melun ha annunciato ricorso.